Prefazione di Raoul Vaneigem del 1992
al suo libro omonimo, La résistence au
christianisme, Fayard, Paris 1993.
Come
augurio di un mondo altrimenti umano, ho voluto donare a Barravento questo scritto
della fine del secolo scorso traducendolo all’occasione dell’avanspettacolo
indecoroso messo in scena per l’elezione del 266° paparomano aparecido come Francesco
il gesuita.
Finora,
nonostante la mia disponibilità verso eventuali editori, il grosso tomo in
questione, sulle eresie dalle origini al diciottesimo secolo, non credo sia mai
stato tradotto in italiano, ma non mi dispiacerebbe se questa presentazione, pacificamente
armata della sua sorprendente attualità, mettesse l’acqua alla bocca di tutti i
poveri credenti religiosi e dei non meno disgraziati amatori di guru politici
circa l’urgenza di una riscoperta della laicità quotidiana.
Sergio
Ghirardi
Sulle rive dove s’infrangono duemila
anni di era cristiana, l’onda anomala della merce non ha lasciato in piedi neppure
uno dei valori tradizionali del passato. Mandando in rovina le ideologie di
massa che hanno riverniciato in fretta l’edificio delle religioni dopo che lo
Stato ha sostituito Dio nella condotta degli affari, un tal flusso non spinge
forse ineluttabilmente verso il nulla i resti di una Chiesa della quale il
Concilio Vaticano Secondo aveva reso noti i misteri?
L’indifferenza in cui s’impantanano
oggi le credenze governate da rituali di partito o di burocrazia clericale
risveglia nei confronti della loro storia un interesse che l’obsoleta
preoccupazione apologetica o denigratoria non può più sostenere, poiché quest’interesse
è sostenuto, molto semplicemente, da una curiosità attenta al proprio piacere e
presa al gioco di scoprire quel che le verità ufficiali hanno nascosto con grande
zelo sotto l’ultima ratio del loro canone dogmatico.
Chi avrebbe immaginato che il
cristianesimo, lavato dei suoi apparati sacri dalle grandi acque
dell’affarismo, sarebbe potuto sfuggire alla distruzione che ha demolito in
meno di mezzo secolo le rocce sacrificali che, sotto il nome di nazionalismo,
liberalismo, socialismo, fascismo e comunismo, hanno deliziato generazioni intere,
in un misto di fascino e di terrore?
Ora che dei naufragi di un tempo non
resta che un mare piatto e debolmente agitato dalla smorfia della derisione,
gli oggetti a lungo ricoperti da una pastoia di santità invitano a uno sguardo
da archeologi. Incitando al rispetto o alla profanazione, non sollecitano
altro, finora, che, non direi l’imparzialità, ma l’ingenua indiscrezione di uno
scopritore sprovvisto di pregiudizi e di cautela.
Così come è ormai possibile esaminare
la nascita, lo sviluppo e il declino del bolscevismo senza esporsi alle accuse
di materialismo, spiritualismo, marxismo, revisionismo, stalinismo, trotzkismo
- che oggi fanno ridere ma sono state pagate a un prezzo di sangue -, anche lo
sguardo portato sulla religione cristiana non si cura delle sconfessioni o
delle lodi di teologi o filosofi né del loro arcaico conflitto in trompe-l’œil dove il Dio degli uni e il
non-Dio degli altri si ricongiungevano nel cielo delle idee in uno stesso punto
di fuga, in una stessa astrazione dalla realtà corporea e terrestre.
Al sentimento di un predominio del
vivente si mescola una sorpresa che, per quanto candida, prova il desiderio di
sapere perché e per quali percorsi il mondo delle idee ha tanto spesso preteso
la sua libbra di carne tagliata nel vivo in cambio di orizzonti chimerici.
La crisi di mutazione che spinge oggi
l’economia a distruggersi insieme al mondo o a ricostruirsi con lui, ha almeno
il merito di aprire gli occhi delle coscienze sull’origine della disumanità e
sui modi di rimediarvi. La politica sterilizzatrice che è la cancrena del
pianeta, delle società, delle mentalità e dei corpi, ha dimostrato attraverso
la pertinenza del suo stato estremo come l’uomo, sottomettendo la natura e i
suoi simili allo sfruttamento mercantile abbia prodotto a spese del vivente
un’economia che lo soggioga con una potenza mitica prima e ideologica poi.
Trasformati da un sistema di scambi
che essi stessi avevano creato e che, strappandoli a se stessi, li determinava
senza mai meccanizzarne completamente i corpi, la coscienza e l’inconscio, per
millenni gli individui si sono ridotti a nulla di fronte al formidabile potere
che li vampirizzava. Come avrebbe potuto la loro miserabile sorte non indurli
ad aureolare di un’autorità assoluta, perfetta come la volta celeste, la
trascendenza di un Padre i cui decreti, gestendo la fortuna tramite la
disgrazia, ne proclamavano, di generazione in generazione, l’eterna e
capricciosa prerogativa?
Investita di una sovranità
extraterrestre di cui solo i preti avevano il potere di decifrare il senso
mitico, l’economia tendeva tuttavia a svelare la sua fondamentale materialità
attraverso gli interessi che precipitavano in un’ammucchiata del tutto profana
i signori temporali e i trafficanti affaristi.
La religione - cioè quella cosa che «riunisce quel
che è separato»
- aveva messo tra le mani di una divinità fantastica l’anello centrale di una catena
che legando da un capo all’altro tirannia e schiavitù, ancorava
contemporaneamente alla terra quella potenza celeste che il disprezzo degli
uomini verso se stessi aveva consacrato sovrana, immutabile, intangibile.
Dio traeva così dal mondo ciclico e
arcaico, chiuso tra le torri e i solchi della civiltà agraria, una perennità
continuamente smentita in grandi tumulti da «fine del mondo»
da parte della politica innovatrice del commercio e del libero scambio,
sciogliendo il nodo del tempo mitico, corrodendo il sacro con i suoi sputi
acerbi, introducendo nelle cittadelle della conservazione il cavallo di Troia
del progresso.
Eppure, a dispetto del conflitto
endemico tra la conquista dei mercati e la proprietà fondiaria, le loro
emanazioni antagoniste - re e preti, ambito temporale e spirituale, filosofia e
teologia - non hanno smesso di costituire, finché la struttura agraria e la sua
mentalità sono rimaste dominanti, le due metà di Dio.
Decapitando Luigi XVI, ultimo monarca
di diritto divino, la rivoluzione francese abbatte nello stesso tempo l’idra
bicefala del potere temporale e spirituale il cui crimine più recente di una
lunga serie aveva portato alla forca per delitto d’empietà il giovane cavaliere
de La Barre[i].
Se Roma privata del suo braccio
secolare che coltivava la verità del suo dogma, è lentamente scaduta al rango
di spaventapasseri spirituale, è perché l’era dei signori e dei preti e la sua
economia dominante si erano sottratte a quel ricorso, sottraendogli con
l’abbandono della ferocia penale i mezzi della sua arroganza.
L’Ancien Régime definitivamente
crollato sotto il peso inesorabile della libertà mercantile e della sua
democrazia ridotta al redditizio, si smantellava contemporaneamente ai suoi
torrioni, ai suoi castelli, alla sua mentalità ossidionale, al suo vecchio
pensiero mitico.
Di colpo, Dio è dovuto soccombere ai
colpi di scure di uno Stato in grado di regnare senza la cauzione del suo
celeste accolito. Il cristianesimo è allora entrato nella storia spettacolare
della merce. All’alba del ventunesimo secolo[ii],
ne sta uscendo a pezzi come tutte le ideologie gregarie.
Che in seno ai sistemi d’idee
sostitutive dell’ideologia cristiana - includendo anche le opinioni più
furiosamente ostili alle obbedienze cristiche - sussistesse una forma di spirito
religioso e un sinistro colore di fanatismo è stato dimostrato a sufficienza
dall’esaltazione dei militanti e dall’isteria delle folle durante le grandi
messe solenni servite dai tribuni e dagli arringatori del nazionalismo, del
liberalismo, del socialismo, del fascismo, del comunismo.
Lo strappo isterico che getta l’uomo
fuori dal suo corpo per identificarlo con un corpo collettivo e astratto - una
nazione, uno Stato, un partito, una causa -, non è affatto distinguibile
dall’adesione, direi quasi aderenza, spirituale a un Dio il cui sguardo
iniettato di sollecitudine e di disprezzo esprime simbolicamente la relazione
tra l’astrazione meccanica del profitto e una materia vivente sfruttabile a
piacere.
Ebbene, si sono prodotti in trent’anni
maggiori stravolgimenti che in dieci millenni. Saldando le ideologie sugli
scaffali dell’indifferenza, i self-service
del consumabile a ogni costo hanno spogliato l’individuo, volenti o nolenti, di
quella corazza caratteriale che lo dissimulava a se stesso condannandolo a
desideri costretti, senza altro sbocco che lo sfogo, la passione morta di
distruggere e di distruggersi. Così si sveglia lentamente, in modo visibile,
una volontà di vivere che non ha mai smesso di chiamare alla creazione e al
godimento congiunti di sé e del mondo. Non si tratta forse ormai per ciascuno
di raggiungere il possesso amoroso dell’universo?
Oggetto ancora ieri manipolato da uno
Spirito, nutrito dalla sua stessa sostanza, l’individuo che scopre sulla terra
e nella sua carne il luogo della sua realtà vivente, diventa soggetto di un
destino da costruire attraverso l’alleanza rinnovata con la natura. Stanco di
desideri fittizi che la ragione lucrativa gli imponeva e che, per secoli, l’hanno
spinto laddove non aveva nulla da fare, l’individuo contempla ora con curiosità
divertita quegli oggetti che l’hanno oggettivato e che costellano le rive del
suo passato come dei frammenti di una morte oggi rifiutata.
Benché il povero entusiasmo delle
manifestazioni gregarie indichi un calo costante della fede religiosa e
ideologica nei paesi industrializzati, i devoti, attenti nel galvanizzare
puntualmente uno spettacolo quotidiano disperatamente letargico, non hanno
mancato, di fronte a qualche sussulto d’arcaismo e di barbarie, di gridare al
ritorno delle religioni e dei nazionalismi. Tuttavia, come diceva Diderot, qual
è il culo che spingerà tutto questo? Quale imperativo economico farà da sostegno
a bastioni di un’altra epoca innalzati in fretta dalla disperazione e dal
risentimento, impedendo loro di crollare sotto il peso della mancanza di
profitto?
Senza dubbio la fine delle istituzioni
religiose non significherà la fine della religiosità. Scacciato dallo scacco
delle grandi ideologie, malamente nutrito dalle sette, alloggiato sempre peggio
nelle Chiese, la cattolica o la protestante, veicolo degli insopportabili odori
di un ultimo totalitarismo, il sentimento cristiano cerca dei nuovi canali di
sfogo.
Riuscirà a diffondersi col favore di
un paesaggio che la mutazione economica s’appresta a rimodellare? Alcuni lo
subodorano nel solco di un capitalismo ecologico che cerca nel disinquinamento
una redditività che la desertificazione dei suoli, del sottosuolo e delle
speranze di sopravvivenza non garantisce quasi più. M’importa assai poco di
congetturare se le vocazioni celesti s’investiranno in divinità terrestri,
Gaia, Magna Mater, silfidi, driadi e altri elementari. Nessuna credenza, del
resto, ripugna all’umano finché essa non esige il sacrificio.
Mi compiaccio invece per
l’apprendimento all’autonomia che genera, a causa del crollo dei devoti e delle
devozioni del passato, la necessità di proseguire da soli. La fine delle folle,
la coscienza individuale di una lotta per la vita, la risoluzione di vincere la
paura di sé da cui derivano tutte le paure, l’emergenza di una creatività che
si sostituisca al lavoro non smettono di indirizzare delle nuove generazioni
verso una vera umanità il cui avvento non è ineluttabile ma risiede, per la
prima volta nella storia, tra le mani degli uomini e più in particolare dei
bambini cresciuti nel godimento della vita anziché nel suo rifiuto morboso.
Questa è la prospettiva attuale per
cui ho voluto esaminare la resistenza che per venti secoli l’inclinazione alle
libertà naturali ha opposto all’antiphisis
dell’oppressione cristiana.
In nessun dominio - storico,
scientifico, filosofico, sociale, economico, artistico - io posso concepire che
si voglia esercitare un’analisi al di fuori della storia individuale dove
s’iscrivono i gesti quotidiani di chi ha deciso di intraprenderla. Benché le
circostanze mi abbiano risparmiato il contatto con la cosa religiosa, ho sempre
provato una singolare repulsione nei confronti di un impero mortifero, armato
di una croce piantata nel cuore di tutto quello che nasce alla vita. Capisco
dunque l’indignazione di Karlheinz Deschner che fustiga nel Kriminalgeschichte des Christentums, gli
omicidi, le imposture e le falsificazioni della Chiesa cattolica, ma non ignoro
quanto la polemica, penetrando sul terreno stesso dell’avversario, gli conceda
un riconoscimento e un interesse di cui ha agio di prevalersi. Perché dunque
ravvivare con il soffio della collera le braci di un rogo millenario che la
rugiada di un tempo nuovo condanna a spegnersi?
Non c’era, per di più, di che
premunirsi contro le virtù del tono comminatorio con la semplice evidenza che
atei, liberi pensatori, anticlericali e altri militanti del «Buon
Dio nella merda», lungi dal liberarsi del comportamento
giudeo-cristiano, hanno molto spesso seguito le orme delle sue pratiche più
odiose: sacrificio, culto del martire, senso di colpa, colpevolizzazione, odio
del desiderio amoroso, disprezzo del corpo, fascino dello Spirito, ricerca
della sofferenza salvifica, fanatismo, obbedienza a un maestro, a una causa, a
un partito? Quale omaggio più bello all’ortodossia che l’eretico,
l’anticonformista che s’infatuano di contestare l’asse attorno alla quale
gravitano?
Poco propenso ad arbitrare la dubbia
lotta tra vittime e carnefici, ho preferito far scaturire le cicatrizzazioni (da
un passato in cui le seppellivano dimenticanze, disprezzo, malintesi,
pregiudizi e calunnie molto spesso stratificate dalla famosa obiettività degli
storici) che il tessuto umano, irrigato dalle libertà di natura, opera
costantemente per ricostituirsi e rinforzarsi tessendo in modo ordinario la trama
del tessuto sociale a dispetto degli effetti deleteri della paura,
dell’abbandono, della sofferenza, della speranza nell’aldilà e delle
consolazioni del trapasso.
Si tratta, dunque, di cogliere il
vivente sotto il morto che se ne appropria in un sottile misto di violenza e di
persuasione. Ciò invita, infatti, alla rianimazione sotto lo sguardo degli
esseri e delle cose non più catalogati secondo la prospettiva tradizionale dove
Dio, lo Stato e l’Economia raccolgono per una felicità differita le lacrime
delle valli terrestri. Finalmente, esseri e cose fremono del battito d’ali del
vivente più facilmente percettibile oggi che non è più sottomesso al peso delle
oppressioni antiche.
Ora, le ragioni di meravigliarsi di
una vita tanto ostinata a rifiorire rompendo l’asfalto di una storia disumana,
suscitano in contropartita qualche dubbio sull’onestà e sulla qualità degli
eruditi e degli specialisti abituati a percorrere quella stessa storia come un
territorio conquistato.
Ammetto che un teologo che per
mestiere vernicia a smalto il suo Dio per mostrarne il luccichio ai ciechi che
non ne percepiscono la quotidiana evidenza, ordini i fatti secondo la sua
maniera di credere; capisco che egli presti al suo gergo le apparenze di una
lingua sensata, chiamando il desiderio una tentazione, il piacere un peccato,
l’abbraccio degli amanti una fornicazione; che veneri del titolo di santo degli
emuli di quegli eroi del popolo onorati da Lenin; che usi i Vangeli secondo la
verità che Stalin accordava all’Enciclopedia
sovietica. Ecco che fuoriesce non
della menzogna ma del proselitismo. Si converrà che incontrare la stessa
attitudine in uno storico non ispirato da disegni di tale ampiezza può lasciare
perplessi.
Che pensare di universitari istruiti nella
scienza di revocare in dubbio l’autenticità di manoscritti trafficati di
copista in copista e zeppi d’interpolazioni, che commentano come testi
originali e che datano dell’inizio dell’era cristiana le Lettere, riscritte se non scritte da Marcione, rielaborate da Tatuano,
sottomesse a correzioni fino al IV secolo da un certo Saul, detto Paolo di
Tarso, cittadino romano che visse intorno al 60 allorché Tarso fu romanizzata
soltanto nel 150?
Nessuno ignora che i manoscritti dei
Vangeli canonici e degli Atti degli
apostoli appaiono al più presto nel IV secolo e compongono sotto l’egida di
Costantino, la biblioteca di propaganda che Eusebio di Cesarea e i suoi scribi
rivedono e diffondono verso tutte le Chiese universalizzate dunque su una
stessa base dogmatica. Apparentemente, l’argomento non è di natura da mettere
in crisi la buona coscienza dei cercatori che con bella unanimità li
considerano dei reportage dal vivo, quasi contemporanei dei testimoni o
apostoli di un Adonaï, Kirios o Signore il cui nome di Josue/Jesus non s’impone
facilmente con il suo senso simbolico di «Dio ha
salvato, salva, salverà» se non alla fine ultima del primo secolo. Sole
dissonanze nel concerto estatico, gli atei Dupuy, Alfaric, Couchoud, Kryvelev,
Dubourg, i cattolici Loisy e Guillemin, il protestante Bultmann.
Pochi si
fanno scrupolo di usare, per designare il politeismo e i culti degli «stranieri
alla fede», i termini di pagani e di paganesimo con i quali la Chiesa esprimeva
il suo disprezzo per delle credenze di pagani,
di contadini, buzzurri, bifolchi insensibili alla civiltà urbana. Si tratta di
menzionare gli angeli del pantheon ebreo, i semileggendari Paolo e Pietro,
l’antignostico Ireneo, il filosofo Agostino d’Ippone, l’antisemita Gerolamo, il
maestro spirituale dell’Inquisizione, Domenico di Guzman, il massacratore dei
fraticelli, Giovanni da Capistrano? Molti abbondano del titolo di «santo» con
il quale la Chiesa ricompensa i suoi servitori reali o mitici. Non esistono forse
delle biografie di Stalin dove è chiamato senza derisione «Piccolo Padre dei
popoli»?
Tocca all’ateismo
affilare con le armi della critica uno degli argomenti più perentori della
Chiesa, l’esistenza storica di quel Josuè/Jesus che accreditava la legittimità
del suo potere temporale. Intestarditosi nel negare la divinità del Cristo, un
militantismo detto di libero pensiero cadde nella trappola di un Jesus amico
dei poveri, una specie di Socrate predicatore delle verità di un socialismo
evangelico che ha espiato sulla croce un’insolenza da tribuno pacifista.
Tertulliano e il movimento cristiano della Nuova Profezia non avrebbero potuto,
nella seconda metà del secondo secolo, sognare un miglior avvenire per il loro
eroe, recentemente epurato dal suo semitismo e travestito da Zorro per
l’edificazione e la salvezza delle masse laboriose.
Una volta
ammessa l’esistenza di un agitatore e fondatore di Chiesa, crocefisso sotto
Ponzio Pilato - il tutto senza la minima testimonianza contemporanea mentre
Jesus conserva a lungo il suo senso di Josuè biblico -, perché stupirsi che
degli spiriti dotti riprendano le false liste di papi e di vescovi elencate da Eusebio
di Cesarea, antidatino testi canonici, interpolando negli scritti del secondo
secolo delle citazioni derivate dalle controversie del IV° e V° secolo, taccino
d’eresie (quasi che si articolassero fin dall’anno 30 attorno a un’ortodossia
abbozzata invece solo nel 325) le svariatissime dottrine che rimestano idee di diversa
provenienza e che la
Chiesa Costantiniana ha frantumato, rimodellato, riaggiustato
componendo le assisi instabili del suo dogma?
Alla
maniera di Stalin che recuperò il bolscevismo fucilando i compagni di Lenin, i
padri cattolici condannano a posteriori come eterodosse non soltanto le scelte
(hairesis in greco) non cristiane ma
i diversi cristianesimi sui quali si eleva il trono di Costantino. E gli
storici li seguono discernendo attorno a Pietro «primo papa di Roma» gli sforzi
meritevoli di una Chiesa cattolica alle prese con la perversione eretica che
corrompe l’integrità del suo insegnamento canonico.
Non mi è
sembrato inutile sottolineare una tale impostura, in un tempo dove è difficile
concepire che l’autorità pontificale e le burocrazie clericali sopravvivano al
crollo delle ultime cittadelle totalitarie. Ho trovato meno attraente rettificare
un’opinione dove nulla, se non qualche inerzia di pensiero, sostiene la pretesa
di scoprire sotto la storia incartapecorita del passato le innovazioni del
vivente, spesso fragili e tuttavia generatrici di una forza incomparabilmente
più efficace della coscienza critica nel disegno di smantellare le pietre
tombali dell’oppressione.
Che cosa nascondono, sotto il labello
di eresia, le etichette con le quali la Chiesa assoggetta al suo controllo,
nominandoli, i diversi comportamenti umani e disumani la cui condanna rinforza
la prepotenza dell’ortodossia?
Rivalità episcopali, lotte intestine, del
genere dell’arianesimo, del monofisismo, del lollardismo inglese. O un
ancheggiamento del corpo claudicante dall’obbligo alla licenza, dall’ascetismo
al vizio, dalla rimozione allo sfogo che il mercato della penitenza e della
morte sfrutta con una notevole abilità. Oppure un atteggiamento più segreto,
oggetto di perplessità da parte della polizia religiosa, la volontà individuale
di fondare, in opposizione alle forme sociali dell’antiphisis, un destino accordato meglio alle promesse di una natura
finora relegata per il suo sfruttamento al di qua dell’umano. S’indovinerà
facilmente a che tipo di eresie o di resti irreligiosi si è più volentieri
avvicinata la mia curiosità.
All’intenzione di qualche lettore
familiarizzato con il Trattato del saper
vivere, con il Libro dei piaceri
e con Ai viventi, preciso che si
applica qui la mia postilla al Movimento
del libero spirito: «Un libro non ha altra genialità se non quella che
si ricava per il piacere di vivere meglio. Che sia dunque inteso, subito, che
lo studio del libero spirito non rileva per me da un’esigenza siffatta.»
Un solo
merito dovrebbe invece essere riconosciuto all’opera: amerei che fosse quello di
avere sottovalutato il meno possibile le sollecitazioni del piacere di
conoscere e le piacevolezze della gaia scienza. Per quanto sommario si
rivelasse col passare del tempo lo sfoltimento di una storia incerta, ho il
sentimento che sfugga almeno al rischio di fare concorrenza in somma di errori,
d’ignoranze e d’ipotesi inventate di sana pianta, alla maggior parte dei
volumi, monografie e copie impilate nella nostra epoca sulla testa di Jesus,
degli apostoli e dei loro legatari universali.
Se si
dovesse infine trovare una scusa a uno stile di scrittura dove non si ritrova
la stessa cura che cerco di mettere nei libri che non si allontanano troppo
dalla mia linea di vita, direi semplicemente che ogni materia ha il trattamento
che essa suggerisce.
Raoul
Vaneigem, Gennaio 1992
[i] Negli
anni ’90, l’ostilità dissimulata o dichiarata degli ambienti cattolici,
protestanti, ebraici nei confronti di un romanziere (S. Rushdie, ndt) condannato a morte per empietà dal
fanatismo islamico, la dice lunga sulla sincerità democratica e sullo spirito
di tolleranza di cui si rivendicano volentieri i diversi seguaci del «vero Dio», fortunatamente sprovvisti
dell’appoggio di un terrorismo di Stato.
[ii] Una
datazione arbitraria che accredita un messia ricorda ancora oggi la stravagante
appropriazione del tempo da parte della Chiesa.