Intervista di Jade
Lindgaard (le cui inchieste su Mediapart riguardano le ingiustizie ambientali, l’inquinamento
industriale, l’ecologia urbana e il nucleare).
Disobbedienza di massa contro i megabacini, "manif-azioni"
contro i progetti autostradali, assembramenti contro l'orticoltura industriale:
SDT (acronimo di Soulèvements De la Terre)
è una forma di Comune contemporanea, secondo la storica Kristin Ross *, che
pubblica un saggio su "la lotta come modo di abitare".
* Professoressa di
letteratura comparata, specialista in storia e cultura francese, Kristin Ross
rivisita la storia della Comune attraverso i suoi libri. Piuttosto che
esplorare un passato superato, si sforza di trasportare nel presente le
invenzioni e le pratiche rivoluzionarie sempre attuali dei comunardi, delle
comunarde e di coloro che ne ereditano la causa.
Nel suo nuovo libro, La
Forme-Commune. La lotta come modo di abitare (La Fabrique), K. Ross va alla
ricerca del modo in cui vengono gestiti i beni comuni quando lo Stato si
ritira. Essa rivisita le esperienze fondanti della fine del XX secolo: la
Comune di Nantes nel maggio 1968, la lotta contro l'aeroporto di Narita in
Giappone negli anni '70 e la ZAD di Notre-Dame-des-Landes. Parla anche di SDT,
movimento che sostiene e con il quale ha marciato contro il mega bacino di
Sainte-Soline, nelle Deux-Sèvres il 25 marzo scorso.
Mediapart: Nel suo
libro “La Forme-Commune” scrive che SDT è “la forma-Comune del nostro tempo”.
Perché pensa che questo movimento di difesa del territorio contro l'agro
business può essere visto come una forma d’incarnazione della Comune?
Kristin Ross: Per me, SDT è un esempio contemporaneo di una forma-Comune
perché è riuscito a creare un fronte comune, e l’ha creato a partire da gruppi
e persone molto diverse. Si tratta di una forma molto specifica. Non è un
partito politico, non è un'organizzazione basata su una classe sociale o un'etnicità,
eppure è molto organizzata. Non sto dicendo che SDT sia una reincarnazione
della Comune di Parigi. Tuttavia è la manifestazione di un modo di gestire i
beni comuni che sboccia quando lo Stato si ritira. Questa forma può essere
chiamata “Comune”. Questo termine ha storicamente molti significati. Ha
indicato le città borghesi del Medioevo, la parte più radicalmente democratica
della Rivoluzione francese, le comunità contadine nelle campagne, i desideri
espressi nelle assemblee operaie alla fine del Secondo Impero: cioè un mondo
basato sull'associazione e sulla cooperazione. Etimologicamente, comune
significa associazione e condivisione d’interessi.
SDT è una particolare
forma associativa, che non ha paura di confrontarsi con la polizia e di opporsi
frontalmente allo Stato. È anche questo che ne fa una “forma-Comune”?
Nel caso di SDT, ciò che ha creato il loro bisogno di associarsi
ha a che fare con la difesa del vivente contro i continui assalti del
capitalismo. E questi assalti sono molto violenti. In particolare, i gruppi che
compongono SDT hanno scelto di difendere ciò che resta dei terreni agricoli in
Francia. Le Comuni sono caratterizzate dal pragmatismo: sono ancorate alle
situazioni locali e si confrontano con le condizioni ecologiche del presente.
Fanno anche un uso molto creativo delle risorse del presente. C'è una
dimensione esistenziale nella forma-Comune: ci si assume la responsabilità di
organizzare la propria vita quotidiana con altri individui. Tuttavia, lo Stato getta
spesso uno sguardo negativo sulle persone che vivono in modo diverso.
Come definire la
“forma-Comune”?
Essa comporta una forma molto pragmatica d’intervento nelle
condizioni del presente, e si circoscrive a una situazione molto locale. SDT ha
rielaborato la forma arcaica dell’associazione e del lavoro comune per
adattarla alle nuove condizioni odierne e creare un armamentario di utensili
del tutto attuale. Questa novità, l'abbiamo scoperta nella ZAD di
Notre-Dame-des-Landes, con la creazione di una solidarietà in un’estrema
diversità. Chiunque abbia assistito alle assemblee generali della ZAD sa che vi
si potevano vedere naturalisti, avvocati, contadini all'antica, contadini
ultramoderni, lesbiche separatiste, attivisti, funzionari eletti, commercianti.
Un arco strabiliante di persone che si dedicano al duro lavoro di andare
d'accordo tra loro e provare a fare qualcosa insieme. Questa è la forma che
crea più panico nelle élite perché presuppone che le persone siano in grado di
stringere ampie alleanze. Kropotkin [geografo militante e teorico del comunismo
libertario nell'Ottocento – ndr] dice che la solidarietà non è un sentimento,
non è qualcosa che si sente né un'etica personale. È una strategia
rivoluzionaria e la più importante di tutte le strategie.
Lei ha partecipato alla
manifestazione di SDT contro il mega bacino di Sainte-Soline il 25 marzo. Che
cosa vi ha visto?
Ho ormai un'età in cui faccio le cose nella speranza di
divertirmi. Adoro questo tipo d’incontri. Mi piace incontrare persone che non
conosco, persone molto interessanti, mi piace discutere e marciare con loro –
il modo migliore per parlare con qualcuno è camminare insieme. A Sainte-Soline,
credo che abbiamo camminato per 20 km. È un modo per incontrare nuovi amici e
ritrovare quelli vecchi. È molto soddisfacente, e anche meglio alla luce del
sole. Vi ho anche imparato alcune cose. La prima volta che sono andato nella
regione delle Deux-Sèvres, poco più di un anno fa, per una manifestazione
contro i mega bacini, non avevo idea del livello di stoccaggio e di privatizzazione
dell'acqua che prospera nelle campagne. Penso che l'unico modo per avere
un'idea della portata di quello che sta succedendo sia andare a vedere. Di
fronte alle dimensioni di questi bacini, sono rimasta sbalordita. Non potevo
credere ai miei occhi. L'unica cosa che mi è venuta in mente è stata:
l'evaporazione di tutta quell'acqua! Perché questo non è visto come un
problema? Quella prima volta eravamo solo poche migliaia. Era alla fine del
confinamento del Covid. Poi, quando sono tornata a Sainte-Soline il 25 marzo
scorso, c'erano dieci volte più persone. È un progresso impressionante in un
solo anno. Questo dimostra quello che per me è il più grande risultato di SDT:
l'educazione politica. Trentamila persone che si fanno strada attraverso questi
campi, crea uno spettacolo piacevole. Mi sono detto che l'ultima volta che così
tante persone sono venute da tutta la Francia per incontrarsi nello stesso
posto in campagna è stato cinquanta anni fa: quando sono venuti a sostenere gli
allevatori di pecore del Larzac. SDT è riuscito a orientare di nuovo lo sguardo
degli abitanti delle città verso la campagna. Ho anche visto a Sainte-Soline un
governo paramilitare che lanciava granate contro i suoi cittadini. Tutti i
movimenti di emancipazione sono stati e saranno confrontati con la repressione
militare e poliziesca: la Comune di Parigi, il movimento per i diritti civili
negli Stati Uniti, la ribellione zapatista in Messico. Tuttavia, c'è qualcosa
di speciale nella brutalità poliziesca in Francia in questo momento. L'avevo
già sperimentato in alcune manifestazioni della ZAD, e in particolare nel 2018
a Nantes, dopo l'evacuazione della ZAD da parte del governo. Durante questa
manifestazione, la polizia aveva letteralmente gasato l'intera città di Nantes.
Ho visto turisti canadesi, con gli occhi grondanti di lacrime, cercare di
rifugiarsi nel retro dei ristoranti. Ho visto un bambino di cinque anni
vomitare per strada e suo padre che tamburellava sul lato di un autobus di CRS,
gridando: “Uscite e guardate quel che avete fatto!”. A Nantes la polizia ha gasato
e lanciato granate indiscriminatamente. La polizia e le armi da guerra che
stavano usando sembravano fuori controllo. Come americana, ciò era nuovo per
me. Perché la brutalità della polizia negli Stati Uniti discrimina e si
dispiega con tutta la sua violenza, soprattutto contro i giovani che non sono
di razza bianca. E anche allora, non usano granate.
Nel suo libro, lei torna
su diverse lotte degli anni '60: la Comune di Nantes nel maggio 1968, la lotta
dei contadini di Chiba contro l'aeroporto di Narita negli anni '70 in Giappone,
quella della ZAD di Notre-Dame-des-Landes, e quella più modesta contro
l'aeroporto di Mirabel a Montreal. Che cosa hanno da insegnarci oggi queste
lotte passate e perse (a parte Notre-Dame-des-Landes)?
Sono una storica un po' speciale. Non credo che il passato ci
insegni nulla. Non è un saccente. Non credo che la lotta di Narita insegni
nulla a SDT. O che la Comune di Nantes abbia insegnato qualcosa al Larzac. Il
passato non ha alcuna relazione pedagogica con noi. Quello che m’interessa è
l'opposto: come un movimento contemporaneo come SDT ci fa cambiare la visione
sul passato. Di nuovo, il Larzac diventa visibile. E la lotta dei contadini
contro l'aeroporto di Narita nella storia giapponese dalla Seconda guerra
mondiale può essere vista come il movimento più importante dell'epoca. Credo
che sia il caso per tutte queste lotte per la terra dagli anni settanta. Ora
possiamo percepirle di nuovo e vederle in modo diverso. Vediamo che queste
grandi lotte, che sono durate così a lungo, hanno permesso a tutti di capire
per la prima volta che non bastava lottare per l'uguaglianza. Bisognava
combinare quest’obiettivo con un altro: la difesa delle condizioni di vita sul
pianeta. Con questa lettura, gli anni '60 e '70 diventano principalmente il momento
in cui tanta gente ha preso coscienza di questa contraddizione maggiore tra lo
sviluppo capitalista e le condizioni ecologiche della vita.
Quando ho detto ad
alcuni dei miei amici a Parigi che stavo andando in un posto delle Deux-Sèvres
vicino a Melle, mi hanno risposto: “Ma è in mezzo al nulla!”.
La lotta di
Notre-Dame-des-Landes e poi l'esperienza della ZAD sono state a lungo ignorate
dal mondo intellettuale francese, che vi vedeva solo una piccola storia locale.
Ma Lei dice al contrario che era il suo localismo a renderla forte perché c'era
qualcosa da difendere. Come spiegare questo paradosso?
Non so dire quanti
rivoluzionari urbani e quanti intellettuali, quando ho detto loro che stava
succedendo qualcosa laggiù e che vi tornavo senza sosta, mi hanno risposto:
"Oh, abbiamo conosciuto tutti dei giovani che lo fanno, smetteranno, ciò non
ha niente a che vedere con un cambio di sistema". Dicono sempre che le
"piccole cose locali" non contano perché i centri del potere
capitalista sono nelle città, che i lavoratori urbani sono l'unico gruppo
sociale da cui verrà il cambiamento sociale. L'ostacolo maggiore al
riconoscimento delle “piccole lotte locali” è legato al divario tra città e
campagna. È come se si credesse che il lavoro esista solo nelle città. O che l’accaparramento
delle terre che avviene in campagna non avvenisse anche in città. Nell'Ottocento,
Élisée Reclus [geografo et militante anarchico – ndr] ha scritto un intero
opuscolo dopo la Comune di Parigi perché pensava che il più grande problema
sociale fosse l'incapacità degli abitanti delle città di percepire com'era la
vita in campagna e i suoi problemi. Quando ho detto ad alcuni dei miei amici a
Parigi che stavo andando in un posto delle Deux-Sèvres vicino a Melle, mi hanno
risposto: “Ma è in mezzo al nulla! Ma come definire oggi questo “nulla”? Quando
degli agricoltori giapponesi hanno cercato di impedire che la loro terra
venisse trasformata in un aeroporto, l'hanno chiamata "la porta verso il
vuoto". Chiedersi oggi dove sia il centro del nulla è una domanda molto
interessante. Forse che questo nulla è il mondo aereo, pieno di droni e di
miliardari con i loro lussuosi giocattoli? O è da qualche parte vicino a Melle? È una questione di percezione e di capacità
di vedere che la vita urbana ha sistematicamente lasciato da parte la questione
del lavoro rurale, dell'accesso alla terra, della produzione alimentare. Mentre
tutte le decisioni in merito a queste questioni sono prese nei centri urbani.
Quando ci si vuole
difendere, vuol dire che si ha già qualcosa che sta a cuore per cui vale la
pena di battersi. È la propria agenda.
Attraverso il suo lavoro
sulla Comune di Parigi, Lei ha reso popolare la nozione di "lusso comunale",
un’idea forgiata da alcuni comunardi e comunarde per descrivere una forma di
"bellezza pubblica", intesa come miglioramento dell'ambiente vissuto
nelle città e nei villaggi. Nel suo nuovo libro, Lei scrive che quest’idea di
lusso comunale "sfida la logica soggiacente del discorso di
austerità". Che cosa vuole dire?
Il lusso comunale è un modo di parlare della parte non economica
dell'espropriazione. Sono abbastanza marxista da dire che ogni espropriazione è
in ultima analisi economica. Tuttavia, le forme di alienazione e spossessamento
che le persone sperimentano includono molti altri elementi. Possiamo essere
espropriati della nostra dignità, del nostro tempo, della nostra capacità di
prevedere ciò che ci accade con altre persone, della nostra creatività, di
certi piaceri, di estetica. Il lusso comunale è un modo di parlare
dell'importanza di questi soggetti per i processi di trasformazione sociale e
individuale. I piaceri e l'estetica sono altrettanto importanti per le persone
con pochi mezzi economici che per gli altri. Durante la Comune di Parigi,
questa parola indicava il diritto di tutti di vivere e lavorare in un ambiente
piacevole. Si può pensare che non sia una questione molto importante. Tuttavia,
in realtà è enorme perché per darle risposta, dovremmo trasformare il nostro
rapporto con l'arte: che sia nella vita di tutti e di tutti i giorni, e non
solo nei musei. Trasformare il nostro rapporto con il lavoro, con l'istruzione
e con il vivente. Si tratta, dunque, della più grande di tutte le
trasformazioni. È “la trans valutazione dei valori”, come direbbe
Nietzsche: la trasformazione di ciò cui una società dà valore, di ciò che
definisce la ricchezza e la povertà. Nel libro mi riferisco spesso a Henri
Lefebvre [filosofo francese noto per il suo lavoro sul diritto alla città –
ndr], un pensatore meno apprezzato in Francia di quanto lo è stato nelle
Americhe. La gente non lo riconosce per il pensatore ecologista che è. Dice che
i gruppi e gli individui non possono costituirsi come attori politici, e
diventare soggetti politici, a meno che non producano uno spazio fisico e
sociale che controllano e di cui si appropriano. Ma non nel senso di un
possesso, nel senso di una creazione. Portava l'esempio delle favelas
brasiliane: persone molto povere riescono a creare uno spazio sociale che valorizzano.
Penso che sia qualcosa che abbiamo visto molto bene con i gilet jaunes sulle rotatorie e la loro socievolezza. E il governo
ha voluto subito smantellare quello che vi stava succedendo. Durante Occupy Wall Street e l'occupazione di
Zucotti Park a New York, la gente poteva almeno passare la notte fuori. Mentre
in Francia, durante il movimento Nuit
Debout, doveva ricostruire le sue postazioni ogni mattina! Il che mostra
ancora quanto queste attività comunali siano viste come minacce dai governi.
Lei parla
dell'importanza dei movimenti di “difesa”, nozione che preferisce a quella di
resistenza. Perché?
Dirsi in resistenza vuol dire sottomettersi all'agenda del
governo. Si resiste all'agenda del governo. Quando ci si vuole difendere, vuol
dire che si ha già qualcosa che sta a cuore per cui vale la pena di battersi. È
la propria agenda. Quando si resiste si dà un enorme potere al campo opposto.
Credo che sia più importante partire da quel che si ha, da quel cui si dà
valore, perché è cosi che si crea una comunità
L'unica cosa da capire
è che alla metà di questo secolo, la quantità di terra arabile disponibile per
persona sul pianeta sarà un quarto di quella che era negli anni '60.
Perché non parlare di
più di rivoluzione o di atti rivoluzionari nel suo libro?
Penso che la parola debba pur essere presente da qualche parte.
Kropotkin diceva che la forma-Comune era sia l'ambiente necessario della
rivoluzione sia il mezzo per realizzarla. Credo che le nozioni di difesa e di rivoluzione
negli esempi che discuto siano piuttosto intercambiabili. Sono profondamente
connessi. Il nome completo del Black Panther Party era Black Panther Party for
Self-Defense, per l’autodifesa. Quando hanno deciso che la blackness era un valore, che valeva la pena di difendere i
quartieri neri, si sono messi a gestirli in un certo modo: creando un programma
di colazioni scolastiche, di panifici, un intero sistema comunale
auto-organizzato che ha trasformato i loro quartieri in comuni di fatto. Per me
è una forma di rivoluzione, radicata nella vita quotidiana e non
nell'ideologia. Lavorare in comuni organizzate attorno alla vita quotidiana permette
di creare una rivoluzione su una scala in cui le persone possono relazionarsi.
Una scala che capiscono e a cui possono partecipare. Tutti vogliono partecipare
al rinnovamento dei ritmi della loro vita quotidiana. Trasformare la sussistenza
in un affare collettivo è un modo per farlo.
Lei scrive anche che
l'intensificarsi dei disastri ambientali rende sempre più difficile distinguere
l'aspettativa di un cambiamento sistemico dalla mera difesa del capitale.
Perché?
La grande abilità di SDT è di riuscire a rendere pubblici i
problemi delle campagne e il ruolo mortifero della FNSEA [sindacato francese
dell’agricoltura intensiva e industriale, NdT] e di altre organizzazioni
agricole. Gli abitanti delle città non possono più ignorarlo. Sappiamo già
tutto quel che dobbiamo sapere su come il capitalismo distrugge il vivente. L'unica
cosa da capire è che alla metà di questo secolo, la quantità di terra arabile
disponibile per persona sul pianeta sarà un quarto di quella che era negli anni
sessanta. Una sola statistica è sufficiente. Ci si rende allora conto che non c’è
bisogno di aspettare quello che i vecchi marxisti chiamavano il "momento
giusto", il momento in cui tutti allo stesso tempo, in tutto il mondo, si
solleverebbero creando il cambiamento sistemico. SDT, al quale chiunque può aderire,
dimostra che si può iniziare una rivolta ovunque. Ma si deve cominciare da
qualche parte.
Mediapart, 23 aprile 2023
* Kristin Ross, La Forme-Commune. La
lutte comme manière d’habiter, La
Fabrique, 2023, 160 p., 14 euros
Interview de Jade
Lindgaard (qui enquête à Mediapart, sur les
injustices environnementales, les pollutions industrielles, l'écologie urbaine
et le nucléaire).
Désobéissance de masse contre les méga bassines,
« manif’actions » contre des projets d’autoroutes, rassemblement
contre le maraîchage industriel : les Soulèvements de la Terre sont une
forme de Commune contemporaine, selon l’historienne Kristin Ross*, qui publie
un essai sur « la lutte comme manière d’habiter ».
*Professeure de littérature comparée,
spécialiste de l’histoire et de la culture françaises, Kristin Ross revisite au
fil de ses livres l’histoire de la Commune. Plutôt que d’explorer un passé
révolu, elle s’attache à transporter dans le présent les inventions et
pratiques révolutionnaires toujours actuelles des communard·es ainsi que de
celles et ceux qui en héritent.
Dans son nouveau livre, La Forme-Commune. La lutte comme manière d’habiter
(La Fabrique), elle part à la recherche de la manière dont se gèrent les
communs quand l’État se retire. Et revisite des expériences fondatrices de la
fin du XXe siècle : la Commune de Nantes en mai 1968, la lutte contre
l’aéroport de Narita au Japon dans les années 1970 et la ZAD de
Notre-Dame-des-Landes. Elle y parle aussi des Soulèvements de la Terre,
mouvement qu’elle soutient et avec lequel elle a marché contre la méga bassine
de Sainte-Soline, dans les Deux-Sèvres le 25 mars dernier.
Mediapart : Dans
votre livre « La Forme-Commune », vous écrivez que les Soulèvements
de la Terre sont « le mode-Commune de notre temps ». Pourquoi
pensez-vous que ce mouvement de défense des terres contre l’agro-industrie peut
être vu comme une forme d’incarnation de la Commune ?
Kristin Ross : Pour moi, les Soulèvements de la Terre sont un exemple contemporain
d’une forme Commune car ils ont réussi à créer un front commun, et ils l’ont
créé à partir de groupes et de gens très différents. C’est une forme très
spécifique. Ce n’est pas un parti politique, ce n’est pas une organisation
basée sur une classe sociale ou une ethnicité, et pourtant, c’est très
organisé. Je ne dis pas que les Soulèvements de la Terre sont une réincarnation
de la Commune de Paris. Mais ils sont la manifestation d’une manière de gérer
des communs qui éclot quand l’État se retire. Cette forme peut s’appeler
« Commune ». Ce terme a eu bien des sens historiquement. Il a désigné
les villes bourgeoises du Moyen Âge, la part la plus radicalement démocratique
de la Révolution française, des communautés paysannes à la campagne, les désirs
qui s’exprimaient dans les réunions ouvrières à la fin du Second Empire :
c’est-à-dire un monde basé sur l’association et la coopération.
Étymologiquement, la commune signifie l’association et le partage d’intérêts.
Les Soulèvements de
la terre sont une forme particulière d’association, qui n’a pas peur
d’affronter la police et de s’opposer frontalement à l’État. Est-ce aussi cela
qui en fait une « forme-Commune » ?
Dans le cas des Soulèvements de la Terre, ce qui a créé leur besoin de
s’associer est lié à la défense du vivant contre les assauts continus du
capitalisme. Et ces assauts sont très violents. En particulier, les groupes qui
composent les Soulèvements de la Terre ont choisi de défendre ce qu’il reste de
terres agricoles en France. Les Communes sont marquées par le pragmatisme :
elles sont ancrées dans des situations locales, et elles se confrontent aux
conditions écologiques du présent. Elles font aussi un usage très créatif des
ressources du présent. Il y a une dimension existentielle dans la forme-Commune
: vous prenez la responsabilité d’organiser votre vie quotidienne avec
d’autres. Or, quand les gens vivent différemment, souvent l’État le voit d’un
mauvais œil.
Comment définissez la
« forme-Commune » ?
Elle implique une forme très pragmatique d’intervention dans les conditions
du présent, et la circonscription à une situation très locale. Les Soulèvements
de la Terre ont retravaillé la forme archaïque de l’association et du travail
ensemble pour l’adapter aux nouvelles conditions d’aujourd’hui et créer une
boîte à outils complètement actuelle. Cette nouveauté, on l’a découverte sur la
ZAD de Notre-Dame-des-Landes, avec la fabrication d’une solidarité dans une
extrême diversité. Toute personne qui a assisté à des assemblées générales à la
ZAD sait qu’on pouvait y voir des naturalistes, des avocats, des paysans à
l’ancienne, des paysans super modernes, des lesbiennes séparatistes, des
militants, des élus, des commerçants. Un arc époustouflant de gens qui
s’attelaient à la dure tâche de s’entendre les uns avec les autres, et
d’essayer de faire quelque chose ensemble. C’est la forme qui crée le plus de
panique dans les élites car elle suppose que les gens soient capables de faire
des alliances étendues. Kropotkine [géographe militant et théoricien du
communisme libertaire au XIXe siècle – ndlr] dit que la solidarité n’est pas un
sentiment, n’est pas quelque chose que l’on ressent, pas une éthique
personnelle. C’est une stratégie révolutionnaire. Et c’est la plus importante
de toutes les stratégies.
Vous avez participé
au rassemblement des Soulèvements de la Terre contre la méga bassine de
Sainte-Soline le 25 mars. Qu’y avez-vous vu ?
J’atteins un âge où je fais des choses dans l’espoir de m’amuser. J’aime
profondément ce genre de rassemblements. J’aime rencontrer des gens que je ne
connais pas, des gens très intéressants, j’adore discuter avec eux, et marcher
avec eux – la meilleure façon de parler avec quelqu’un, c’est en marchant
ensemble. À Sainte-Soline, je crois bien qu’on a marché 20 km. C’est une façon
de rencontrer de nouveaux amis et d’en revoir des anciens. C’est très
satisfaisant, et encore mieux à la lumière du soleil. J’y ai aussi appris des
choses. La première fois que je suis allée dans les Deux-Sèvres, il y a un peu
plus d’un an, pour une manif contre les méga bassines, je n’avais aucune idée
du niveau de stockage et de privatisation de l’eau qui se développe à la
campagne. Je crois que la seule façon d’avoir une idée de l’échelle de ce qui
se passe, c’est d’aller voir. Face à la taille de ces bassines, j’étais ébahie.
Je n’en croyais pas mes yeux. La seule chose qui me venait à l’esprit
était : l’évaporation de toute cette eau ! Pourquoi est-ce que ça
n’est pas vu comme un problème ? Cette première fois, nous n’étions que
quelques milliers. C’était à la sortie du confinement du Covid. Ensuite, quand
je suis retournée à Sainte-Soline le 25 mars dernier, il y avait dix fois plus
de monde. C’est une progression impressionnante en seulement un an. Cela montre
ce qui est pour moi la plus grande réussite des Soulèvements : l’éducation
politique. Trente mille personnes frayant leur chemin à travers ces champs,
cela crée un drôle de spectacle. Je me suis dit que la dernière fois qu’autant
de gens s’étaient déplacés de tous les coins de France pour se retrouver au
même endroit à la campagne, c’était il y a 50 ans : quand ils sont venus
soutenir les éleveurs de brebis du Larzac. Les Soulèvements de la Terre ont
réussi à réorienter le regard des habitants des villes vers les campagnes. J’ai
aussi vu à Sainte-Soline un gouvernement paramilitaire lançant des grenades sur
ses citoyens. Tous les mouvements d’émancipation ont été et seront confrontés à
la répression militaire et policière : la Commune de Paris, le mouvement
des droits civiques aux États-Unis, la rébellion zapatiste au Mexique. Mais il
y a quelque chose de particulier dans la brutalité policière en France à ce
moment. J’en avais déjà fait l’expérience dans certaines manifs de la ZAD, et
notamment en 2018 à Nantes, après l’évacuation de la ZAD par le gouvernement.
Lors de cette manif, la police avait littéralement gazé toute la ville de
Nantes. J’ai vu des touristes canadiens, les yeux dégoulinant de larmes,
essayant de se réfugier à l’arrière des restaurants. J’ai vu un enfant de 5 ans
vomissant dans la rue et son père tambouriner sur le côté d’un car de CRS en
criant : « Sortez et voyez ce que vous avez fait ! ». À
Nantes, la police a gazé et lancé des grenades de façon indiscriminée. Les
policiers et les armes de guerre qu’ils utilisaient semblaient hors de
contrôle. En tant qu’Américaine, c’était nouveau pour moi. Car la brutalité
policière aux États-Unis discrimine et se déploie avec toute sa violence en
particulier contre les jeunes hommes racisés. Et même là, ils n’utilisent pas
de grenade.
Dans votre livre,
vous revenez sur plusieurs luttes des années 1960 : la Commune de Nantes
en mai 1968, la lutte des agriculteurs de Chiba contre l’aéroport de Narita
dans les années 1970 au Japon, celle de la ZAD de Notre-Dame-des-Landes, et
celle plus modeste contre l’aéroport de Mirabel à Montréal. Qu’est-ce que ces
combats passés et perdus (à part Notre-Dame-des-Landes) ont à nous apprendre
aujourd’hui ?
Je suis une historienne un peu spéciale. Je ne crois pas que le passé nous
enseigne quoi que ce soit. Ce n’est pas un donneur de leçons. Je ne crois pas
que la lutte de Narita enseigne la moindre chose aux Soulèvements de la Terre.
Ou que la Commune de Nantes ait appris des choses au Larzac. Le passé n’a pas
de relation pédagogique avec nous. Ce qui m’intéresse, c’est l’inverse :
comment un mouvement contemporain comme les Soulèvements de la Terre nous fait
changer de regard sur le passé. De nouveau, le Larzac devient visible. Et la
lutte des agriculteurs contre l’aéroport de Narita dans l’histoire du Japon
depuis la Seconde Guerre mondiale peut se voir comme le mouvement le plus
important de l’époque. Je crois que c’est le cas pour toutes ces luttes des
terres depuis les années 1970. On peut maintenant les percevoir de nouveau et
les percevoir différemment. Ces luttes d’ampleur, qui ont duré si longtemps, on
voit qu’elles ont permis à tout le monde de réaliser pour la première fois
qu’il ne suffisait pas de se battre pour l’égalité. Il fallait tenir cet
objectif avec un autre : la défense des conditions de la vie sur la
planète. Avec cette lecture, les années 1960 et 1970 deviennent principalement
le moment où tant de gens prennent conscience de cette contradiction majeure
entre le développement capitaliste et les conditions écologiques de la vie.
Quand j’ai dit à
certains de mes amis à Paris que j’allais à un endroit dans les Deux-Sèvres près
de Melle, ils m’ont répondu : « Mais c’est au milieu de nulle part ! »
La lutte de
Notre-Dame-des-Landes puis l’expérience de la ZAD ont longtemps été ignorées
par le monde intellectuel français, qui n’y voyait qu’une petite histoire
locale. Mais vous dites au contraire que c’est sa localité qui en a fait la
force car il y avait quelque chose à défendre. Comment expliquer ce paradoxe ?
Je ne peux pas dire combien d’hommes révolutionnaires urbains et
d’intellectuels, quand je leur disais qu’il se passait quelque chose là-bas et
que j’y retournais sans cesse, m’ont répondu : « Oh nous avons tous
connu des jeunes faire ça, ça leur passera, ça n’a rien à voir avec un
changement de système ». Ils disent toujours que les « petites choses
locales » ne comptent pas parce que les centres du pouvoir capitaliste
sont dans les villes, que les travailleurs urbains sont le seul groupe social
d’où viendra le changement social. Le plus gros obstacle à la reconnaissance
des « petites luttes locales » est lié à l’écart entre ville et
campagne. C’est comme si l’on croyait que le travail n’existe que dans les
villes. Ou que l’accaparement des terres qui se produit à la campagne ne se
produit pas aussi en ville. Au XIXe siècle, Élisée Reclus [géographe et
militant anarchiste – ndlr] a écrit tout un pamphlet après la Commune de Paris
car il pensait que le plus gros problème social était l’incapacité des
habitants des villes à percevoir ce que qu’était la vie à la campagne et ses
problèmes. Quand j’ai dit à certains de mes amis à Paris que j’allais à un
endroit dans les Deux-Sèvres près de Melle, ils m’ont répondu : « Mais
c’est au milieu de nulle part ! ». Mais comment définir ce « nulle
part » aujourd’hui ? Quand des agriculteurs japonais essayaient d’empêcher
que leurs terres soient transformées en aéroport, ils l’appelaient :
« la passerelle vers le vide ». Se demander aujourd’hui où est le
centre de nulle part est une question très intéressante. Est-ce que nulle part,
c’est le monde aérien, plein de drones et de milliardaires avec leurs jouets
luxueux ? Ou est-ce quelque part à côté de Melle ? C’est une question
de perception et de capacité à voir que la vie urbaine a systématiquement
laissé de côté la question du travail rural, d’accès à la terre, de production
alimentaire. Alors que toutes les décisions concernant ces sujets sont prises
dans les centres urbains.
Quand vous voulez
vous défendre, c’est que vous avez déjà quelque chose à chérir et que cela vaut
la peine de se battre. C’est votre propre agenda.
Par vos travaux sur
la Commune de Paris, vous avez popularisé la notion de « luxe communal »,
cette idée forgée par certains communard·es pour décrire une forme de
« beauté publique », entendue comme l’amélioration de l’environnement
vécu dans les villes et les villages. Dans votre nouveau livre, vous écrivez que
cette idée du luxe communal « défie la logique sous-jacente du discours
d’austérité ». Que voulez-vous dire ?
Le luxe communal est une manière de parler de la part non économique de la
dépossession. Je suis suffisamment marxiste pour dire que toute dépossession
est économique in fine. Mais les formes d’aliénation et de dépossession que les
gens subissent incluent bien d’autres éléments. On peut être dépossédé de sa
dignité, de son temps, de sa capacité à prévoir ce qui nous arrive avec
d’autres personnes, de sa créativité, de certains plaisirs, d’esthétique. Le
luxe communal est une manière de parler de l’importance de ces sujets pour les
processus de transformation sociale et individuelle. Les plaisirs et
l’esthétique sont aussi importants pour les personnes disposant de peu de moyens
économiques que pour les autres. Pendant la Commune de Paris, ce mot désignait
le droit de tous à vivre et à travailler dans un environnement agréable. On
peut trouver que ce n’est pas une demande très importante. Mais en fait, c’est
énorme car pour y répondre, il faudrait transformer notre rapport à l’art :
qu’il soit dans la vie de tous et de tous les jours, et pas seulement dans les
musées. Transformer notre rapport au travail, à l’éducation et au vivant. C’est
donc la plus grande de toutes les transformations. C’est « la
transvaluation des valeurs », comme dirait Nietzsche : la
transformation de ce à quoi une société accorde de la valeur, de ce qui définit
la richesse et la pauvreté. Dans le livre, je reviens beaucoup à Henri Lefebvre
[philosophe français connu pour ses travaux sur le droit à la ville – ndlr], un
penseur qui n’a pas été apprécié en France comme il l’a été dans les Amériques.
Les gens ne le reconnaissent pas pour le penseur écologiste qu’il est. Il dit
que les groupes et les individus ne peuvent pas se constituer en acteurs
politiques, et devenir des sujets politiques, à moins de produire un espace
physique et social qu’ils contrôlent et s’approprient. Mais pas dans le sens
d’une possession, dans celui d’une création. Il donnait l’exemple des favélas
brésiliennes : des personnes très pauvres réussissent à créer un espace
social qu’elles valorisent. Je crois que c’est quelque chose qu’on a très bien
vu avec les « gilets jaunes » sur les ronds-points et leur
sociabilité. Et le gouvernement a tout de suite voulu démanteler ce qui s’y
passait. Pendant Occupy Wall Street et l’occupation de Zucotti Park à New York,
les gens pouvaient au moins passer la nuit dehors. Alors qu’en France, pendant
Nuit debout, ils devaient reconstruire leurs abris tous les matins ! Ça
montre encore à quel point ces activités communales sont vues comme des menaces
par les gouvernements.
Vous parlez de l’importance
des mouvements de « défense », notion que vous préférez à celle de
résistance. Pourquoi ?
Se dire en résistance, c’est se soumettre à l’agenda du gouvernement. Vous
résistez à l’agenda du gouvernement. Quand vous voulez vous défendre, c’est que
vous avez déjà quelque chose à chérir et que cela vaut la peine de se battre.
C’est votre propre agenda. Quand vous résistez, vous accordez un énorme pouvoir
au camp d’en face. Je crois que c’est plus important de partir de ce que vous
avez, de ce que vous valorisez, car c’est ainsi que vous créez une communauté.
La seule chose à
comprendre, c’est qu’au milieu de ce siècle, la quantité de terre arable
disponible par personne sur la planète sera le quart de ce qu’elle était dans
les années 1960.
Pourquoi ne pas
parler plus de révolution ou d’actes révolutionnaires dans votre livre ?
Je crois que le mot doit bien y être quelque part quand même. Kropotkine
disait que la forme Commune était à la fois le milieu nécessaire de la
révolution et le moyen de l’accomplir. Je crois que les notions de défense et
de révolution dans les exemples que je discute sont plutôt interchangeables.
Ils sont profondément liés. Le nom complet du Black Panther Party était le
Black Panther Party for Self-Defense, pour l’autodéfense. Quand ils ont décidé
que la blackness était une valeur,
que les quartiers noirs méritaient d’être défendus, ils se sont mis à les gérer
d’une certaine façon : en créant un programme de petits-déjeuners
scolaires, des boulangeries, tout un système communal auto-organisé qui a
transformé leurs quartiers en communes en acte. Pour moi, c’est une forme de
révolution, ancrée dans la vie quotidienne et pas dans l’idéologie. Travailler
dans des communes organisées autour de la vie quotidienne permet de créer une
révolution à une échelle à laquelle les gens peuvent se relier. Une échelle
qu’ils comprennent et à laquelle ils peuvent participer. Tout le monde veut
participer au renouvellement des rythmes de son quotidien. Transformer la
subsistance en affaire collective est une façon de le faire.
Vous écrivez aussi
que l’intensification des catastrophes environnementales rend l’attente d’un
changement systémique de plus en plus difficile à distinguer d’une simple
défense du capital. Pourquoi ?
La grande adresse des Soulèvements de la Terre est qu’ils réussissent à
rendre publics les problèmes des campagnes et le rôle mortifère de la FNSEA et
d’autres organisations agricoles. Les habitants des villes ne peuvent plus les
ignorer. Nous savons déjà tout ce que nous devons savoir sur la façon dont le
capitalisme détruit le vivant. La seule chose à comprendre, c’est qu’au milieu
de ce siècle, la quantité de terre arable disponible par personne sur la
planète sera le quart de ce qu’elle était dans les années 1960. Une seule
statistique suffit. Et vous réalisez alors que vous n’avez pas besoin
d’attendre ce que les vieux marxistes appelaient la « bonne
conjoncture », le moment où tout le monde au même moment dans le monde
entier se soulèverait et créerait le changement systémique. Les Soulèvements de
la Terre, que tout le monde peut rejoindre, montrent que vous pouvez commencer
à vous soulever n’importe où. Mais il faut commencer quelque part.
23 avril 2023
* Kristin Ross, La Forme-Commune. La lutte comme manière d’habiter, La
Fabrique, 2023, 160 p., 14 euros