sabato 31 agosto 2024

Gilet jaunes ancora uno sforzo a favore del vivente! - Una riflessione di Raoul Vaneigem

 




Una riflessione di Raoul Vaneigem che merita lettura e traduzione. SGS

 

Gilet jaunes ancora uno sforzo a favore del vivente!

Mentre assistiamo al collasso mentale, economico, politico e psicologico di un mondo governato dal profitto, nuove forme di resistenza stanno emergendo ovunque. Segnano una chiara rottura con l’autoritarismo e la burocratizzazione che caratterizzarono le lotte antiche e, di seguito, spiegano il fallimento del proletariato nel creare una società senza classi. L’apparizione dei Gilet jaunes ha risvegliato in migliaia di uomini e donne il sentimento e la consapevolezza di un’evidenza: siamo ricchi di una vita costantemente impoverita dall’obbligo di lavorare per sopravvivere. Come stupirsi se il Potere lavora per oscurare, con la menzogna e i manganelli, ciò che è sovversivo nella semplice gioia di vivere!

L’agitazione spontanea non ha più bisogno di gilet per diffondersi con un giubilo a dir poco assente dalle sfilate urlanti dell’anticapitalismo. I capetti di destra e di sinistra ne restano sorpresi. Gli stessi manifestanti sembrano, come bambini, sconcertati dalla loro improvvisa audacia. S’invocano ragionevoli pretesti ma nessuno si lascia ingannare. La rivendicazione principale è la vita. Una vita eminentemente preziosa, una vita ingiustamente minacciata dai negozianti di morte. Una vita che vuole essere libera e non s’ingombra di religioni, d’ideologie, di politica, di strutture gerarchiche, statali e mondialiste.

La vita è prima di tutto il fucile spezzato che, attraverso il tormento della sua onnipresenza, impedisce la trasformazione del soggetto in oggetto, dell'essere in avere, dell'esistenza in merce.

Eppure, il nichilismo non è mai stato a tal punto la filosofia degli affari. Ciò che si prepara a orientare il nostro destino è un “lasciar andare tutto!” dovuto al disgusto di un mondo senza cuore. Siamo intrappolati in un universo dove il rovescio vale il dritto, dove la feccia dei buoni sentimenti, il cinismo degli assassini dell’ordine e del disordine, e l’ignavia di una disumanizzazione a freddo hanno accumulato una fatica immensa che ha un solo desiderio impellente, quello di fare il vuoto.

Va da sé che il riflesso di “lasciar andare tutto!” diverge nelle sue intenzioni a seconda che ci si abbandoni al conforto della morte o che si conduca una guerriglia a favore del vivente senz’altra arma che l'esuberante ingegno di cui la natura umana custodisce i segreti. Il campo dell’antica tradizione apocalittica profetizza una caduta nell’abisso della disperazione, ipotizza un suicidio umanitario programmato dall’autodistruzione capitalista. Tuttavia, così facendo, suscita una grande sferzata di vitalità nello schieramento avverso. Le strade e le coscienze si riempiono come l'aria dei tempi di risonanze in cui la radicalità s’irradia in silenzio. Niente è finito, tutto comincia!

Per quanto numerosi siano i servitori della servitù più vile, del risentimento aggressivo, dell'odio e della delazione, ci sarà sempre un impulso di generosità per revocare la loro influenza. Tutti i Poteri sono cittadelle fatiscenti alle quali diamo fermezza offrendo loro fedeltà. Quando saremo dissuasi dal permettere che l’autoritarismo che pretendiamo combattere s’incrosti dentro di noi?

Senza capi, senza leader autoproclamati, senza un apparato politico sindacale, gli insorti della vita quotidiana tessono la stoffa di una vera società umana. Il possibile richiede immaginazione. La curiosità è insaziabile.

Il ritorno alla vita vedrà il trionfo dell’acrazia, cioè il superamento di quei regimi chiamati democrazia, aristocrazia, oligocrazia, plutocrazia che insieme proponevano una felicità per la quale il popolo ha ancora le natiche dolenti. Il ritorno alla vita implica il ritorno al locale, la riconversione in un individuo autonomo dell'individualista e del calcolo egoistico che lo disumanizza. Solo il ricorso a una pratica sperimentale e poetica dell’autogestione e dell’armonizzazione dei desideri consentirà di affrontare concretamente la questione del governo del popolo da e per il popolo.

Non ci basta contemplare le rovine degli imperi e degli Stati che ci hanno dettato le loro leggi e vomitato i loro ordini, per vincere la pusillanimità che ci impedisce di aprire la via all'autorganizzazione sociale?

Sarà facile ridere della Comune di Parigi, schiacciata dalla borghesia, dei soviet degli operai, dei contadini, dei marinai, liquidati dai bolscevichi, delle comunità libertarie della rivoluzione spagnola, decimate dal Partito comunista. Si tratta, però, di tentativi appena abbozzati da cui sta a noi trarre salutari insegnamenti. Poiché tutto sembra perduto, che cosa abbiamo da perdere moltiplicando la creazione di piccole comunità preoccupate di affrontare localmente e concretamente i problemi che lo Stato e i suoi sponsor monopolistici possono affrontare solo in modo falso, statistico, astratto?

Nella debacle del “lasciar andare tutto”, impareremo a non lasciar andare nulla. Ciò che è donato senza riserve ha in sé la grazia dello sforzo che lo aiuta a fiorire.

L’audacia è al cuore di tutti i desideri di vivere.

Raoul Vaneigem Luglio 2024




Une réflexion de Raoul Vaneigem qui mérite lecture et traduction. SGS

 

GILETS JAUNES, ENCORE UN EFFORT EN FAVEUR DU VIVANT !

Tandis que nous assistons à l’effondrement mental, économique, politique et psychologique d’un monde gouverné par le Profit, de nouvelles formes de résistance pointent partout. Elles marquent une franche rupture avec l’autoritarisme et la bureaucratisation qui caractérisent les luttes anciennes et, dans la foulée, expliquent l’échec du prolétariat à créer une société sans classes. L’apparition des Gilets jaunes a réveillé chez des milliers d’hommes et de femmes le sentiment et la conscience d’une évidence : nous sommes riches d’une vie sans cesse appauvrie par l’obligation de travailler pour survivre. Quoi d’étonnant si le Pouvoir s’emploie à occulter, par le mensonge et la matraque, ce qu’il y a de subversif dans la simple joie de vivre !

L’agitation spontanée n’a plus besoin de gilets pour se propager avec une liesse pour le moins absente des défilés braillards de l’anticapitalisme. Les chefaillons de droite et de gauche en demeurent effarés. Les manifestants eux-mêmes semblent, tels des enfants, déconcertés par leur soudaine audace. On invoque des prétextes raisonnables mais personne n’est dupe. La revendication maîtresse, c’est la vie. Une vie éminemment précieuse, une vie indûment menacée par les boutiquiers de la mort. Une vie qui se veut libre et ne s’encombre ni de religions, ni d’idéologies, ni de politique, ni de structures hiérarchiques, étatiques et mondialistes.

La vie avant toute chose est le fusil brisé qui par le harcèlement de son omniprésence empêche la transformation du sujet en objet, de l’être en avoir, de l’existence en marchandise.

Pourtant, jamais le nihilisme n’a été à ce point la philosophie des affaires. Ce qui se prépare à orienter notre sort, c’est un « lâchez tout ! » dû à l’écœurement d’un monde sans cœur. Nous sommes pris au piège d’un univers où l’envers vaut l’endroit, où la salauderie des bons sentiments, le cynisme des assassins de l’ordre et du désordre, et la veulerie d’une déshumanisation à froid ont accumulé une immense fatigue qui n’a qu’une pressante envie, celle de faire le vide.

Il va de soi que le réflexe du « lâchez tout ! » diverge dans ses intentions selon qu’il s’abandonne au réconfort de la mort ou qu’il mène en faveur du vivant une guérilla sans autre arme que l’exubérante ingéniosité dont la nature humaine détient les secrets. Le camp de la vieille tradition apocalyptique prophétise une chute dans les abîmes du désespoir, il conjecture un suicide humanitaire programmé par l’autodestruction capitaliste. Mais, ce faisant, il suscite dans le camp adverse un grand sursaut de vie. Les rues et les consciences s’emplissent comme l’air du temps de résonances où la radicalité rayonne en silence. Rien n’est fini, tout commence !

Si nombreux que soient les séides de la servitude la plus vile, du ressentiment agressif, de la haine et de la délation, il se trouvera toujours un élan de générosité pour révoquer leur emprise. Tous les Pouvoirs sont des citadelles délabrées auxquelles nous prêtons fermeté en leur faisant allégeance. Quand serons-nous dissuadés de laisser s’incruster en nous l’autoritarisme que nous prétendons combattre ?

Sans chefs, sans meneurs autoproclamés, sans appareil politico syndical, les insurgées et les insurgés de la vie quotidienne tissent l’étoffe d’une véritable société humaine. Le possible a besoin d’imagination. La curiosité est insatiable.

Le retour à la vie verra le triomphe de l’acratie, à savoir le dépassement de ces régimes baptisés démocratie, aristocratie, oligocratie, ploutocratie qui proposaient en commun un bonheur dont le peuple a encore les fesses écorchées. Le retour à la vie implique le retour au local, la reconversion en individu autonome de l’individualiste et du calcul égoïste qui le déshumanise. Seul le recours à une pratique expérimentale et poétique de l’autogestion et de l’harmonisation des désirs, permettra d’aborder concrètement la question du gouvernement du peuple par et pour le peuple.

Ne nous suffit-il pas de contempler les ruines des empires et des États qui nous ont dicté leurs lois et vomi leurs ordres, pour vaincre la pusillanimité qui nous empêche d’ouvrir une voie à l’auto organisation sociale ?

On aura beau jeu de railler la Commune de Paris, écrasée par la bourgeoisie, les soviets d’ouvriers, de paysans, de marins, liquidés par les bolcheviks, les collectivités libertaires de la révolution espagnole, décimées par le Parti communiste. Mais ce sont là des tentatives à peine esquissées dont il nous appartient de tirer des leçons salutaires. Puisque tout semble perdu, qu’avons-nous à perdre en multipliant la création de petites collectivités soucieuses d’aborder localement et concrètement les problèmes que l’État et ses commanditaires monopolistiques ne peuvent traiter que de façon mensongère, statistique, abstraite ?

Dans la débâcle du "lâchez tout", nous allons apprendre à ne lâcher rien. Ce qui est donné sans réserve possède en soi la grâce de l’effort qui l’aide à s’épanouir.

L’audace est au cœur de tous les désirs de vivre.

Raoul Vaneigem Juillet 2024

 

Che cos’è l’anarchismo - Miquel Amorós


Vi ho tradotto con piacere dallo spagnolo quest’analisi rinvigorente per l’intelligenza dell’epoca in via di sparizione per artificializzazione programmata.  

SGS

 

Che cos’è l’anarchismo

È una dottrina, un'ideologia, un metodo, una branca del socialismo, una linea di condotta, una teoria politica? La risposta, in linea di principio, è semplice: l’anarchismo è ciò che pensano e fanno gli anarchici e, in generale, coloro che si definiscono nemici di ogni autorità e imposizione. Coloro che, per vie diverse, molte veramente antagoniste, perseguono l’“anarchia”, cioè una società senza governo, un modo di convivenza sociale estraneo alle disposizioni autoritarie. L’anarchismo non sarebbe altro che la via per raggiungere quell’anarchia, che il geografo Reclus ha definito “la più alta espressione dell’ordine”. In cosa consiste? Esistono molteplici e contraddittorie strategie per raggiungere un ideale basato su una negazione di cui esistono diverse versioni, ragion per cui si potrebbe parlare più propriamente di anarchismi, come fa, ad esempio, Tomás Ibáñez. Se si tiene conto anche della situazione storico-sociale contemporanea, dove l’anarchismo non è più gran cosa – solo un segno semi-accademico d’identità giovanile che ha ben poco a che fare con epoche passate più gloriose e che rimane al riparo da ogni critica seria e obiettiva – le definizioni potrebbero essere estese all’infinito. L’anarchismo sarebbe dunque una specie di sacco pieno di formule disparate etichettate come anarchiche. Le porte restano aperte a qualsiasi deriva, sia essa riformista, individualista, cattolica, comunista, nazionalista, contemplativa, mistica, cospiratoria, d’avanguardia, ecc. Per quanto riguarda la faciloneria degli ambienti libertari a proposito di tale diversità, potremmo concludere come l’autore o gli autori dell’opuscolo “Sulla miseria nell’ambiente studentesco” (Internazionale Situazionista, 1966) a proposito dei componenti della Fédération Anarchiste: “Questa gente in realtà tollera tutto dal momento che si tollerano a vicenda.

Le prospettive non sono rosee, perché di questi tempi la comprensione dei fenomeni sociali e delle ideologie che li accompagnano dipende molto da una riflessione adeguata, cioè dalla prospettiva fornita dalla conoscenza storica. Anche oggi l’anarchismo non manca d’intellettuali onesti e competenti adatti alla bisogna. Tuttavia, la caratteristica più comune degli anarchismi postmoderni, che navigano nella post-verità e ripudiano la coerenza, è il rifiuto di tale conoscenza. Inoltre, secondo questo tipo di anarchismo, è necessario intervenire sul passato a partire dal presente, come depositario di risorse estetiche, in linea con le norme ludiche, la grammatica trans gender e le abitudini gastronomiche imposte dalla moda. L'impegno, del resto, è effimero. Adesso, finalmente, con la volonterosa eccezione di alcuni nuclei sindacalisti, l'anarchismo si riduce a un fenomeno da fiera del libro. Noi, che andiamo nella direzione opposta, cercheremo di spiegare questa costante aspirazione a un'organizzazione sociale senza governo, quindi senza Stato, senza autorità separata, riferendoci alle sue origini laddove si trovano, nei settori radicali delle rivoluzioni popolari del diciannovesimo secolo.

In linea di principio bisognerà superare la mania di alcuni ideologi anarchici, a cominciare da Kropotkin, Reclus, Rocker e lo storico Nettlau, di scoprire antenati in ogni momento della storia e in ogni luogo. Da questo punto di vista l’anarchismo non sarebbe un’idea nuova, ma qualcosa di antico quanto l’umanità, perenne, eterno, inscritto nell’essere biologico della specie umana. Anarchici sarebbero allora Diogene il cinico e Zenone lo stoico, Lao Tse, Epicuro, Rabelais, Montaigne o Tolstoj. Tracce libertarie si troverebbero nei comuni medievali, nei Diggers inglesi, nel liberalismo filosofico di Spencer e Locke, nell'opera politica di Stuart Mill e William Godwin, in qualsiasi alterazione dell'ordine costituito... Non abbiamo nulla da obiettare a questo, ma denunciamo il tentativo latente in questo approccio antistorico di fabbricare un’ideologia interclassista negando al movimento operaio il suo ruolo decisivo nella genesi delle idee anarchiche. Ciò ha avuto effetti disastrosi sulla pratica antiautoritaria. I promotori e difensori di questa tesi cercarono di trascendere la realtà sociale non attraverso interventi pratici nella sfera politico-sociale, ma attraverso la propaganda, attraverso un intenso sforzo di educazione di massa che potesse provocare una graduale evoluzione della mentalità popolare verso livelli elevati di coscienza. Per i propagandisti educatori, soprattutto per quelli più immobili e pigri, come Abad de Santillán, l’anarchismo era semplicemente “un desiderio umanista”, il nuovo nome per “un atteggiamento e una concezione umanista di base”, una dottrina non specifica né concreta, un vago ideale etico sempre esistito, che si riscontrava in qualunque classe sociale e che – aggiungeva Federica Montseny – aveva trovato nella penisola iberica la tradizione, il temperamento razziale e l'amore fiero per la libertà in maggiore abbondanza che in ogni altra parte. Nel prologo di un libro dello statalista Fidel Miró, Santillán afferma con calcolata ambiguità che “l'anarchismo pretende la difesa, la dignità e la libertà dell'uomo in tutte le circostanze, in tutti i sistemi politici, di ieri, oggi e domani... [..] non è legato ad alcun tipo di costruzione politica, né propone un sistema di sostituzione”. Non si trattava quindi di un progetto omogeneo ma plurale, ibrido, sui cui fondamenti, finalità e strategie di attuazione, secondo il sospettoso Gaston Leval, che proponeva di dare una “base scientifica” all’anarchismo rafforzando il realismo “costruttivo” in politica ed economia, non c'era accordo “tra i teorici più capaci in questo campo” (“Precisioni sull'anarchismo”, 1937). Le speculazioni sui maggiori riferimenti dell'anarchismo ortodosso in Spagna nel 1936 sboccavano nei cliché del liberalismo politico, il che è comprensibile poiché ciò illustrò l'estrema adattabilità delle sue convinzioni ai principi e alle istituzioni repubblicane borghesi.

Rudolf Rocker vedeva nell'anarchismo la confluenza di due correnti intellettuali promosse dalla Rivoluzione francese: il socialismo e il liberalismo. Facciamo notare che una corrente era proletaria, l'altra borghese. Tuttavia, questa confluenza non costituisce un sistema sociale fisso, ma piuttosto “una chiara tendenza dello sviluppo dell’umanità che […] aspira a che tutte le forze sociali si sviluppino liberamente nella vita” (Anarco-sindacalismo - Teoria e pratica). Albert Libertad, direttore della rivista individualista “L'Anarchie”, non era d’accordo con ciò: “Per noi l'anarchico è colui che ha superato in sé le forme soggettive dell'autorità: religione, patria, famiglia, rispetto umano o qualunque cosa si voglia, e che non accetta nulla che non sia passato al vaglio della sua ragione per quanto glielo consente la sua conoscenza.” L’anarchia non potrebbe essere altro che “la filosofia del libero esame, che non impone nulla attraverso l’autorità e cerca di dimostrare tutto con il ragionamento e l’esperienza”.

Per Sebastian Faure, l’anarchia “come ideale sociale e come realizzazione effettiva, risponde a un modus vivendi in cui, libero da ogni soggezione giuridica e collettiva al servizio della forza pubblica, l’individuo non avrà altri obblighi di quelli imposti dalla sua coscienza”. Il suo compagno Janvion dichiarava che l'anarchismo era “la negazione assoluta dell'autorità dell'uomo sull'uomo”; Emma Goldman è andata oltre consacrando l’individuo come misura di tutte le cose: “L’anarchismo è l’unica filosofia che restituisce all’uomo la coscienza di se stesso, che sostiene che Dio, lo Stato e la Società non esistono, che sono promesse vuote e vane, e che possono essere perseguite solo attraverso la subordinazione dell’uomo”. Anche se in modo astratto, si alludeva a questioni come la produzione e il reparto, senza specificarlo. Nel suo piccolo libro “Anarchismo. Che cosa significa veramente” diceva: “L’anarchismo è la filosofia di un nuovo ordine sociale basato sulla libertà illimitata, la teoria secondo cui tutti i governi si basano sulla violenza e sono quindi fuorvianti e pericolosi, oltre che inutili […] Esso rappresenta un ordine sociale basato sulla libera aggregazione di individui con l'obiettivo di produrre ricchezza sociale, un ordine che garantisca il libero accesso alla terra e il pieno godimento dei bisogni della vita...” Soledad Gustavo affermò brevemente che l'anarchia era “l'espressione genuina della libertà totale” e sua figlia Federica Montseny, che non aveva dimenticato il suo pubblico operaio, sottolineava quanto aveva detto sua madre: “l’anarchismo è una dottrina fondata sulla libertà dell’uomo, sul patto o libero accordo di esso con i suoi simili, e sull’organizzazione di una società in cui non devono esistere classi, né interessi privati, né leggi coercitive di alcun tipo” (Federica Montseny, “Che cos’è l’anarchismo?”). Data la pratica federichista dell’idea, José Peirats si chiedeva nel suo piccolo dizionario dell’anarchismo se l’anarchia “è un’idea che può essere inclusa nella ricetta politica rivoluzionaria o è una massa vaporosa che si dissolve quando si cerca di apprenderla?

Temeva che non fosse altro che “un principio diluito”, una consegna eterea, e non, come diceva la sua amata Emma, “la conclusione raggiunta da moltitudini di uomini e donne determinati da osservazioni dettagliate delle tendenze della società moderna”, oppure, per dirla con Elisée Reclus, “il fine pratico, attivamente ricercato da moltitudini di uomini uniti e risolutamente cooperanti alla nascita di una società dove non ci siano padroni...”.

Nonostante l’innegabile ruolo cruciale delle masse anarchiche nelle rivoluzioni del secolo scorso, per quanto si cerchi nella letteratura anarchica classica, troveremmo pochi riferimenti alla rivoluzione come mezzo per trasformare la società. Per le implicazioni violente che necessariamente contiene, la rivoluzione contraddiceva i postulati pacifisti dell'ideologia, che, non dimentichiamolo, è spesso presentata come un ideale etico, non come un’imposizione; o come ribellione morale (Malatesta), soggettività liberata (Libertad), “una condotta all’interno di qualsiasi regime” (Alaiz)... Le vanterie rivoluzionarie erano tipiche degli uomini d'azione, il cui paradigma è Bakunin, più interessati a sconfiggere il lato oppressivo della reazione che a costruire un’utopia operando dalla scrivania secondo linee guida impeccabili. Questi concepivano l'azione fondamentalmente come lotta, combattimento, confronto, non come pedagogia ed esperimento. Tuttavia, l’epiteto “anarchico” è stato storicamente utilizzato per descrivere ciò che le fazioni conservatrici consideravano eccessi rivoluzionari. Durante la Rivoluzione inglese, appare per la prima volta usato in senso peggiorativo contro i “Livellatori” e chiunque alterasse l’ordine costituito e non riconoscesse il potere dominante, in particolare la gerarchia ecclesiastica (anarchico era sinonimo di radicale, ateo o anabattista). Durante la Rivoluzione francese, i repubblicani moderati chiamavano anarchici tutti quelli che volevano continuare il processo rivoluzionario invece di fermarlo, tanto i giacobini quanto gli enragés e gli hebertisti. Finalmente, il primo che si definì anarchico, in senso positivo, fu Pierre-Joseph Proudhon nella sua celebre opera “Che cos’è la proprietà?” dove chiamava anarchia “l’assenza di padroni e di sovrani, la forma di governo alla quale ci sentiamo vicini”. Fu anche il primo a rivendicare la classe operaia come forza sociale autonoma, opposta alla borghesia. In altre questioni fu molto meno innovatore. Poco dopo, Anselme Bellegarrigue nel suo Manifesto del 1850 affermò che “l’anarchia è ordine, lo Stato è guerra civile”. Nettlau ci ha fatto conoscere altri rivoluzionari attivi dalla metà del diciannovesimo secolo, sostenitori di un socialismo senza leader: Joseph Déjacque, Coeurderoy, Pisacane, Cesar De Paepe, Eugene Varlin, Ramón de la Sagra..., che potremmo ben considerare anarchici anche se non impiegavano questo termine. Non sbaglieremo, quindi, nel definire l’anarchismo come una corrente antiautoritaria del socialismo rivoluzionario, prodotto intellettuale dell’incipiente lotta di classe tipica della società capitalistica nelle prime fasi dell’industrializzazione. Nella corrispondenza di Proudhon troviamo l'enunciazione più completa dell'ideale: “L'anarchia è una forma di governo o costituzione dove la coscienza pubblica o privata, modellata dallo sviluppo della scienza e del diritto, è sufficiente da sola a mantenere l'ordine e garantire tutte le libertà; dove conseguentemente il principio di autorità, gli istituti di polizia, i mezzi di prevenzione o di repressione, la funzione pubblica, le tasse, ecc., sono ridotti alla loro minima espressione; dove a maggior ragione scompaiono le forme monarchiche e l’alto accentramento e vengono sostituite da istituzioni federative e consuetudini comunitarie”.

L'Associazione Internazionale dei Lavoratori fu una pietra miliare nell'organizzazione del proletariato, poiché gli diede obiettivi non solo economici, ma anche politici. Gli scontri tra le diverse fazioni che la componevano ne determinarono il declino. Durante il breve e intenso periodo dell'AIT, Bakunin seppe convertire il socialismo libertario sottosviluppato in una teoria politica coerente e rivoluzionaria. I venti spiravano a favore della rivoluzione sociale; Bakunin, in possesso di uno straordinario bagaglio di conoscenze storiche e filosofiche, non ha fatto altro che tradurlo in idee pratiche. La classe operaia era il soggetto della rivoluzione eppure l’ariete dell’antiautoritarismo, per cui aveva bisogno di tracciare linee strategiche diverse dal riformismo socialdemocratico caratteristico della tendenza marxista. Il concetto di anarchia riprendeva il significato originario di tumulto distruttore in una prospettiva creativa. Per Bakunin era “la manifestazione senza restrizioni della vita liberata dei popoli, da cui devono provenire la libertà, la giustizia, il nuovo ordine e la forza stessa della rivoluzione”. L’anarchia era quindi lo scoppio incontrollato delle passioni popolari che superavano gli ostacoli dell’ignoranza, della sottomissione e dello sfruttamento, e che gli agitatori presenti al suo interno avrebbero guidato fino alla distruzione di tutte le istituzioni esistenti. Al Congresso di Saint Imier (1872) si voterà una sua proposta: “La distruzione di ogni potere politico è il primo dovere del proletariato”. A differenza degli ideologi successivi, a Bakunin non interessava descrivere la nuova società nelle sue diverse sfaccettature, risultato per lui dell’ingresso di tutti i lavoratori nell’Internazionale. Si tratterebbe di “una società naturale che sosterrebbe e rafforzerebbe la vita di tutti” e consisterebbe in “una nuova organizzazione senza altra base che gli interessi, i bisogni e le inclinazioni naturali dei popoli, né altro principio che la libera federazione degli individui in comuni, dai comuni alle province, dalle province alle nazioni e infine da queste agli Stati Uniti dEuropa in primo luogo, e poi del mondo intero” (Programma dei Fratelli internazionali).

Le scissioni e le espulsioni nell'Internazionale, la sconfitta della Comune di Parigi, la repressione delle rivolte internazionaliste in Spagna, il fallimento dell'insurrezione contadina in Italia e le successive persecuzioni bloccarono la spinta del movimento operaio, ridotto a piccoli circoli dedicati principalmente alla diffusione delle idee. In questo movimento si distinsero Kropotkin, Reclus, Malatesta e i loro compagni. La morte di Bakunin significò la quasi scomparsa della sua eredità teorica. Nessuno dei suoi seguaci ha mai letto Hegel, Fitche, Feuerbach o Comte, e pochi si sono soffermati su Babeuf, Weitling o Proudhon. In quel periodo post-rivoluzionario si diffuse il termine “anarchico” e si creò un’ideologia assolutamente diversa, esterna alle classi oppresse, che dovevano essere istruite attraverso la propaganda dottrinale e un comportamento esemplare. Ciò non costituiva propriamente un sistema al contrario del marxismo. Inoltre, la sacralizzazione di Godwin, Tolstoj, Thoreau e Stirner – autori per nulla partigiani delle rivoluzioni – aggiunse elementi conflittuali alla riflessione ideologica. Si svilupparono correnti subalterne spesso contrastanti e incompatibili: le quali anteponevano la società futura al presente, il comunismo (a ciascuno secondo i suoi bisogni) al collettivismo (a ciascuno secondo il suo lavoro), il comunalismo all'individualismo, l'organizzazione alla spontaneità, la riflessione all'azione, il pacifismo alla violenza, la propaganda all'esproprio o all'attentato, la legalità alla clandestinità, il partito politico all'associazione economica, ecc. La confusione era tale che un intellettuale vicino alle idee anarchiche, Octave Mirbeau, finì per constatare che “gli anarchici hanno le spalle larghe; come la carta, includono tutto.” Per altri, indifferenti sia alla sostanza sia all’azione, tutto era anarchismo. La cosa principale era la finalità; i mezzi, spesso in contraddizione con essa, erano secondari. Tárrida del Mármol inventò “l’anarchismo senza aggettivi”, con il quale la vera espressione del movimento proletario rivoluzionario, riflessa nell’opera di Bakunin e dell’Internazionale antiautoritaria, sarebbe stata sacrificata sull’altare delle interpretazioni dottrinali, nebulose e settarie della realtà. L’anarchismo come ideale di società emancipata e allo stesso tempo metodo d’azione, semplice variante del socialismo rivoluzionario, non sembrava essere sufficiente. Gustav Landauer volle tornare alla base scrivendo: “L’anarchismo è l’obiettivo che perseguiamo, l’assenza di dominio e di Stato; la libertà dell'individuo. Il socialismo è il mezzo attraverso il quale vogliamo raggiungere e garantire questa libertà”. Il principe Kropotkin propose invece di organizzare il corpus teorico anarchico, di trovare una base filosofica diversa da quella di Bakunin, di dargli radici biologiche, di porre come obiettivo finale il comunismo libertario e di diffondere un ottimismo scientista che mise radici più di ogni altra cosa nelle masse oppresse. Fu l'autore più letto e più influente nella storia dell'anarchismo.

Kropotkin rimodellò l'anarchismo come una filosofia materialista, scientista, evoluzionista, atea e progressista, facendolo culminare con un'etica che non riuscì a concretare. I filosofi inglesi e le scoperte scientifiche del diciottesimo secolo, e naturalmente Darwin, gli fornirono il materiale su cui costruì il suo edificio ideologico, dove il progresso scientifico acquisì il rango di forza determinante al posto della lotta di classe. Nel suo opuscolo “Scienza moderna e anarchismo” afferma: “L’anarchismo rappresenta un tentativo di applicare le generalizzazioni ottenute con il metodo deduttivo-induttivo delle scienze naturali all’apprezzamento della natura delle istituzioni umane, nonché alla previsione sulla base di queste valutazioni, dei probabili aspetti del futuro cammino dell’umanità verso la libertà, l’uguaglianza e la fraternità”. Altrove insiste sulla stessa cosa: “L’anarchismo è una concezione dell’universo basata sull’interpretazione meccanica dei fenomeni che abbracciano tutta la natura, senza escludere la vita sociale”. Nel suo articolo per l’Enciclopedia Britannica si attenne ai classici e definì l’anarchismo come “un principio o teoria di vita e la condotta concepita da una società senza governo, in cui l’armonia si ottiene non con la sottomissione alla legge, né con l’obbedienza all’autorità, ma con liberi accordi stabiliti tra i diversi gruppi, territoriali e professionali, liberamente attuati per la produzione e il consumo, e per la soddisfazione dell'infinita varietà di bisogni e aspirazioni di un essere civilizzato”. Carlo Cafiero, compagno di Bakunin, aveva una concezione dell'anarchismo più dinamica: “L'anarchia, oggi, è una forza d'attacco; Sì, è la guerra all’autorità, al potere dello Stato. Nella società futura, l’anarchia sarà la garanzia, l’ostacolo al ritorno di ogni autorità e di ogni ordine, di ogni Stato”. Anarchia e comunismo avanzavano uniti, come l’esigenza di libertà e la richiesta di uguaglianza (“Anarchia e comunismo”, 1880). Nonostante ciò, la distinzione metafisica tra comunismo libertario e l’anarchia propriamente detta di alcuni dottrinari impose nuovi chiarimenti. Per Carlos Malato, un discepolo, l'anarchia era il complemento del comunismo, “uno stato in cui la gerarchia governativa sia sostituita dalla libera associazione degli individui e dei loro raggruppamenti; la legge imperativa per tutti e di durata illimitata, dal contratto volontario; l'egemonia della fortuna e del rango, sostituita dall'universalizzazione del benessere e dall'equivalenza delle funzioni, e infine la sostituzione della morale attuale, dalla ferocia ipocrita, con una moralità superiore che scaturirà naturalmente dal nuovo ordine delle cose" ("Filosofia dellAnarchismo.”) Da notare l’assenza di qualsiasi indicazione sulla via per raggiungere questo paradiso della libertà, cosicché l’azione quotidiana, non solo la prospettiva rivoluzionaria, erano ignorate. Agitatori come Pelloutier e Pouget si resero perfettamente conto del pericolo della mancanza di definizione metodologica della lotta quotidiana e invitarono gli anarchici a entrare nei sindacati.

Malatesta scelse una via di mezzo che, oltre allo sciopero, prevedesse l'insurrezione e, oltre al sindacato, tenesse conto di altri fattori di lotta. Nelle pagine de “La Protesta” (Buenos Aires) si riferì alla società del futuro come “una società organizzata razionalmente in cui nessuno ha i mezzi per sottomettere e opprimere gli altri”. E definì l’anarchismo come “il metodo per raggiungere l’anarchia attraverso la libertà, senza governo, senza che nessuno – nemmeno dotato di buone intenzioni – imponesse la propria volontà agli altri”. Derivava ciò da un unico principio: l'amore per l'umanità. Secondo la concezione umanista malatestiana si era anarchici per sentimento più che per convinzione ragionata, quindi filosofia e scienza vi avevano poco a che vedere. E neppure lo sviluppo storico o le condizioni economiche. Era una questione di volontà. Chiunque potrebbe essere un anarchico indipendentemente dalle proprie convinzioni filosofiche o conoscenze scientifiche; Bastava volerlo essere. Si dichiarava lui stesso anarco-comunista. Riguardo all'anarchia, la descrisse nell'opuscolo omonimo come “lo stato di un popolo governato senza autorità costituitauna società di uomini liberi ed eguali fondata sull'armonia degli interessi e sul concorso volontario di tutti, per soddisfare i bisogni sociali”. Nel corso della sua vita Malatesta dovette parlare molto dell'ideale, dell'anarchia, “una società fondata sul libero accordo, dove ogni individuo potesse raggiungere il massimo sviluppo possibile”, che non distingueva dal comunismo libertario: “L’organizzazione della vita sociale attraverso libere associazioni e federazioni di produttori e consumatori”. Nei suoi ultimi scritti ha confermato ciò che aveva affermato durante tutta la vita: “L’anarchia è un modo di convivenza sociale in cui gli esseri umani vivono come fratelli, senza che nessuno opprima o sfrutti gli altri e tutti abbiano a disposizione le risorse che la civiltà dellepoca consente per raggiungere il più alto livello di sviluppo morale e materiale”. Contrariamente alla maggior parte dei propagatori dell'ideale, Malatesta insisteva sul fatto che la via per raggiungere l'anarchia passava attraverso l'organizzazione degli anarchici attorno a un programma, ricorrendo all'arsenale rivoluzionario per abolire lo Stato e ogni organizzazione politica basata sull'autorità. I mezzi dovevano essere in linea con i fini. Se questi erano rivoluzionari, anche quelli dovevano esserlo.

La militanza anarchica nei sindacati ha spostato l’azione collettiva verso la sfera dell’economia, allontanandosi ulteriormente dalla politica. La semina dell'ideale tra gli sfruttati ebbe un figlio spirituale: il sindacalismo rivoluzionario. La Carta di Amiens del 1906, il suo atto di nascita, sanciva la funzione primaria del sindacalismo, non solo nella lotta per il miglioramento delle condizioni lavorative, ma in preparazione “all’emancipazione integrale, che può essere raggiunta solo attraverso l’esproprio capitalista; il sindacalismo propone lo sciopero generale come mezzo di azione e ritiene che il sindacato, oggi gruppo di resistenza, sarà in futuro gruppo di produzione e di distribuzione, la base dell'organizzazione sociale”. Per non dare adito a equivoci, uno dei principali teorici di questo tipo di sindacalismo, contrario al sindacalismo politico e riformista, Pierre Besnard, si riferiva al sindacato come “la forma organica che l’anarchia acquisisce per lottare contro il capitalismo”. In Spagna, paese in cui il movimento operaio è stato più strettamente legato all’anarchismo, Salvador Seguí ha precisato che il sindacato era “l’arma, lo strumento dell’anarchismo per mettere in pratica gli aspetti più immediati della sua dottrina”. Pertanto, era più coerente parlare di anarcosindacalismo, secondo Rocker, un altro teorico e fondatore dell’AIT nel 1923, come “il risultato della fusione di anarchismo e azione sindacale rivoluzionaria”. Dopo l’adesione di Kropotkin e di altri quindici al bando alleato nella prima guerra mondiale, gli anarchici non ebbero altra scelta se non quella di esacerbare il loro antimilitarismo, e la confederazione sindacale era l’organizzazione di massa più adatta per far uscire le ideologie anarchiche dal mondo metafisico e guerriero. Obiettivi economici concreti come l’abolizione dei monopoli, l’espropriazione delle terre e dei mezzi di produzione, il lavoro collettivo, la distribuzione socialista, la soppressione del salario e del denaro, ecc., o il ricordo dei martiri di Chicago hanno progressivamente soppiantato la retorica liberale e i luoghi comuni dell’individualismo nella propaganda “dellidea”. Sfortunatamente, altre questioni come la Comune di Parigi, l’influenza dei Magonisti sui contadini messicani, il Consiglio Operaio come organizzazione di classe nella rivoluzione tedesca, la repressione dell’anarchismo in Russia – in particolare la sconfitta del movimento insurrezionale machnovista – o le scissioni bolscevizzanti nel movimento operaio anarchico dell'America Latina, trovarono pochissimo spazio nella stampa libertaria e sindacale. L’anarchismo riuscì a sopravvivere come movimento grazie al suo legame con i lavoratori, ma, tranne che in Spagna, non raggiunse la forza sufficiente per resistere alla pressione del fascismo.

Negli anni venti del secolo scorso ci fu una guerra segreta tra sindacalisti anarchici, comunisti e individualisti che bloccava ogni tentativo di organizzazione specifica. Il rimedio proposto dagli esuli machnovisti, la “piattaforma Archinov”, fu peggiore del male. Un’organizzazione simile a un partito politico suscitò molti dubbi sulla possibilità di farsi strada nei gruppi anarchici. Sébastien Faure propose un'organizzazione “di sintesi”, in cui le cose rimanevano com'erano. Si trattava piuttosto di un patto di non aggressione, di un addolcimento dell’atmosfera rarefatta in stile anarchismo “senza aggettivi”. La sua definizione di anarchismo fu all'altezza della sua proposta: è l'espressione più alta e più pura della reazione dell'individuo contro l'oppressione politica, economica e morale che tutte le istituzioni autoritarie gli impongono, e d'altro canto, la più ferma e precisa affermazione del diritto di ogni individuo al suo sviluppo integrale attraverso la soddisfazione dei bisogni in tutti gli ambiti”. (La sintesi anarchica.) Tuttavia le discussioni più o meno banali non abbandonarono mai l'ambiente libertario. Le polemiche sulla legalità e sul pacifismo erano costanti. Anche i conflitti bizantini tra i puristi del comunismo e i “liberali esasperati” (Georges Darien dixit) non cessarono di verificarsi. L’ideologia tendeva le sue trappole. Spesso si formavano cappelle, s’insisteva su dettagli secondari e aspetti periferici, si apostatava l'io in riunioni che duravano fino alla noia, si elevavano principi con intenti paralizzanti, si boicottava l'organizzazione come oppressiva, ogni accordo vincolante era descritto come autoritario e ogni riflessione storica come inutile.... Troppa confusione mentale, troppo narcisismo, troppi dogmi dottrinali e formule vuote, che negli anni Trenta portarono l’anarchismo al naufragio. In realtà questo tipo di anarchismo detestava l’azione e si accontentava di simulacri. Ci volle Camillo Berneri per denunciare (in L'Adunata dei Refrattari) quello che chiamava “cretinismo anarchico” e dedicarsi a trattare criticamente la realtà sociale al fine di rendere intelligibile l'epoca – anarchismo compreso –, precondizione per tentare di cambiarla. Logicamente, si occupò poco della posterità (“l’anarchia è religione”, arrivò a dire) e più di dare risposte reali a problemi concreti, che si scontrassero o no con l’ortodossia. Ha parlato provocatoriamente di uno “Stato libertario” mostrando la vera anarchia come una struttura amministrativa federale totalmente decentralizzata. Le sue opere trattavano sempre di problemi precisi o di questioni teoriche urgenti, mai o quasi mai di principi o finalità. Purtroppo non ce n’erano molti come lui. L'assassinio di Berneri nel maggio 1937 privò l'anarchismo della sua mente più lucida.

La guerra civile spagnola fu allo stesso tempo il culmine dell’anarchismo (milizie, comitati antifascisti, socializzazione) e l’abisso in cui precipitò (l’idea che le conquiste rivoluzionarie si difendessero meglio andando a ritroso). Molte vacche sacre rimasero in silenzio, mostrandosi comprensive nei confronti del “circostanzialismo” della burocrazia dirigente della CNT-FAI. La vera spaccatura dell’anarchismo avvenne tra i sostenitori incondizionati della politica collaborazionista della direzione dei comitati burocratici e le critiche solidali con i libertari spagnoli. Dopo la vittoria di Franco, l'ideologia non poteva tornare sull'arena iberica come se nulla fosse successo e senza che i suoi adepti facessero il punto sulla rivoluzione fallita e sul mostruoso anarchismo di Stato che diede origine alle capitolazioni del 1936-37. Non lo fecero e le conseguenze si pagano ancora oggi. Nonostante i rimpianti, l’esaurimento storico dell’anarchismo, così come poteva essere concepito negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, non ha significato la morte dell’ideale, ma piuttosto l’impossibilità della sua riformulazione passatista. Ad esempio, la fiducia di Kropotkin nella scienza e la fede nel progresso morale sono insostenibili. Il sindacalismo all’antica è finito fuori gioco. Le visioni futuristiche dell’anarchismo di altri tempi sembrano oggi estremamente puerili. Mentre il tradizionale movimento operaio si dissolve e il capitale penetra in ogni angolo della vita, l’anarchismo riemerge, meno come ideologia postmoderna che come uno stato danimo diffuso, rivolgendosi al femminismo, al mondo del lavoro, alla ruralità, all’antisviluppo, alla cultura popolare e allinsegnamento alternativo. Su questi terreni dovrà coordinarsi, trovare nuove modalità pratiche di lotta anticapitalista e mettere a punto le armi teoriche per affrontare la reazione identitaria, con le sue idee nefaste sul potere e la verità, sul genere e il sesso, sulla religione e la razza, sulla lingua e il cibo; con la sua essenzializzazione delle differenze, il suo antiuniversalismo, il suo relativismo, i suoi nemici fittizi, la sua tecnofilia... A meno di preferire di sguazzare nella spazzatura offerta da credenze irrazionali e settarie che, per colmo di confusionismo, si definiscono anarchiche sebbene non lo siano.

 

Miquel Amorós 25 agosto 2024








Qu'est-ce que l'anarchisme ?

J'ai été heureux de vous traduire de l'espagnol cette analyse vivifiante pour l'intelligence d'une époque en voie de disparition à cause de l'artificialisation programmée. SGS

Est-ce une doctrine, une idéologie, une méthode, une branche du socialisme, une ligne de conduite, une théorie politique ? La réponse, en principe, est simple : l’anarchisme est ce que pensent et font les anarchistes et, en général, ceux qui se définissent comme ennemis de toute autorité et imposition. Ceux qui, de différentes manières, pour la plupart véritablement antagonistes, recherchent « l’anarchie », c’est-à-dire une société sans gouvernement, un mode de coexistence sociale étranger aux dispositions autoritaires. L'anarchisme ne serait rien d'autre que le moyen de parvenir à cette anarchie, que le géographe Reclus définissait comme « la plus haute expression de l'ordre ». En quoi consiste-t-il ? Il existe des stratégies multiples et contradictoires pour atteindre un idéal basé sur une négation dont il existe différentes versions, c'est pourquoi on pourrait parler plus proprement d'anarchismes, comme le fait, par exemple, Tomás Ibáñez. Si l'on prend également en compte la situation historico-sociale contemporaine, où l'anarchisme n'est plus grand chose – juste un signe semi-académique d'identité juvénile qui n'a que très peu à voir avec des époques passées plus glorieuses et qui se maintient à l'abri de toute critique sérieuse et objective – les définitions pourraient s’étendre à l’infini. L’anarchisme serait donc une sorte de sac rempli de formules disparates étiquetées comme anarchistes. Les portes restent ouvertes à toute dérive, qu’elle soit réformiste, individualiste, catholique, communiste, nationaliste, contemplative, mystique, complotiste, avant-gardiste, etc. Sur l’étourdissement bon enfant des médias libertaires dû à une telle diversité, on pourrait conclure avec l’auteur ou les auteurs du pamphlet « De la misère en milieu étudiant » (Internationale Situationniste, 1966) à propos des membres de la Fédération Anarchiste : « Ces gens-là tolèrent effectivement tout, puisqu’ils se tolèrent les uns les autres ».

Les perspectives ne sont pas roses, car par les temps qui courent, la compréhension des phénomènes sociaux et des idéologies qui les accompagnent dépend beaucoup d’une réflexion adéquate, c’est-à-dire de la perspective apportée par la connaissance historique. Aujourd’hui encore, l’anarchisme ne manque pas d’intellectuels honnêtes, compétents et aptes à la tache. Cependant, la caractéristique la plus courante des anarchismes postmodernes, qui naviguent dans la post-vérité et dénient la cohérence, c’est le rejet de ladite connaissance. De plus, selon tel type d’anarchisme, il faut intervenir sur le passé à partir du présent, comme dépositaire de ressources esthétiques, en accord avec les normes ludiques, la grammaire transgenre et les habitudes gastronomiques imposées par la mode. L’engagement est d’ailleurs éphémère. Enfin, jusqu’à maintenant, à l’exception obstinée de quelques noyaux syndicalistes, l’anarchisme est réduit à un phénomène de foire du livre. Nous, qui ramons dans le sens inverse, tenterons d'expliquer cette constante aspiration à une organisation sociale sans gouvernement, donc sans Etat, sans autorité séparée, en nous référant à ses origines là où on les retrouve, dans les secteurs radicaux des révolutions populaires du XIXème siècle.

En principe, il nous faudra vaincre la manie de certains idéologues anarchistes, à commencer par Kropotkine, Reclus, Rocker et l'historien Nettlau, de découvrir des ancêtres à chaque moment de l'histoire et en tout lieu. De ce point de vue, l’anarchisme ne serait pas une idée nouvelle, mais quelque chose d’aussi vieux que l’humanité, pérenne, éternel, inscrit dans l’être biologique de l’espèce humaine. Ainsi Diogène le cynique et Zénon le stoïque, Lao Tsé, Épicure, Rabelais, Montaigne ou Tolstoï seraient des anarchistes. Des traces libertaires se retrouveraient dans les communes médiévales, dans les Diggers anglais, dans le libéralisme philosophique de Spencer et Locke, dans l'œuvre politique de Stuart Mill et William Godwin, dans toute altération de l'ordre établi... Nous n'avons rien à objecter à cela, mais nous dénonçons la tentative latente dans cette approche antihistorique de fabriquer une idéologie interclassiste en niant au mouvement ouvrier son rôle décisif dans la genèse des idées anarchistes. Cela a eu des effets désastreux sur la pratique antiautoritaire. Les promoteurs et défenseurs de cette thèse cherchaient à transcender la réalité sociale non à travers des interventions pratiques dans la sphère politico-sociale, mais à travers la propagande, à travers un effort intense d'éducation des masses susceptible de provoquer une évolution progressive de la mentalité populaire jusqu’à des niveaux élevés de conscience. Pour les propagandistes pédagogiques, surtout les plus immobiles et arrivistes, comme Abad de Santillán, l’anarchisme était simplement « un désir humaniste », le nouveau nom pour « une attitude et une conception humaniste de base », une doctrine ni spécifique ni concrète, un vague idéal éthique ayant toujours existé, présent dans n’importe quelle classe sociale et qui – ajouta Federica Montseny – avait trouvé dans la péninsule ibérique la tradition, le tempérament racial et le fier amour de la liberté plus fortement marqués que partout ailleurs. Dans le prologue d'un livre de l'étatiste Fidel Miró, Santillán affirme avec une ambiguïté calculée que « l'anarchisme exige la défense, la dignité et la liberté de l'homme en toutes circonstances, dans tous les systèmes politiques, d'hier, d'aujourd'hui et de demain… [..] Il n’est lié à aucun type de construction politique et ne propose pas non plus un système de remplacement ». Il ne s'agissait donc pas d'un projet homogène mais pluriel, hybride, dont les fondements, les objectifs et les stratégies de mise en œuvre – si on doit en croire au suspicieux Gaston Leval - qui proposait de donner à l'anarchisme une « base scientifique » en renforçant le réalisme « constructif » en politique et en économie – il n’existait aucun accord « parmi les théoriciens les plus compétents dans ce domaine » (« Précisions sur l'anarchisme », 1937). Les spéculations sur les références majeures de l’anarchisme orthodoxe en Espagne en 1936 ont abouti aux clichés du libéralisme politique, lequel se comprend comme une illustration de l’extrême adaptabilité de ses convictions aux principes et institutions républicains bourgeois.

Rudolf Rocker voyait dans l'anarchisme la confluence de deux courants intellectuels promus par la Révolution française : le socialisme et le libéralisme. Précisons que l'un était prolétarien, l'autre bourgeois. Néanmoins, la dite confluence ne constituait pas un système social fixe, mais plutôt « une tendance claire de l’évolution de l’humanité qui […] aspire à ce que toutes les forces sociales se développent librement dans la vie » (Anarcho-syndicalisme – Théorie et pratique). Albert Libertad, directeur de la revue individualiste « L'Anarchie », n'était pas d'accord avec cela : « Pour nous, l'anarchiste est celui qui a dépassé en lui les formes subjectives de l'autorité : religion, patrie, famille, respect humain ou tout ce qu'on veut, et qui n'accepte rien qui ne soit passé par le tamis de sa raison autant que ses connaissances le permettent ». L’anarchie ne saurait être autre chose que « la philosophie du libre examen, qui n’impose rien par l’autorité et cherche à tout prouver par le raisonnement et l’expérience ».

Pour Sébastien Faure, l'anarchie « comme idéal social et comme réalisation effective, répond à un modus vivendi dans lequel, affranchi de tout assujettissement juridique et collectif au service de la force publique, l'individu n'aura d'autres obligations que celles imposées par sa conscience ». Son compagnon Janvion déclarait que l'anarchisme était « la négation absolue de l'autorité de l'homme sur l'homme » ; Emma Goldman est allée plus loin en consacrant l'individu comme la mesure de toutes choses : « L'anarchisme est la seule philosophie qui redonne à l'homme la conscience de lui-même, qui soutient que Dieu, l'État et la société n'existent pas, qu'ils sont des promesses vides et vaines, puisqu’elles ne peuvent être obtenues que par la subordination de l’homme ». Quoique de manière abstraite, des questions telles que la production et la répartition ont été évoquées, sans le préciser. Dans son petit livre « L’anarchisme. Ce qu’il signifie réellement » elle disait : « L’anarchisme est la philosophie d’un nouvel ordre social basé sur la liberté sans restrictions, la théorie selon laquelle tous les gouvernements sont basés sur la violence et sont donc douteux et dangereux, autant que non nécessaires […] Il représente un ordre social fondé sur le libre regroupement d’individus dans le but de produire de la richesse sociale, un ordre qui garantit le libre accès à la terre et la pleine jouissance des besoins de la vie... ». Soledad Gustavo a brièvement déclaré que l'anarchie était « l'expression véritable de la liberté totale » et sa fille Federica Montseny, qui n'oubliait pas son public ouvrier, a souligné ce que disait sa mère : « l'anarchisme est une doctrine fondée sur la liberté de l'homme, sur son pacte ou libre accord avec ses pairs et sur l'organisation d’une société dans laquelle il ne doit y avoir ni classes, ni intérêts privés, ni lois coercitives d’aucune sorte » (Federica Montseny, « Qu’est-ce que l’anarchisme ? »). Vue la pratique fédériquiste de l’idée, José Peirats se demandait dans son petit dictionnaire de l’anarchisme si l’anarchie « est une idée qui peut s’inscrire dans le livre des recettes politiques révolutionnaires ou est-ce une masse vaporeuse qui se dissout lorsqu’on tente de l’appréhender ? ». Il craignait qu'il ne s'agisse que d'un « principe dilué », d'une consigne éthérée, et non, comme le disait sa bien-aimée Emma, « de la conclusion à laquelle sont parvenus des multitudes d'hommes et de femmes déterminés par l’observation détaillée des tendances de la société moderne », ou, selon les paroles d’Elisée Reclus, « le but pratique, activement recherché par des multitudes d'hommes unis et résolument coopérant à la naissance d'une société où il n'y a pas de maîtres... »

Malgré l’indéniable rôle crucial des masses anarchistes dans les révolutions du siècle dernier, pour autant qu’on recherche dans la littérature anarchiste classique, nous trouverons peu de références à la révolution comme moyen de transformer la société. En raison des implications violentes qu'elle contient nécessairement, la révolution contredisait les postulats pacifistes de l'idéologie qui, ne l'oublions pas, est souvent présentée comme un idéal éthique et non autoritaire ; ou comme une rébellion morale (Malatesta), une subjectivité libérée (Libertad), « une conduite au sein de tout régime » (Alaiz)... Les rodomontades révolutionnaires étaient le propre des hommes d'action, dont le paradigme est Bakounine, plus intéressés à vaincre le parti oppressif de la réaction qu’à construire une utopie en opérant derrière un bureau selon des directives impeccables. Ceux-ci concevaient l’action fondamentalement comme une lutte, un combat, une confrontation, et non comme une pédagogie et une expérimentation. Néanmoins, l’épithète « anarchiste » a toujours été utilisé pour décrire ce que les factions conservatrices considéraient comme des excès révolutionnaires. Lors de la Révolution anglaise, il apparaît pour la première fois utilisé dans un sens péjoratif contre les « Niveleurs » et quiconque modifierait l'ordre établi et ne reconnaîtrait pas le pouvoir dominant, notamment la hiérarchie ecclésiastique (anarchiste était synonyme de radical, athée ou anabaptiste). Pendant la Révolution française, les républicains modérés qualifiaient d'anarchistes tous ceux qui voulaient poursuivre le processus révolutionnaire plutôt que de l'arrêter, aussi bien les jacobins que les enragés et les hébertistes. Enfin, le premier à se définir comme anarchiste, dans un sens positif, fut Pierre-Joseph Proudhon dans son célèbre ouvrage « Qu'est-ce que la propriété ? » où il appela anarchie « l'absence de maîtres et de souverains, forme de gouvernement vers laquelle nous nous approchons ». Il fut également le premier à revendiquer la classe ouvrière comme une force sociale autonome, opposée à la bourgeoisie. Dans d’autres domaines, il fut beaucoup moins innovant. Peu de temps après, Anselme Bellegarrigue affirma dans son Manifeste de 1850 que « l’anarchie c’est l’ordre, l’État c’est la guerre civile ». Nettlau nous a fait connaître d'autres révolutionnaires actifs depuis le milieu du XIXe siècle, partisans d'un socialisme sans chefs : Joseph Déjacque, Coeurderoy, Pisacane, César De Paepe, Eugène Varlin, Ramón de la Sagra..., que l'on pourrait bien considérer comme anarchistes même s’ils n'ont pas utilisé ce terme. Nous n’aurons donc pas tort en définissant l’anarchisme comme un courant antiautoritaire du socialisme révolutionnaire, produit intellectuel de la lutte de classes naissante, typique de la société capitaliste dans les premières phases de l’industrialisation. Dans la correspondance de Proudhon on trouve l'énoncé le plus complet de l'idéal : « L'anarchie est une forme de gouvernement ou de constitution où la conscience publique ou privée, façonnée par le développement de la science et du droit, suffit à elle seule à maintenir l'ordre et à garantir toutes les libertés ; où par conséquent le principe d'autorité, les institutions policières, les moyens de prévention ou de répression, la fonction publique, les impôts, etc., sont réduits à leur expression minimale ; où, à plus forte raison, les formes monarchiques et la forte centralisation disparaissent et sont remplacées par des institutions fédératives et des coutumes communautaires ».

L'Association Internationale des Travailleurs constitua une étape importante dans l'organisation du prolétariat, car elle lui a donné des objectifs non seulement économiques, mais aussi politiques. Les affrontements entre les différentes factions qui la composaient provoquèrent son déclin. Durant la période courte et intense de l'AIT, Bakounine sut convertir le socialisme libertaire sous-développé en une théorie politique cohérente et révolutionnaire. Les vents soufflaient en faveur de la révolution sociale ; Bakounine, en possession d’un extraordinaire bagage de connaissances historiques et philosophiques, ne fit que les traduire en idées pratiques. La classe ouvrière était le sujet de la révolution, et donc le bélier de l’anti-autoritarisme, c’est pourquoi il lui fallait tracer des lignes stratégiques différenciées du réformisme social-démocrate caractéristique de la tendance marxiste. Le concept d’anarchie reprenait le sens originel d’émeute destructrice dans une perspective créative. Pour Bakounine, c'était « la manifestation sans restriction de la vie libérée des peuples, d’où doivent provenir la liberté, la justice, l'ordre nouveau et la force même de la révolution ». Ainsi donc, l'anarchie était l'éclatement incontrôlé des passions populaires surmontant les obstacles de l'ignorance, de la soumission et de l'exploitation, et que les agitateurs présents en son sein allaient guider jusqu’à la destruction de toutes les institutions existantes. Au Congrès de Saint Imier (1872) sera votée une de ses propositions : « La destruction de tout pouvoir politique est le premier devoir du prolétariat ». Contrairement aux idéologues ultérieurs, Bakounine ne s’intéressait pas à décrire la nouvelle société dans ses diverses facettes, résultat pour lui de l'entrée de tous les travailleurs dans l’Internationale. Il serait question d’une « société naturelle soutenant et renforçant la vie de tous » et qui consisterait en une « nouvelle organisation sans autre base que les intérêts, les besoins et les inclinations naturelles des peuples, ni aucun autre principe que la libre fédération des individus en communes, des communes en provinces, des provinces en nations et enfin de celles-ci aux États-Unis d'Europe d'abord, et plus tard du monde entier » (Programme des Frères Internationaux).

Les scissions et les expulsions dans l'Internationale, la défaite de la Commune de Paris, la répression des révoltes internationalistes en Espagne, l'échec de l'insurrection paysanne en Italie et les persécutions qui ont suivi ont bloqué l'avancée du mouvement ouvrier, réduit à de petits cercles dédiés principalement à la diffusion des idées. Dans ce mouvement se sont distingués Kropotkine, Reclus, Malatesta et leurs compagnons. La mort de Bakounine signifia la quasi-disparition de son héritage théorique. Aucun de ses disciples ne lut jamais Hegel, Fitche, Feuerbach ou Comte, et rares sont ceux qui se focalisèrent sur Babeuf, Weitling ou Proudhon. Dans cette période postrévolutionnaire, le terme « anarchiste » se généralisa et apparut une idéologie totalement différente, extérieure aux classes opprimées, qu’on devait instruire par une propagande doctrinale et un comportement exemplaire. Cela ne constituait pas vraiment un système au contraire du marxisme. Par ailleurs, la sacralisation de Godwin, Tolstoï, Thoreau et Stirner – auteurs pas du tout partisans des révolutions –ajouta des éléments conflictuels à la réflexion idéologique. Des courants subalternes souvent contradictoires et incompatibles se sont développés : des idées plaçant la société future avant le présent, le communisme (à chacun selon ses besoins) au collectivisme (à chacun selon son travail), le communalisme à l'individualisme, l'organisation à la spontanéité, la réflexion à l'action, le pacifisme à la violence, la propagande à l'expropriation ou à l'attentat, la légalité à la clandestinité, le parti politique à l'association économique, etc. La confusion était telle qu'un intellectuel proche des idées anarchistes, Octave Mirbeau, finit par observer que « les anarchistes ont de larges épaules ; comme le papier, ils incluent tout ». Pour d’autres, indifférents au fond comme à l’action, tout était anarchisme. L’essentiel était la finalité ; les moyens, souvent en contradiction avec elle, étaient secondaires. Tárrida del Mármol a inventé « l'anarchisme sans adjectifs », avec lequel la véritable expression du mouvement prolétarien révolutionnaire, reflétée dans l'œuvre de Bakounine et de l'Internationale antiautoritaire, serait sacrifiée sur l'autel des interprétations doctrinales, nébuleuses et sectaires de la réalité. L’anarchisme comme idéal d’une société émancipée et en même temps comme méthode d’action, simple variante du socialisme révolutionnaire, ne semblait pas suffisant. Gustav Landauer a voulu revenir à la base en écrivant : « L'anarchisme est le but que nous poursuivons, l'absence de domination et d'État ; la liberté de l'individu. Le socialisme est le moyen par lequel nous voulons réaliser et garantir cette liberté ». Le prince Kropotkine proposa plutôt d'organiser le corpus théorique anarchiste, de trouver une base philosophique différente de celle de Bakounine, de lui donner des racines biologiques, de fixer comme objectif final le communisme libertaire et de diffuser un optimisme scientiste qui s'enracina plus que toute autre chose parmi les masses opprimées. Il fut l’auteur le plus lu et le plus influent de l’histoire de l’anarchisme.

Kropotkine a remodelé l’anarchisme en une philosophie matérialiste, scientiste, évolutionniste, athée et progressiste, le faisant aboutir à une éthique qu’il n’a pas réussi à finaliser. Les philosophes anglais et les découvertes scientifiques du XVIIIe siècle, et bien sûr Darwin, lui fournirent le matériau sur lequel il construisit son édifice idéologique, où le progrès scientifique acquit le rang de force déterminante en lieu et place de la lutte des classes. Dans sa brochure « Science moderne et anarchisme » il déclare : « L’anarchisme représente une tentative d’appliquer les généralisations obtenues par la méthode déductive-inductive des sciences naturelles à l’appréciation de la nature des institutions humaines, ainsi qu’à la prévision, sur la base de ces évaluations, des aspects probables du futur chemin de l'humanité vers la liberté, l'égalité et la fraternité ». Ailleurs il insiste de même : « L'anarchisme est une conception de l'univers basée sur l'interprétation mécanique de phénomènes qui embrassent toute la nature, sans exclure la vie en société ». Dans son article pour l'Encyclopédie Britannique, il s'en est tenu aux classiques et a défini l'anarchisme comme « un principe ou une théorie de la vie et la conduite que conçoit une société sans gouvernement, dans laquelle l'harmonie n'est obtenue ni par la soumission à la loi, ni par l'obéissance à l'autorité, mais par des accords libres établis entre les différents groupes, territoriaux et professionnels, librement mis en œuvre pour la production et la consommation, et pour la satisfaction de l'infinie variété des besoins et des aspirations d'un être civilisé ». Carlo Cafiero, compagnon de Bakounine, avait une conception plus dynamique de l'anarchisme : « L'anarchie, aujourd'hui, est une force d'attaque ; Oui, c’est la guerre contre l’autorité, contre le pouvoir de l’État. Dans la société future, l’anarchie sera la garantie, l’obstacle au retour de toute autorité et de tout ordre, de tout État ». L'anarchie et le communisme avançaient unis, comme l’exigence de liberté et la demande d'égalité ("Anarchie et communisme", 1880). Malgré cela, la distinction métaphysique entre le communisme libertaire et l’anarchie proprement dite de certains doctrinaires imposa de nouvelles précisions. Pour le disciple Carlos Malato l'anarchie était le complément du communisme, « un État dans lequel la hiérarchie gouvernementale soit remplacée par la libre association des individus et de leurs groupements ; la loi contraignante pour tous et d’une durée illimitée, par le contrat volontaire ; l'hégémonie de la fortune et du rang, par l'universalisation du bien-être et l'équivalence des fonctions, et enfin le remplacement de la morale actuelle, d'une férocité hypocrite, par une morale supérieure qui naîtra naturellement du nouvel ordre des choses » (« Philosophie de l'anarchisme »). Notons l'absence de toute indication sur la manière d'accéder à ce paradis de la liberté, la forme dont l'action quotidienne, et pas seulement la perspective révolutionnaire, étaient ignorée. Des agitateurs comme Pelloutier et Pouget se rendirent parfaitement compte du danger du manque de définition méthodologique concernant la lutte quotidienne et invitèrent les anarchistes à rejoindre les syndicats.

Malatesta choisit une voie médiane qui, outre la grève, incluait l'insurrection et, outre le syndicat, prenait en compte d'autres facteurs de lutte. Dans les pages de « La Protesta » (Buenos Aires), il évoqua la société du futur comme « une société rationnellement organisée dans laquelle personne n'a les moyens de soumettre et d'opprimer les autres ». Et il définit l’anarchisme comme « la méthode permettant de parvenir à l’anarchie par la voie de la liberté, sans gouvernement, sans que personne –même doté de bonnes intentions – n’impose sa volonté aux autres ». Cela venait d’un seul principe : l’amour de l’humanité. Selon la conception humaniste de Malatesta, on était anarchiste par sentiment plutôt que par conviction raisonnée, la philosophie et la science n'avaient donc pas grand-chose à voir. Pas plus que le développement historique ou les conditions économiques. C'était une question de volonté. Chacun pouvait être anarchiste, quelles que fussent ses croyances philosophiques ou ses connaissances scientifiques ; il suffisait de vouloir l'être. Il s'est lui-même déclaré anarco-communiste. Concernant l'anarchie, il la décrit dans le pamphlet du même nom comme « l'état d'un peuple gouverné sans autorité constituée, une société d'hommes libres et égaux fondée sur l'harmonie des intérêts et la contribution volontaire de tous, pour satisfaire les besoins sociaux ». Au cours de sa vie, Malatesta a dû beaucoup parler de l'idéal, de l'anarchie, « une société fondée sur le libre accord, où chaque individu pourrait atteindre le maximum de développement possible », qu'il ne distinguait pas du communisme libertaire : « L'organisation de la vie sociale à travers des associations libres et des fédérations de producteurs et de consommateurs ». Dans ses derniers écrits, il a confirmé ce qu'il avait affirmé tout au long de sa vie : « L'anarchie est un mode de coexistence sociale dans lequel les êtres humains vivent comme des frères, sans que personne n'opprime ni n'exploite les autres et où chacun a à sa disposition les ressources par lesquelles la civilisation de l'époque lui permet d’atteindre le plus haut niveau de développement moral et matériel ». Contrairement à la plupart des propagateurs de l'idéal, Malatesta insistait sur le fait que la manière de parvenir à l'anarchie passait par l'organisation des anarchistes autour d'un programme, en utilisant l'arsenal révolutionnaire pour abolir l'État et « toute organisation politique basée sur l'autorité ». Les moyens devaient être en adéquation avec les fins. Si celles-ci étaient révolutionnaires, ceux-là devaient l’être aussi.

Le militantisme anarchiste au sein des syndicats déplaça l’action collective vers la sphère économique, s’éloignant encore davantage de la politique. La semence de l’idéal parmi les exploités eut un fils spirituel : le syndicalisme révolutionnaire. La Charte d'Amiens de 1906, son acte de naissance, consacrait la fonction première du syndicalisme, non seulement dans la lutte pour l'amélioration des conditions de travail, mais dans la préparation « à l'émancipation intégrale, qui ne peut se réaliser que par l'expropriation capitaliste ; celui-ci prône la grève générale comme moyen d'action et estime que le syndicat, aujourd'hui groupe de résistance, sera dans le futur groupe de production et de distribution, base de l'organisation sociale ». Pour éviter tout malentendu, l'un des principaux théoriciens de ce type de syndicalisme, opposé au syndicalisme politique et réformiste, Pierre Besnard, se référait au syndicat comme « la forme organique que l'anarchie acquiert pour lutter contre le capitalisme ». En Espagne, pays où le mouvement ouvrier a été le plus étroitement lié à l'anarchisme, Salvador Seguí a précisé que le syndicat était « l'arme, l'instrument de l'anarchisme pour mettre en pratique les aspects les plus immédiats de sa doctrine ». Il était donc plus cohérent de parler d’anarchosyndicalisme, selon Rocker, autre théoricien et fondateur de l’AIT en 1923, comme « le résultat de la fusion de l’anarchisme et de l’action syndicale révolutionnaire ». Après que Kropotkine et quinze autres ont rejoint le bloc allié lors de la Première Guerre mondiale, les anarchistes n’ont eu d’autre choix que d’exacerber leur antimilitarisme, et la confédération syndicale était l’organisation de masse la plus appropriée pour libérer les idéologies anarchistes du monde métaphysique et guerrier. Des objectifs économiques concrets tels que l'abolition des monopoles, l'expropriation des terres et des moyens de production, le travail collectif, la répartition socialiste, la suppression des salaires et de l'argent, etc., ou le souvenir des martyrs de Chicago, ont progressivement supplanté la rhétorique libérale et les clichés de l'individualisme dans la propagande de « l'idée ». Malheureusement, d'autres questions telles que la Commune de Paris, l'influence des magonistes sur la paysannerie mexicaine, le Conseil Ouvrier en tant qu'organisation de classe dans la Révolution allemande, la répression de l'anarchisme en Russie – en particulier la défaite du mouvement insurrectionnel makhnoviste – ou les scissions bolchevisantes dans le mouvement ouvrier anarchiste d'Amérique latine, a trouvé très peu de place dans la presse libertaire et syndicale. L'anarchisme a réussi à survivre en tant que mouvement grâce à ses liens avec les travailleurs, mais, sauf en Espagne, il n'a pas atteint la force suffisante pour résister à la poussée du fascisme.

Dans les années 1920 du siècle dernier, il y eut une guerre dissimulée entre syndicalistes anarchistes, communistes et individualistes qui bloqua toute tentative d'organisation spécifique. Le remède proposé par les exilés makhnovistes, la « plateforme Archinov », fut pire que le mal. Une organisation semblable à un parti politique a soulevé de nombreux doutes quant à la possibilité de pénétrer dans les groupes anarchistes. Sébastien Faure proposa une organisation « de synthèse », avec laquelle les choses restèrent en l'état. Il s’agissait plutôt d’un pacte de non-agression, d’un apaisement de l’atmosphère raréfiée à la manière d’un anarchisme « sans adjectifs ». Sa définition de l'anarchisme fut à la hauteur de sa proposition : « c'est l'expression la plus haute et la plus pure de la réaction de l'individu contre l'oppression politique, économique et morale que lui imposent toutes les institutions autoritaires, et d'autre part, l'affirmation la plus ferme et la plus précise du droit de tout individu à son développement intégral par la satisfaction de ses besoins dans tous les domaines ». (La Synthèse anarchiste.) Cependant, les discussions plus ou moins banales n'ont jamais quitté le milieu libertaire. Les polémiques sur la légalité et le pacifisme étaient constantes. Même les conflits byzantins entre les puristes du communisme et les « libéraux exaspérés » (Georges Darien dixit) n'ont cessé de se produire. L'idéologie tendait ses pièges. Souvent, des chapelles se formaient, on insistait sur des détails secondaires et des aspects périphériques, le je était apostasié dans des réunions qui duraient jusqu'à l'ennui, on soutenait des principes avec des intentions paralysantes, l'organisation était boycottée comme oppressive, tout accord contraignant était décrit comme autoritaire et toute réflexion historique comme inutile... Trop de confusion mentale, trop de narcissisme, trop de dogmes doctrinaux et de formules creuses, qui dans les années 1930 ont conduit l'anarchisme au naufrage. En réalité, ce type d'anarchisme détestait l'action et se contentait de simulacres. Il a fallu Camillo Berneri pour dénoncer (dans L'Adunata dei Refrattari) ce qu'il appelait le « crétinisme anarchiste » et se consacrer à traiter de façon critique la réalité sociale afin de rendre l'époque intelligible – y compris l'anarchisme –, condition préalable pour tenter de la changer. Logiquement, il se soucia peu de la postérité (alla-t-il jusqu'à dire « l'anarchie est une religion ») pour apporter plutôt de vraies réponses à des problèmes concrets, qu'ils heurtent ou non l'orthodoxie. Il a parlé de manière provocante d’un « État libertaire » montrant la véritable anarchie comme une structure administrative fédérale totalement décentralisée. Ses ouvrages traitaient toujours de problèmes précis ou de questions théoriques urgentes, jamais ou presque jamais de principes ou de finalités. Malheureusement, il y en eut peu comme lui. L'assassinat de Berneri en mai 1937 priva l'anarchisme de son esprit le plus clair.

La guerre civile espagnole fut à la fois le point culminant de l'anarchisme (milices, comités antifascistes, socialisation) et l'abîme dans lequel il tomba (l'idée selon laquelle les conquêtes révolutionnaires se défendaient mieux en reculant). De nombreuses vaches sacrées restèrent silencieuses, faisant même preuve de compréhension envers le « circonstancialisme » de la bureaucratie dirigeante de la CNT-FAI. La véritable scission de l'anarchisme s'est produite entre les inconditionnels de la politique collaborationniste de la direction des comités bureaucratiques et les critiques solidaires avec les libertaires espagnols. Après la victoire de Franco, l'idéologie ne pouvait pas revenir sur la scène ibérique comme si de rien n'était et sans que ses partisans ne prennent d’abord la mesure de l'échec de la révolution et du monstrueux anarchisme d'État qui donna lieu aux capitulations de 1936-37. Ils ne l’ont pas fait et les conséquences se payent encore aujourd’hui. Malgré les regrets, l’épuisement historique de l’anarchisme, tel qu’on pouvait le concevoir dans les années précédant la Seconde Guerre mondiale, n’a pas signifié la mort de l’idéal, mais plutôt l’impossibilité de sa reformulation passéiste. Par exemple, la confiance de Kropotkine en la science et sa foi dans le progrès moral sont intenables. Le syndicalisme à l’ancienne n’est plus d’actualité. Les visions futuristes de l’anarchisme d’autrefois semblent aujourd’hui extrêmement enfantines. À mesure que le mouvement ouvrier traditionnel se dissout et que le capital pénètre dans tous les recoins de la vie, l'anarchisme réapparaît, moins comme une idéologie postmoderne que comme un état d'âme diffus, se tournant vers le féminisme, le monde du travail, la ruralité, l'anti-développement, la culture populaire et l’éducation alternative. Il devra se coordonner sur ces terrains, trouver de nouvelles modalités pratiques de lutte anticapitaliste et mettre au point les armes théoriques pour faire face à la réaction identitaire, avec ses idées néfastes sur le pouvoir et la vérité, le genre et le sexe, la religion et la race, la langue et la nourriture ; avec son essentialisation des différences, son anti-universalisme, son relativisme, ses ennemis fictifs, sa technophilie... A moins de préférer se vautrer dans la poubelle proposée par des croyances irrationnelles et sectaires qui, pour ajouter au confusionnisme, se définissent comme anarchistes bien qu'ils ne le soient pas.

Miquel Amorós, 25 août 2024.

 

 

 



¿QUÉ ES EL ANARQUISMO?

 

¿Es una doctrina, una ideología, un método, una rama del socialismo, una línea de conducta, una teoría política? La respuesta, en principio, es fácil: anarquismo es lo que piensan y hacen los anarquistas, y, en general, los que se definen como enemigos de toda autoridad e imposición. Aquellos que por diversos caminos, muchos realmente antagónicos, persiguen la “anarquía”, es decir, una sociedad sin gobierno, un modo de convivencia social ajeno a las disposiciones autoritarias. El anarquismo no sería más que la manera de realizar esa anarquía, que el geógrafo Reclús calificó de “la más alta expresión del orden.” ¿En qué consiste? Son múltiples y contradictorias las estrategias para alcanzar un ideal aposentado en una negación del que existen varias versiones, por lo cual, se podría hablar con más propiedad, de anarquismos, como por ejemplo hace Tomás Ibáñez. Si además tenemos en cuenta la situación histórico-social contemporánea, donde el anarquismo ya no es gran cosa, apenas un signo de identidad juvenil y semi-académico que guarda muy poca relación con épocas pasadas más gloriosas y se mantiene al abrigo de cualquier crítica seria y objetiva, las definiciones podrían prolongarse al infinito. Anarquismo sería entonces una especie de saco lleno de fórmulas dispares etiquetadas como anarquistas. Las puertas quedan abiertas a cualquier deriva, bien sea reformista, individualista, católica, comunista, nacionalista, contemplativa, mística, conspirativa, vanguardista, etc. Sobre el atolondramiento buenrollista en los medios libertarios consecuente con tal diversidad podíamos concluir igual que el autor o los autores del folleto “De la miseria en el medio estudiantil” (1966) sobre los componentes de la Fédération Anarchiste: “Esa gente lo tolera efectivamente todo, puesto que se toleran entre sí.” El panorama no es halagüeño, pues en los tiempos que corren la comprensión de los fenómenos sociales y las ideologías que los acompañan depende mucho de pensarlos adecuadamente, o sea, desde la perspectiva que proporciona el conocimiento histórico. Aún hoy, el anarquismo no carece de intelectuales honestos y competentes aptos para la tarea. Sin embargo, la característica más común de los anarquismos posmodernos, los que navegan en la posverdad y repudian la coherencia, es el rechazo de dicho conocimiento. Es más, según tal tipo de anarquismo, el pasado ha de ser intervenido desde el presente, en tanto que baúl de recursos estéticos, en consonancia con la normativa lúdica, la gramática transgénero y los hábitos gastronómicos que impone la moda. El compromiso, por lo demás, es efímero. En fin, hete aquí, con la voluntariosa excepción de algunos núcleos sindicalistas, al anarquismo reducido a fenómeno de feria de libro. Nosotros, que bogamos en dirección contraria, intentaremos explicar esa constante aspiración a una organización social sin gobierno, luego sin Estado, sin autoridad separada, remitiéndonos a sus orígenes allá donde se encuentran, en los sectores radicales de las revoluciones populares del siglo XIX.

 

En principio, habremos de superar la manía de algunos ideólogos anarquistas, empezando por Kropotkin, Reclus, Rocker y el historiador Nettlau, de descubrir ancestros en todos los momentos de la historia y en todos los lugares. Bajo ese punto de vista el anarquismo no sería una idea nueva, sino algo tan antiguo como la humanidad, perenne, eterno, inscrito en el ser biológico de la especie humana. Anarquistas serían pues Diógenes el cínico y Zenón el Estoico, Lao Tse, Epicuro, Rabelais, Montaigne o Tolstoi. Trazos libertarios se encontrarían en las comunas medievales, en los Diggers ingleses, en el liberalismo filosófico de Spencer y Locke, en la obra política de Stuart Mill y William Godwin, en cualquier alteración del orden establecido... No tenemos nada que objetar a ello, pero denunciamos el intento latente en este planteamiento anti-histórico de fabricar una ideología interclasista, y negar al movimiento obrero su papel decisivo en la génesis de las ideas anarquistas. Eso tenía efectos desastrosos en la práctica antiautoritaria. Los promotores y defensores de esta tesis trataban de trascender la realidad social no mediante intervenciones prácticas en la esfera político-social, sino a través de la propaganda, mediante un intenso esfuerzo de educación de masas que pudiera suscitar una evolución gradual de la mentalidad popular hacia niveles de conciencia elevados. Para los propagandistas educacionistas, sobre todo para los más inmovilistas y apoltronados, -pongamos por ejemplo Abad de Santillán- el anarquismo era simplemente “un anhelo humanista”, la denominación nueva de “una actitud y una concepción humanista básica”, una doctrina no específica ni concreta, un vago ideal ético que siempre había existido, que se daba en cualquier clase social y que –añadía Federica Montseny- había encontrado en la Península Ibérica la tradición, el temperamento racial y el amor fiero por la libertad en mayor abundancia que en ninguna otra parte. En el prólogo a un libro del estatalista Fidel Miró, decía Santillán con calculada ambigüedad que “el anarquismo pretende la defensa, la dignidad y la libertad del hombre en todas las circunstancias, en todos los sistemas políticos, de ayer, hoy y mañana [...] no está ligado a ningún tipo de construcción política, ni propone sistema que los sustituya.” Así pues, no era un proyecto homogéneo sino plural, híbrido, sobre cuyos fundamentos, fines y estrategias de realización, si hemos de creer al sospechoso Gaston Leval, que proponía dar una “base científica” al anarquismo reforzando el realismo “constructivo” en política y economía, no existía acuerdo alguno “en los teóricos más capaces de este ramo” (“Precisiones del Anarquismo”, 1937.) Las especulaciones de los mayores referentes del anarquismo ortodoxo en la España de 1936 desembocaban en los tópicos del liberalismo político, lo cual es comprensible tal como ilustró la extrema adaptabilidad de sus convicciones a los principios y las instituciones burguesas republicanas.

 

Rudolf Rocker veía en el anarquismo la confluencia de dos corrientes intelectuales propulsadas por la Revolución Francesa: el socialismo y el liberalismo. Señalemos que  una era proletaria, la otra, burguesa. No obstante, dicha confluencia no constituía un sistema social fijo sino “una tendencia clara del desarrollo de la humanidad que [...] aspira a que todas las fuerzas sociales se desenvuelvan libremente en la vida” (“El anarcosindicalismo. Teoría y práctica.”) Albert Libertad, el editor de la revista individualista “L’Anarchie”, no se conformaba con eso: “Para nosotros, el anarquista es quien ha vencido en él las formas subjetivas de la autoridad: religión, patria, familia, respeto humano o lo que se quiera, y que no acepta nada que no haya pasado por el tamiz de su razón tanto como sus conocimientos le permitan.” La anarquía no podía ser más que “la filosofía del libre examen, la que no impone nada por la autoridad, y que busca probar todo por el razonamiento y la experiencia.” Para Sebastián Faure, la anarquía “como ideal social y como realización efectiva, responde a un modus vivendi en el cual, desembarazado de toda sujeción legal y colectiva que tenga a su servicio la fuerza pública, el individuo no tendrá más obligaciones que las que le imponga su propia conciencia.” Su compadre Janvion declaraba que el anarquismo era “la negación absoluta de la autoridad del hombre sobre el hombre”; Emma Goldman llegó más lejos consagrando al individuo como medida de todas las cosas: “El anarquismo es la única filosofía que devuelve al hombre la conciencia de sí mismo, la cual mantiene que Dios, el Estado y la Sociedad no existen, que son promesas vacías y sin valor, ya que pueden ser logradas solo a través de la subordinación del hombre.” Aunque de manera abstracta, aludìa a temas como la producción y el reparto, sin concretar. En su librito “Anarquismo. Lo que significa realmente” decía: “Anarquismo es la filosofía de un nuevo orden social basado en la libertad sin restricción, la teoría de que todos los gobiernos descansan sobre la violencia y por lo tanto son equívocos y peligrosos, al igual que innecesarios […] Representa un orden social basado en la agrupación libre de individuos con el objetivo de producir riqueza social, un orden que garantizará el libre acceso a la tierra y el pleno goce de las necesidades de la vida...” Soledad Gustavo afirmó escuetamente que la anarquía era “la genuina expresión de la libertad total” y Federica, que no olvidaba a su público obrero, puntualizó lo dicho por su madre: “el anarquismo es una doctrina basada en la libertad del hombre, en el pacto o libre acuerdo de este con sus semejantes, y en la organización de una sociedad en la que no deben existir clases ni intereses privados, ni leyes coercitivas de ninguna especie” (“¿Qué es el anarquismo?”) Vista la práctica federiquista de la idea, José Peirats se preguntaba en su pequeño diccionario del anarquismo si la anarquía “¿es una idea encuadrable en el recetario político revolucionario o es una masa vaporosa que se diluye al tratar de aprehenderla?” Temía que no fuera más que “un principio diluido”, una consigna etérea, y no, como decía su apreciada Emma, “la conclusión a la que han llegado multitud de hombres y mujeres resueltos por las observaciones detalladas de las tendencias de la sociedad moderna”, o en palabras de Eliseo Reclus, “el fin práctico, buscado activamente por multitudes de hombres unidos colaborando resueltamente en el nacimiento de una sociedad donde no haya amos...”

 

A pesar del innegable papel crucial de las masas anarquistas en las revoluciones del siglo pasado, por más que rebusquemos en la literatura anarquista clásica, pocas serán las referencias que encontremos a la revolución como medio para transformar la sociedad. Por las implicaciones violentas que forzosamente contienen, entraban en contradicción con los postulados pacifistas de la ideología, que, no lo olvidemos, a menudo es presentada como un ideal ético, no impositivo; o como una rebelión moral (Malatesta), una subjetividad liberada (Libertad), “una conducta dentro de cualquier régimen” (Alaiz)... Los alardes revolucionarios eran propios de los hombres de acción, cuyo paradigma es Bakunin, más interesados en derrotar al bando opresor de la reacción que en edificar una utopía operando desde el escritorio según pautas impolutas. Estos concebían la acción fundamentalmente como lucha, combate, confrontación, no como pedagogía y experimento. No obstante, el epíteto de “anarquista” fue usado históricamente para calificar lo que las facciones conservadoras suponían excesos revolucionarios. Durante la Revolución Inglesa, aparece por primera vez usado peyorativamente contra los “Niveladores” y cualquiera que alterase el orden establecido y no reconociera al poder dominante, particularmente a la jerarquía eclesiástica (era sinónimo de radical, ateo o anabaptista.) En la Revolución Francesa, los republicanos moderados llamaban anarquistas a todos los que querían proseguir el proceso revolucionario en lugar de detenerlo, tanto a los jacobinos, como a los enragés y hebertistas. En fín, quien primero se definió como anarquista, en sentido positivo, fue Pierre-Joseph Proudhon en su célebre obra “¿Qué es la propiedad?” y llamó anarquía a “la ausencia de amos y de soberanos, la forma de gobierno a la que nos aproximamos.” También fue el primero en reivindicar a la clase obrera como fuerza social autónoma, opuesta a la burguesía. En otros asuntos fue mucho menos innovador. Poco después, Anselme Bellegarrigue en su Manifiesto de 1850 afirmó que “la anarquía es el orden, el Estado es la guerra civil.” Nettlau nos dio a conocer a otros revolucionarios activos desde mediado siglo XIX partidarios de un socialismo sin jefes: Joseph Déjacque, Coeurderoy, Pisacane, Cesar De Paepe, Eugene Varlin, Ramón de la Sagra..., que bien podríamos considerar anarquistas aunque ellos no empleasen ese término. Por consiguiente, no andaremos errados al definir el anarquismo como una corriente antiautoritaria del socialismo revolucionario, producto intelectual de la incipiente lucha de clases típica de la sociedad capitalista en las primeras fases de la industrialización. En la correspondencia de Proudhon hallamos el enunciado del ideal más completo: “Anarquía es una forma de gobierno o constitución donde la conciencia pública o privada, moldeada por el desarrollo de la ciencia y el derecho, es suficiente por sí sola para mantener el orden y garantizar todas las libertades; en donde consecuentemente el principio de autoridad, las instituciones de policía, los medios de prevención o de represión, el funcionariado, los impuestos, etc., se encuentran reducidos a su expresión mínima; en donde con mayor razón, las formas monárquicas y la alta centralización desaparecen y son reemplazadas por instituciones federativas y costumbres comunitarias.”

 

La Asociación Internacional de Trabajadores fue un hito en la organización del proletariado, pues le dotó de objetivos no solo económicos, sino políticos. Los enfrentamientos entre las distintas facciones que la componían provocaron su declive. Durante el breve e intenso periodo de la AIT, Bakunin supo convertir el infradesarrollado socialismo libertario en una teoría política coherente y revolucionaria. Los vientos soplaban a favor de la revolución social; Bakunin, en posesión de un bagaje extraordinario de conocimientos históricos y filosóficos, no hizo más que traducirlos en ideas prácticas. La clase obrera era el sujeto de la revolución, y por lo tanto, el ariete del antiautoritarismo, por lo que necesitaba perfilar unas líneas estratégicas diferenciadas del reformismo socialdemócrata característico de la tendencia marxista. El concepto de anarquía retomaba el sentido originario de alboroto destructor bajo una óptica creativa, Para Bakunin, era “la manifestación sin restricciones de la vida liberada de los pueblos, de donde han de salir la libertad, la justicia, el orden nuevo y la fuerza misma de la revolución.” Así pues, anarquía era el estallido incontrolado de las pasiones populares venciendo los obstáculos de la ignorancia, la sumisión y la explotación, a las que los agitadores presentes en su seno orientarían hacia la destrucción de todas las instituciones existentes. En el Congreso de Saint Imier de 1872 se votaría una proposición suya: “La destrucción de todo poder político es el primer deber del proletariado.” Al revés que los ideólogos posteriores, no se interesaba en describir la nueva sociedad en sus distintas facetas, fruto del ingreso de todos los trabajadores en la Internacional. Seria “una sociedad natural que apoyaría y reforzaría la vida de todos” y consistiría en “una organización nueva que no tuviera otra base que los intereses, las necesidades y las inclinaciones naturales de los pueblos, ni otro principio que la federación libre de los individuos en las comunas, de las comunas en las provincias, de las provincias en las naciones, en fin, de estas en los Estados Unidos de Europa primero, y más tarde, del mundo entero.”(Programa de Los Hermanos Internacionales.)

 

Las escisiones y expulsiones en la Internacional, la derrota de La Comuna de París, el aplastamiento de las revueltas internacionalistas en España, el fracaso de la insurrección campesina en Italia y las persecuciones subsiguientes quebraron el empuje del movimiento obrero, que quedó reducido a pequeños círculos dedicados principalmente a la difusión de las ideas. En ello destacaron Kropotkin, Reclus, Malatesta y sus compañeros. La muerte de Bakunin significó la casi desaparición de su legado teórico. Ninguno de sus seguidores leyó jamás a Hegel, Fitche, Feuerbach o Comte, y pocos se entretuvieron con Babeuf, Weitling o Proudhon. En ese periodo posrevolucionario se generalizó el término “anarquista” y se confeccionó propiamente una ideología separada, exterior a las clases oprimidas, a las que se había de aleccionar mediante la propaganda doctrinal y la ejemplaridad del comportamiento. No constituía propiamente un sistema en el caso del marxismo. Además, la subida al santoral de Godwin, Tolstoi, Thoreau y Stirner -autores nada partidarios de las revoluciones- añadieron elementos conflictivos a la reflexión ideológica. Se desarrollaron corrientes subalternas a menudo enfrentadas e incompatibles: las que anteponían la sociedad futura al presente, el comunismo (a cada cual según sus necesidades) al colectivismo (a cada cual según su trabajo), el comunalismo al individualismo, la organización a la espontaneidad, la reflexión a la acción, el pacifismo a la violencia, la propaganda a la expropiación o el atentado, la legalidad a la clandestinidad, el partido político a la asociación económica, etc. Era tal la confusión que un intelectual próximo, Octave Mirbeau, hizo constar que “los anarquistas tienen las espaldas anchas; al igual que el papel, lo aguantan todo.” Para otros, indiferentes a la sustancia tanto como a la acción, todo era anarquismo. Lo principal era la finalidad; los medios, con frecuencia contradictorios con ella, eran secundarios. Tárrida del Mármol se sacó de la manga lo del “anarquismo sin adjetivos”, con lo cual la expresión verídica del movimiento proletario revolucionario reflejada en la obra de Bakunin y la Internacional antiautoritaria, sería sacrificada en el altar de las interpretaciones doctrinarias, nebulosas y sectarias de la realidad. El anarquismo como ideal de sociedad emancipada y a la vez método de acción, simple variante del socialismo revolucionario, no parecía ser suficiente. Gustav Landauer quiso volver a la base al escribir: “Anarquismo es la finalidad que perseguimos, la ausencia de dominación y de Estado; la libertad del individuo. Socialismo es el medio mediante el cual queremos alcanzar y asegurar esa libertad.” En cambio, el príncipe Kropotkin se propuso ordenar el corpus teórico anarquista, buscarle una base filosófica distinta de la bakuniniana, dotarle de raíces biológicas, fijar el comunismo libertario como objetivo final y propagar un optimismo cientista que arraigó más que ninguna otra cosa en las masas oprimidas. Fue el autor más leído y más influyente en la historia del anarquismo.

 

Kropotkin remodeló el anarquismo como filosofía materialista, cientista, evolucionista, atea y progresista, culminándolo con una ética que no llegó a terminar. Los filósofos ingleses y los hallazgos de la ciencia del siglo XVIII, y naturalmente Darwin, le proporcionaron el material sobre el que construyó su edificio ideológico, donde el progreso científico adquirió rango de fuerza determinante en lugar de la lucha de clases. En su folleto “La ciencia moderna y el anarquismo” decía: “Representa el anarquismo un ensayo de aplicación de las generalizaciones obtenidas por el método deductivo-inductivo de las ciencias naturales a la apreciación de la naturaleza de las instituciones humanas, así como también la predicción sobre la base de estas apreciaciones, de los aspectos probables en la marcha futura de la humanidad hacia la libertad, la igualdad y la fraternidad.” En otra parte, insistía en lo mismo: “el anarquismo es una concepción del universo basada en la interpretación mecánica de los fenómenos que abrazan toda la naturaleza, sin excluir la vida en la sociedad.” En su artículo para la Enciclopedia Británica se atuvo a lo clásico y definió al anarquismo como “un principio o teoría de la vida y la conducta que concibe una sociedad sin gobierno, en la que se obtiene la armonía no por sometimiento a la ley, ni obediencia a la autoridad, sino por acuerdos libres establecidos entre los diferentes grupos, territoriales y profesionales, libremente realizados para la producción y el consumo, y para satisfacción de la infinita variedad de necesidades y aspiraciones de un ser civilizado.” Carlo Cafiero, compañero de Bakunin, tenía un concepto de anarquísmo más dinámico: “La anarquía, en la actualidad, es una fuerza de ataque; si, es la guerra a la autoridad, al poder del Estado. En la sociedad futura, la anarquía será la garantía, el obstáculo a la vuelta de cualquier autoridad y de cualquier orden, de cualquier Estado.” Anarquía y comunismo iban unidos, como la exigencia de libertad y la demanda de igualdad (“Anarquía y comunismo”, 1880.) A pesar de ello, la distinción metafísica entre el comunismo libertario y la anarquía propiamente dicha de algunos doctrinarios obligó a nuevas precisiones. Para Carlos Malato, un discípulo, la anarquía era el complemento del comunismo, “un estado en el que la jerarquía gubernamental sea reemplazada por la libre asociación de los individuos y de las agrupaciones; la ley imperiosa para todos y de duración ilimitada, por el contrato voluntario; la hegemonía de la fortuna y del rango, por la universalización y el bienestar y la equivalencia de las funciones, y por último, la moral presente, de hipócrita ferocidad, por una moral superior que dimanará naturalmente del nuevo orden de cosas” (“Filosofía del Anarquismo.”) Nótese la ausencia de cualquier indicación de la manera de llegar a este paraíso de la libertad, la forma con la que la acción cotidiana, no ya la perspectiva revolucionaria, eran soslayadas. Agitadores como Pelloutier y Pouget se dieron perfecta cuenta del peligro de la indefinición metodológica concerniente a la lucha diaria e invitaron a los anarquistas a entrar en los sindicatos.

 

Malatesta escogió una vía intermedia que además de la huelga, contara con la insurrección, y además del sindicato, tuviera en cuenta otros factores de lucha. En las páginas de “La Protesta” (Buenos Aires) se refirió a la sociedad del porvenir como “una sociedad racionalmente organizada en la que ninguno tiene los medios de someter y oprimir a los demás.” Y definió el anarquismo como “el método para alcanzar la anarquía por la vía de la libertad, sin gobierno, sin que nadie –incluso alguien provisto de buenas intenciones- imponga a los demás su voluntad.” Lo derivaba de un único principio: el amor a la humanidad. De acuerdo con la concepción humanista malatestiana, se era anarquista por sentimiento más que por convicción razonada, por consiguiente, la filosofía y la ciencia tenían poco que ver. Tampoco el desarrollo histórico o las condiciones económicas. Era una cuestión de voluntad. Cualquiera podía ser anarquista fuesen cuales fuesen sus creencias filosóficas o sus conocimientos científicos; bastaba con querer serlo. Él mismo se declaraba anarcocomunista. En lo relativo a la anarquía, en el folleto del mismo nombre la describía como “el estado de un pueblo que se rige sin autoridad constituida”, “una sociedad de hombres libres e iguales fundada sobre la armonía de los intereses y el concurso voluntario de todos, a fin de satisfacer las necesidades sociales.” A lo largo de su vida, Malatesta tuvo que hablar mucho del ideal, de la anarquía, “una sociedad fundada en el libre acuerdo, donde cada individuo pudiera lograr el máximo desarrollo posible”, a la que no distinguía del comunismo libertario: “la organización de la vida social por obra de libres asociaciones y federaciones de productores y consumidores.” En sus últimos escritos corroboró lo que venía diciendo a lo largo de su vida: “anarquía es un modo de convivencia social en el que los seres humanos viven como hermanos, sin que nadie oprima o explote a los demás y todos tengan a su disposición los medios que la civilización de la época otorga para alcanzar el más alto nivel de desarrollo moral y material.” Contrariamente a la mayoría de propagadores del ideal, Malatesta insistía en que la manera de alcanzar la anarquía pasaba por la organización de los anarquistas alrededor de un programa, recurriendo al arsenal revolucionario para abolir el Estado y “toda organización política fundada en la autoridad”. Los medios debían estar en consonancia con los fines. Si estos eran revolucionarios, aquellos también habrían de  serlo.

 

La militancia anarquista en los sindicatos desplazó la acción colectiva hacia la esfera de la economía, ahuyentándose aún más de la política. La siembra del ideal entre los explotados tuvo un hijo espiritual: el sindicalismo revolucionario. La Carta de Amiens de 1906, su partida de nacimiento, consagraba la función primordial del sindicalismo, no solo en la lucha por las mejoras laborales, sino en la preparación “para la emancipación integral, que solo puede lograrse a través de la expropiación capitalista; aboga este por la huelga general como medio de acción y concidera que el sindicato, hoy grupo de resistencia, será en el futuro el grupo de producción y distribución, base de la organización social.” Con el fin de no prestarse a equívocos, uno de los principales teóricos de esta clase de sindicalismo, opuesto al sindicalismo político y reformista, Pierre Besnard, se refería al sindicato como “la forma orgánica que adquiere la Anarquía para luchar contra el capitalismo.” En España, país donde el movimiento obrero más se había vinculado al anarquismo, Salvador Seguí concretaba que el sindicato era “el arma, el instrumento del anarquismo para llevar a la práctica lo más inmediato de su doctrina.” Así pues, era más congruente hablar de anarcosindicalismo, según Rocker, otro teórico y fundador de la AIT de 1923, como “el resultado de la fusión del anarquismo y la acción sindical revolucionaria.” Tras la adhesión de Kropotkin y otros quince al bando aliado en la Primera Guerra Mundial, a los anarquistas no les quedó otra que exacerbar su antimilitarismo, y la confederación sindical era la organización de masas más idónea para sacar del hoyo metafísico y guerrero a las ideologías anarquistas. Objetivos económicos concretos como la abolición de los monopolios, la expropiación de la tierra y los medios de producción, el trabajo colectivo, la distribución socialista, la supresión del salario y del dinero, etc. desplazaron progesivamente a la retórica liberal y a los lugares comunes del individualismo en la propaganda “de la idea.” Desgraciadamente, otros temas como la influencia magonista en el campesinado mejicano, el Consejo Obrero como organización de clase en la revolución alemana, el aplastamiento del anarquismo en Rusia -particularmente la derrota del movimiento insurreccional machknovista- o las escisiones bolchevizantes en el movimiento obrero anarquista de America Latina, tuvieron muy poca presencia en la prensa libertaria y sindicalista. El anarquismo pudo sobrevivir como movimiento gracias a su conexión con los trabajadores, pero salvo en España, no logró la fuerza suficiente para resistir al empuje del fascismo.

 

En la década del veinte del siglo pasado reinaba una guerra encubierta entre los anarquistas sindicalistas, comunistas e individualistas que bloqueaba todo intento de organización específica. El remedio que propusieron los exilados makhnovistas, la “plataforma Archinov”, fue peor que la enfermedad. Una organización semejante a un partido político inspiraba muchos recelos para abrirse camino en los grupos anarquistas. Sébastien Faure propuso una organización “de síntesis”, con lo cual las cosas quedaban como estaban. Fue más bien un pacto de no agresión, una edulcoración del ambiente enrarecido estilo anarquismo “sin adjetivos.” Su definición de anarquismo estuvo a la altura de su propuesta: “es la expresión más alta y más pura de la reacción del individuo contra la opresión política, económica y moral que hacen pesar sobre él todas las instituciones autoritarias, y por otra parte, la afirmación más firme y precisa del derecho de todo individuo a su desarrollo integral por la satisfacción de las necesidades en todos los terrenos.” (“La Síntesis anarquista.”) Pero las discusiones más o menos banales nunca abandonaron el medio libertario. Las polémicas en torno a la legalidad y el pacifismo fueron constantes. Los conflictos bizantinos entre los puristas del comunismo y los “liberales exasperados” (Georges Darien dixit) tampoco dejaron de producirse. La ideología tendía sus trampas. A menudo se formaban capillas, se insistía en detalles secundarios y aspectos periféricos, se apostasiaba el yo en reuniones que se prolongaban hasta el aburrimiento, se enarbolaban principios con intención paralizante, se boicoteaba la organización tildándola de opresora, se calificaba de autoritario cualquier acuerdo vinculante y de inútil cualquier reflexión histórica.... Demasiado embrollo mental, demasiado narcisismo, demasiados dogmas doctrinales y fórmulas vacías, que por los años treinta llevaban el anarquismo al naufragio. En realidad, ese tipo de anarquismo detestaba la acción y se contentaba con simulacros. Tendría que aparecer Camilo Berneri para denunciar (en “L'Adunata dei Refrattari”) lo que llamó “cretinismo anarquista” y dedicarse a tratar críticamente la realidad social con el fin volver inteligible la época -anarquismo incluido-, condición previa para intentar cambiarla. Lógicamente se ocupó poco de la posteridad, (“la anarquía es religión” llegó a decir) y más de dar respuestas reales a problemas concretos, chocaran o no con la ortodoxia. Habló provocadoramente de un “Estado libertario” al mostrar la anarquía real como una estructura administrativa federal totalmente descentralizada. Sus trabajos, trataron siempre de problemas precisos o cuestiones teóricas urgentes, nunca o casi nunca de principios o finalidades. Por desgracia, no hubo muchos como él. El asesinato de Berneri en mayo del 37 privó al anarquismo de su mente más lúcida.

 

La guerra civil española fue a la vez el punto álgido del anarquismo (las milicias, los comités antifascistas, la socialización) y el abismo por el que se precipitó (la idea de que las conquistas revolucionarias se defendían mejor dando marcha atrás). Muchas vacas sagradas callaron, incluso se mostraron comprensivas con el “circunstancialismo” de la burocracia dirigente de la CNT-FAI. La verdadera escisión del anarquismo sucedió entre incondicionales de la política colaboracionista de la dirección comiteril y los solidarios críticos con los libertarios españoles. Tras la victoria de Franco, la ideología no podía regresar al ruedo ibérico como si nada si sus adeptos no hacían antes inventario de la revolución fallida y del monstruoso anarquismo de Estado que alumbraron las capitulaciones de 1936-37. No lo hicieron y todavía hoy se siguen pagando las consecuencias. A pesar de los pesares, el agotamiento histórico del anarquismo, tal como podía concebirse en los años previos a la Segunda Guerra Mundial, no ha significado la muerte del ideal, sino la imposibilidad de su reformulación pasadista. Por ejemplo, la confianza kropotkiniana en la ciencia y la fe en progreso moral son inasumibles. El sindicalismo a la antigua ha quedado fuera de juego. Las visiones futuristas del anarquismo de otras épocas resultan hoy tremendamente pueriles. Al disolverse el movimiento obrero tradicional y penetrar el capital en todos los rincones de la vida, el anarquismo resurge, menos como ideología posmoderna que como estado de ánimo difuso, volcándose en el feminismo, el medio laboral, la ruralidad, el antidesarrollismo, la cultura popular y la enseñanza alternativa. En esos terrenos tendrá que coordinarse, hallar las nuevas modalidades prácticas de combate anticapitalista y confeccionar las armas teóricas para confrontar la reacción identitaria, con sus ideas nefastas sobre el poder y la verdad, el género y el sexo, la religión y la raza, el lenguaje y la comida; con su esencialización de las diferencias, su antiuniversalismo, su relativismo, sus enemigos ficticios, su tecnofilia... A no ser que prefiera revolcarse en la basura que le ofrecen los credos irracionales y sectarios que, para colmo del confusionismo, también se denominan anarquistas aunque no lo sean.

 

Miquel Amorós, 25 de agosto de 2024.