mercoledì 2 luglio 2025

Serbia: di fronte alla repressione, blocchi stradali e barricate












In Serbia si sta delineando uno scenario imprevedibile. Da domenica, al movimento studentesco si è aggiunto il resto della popolazione, che ha bloccato l'accesso alle città e alle principali vie di comunicazione. Il regime autoritario di Aleksandar Vučić è stato colto di sorpresa.

Jean-Arnault Dérens

 

 

30 giugno 2025 alle 17:26

"Chi ha bloccato ha perso", ha dichiarato con spavalderia il presidente serbo Aleksandar Vučić sabato 28 giugno. Una manifestazione contro il suo regime aveva appena radunato 140.000 persone nel centro di Belgrado, secondo un istituto indipendente. Dopo sette mesi di proteste, centinaia di dimostrazioni, blocchi stradali e occupazioni, il capo dello Stato poteva pensare che quest'ultimo raduno avesse tutte le caratteristiche di un'ultima resistenza e che fosse giunto per lui il momento di chiudere i giochi.

Peggio per lui. La sera del giorno dopo, il ponte autostradale di Gazela, le principali arterie di Belgrado e tutte le principali vie di accesso alla capitale serba erano bloccate da barricate erette spontaneamente da una folla determinata. Nella notte tra domenica e lunedì, il movimento si è esteso a tutto il Paese, prima che la polizia iniziasse a smantellare queste barricate il mattino, senza incontrare alcuna resistenza.

A Belgrado, i manifestanti mettevano le mani in alto davanti agli agenti di polizia, spesso mascherati, spiegando che la loro azione era "non violenta", mentre sui social-media circolavano appelli per nuove barricate. "Stiamo affrontando una nuova prova di forza, che durerà a lungo", spiega Milica, un‘abitante di Belgrado che ha partecipato a ogni manifestazione dall'inizio del movimento.

In ogni caso, la Serbia è entrata in una nuova fase. Sabato sera, davanti alla folla radunata in piazza Slavija a Belgrado, gli oratori hanno annunciato la fine del movimento studentesco, iniziato dopo il tragico crollo della pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad, che ha causato la morte di sedici persone il 1° novembre 2024. Hanno così passato la fiaccola della protesta all’insieme della cittadinanza, mentre decine di università e scuole superiori erano ancora occupate negli ultimi giorni.

Gli studenti avevano fissato alle autorità un "ultimatum" alle 21:00, sommandole di indire elezioni parlamentari anticipate. Poiché questa richiesta è rimasta inascoltata, hanno aggiunto che il governo era ormai "illegittimo" ai loro occhi. Centinaia di fumogeni verdi sono stati accesi per significare il "semaforo verde" a questo passaggio di consegne. Simbolicamente, i membri dei servizi di sicurezza studenteschi, ben organizzati, hanno deposto i loro gilet gialli, ma sono comunque scoppiati scontri con la polizia.

Scontri improvvisi

Ufficialmente, quest’ultima era stata schierata per impedire qualsiasi contatto tra i manifestanti e i sostenitori del regime. Questi ultimi si erano radunati a meno di un chilometro di distanza, di fronte al Parlamento, dove da marzo è stato allestito nel Parco dei Pionieri il "campo degli studenti che vogliono studiare". Questo campo è sempre stato sotto stretta sorveglianza della polizia, ma nessun incidente degno di nota era stato ancora segnalato.

La natura improvvisa degli scontri alimenta il sospetto che dei provocatori possano aver attaccato la polizia, soprattutto perché il bilancio rimane incompleto e incerto. A tarda sera, il capo della polizia ha tenuto una conferenza stampa per annunciare che "diverse decine di rivoltosi e teppisti" erano stati arrestati, mentre sei agenti di polizia sarebbero rimasti feriti.

Gli studenti, parlando di "numerosi feriti", hanno dichiarato sui social media che "le autorità avevano tutti i mezzi e il tempo necessari per rispondere alle richieste e prevenire l'escalation. Invece, hanno optato per la violenza e la repressione contro i cittadini. Qualsiasi radicalizzazione della situazione è una loro responsabilità”.

 

Dei plenum cittadini coprono

la Serbia con una rete capillare,

attraverso la quale i vicini

s”informano e si mobilitano a vicenda.

 

Anche i sindacati dei giornalisti denunciano diversi casi di violenza e intimidazione, in particolare nei pressi dell'accampamento dei partigiani pro-regime. Domenica, gli studenti hanno segnalato diverse decine di arresti e, nel pomeriggio, si sono formati raduni per esigere il rilascio degli arrestati, prima che questi cortei si aggiungessero ai blocchi stradali che stavano iniziando a formarsi.

Alla rotonda dell'Autokomanda, centro nevralgico del traffico della capitale, l'iniziativa del blocco è venuta dagli zbor del distretto di Voždovac. Gli zborovi (plurale di zbor) sono le assemblee plenarie cittadine che hanno iniziato a formarsi a marzo nei villaggi e nei quartieri delle principali città, reinventando la democrazia diretta riprendendo il nome dalle tradizionali assemblee di villaggio serbe risalenti al periodo del dominio ottomano.

Queste assemblee, dove il tempo di parola è attentamente controllato e tutte le decisioni sono prese per alzata di mano, avevano teso a ridursi in primavera. Tuttavia la loro organizzazione ultra-locale copre la Serbia con una rete capillare, attraverso la quale i vicini s’informano e si mobilitano a vicenda.

A presidiare molti dei posti di blocco ci sono i frequentatori abituali delle manifestazioni, i volontari che hanno accolto gli studenti durante le loro numerose marce attraverso la Serbia o hanno cucinato per le mense delle facoltà occupate, ma anche dei curiosi, ancora esitanti, che scendono in piazza per la prima volta. I più determinati hanno trascorso la notte lì.

Dei dirigenti europei senza voce

Dalla mattina di lunedì 30 giugno, a Belgrado, agenti di polizia mascherati hanno iniziato a smantellare le barricate senza incontrare resistenza. Ma non appena alcune sono state disfatte, altre si riformano. "I cittadini, gli attivisti e gli zborovi ci trasmettono le informazioni tramite le nostre reti e le attività sono coordinate su questa base", spiega Đorđe Miketić dell'iniziativa cittadina Beograd ostaje.

"Consigliamo ai cittadini di mantenere i blocchi in modo permanente, di non lasciare mai poche persone isolate agli incroci, ma di rimanere in gruppi più numerosi. Se interviene la polizia, è consigliabile non disperdersi ma lasciare la zona in gruppo", aggiunge.

 

Il presidente Vučić si congratulava

di essere riuscito a sventare lo spettro

di una "rivoluzione colorata".

 

Lunedì pomeriggio, colonne di auto si sono radunate nel centro di Kragujevac, bloccando completamente questa importante città industriale. Il "passaggio del testimone" dagli studenti ai cittadini implica il passaggio a molteplici forme di disobbedienza civile, e i social-media pullulano di suggerimenti, come l'inondazione delle pubbliche amministrazioni di mail o la moltiplicazione dei prelievi di piccole somme di denaro per intasare le banche.

Nelle ultime settimane, il Presidente Vučić si congratulava di aver represso con successo la minaccia di una "rivoluzione colorata", ma ha dovuto ritrattare questa pretesa, ringraziando lunedì pomeriggio la Russia per la sua "comprensione". Il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha infatti messo in guardia contro il rischio di una simile "rivoluzione colorata". Questo concetto, forgiato dopo la caduta di Milošević nel 2000 e le rivoluzioni in Georgia (2003) e Ucraina (2004), presuppone un forte impegno occidentale in uno scenario di cambio di regime. In realtà, la posizione russa contrasta con il silenzio assordante dei leader europei e delle cancellerie occidentali. Le quali si accontentano da mesi, di lanciare dei ridicoli "appelli alla calma", senza mai pronunciarsi esplicitamente sulle richieste democratiche del movimento.

Se lo scenario dei prossimi giorni resta impossibile da immaginare, il regime ha ancora una via d'uscita relativamente facile: soddisfare la rivendicazione centrale di studenti e cittadini indicendo delle elezioni anticipate. Altrimenti, la Serbia rischia di sprofondare definitivamente nell'ignoto.

 

Jean-Arnault Dérens

 

Serbie : face à la répression,

des barrages et des barricades


Illustration 1

Opposés au gouvernement, des manifestants bloquent une rue de Belgrade (Serbie),

lundi 30 juin 2025. © Photo Oliver Bunic / str / AFP

Un scénario imprévisible est en train de s’écrire en Serbie. Depuis dimanche, le mouvement étudiant a été relayé par le reste de la population, qui a bloqué l’accès aux villes et aux grands axes routiers. Le régime autoritaire d’Aleksandar Vučić est pris de court.

Jean-Arnault Dérens

30 juin 2025 à 17h26

« Les bloqueurs ont perdu », lançait samedi 28 juin, bravache, le président serbe, Aleksandar Vučić. Une manifestation contre son régime venait de rassembler 140 000 personnes dans le centre de Belgrade, selon le décompte d’un institut indépendant. Au bout de sept mois de contestation, de manifestations par centaines, de blocages et d’occupations, le chef de l’État pouvait penser que cet ultime rassemblement avait tout d’un baroud d’honneur, et que le temps était venu pour lui de siffler la fin de la partie.

Mal lui en a pris. Dans la soirée du lendemain, le pont autoroutier de Gazela, les grands axes de Belgrade et toutes les principales voies d’accès à la capitale serbe étaient bloqués par des barricades, spontanément dressées par une foule déterminée. Dans la nuit de dimanche à lundi, le mouvement s’est étendu à tout le pays, avant que la police ne commence à démanteler ces barrages au matin, sans rencontrer la moindre résistance.

À Belgrade, bloqueurs et bloqueuses se tenaient les mains en l’air devant des policier souvent masqués, en expliquant que leur action était « non violente », tandis que des appels à dresser de nouveaux barrages couraient sur les réseaux sociaux. « Nous sommes partis sur une nouvelle épreuve de force, qui va durer longtemps », explique Milica, une habitante de Belgrade, qui n’a manqué aucun rassemblement depuis le début du mouvement.La Serbie est en tout cas passée à une nouvelle étape. Samedi soir, devant la foule rassemblée place Slavija, à Belgrade, les orateurs et oratrices ont annoncé que le mouvement étudiant, entamé après la chute tragique de l’auvent de la gare de Novi Sad, qui a tué seize personnes le 1er novembre 2024, prenait fin. Ils ont ainsi passé le flambeau de la contestation à l’ensemble des citoyen·nes, alors que des dizaines de facultés et d’écoles supérieures étaient encore occupées ces derniers jours.

Les étudiant·es avaient fixé à 21 heures un « ultimatum » aux autorités, les sommant de convoquer des élections législatives anticipées. Cette revendication n’ayant pas été entendue, ils et elles ont ajouté que le gouvernement était désormais « illégitime » à leurs yeux. Des centaines de fumigènes verts se sont embrasés pour signifier le « feu vert » à ce passage de relais. Symboliquement, les membres des très organisés services d’ordre étudiants ont déposé leurs chasubles jaunes, mais des heurts ont tout de même éclaté avec la police.

Des affrontements soudains

Officiellement, cette dernière avait été déployée pour empêcher tout contact entre les manifestant·es et les partisan·es du régime. Ceux-ci étaient réunis à moins d’un kilomètre de distance, en face du Parlement, où le « camp des étudiants qui veulent étudier » se dresse depuis mars dans le parc des Pionniers. Ce camp a toujours été placé sous bonne garde policière, mais aucun incident notable n’avait encore été signalé.

Le caractère soudain des affrontements alimente le soupçon que des provocateurs ont pu s’en prendre à la police, d’autant que les bilans demeurent partiels et incertains. Tard dans la soirée, le directeur de la police a tenu une conférence de presse pour annoncer que « plusieurs dizaines d’émeutiers et de hooligans » avaient été arrêtés, tandis que six policiers auraient été blessés.

Les étudiants, parlant de « nombreux blessés », ont déclaré sur les réseaux sociaux que « les autorités disposaient de tous les moyens et de tout le temps nécessaires pour répondre aux revendications et prévenir l’escalade. Au lieu de cela, elles ont opté pour la violence et la répression contre les citoyens. Toute radicalisation de la situation relève de leur responsabilité ».

Des plénums citoyens couvrent

la Serbie d’un réseau capillaire,

grâce auquel les voisins s’informent

et se mobilisent les uns les autres.

Les unions professionnelles de journalistes dénoncent également plusieurs cas de violences et d’intimidations, notamment aux abords du camp des partisan·es du régime. Dimanche, les étudiant·es faisaient état de plusieurs dizaines d’arrestations et, dans l’après-midi, des rassemblements se sont formés pour exiger la libération des personnes interpellées, avant que ces cortèges n’aillent grossir les barrages qui commençaient à se former.

Sur le rond-point d’Autokomanda, centre névralgique du trafic routier dans la capitale, l’initiative du blocage revient au zbor de l’arrondissement de Voždovac. Les zborovi (pluriel de zbor) sont les plénums citoyens qui ont commencé à se former au mois de mars dans les villages ou les quartiers des grandes villes, réinventant la démocratie directe en reprenant le nom des assemblées villageoises traditionnelles serbes, du temps de la domination ottomane.

Ces assemblées, où le partage de la parole est soigneusement contrôlé et où toutes les décisions sont prises à main levée, avaient eu tendance à s’étioler au printemps. Mais leur organisation ultra locale couvre la Serbie d’un réseau capillaire, grâce auquel les voisin·es s’informent et se mobilisent les un·es les autres.

Sur beaucoup de barrages, on retrouve les habitué·es des manifestations, les volontaires qui ont accueilli les étudiant·es lors de leurs nombreuses marches à travers la Serbie, ou ont cuisiné pour les cantines des facultés occupées, mais aussi des curieux et curieuses encore hésitant·es qui sortent dans la rue pour la première fois. Les plus déterminé·es y ont passé la nuit.

Des dirigeants européens aphones

Dès le matin, lundi 30 juin, à Belgrade, des policiers masqués ont commencé à démanteler les barrages, sans rencontrer de résistance. Mais à peine certains sont-ils défaits que d’autres se reforment. « Les citoyens, les militants et les zborovi nous transmettent les informations sur nos réseaux, et les activités sont coordonnées sur cette base », explique Đorđe Miketić, de l’initiative citoyenne Beograd ostaje.

« Nous conseillons aux citoyens de maintenir les blocages de manière durable, de ne jamais laisser quelques personnes isolées aux intersections, mais de rester en groupes plus importants. Si la police apparaît, il est conseillé de ne pas se disperser mais de quitter les lieux en groupes », ajoute-t-il.

Le président Vučić se félicitait

d’avoir réussi à juguler le spectre

d’une « révolution de couleur ».

Lundi après-midi, des colonnes de voitures convergeaient vers le centre de Kragujevac, afin de bloquer totalement cette importante ville industrielle. Le « transfert du flambeau » des étudiant·es aux citoyen·nes suppose le passage à de multiples formes de désobéissance civile, et les réseaux sociaux fleurissent de suggestions, comme d’inonder de courriels les administrations publiques ou de multiplier les retraits de petites sommes pour engorger les banques.

Le président Vučić se félicitait ces dernières semaines d’avoir réussi à juguler le spectre d’une « révolution de couleur », mais il a dû revenir sur cette prétention, remerciant lundi après-midi la Russie de sa « compréhension ». Le ministre russe des affaires étrangères, Sergueï Lavrov, a en effet mis en garde contre le risque d’une telle « révolution colorée ».

Ce concept, forgé après la chute de Milošević en 2000 puis les révolutions de Géorgie (2003) et d’Ukraine (2004), suppose un fort engagement occidental dans un scénario de changement de régime. En réalité, la prise de position russe fait contraste avec l’assourdissant silence des responsables européens et des chancelleries occidentales. Celles-ci se contentent, depuis des mois, de lancer de dérisoires « appels au calme », sans jamais se prononcer explicitement sur les exigences démocratiques du mouvement.

Si le scénario des prochains jours demeure impossible à imaginer, le régime conserve une voie de sortie, relativement facile à emprunter : satisfaire la revendication centrale des étudiant·es et des citoyen·nes en convoquant des élections anticipées. À défaut, la Serbie risque pour de bon de basculer dans l’inconnu.

Jean-Arnault Dérens




Tecnocritica militante - militantismo tecnocritico

 




[Articolo di Besnard Pierre pubblicato in francese sul Club di Mediapart, tradotto e trasmesso al servizio della coscienza di specie]

Per chi vuole cambiare il mondo, il XXI° secolo pone un dilemma antico reso insolubile dalla crisi ambientale. Da un lato, il bisogno di rendere popolare la lotta e affermarsi nel dibattito pubblico. Dall'altro, il contributo all’info-obesità e ai danni ecologici causati dalla digitalizzazione dei mezzi di comunicazione. Si deve dunque combattere la "battaglia culturale" con tutti i mezzi tecnologici necessari?

Per chi vuole cambiare il mondo, il XXI° secolo pone un dilemma antico reso insolubile dalla crisi ambientale. Da un lato, il bisogno di rendere popolare la lotta e affermarsi nel dibattito pubblico. Dall'altro, il contributo all’info-obesità[1] e ai danni ecologici causati dalla digitalizzazione dei mezzi di comunicazione.

Negli ambienti militanti, la lotta implica spesso un Frama[2], un gruppo Signal[3], un loop Discord[4], un file Facebook, una catena di mail, un hashtag, una raccolta fondi online e “contenuti” per i social network. Sono tutti modi per scambiarsi idee, comunicare una storia e rendere visibile la propria lotta. Tuttavia, questi strumenti tecnologici sono di proprietà e/o si basano sull'infrastruttura di multinazionali senza scrupoli. Peggio ancora, la digitalizzazione della lotta implica un flusso sempre crescente di informazioni, energia e risorse materiali, in totale contraddizione con i limiti planetari.

Allorché l'intreccio tra tecnologia, denaro e potere raramente è stato così pronunciato, mentre l'impatto ambientale degli strumenti digitali diventa ogni anno più distruttivo, si dovrebbero usare “tutti i mezzi [tecnologici] necessari”, secondo la formula di un Malcolm X o di un Magneto[5], per far trionfare le proprie idee?

Senso comune militante

L'epoca ha accettato pienamente l'idea che l'Homo sapiens non fosse tanto saggio e ragionevole, quanto affabulatore e credulone. Le storie che costui si racconta plasmano la sua esistenza, il suo rapporto con gli altri e con il mondo. Secondo la filosofa Kate Crehan, “queste storie, plasmate dalla vita collettiva, sono mediatizzate dall'educazione, dai media, dagli intellettuali e dalla letteratura popolare, e formano quello che viene chiamato “senso comune”, "un insieme di verità date per scontate, condivise da un gruppo sociale”[6].

Se questo gruppo sociale domina la società, il suo “senso comune” diventa “egemonico”, imponendosi agli altri gruppi – concetto chiave del filosofo spesso citato Antonio Gramsci. Se il gruppo è marginale, combatte con le unghie e con i denti per de marginalizzare la propria narrazione, sfondare il soffitto di cristallo del dibattito pubblico e aprire la Finestra di Overton – il quadro del dibattito “accettabile”. Si batte per l'“egemonia culturale”.

Gli attivisti che cercano di rompere lo status quo, marginali per definizione, ricorrono quindi ad azioni shock in grado di scuotere il senso comune dominante e imporre la propria narrazione. Tendono a sopravvalutare la performance politica – in senso teatrale –, a dare priorità all'efficacia e alla viralità di un colpo spettacolare per compensare la loro esiguità numerica. Nel loro libro, il gruppo Soulèvements de la Terre propone dunque una “morale dell'efficienza” in cui “il bene è azione”[7]. Mettendo in guardia contro le due insidie della "visibilità fine a se stessa [e] dell'abbandono di piattaforme e reti, propone una scala per "misurare" il suo impatto[8].

Vincere la "battaglia culturale" implica una logica guerriera che tende a deificare l'efficienza, la performance, la "cultura" dei risultati. Una dottrina diventata dogma nell'Occidente contemporaneo e all’origine delle peggiori derive. Lungi dall'argomento del “pendio scivoloso”[9] o dal saggio filosofico sul dilemma del tram[10], osserviamo che “il fine giustifica i mezzi?” è una domanda rapidamente liquidata o dalla risposta facile in ambito militante. Uno dei loro luoghi comuni è “Internet è la nuova agorà. Non essere in rete significa non dare vita alla propria recitazione, disarmarsi, perdere. Lasciar perdere il campo di battaglia digitale è la sconfitta culturale garantita”.

La regola del gioco

Tuttavia, diffondere la propria recitazione online significa sostenere l'idea che le grandi aziende di telecomunicazioni trasportino e distribuiscano la parola nella società. Molte sono mega-corporazioni che hanno prosperato e poi calpestato le promesse di Internet. Dal Web che connette l'umanità orizzontalmente, trasportando conoscenza e idee oltre i confini e le classi sociali, alla discarica di fake news, di dati monetizzati, d’isolamento sociale, di sorveglianza, di cyber bullismo, di silos di opinioni, di Elon Musk, della balcanizzazione della realtà ... Dall'utopia tecno scientifica alla sindrome del “viviamo tutti un po' in Black Mirror[11].

L'Internet dei social network è un mercato dell’attenzione, di stimoli mentali, di panico morale e di opinioni impulsive. Il regno del breve termine, del potenziale di eccitazione superiore, dell'amnesia storica e contestuale. Un mondo di divertimento perpetuo nello stile di Aldous Huxley, dove si vegeta defilandosi, alla ricerca della prossima dose di dopamina davanti al video di un gattino che suona la tromba. Il contenuto pubblicato non è il prodotto da vendere, ma lo strumento di vendita. Il presunto spazio comune – l'agorà – è in realtà balcanizzato per corrispondere ai nostri gusti personali, ricalibrando la realtà per annientare ogni ragionamento complesso, bombardandoci continuamente d”immagini, slogan e cliché seducenti o esasperanti.

Appiattendo tutto, mettendolo a equidistanza, omogeneizzandolo, la cultura di Internet è l'universo del “monoforme”[12]. La sua facoltà di digerire qualsiasi forma di contestazione è straordinaria. L’integrazione permanente delle controculture di protesta nel campo del mainstream ha recentemente portato Fossoyeur de films – youtuber critico cinematografico – ad affermare che “la Matrice[13] ha vinto. Il sistema è diventato intoccabile e approfitta per permettere che un piccolo margine di sovversione accettabile possa esprimersi. Il che dà una sensazione di libertà”[14].

Il filosofo David Bénabar ha spiegato il fallimento delle rivoluzioni con la capacità “distruttrice-creatrice del capitale” tendenza a “rivoluzionare le forze produttive”, a nutrirsi delle critiche. Ciò che non uccide il capitalismo lo rafforza. Una prospettiva spiacevole da ammettere: il sistema non può essere combattuto con le sue stesse armi, riformato dall'interno o rivoluzionato “passivamente”[15]. Contrariamente al luogo comune liberale in vigore fin dall'Illuminismo (only way to fight bad speech is more speech), non si combatte il discorso nocivo aggiungendo del discorso.

Ci sono dei limiti – cognitivi e umani, energetici e ambientali (torneremo su questo) – all'espansione infinita dei mezzi di comunicazione e d’informazione. Ecco perché, secondo David Edgerton, “le tecnologie della comunicazione non aboliscono le frontiere e non danno origine a una “società dell'informazione”. La tecnologia è stata lo strumento di forze non rivoluzionarie, ma conservatrici. Le nuove tecnologie perpetuano i vecchi rapporti di potere”[16]. Scegliere il campo di battaglia culturale digitale, sguazzare nel pantano digitale, non è già fare fallimento?

Impasse storica

Un altro dilemma del libero mercato delle idee, e non il meno importante: il suo costo ambientale. Come scrive lo storico Dipesh Chakrabarty, “la maggior parte delle nostre libertà è stata finora ad alta intensità energetica”[17]. Ogni innovazione nelle telecomunicazioni ha aumentato il consumo di energia e risorse e ha favorito la creazione di multinazionali e l'espansione di potenze imperialiste. Il telegrafo, il treno, il telefono, la radio, il cinema, la televisione, il satellite, altrettanti “progressi della civiltà” che hanno sconvolto il flusso d’informazioni e spinto invece al dominio del mondo e alla “riduzione degli esseri, degli spazi e delle cose a riserve di energia e di materia da cui è lecito attingere fino all'esaurimento”[18].

Lo storico François Jarrige cita l’esempio parossistico dei cavi telegrafici transoceanici del XIX secolo. “L'ascesa della telegrafia è stata quindi resa possibile dallo sfruttamento di nuove piante come la guttaperca, un lattice naturale proveniente dalle foreste della Malesia [allora protettorato britannico], utilizzato come materiale isolante per cavi sottomarini e apparecchiature elettriche. Frutto della convergenza tra i progressi ingegneristici, le ambizioni espansionistiche di alcuni Stati e la ricerca di nuovi mezzi di comunicazione più rapidi, la tecnologia via cavo segna una svolta nella storia delle telecomunicazioni moderne e nell'ascesa delle imprese, consentendo di ridurre considerevolmente il ritmo di circolazione dell’informazione [...]”[19].

Oggi, i cavi transoceanici sono tubi di rame, acciaio o alluminio, “avvolti in polietilene (plastica), contenenti [...] fili di vetro, attraverso i quali [l’informazione] transita a circa 200.000 chilometri il secondo”[20]. Secondo il giornalista Guillaume Pitron, questi “tentacoli dell’informazione” raggiungerebbero una lunghezza totale di 1,2 milioni di chilometri, più di tre volte la distanza tra la Terra e la Luna.

“Tentacoli”, antenne a banda larga, data center, media elettronici e i loro minerali di sangue plasmano un sistema d”informazione e di comunicazione che partecipa allo “stile di vita imperiale” descritto da Ulrich Brand e Markus Wissen[21]. I beni e i servizi da cui dipendono sia le società sviluppate che i loro contestatori sono prodotti in condizioni sociali e ambientali deplorevoli, frutto di scambi ineguali con i cosiddetti paesi emergenti. Digitalizzare la protesta implica il perpetuarsi di queste relazioni strutturali di sfruttamento e dei conseguenti conflitti ecologico-imperiali.

Già nel XIX° secolo, l'artista Émile Gravelle ammoniva: “A coloro che parleranno di rivoluzione dichiarando di volere preservare l’artificiale superfluo, diremo questo: siete conservatori di elementi di servitù, quindi sarete sempre schiavi; pensate d’impossessarvi della produzione materiale per appropriarvene. Ebbene, questa produzione materiale, che è la forza dei vostri oppressori, è ben protetta contro la vostra cupidigia; finché esisterà, le vostre rivolte saranno represse e le vostre ricerche affannose saranno altrettanti sacrifici inutili”[22].

Conclusione

In ogni epoca, per criticare lo status quo si sono utilizzate le tecnologie d'informazione e di comunicazione disponibili per disturbare il buon senso dominante. I giornali durante la Rivoluzione Francese, il telegrafo durante la Primavera dei popoli, la ferrovia per l'Internazionale operaia. Dalla stampa abolizionista del XIX° secolo ai resoconti radiofonici del Maggio 1968, dalle immagini televisive della guerra del Vietnam al movimento online “Me Too”, per ogni nuovo mass media, un nuovo modo di lottare.

Tuttavia, attenzione alle semplificazioni. Nessuna rivoluzione può essere ridotta a un’unica causa. Ogni rivolta è multifattoriale. Nessun conflitto trova la sua origine o la sua risoluzione nell'“informazione”. Ogni tecnologia ha un duplice uso. Le strutture di potere messe in crisi dai nuovi media se ne appropriano immediatamente. Attenzione anche alle prese di possesso. “Nel 2011, la celebrazione [occidentale-centrica] del militantismo su Twitter e Facebook ha talvolta dato l'impressione che le rivolte arabe si stessero svolgendo online piuttosto che in piazza”[23]. Una maniera di legittimare le multinazionali tecnologiche e rivitalizzare la narrazione del progresso tecnologico al servizio del progresso umano.

Nel momento in cui “le nostre menti sono sostituite da algoritmi, i nostri cuori sono rimpiazzati da argomenti di moda sui social media, al nostro mondo subentrano degli schermi, al nostro genio creativo si sostituiscono delle IA”[24], è urgente interrogare la lotta, i suoi fini e i suoi mezzi in riferimento alle questioni ambientali. L'urgenza ecologica deve rimodellare i quadri del dibattito e le modalità d'azione. Ogni militante deve sapere che “cambiare la società significa dedicarsi al lavoro a lungo termine che l'organizzazione politica richiede, piuttosto che organizzare un movimento affidandosi a degli specchi”[25], soprattutto se sono deformanti, dispendiosi in energia ed ecocidi quanto i mezzi di comunicazione digitali.

La portata delle crisi attuali richiede un militantismo rivoluzionario che abbandoni gli strumenti high-tech per affidarsi alle relazioni sociali, agli stili di vita e all'immaginario. Una buona notizia? Come ha dimostrato il fallimento delle dittature sostenute dai mezzi tecnologici più innovativi del loro tempo, anche trasmesse di mano in mano o da bocca di militante a orecchio di contestatore, l'emancipazione, l'arte e la verità possono rovesciare tutto.

 

Besnard Pierre

 

 



[1] Altrimenti detto “sovraccarico informativo”, l’eccesso dinformazioni che una persona non riesce a elaborare o sopportare.

[2] Abbreviazione di Framasoft, rete di software liberi che consente l'organizzazione, l'informazione e lo scambio al di fuori della logica mercantile. Uno dei loro slogan è “Cambiare il mondo, un byte alla volta”.

[3] Applicazione di messaggistica crittografata.

[4] Applicazione per creare e unirsi a “comunità” online.

[5] Benjamin Patineau, Le syndrome Magneto, Le Diable Vauvert, 2023.

[6] Gramsci’s common sense, Kate Crehan, journals.openedition.org, consulté le 14/05/2025.

 

[7] Les SDT, Premières secousses, La Fabrique, 2024, pag.72.

[8] Ibid., pag.74 et pag.270.

[9] Tesi che immagina una catena di conseguenze che portano a una conclusione catastrofica che implica l'impossibilità di fermarsi una volta in corso.

[10] Dilemma morale: deviare un tram e uccidere una persona per evitare la morte di altre cinque.

[11] Per usare l'espressione dell’youtuber Norman.

[12] Un'idea del regista dissidente Peter Watkins, Monoforme è “una struttura cinematografica monolineare attraverso un montaggio frenetico e manipolatore che non lascia tempo per pensare né spazio per una partecipazione democratica che consente una rimessa in discussione o un’interrogazione”, vedi il documentario Peter Watkins – Lituania, 2001.

[13] A proposito della trilogia di Matrix delle sorelle Wachowki, capolavoro che esorta a sovvertire lo status quo per costruire un mondo di tolleranza.

[14] Le Fossoyeur de films, Le cinéma. C'était mieux avant. Partie 2, 2024.

[15] Un altro concetto di Antonio Gramsci: la rivoluzione passiva sarebbe una trasformazione radicale della società senza alcuna reale messa in discussione delle gerarchie sociali. Una “rivoluzione senza rivoluzione”, avviata dai dominanti piuttosto che dai dominati.

[16] Citato da François Jarrige, On arrête (parfois) le progrès, L'Echappée, 2022, pag.244.

[17] Histoire des révolutions, ibid., pag.744.

[18] Johann Chapoutot, Christian Ingrao, Nicolas Patin, Le monde nazi 1919-1945, Tallandier, 2024, pag 500.

[19] Multinationales une histoire du monde contemporain, Olivier Petitjean et Ivan du Roy (sous la dir.), François Jarrige, La Découverte, 2025 pag.72.

[20] Guillaume Pitron, L’enfer numérique, Les liens qui libèrent, 2023, pag.265.

[21] La Décroissance, n°218 Mai-Juin 2025, pag.17.

[22] Histoire des révolutions, ibid., pag.749.

[23] Hanouna, la gauche et les médias, Pierre Grimbert, Serge Halimi, Le Monde diplomatiquegennaio 2023, pag.18.

[24] Droni, articolo di Caitlin Johnstone, dicembre 2024, caitlinjohnstone.com, consultato il 25/05/2025.

[25] Christopher Lasch citato da Pierre Grimbert e Serge Halimi, articolo citato.





Technocritique militante - Militantisme technocritique

Besnard Pierre sur le Club de Mediapart

A celleux qui veulent changer le monde, le XXIème siècle pose un dilemme ancien rendu insoluble par la crise environnementale. D’un côté, le besoin de populariser la lutte, de s’imposer dans le débat public. De l’autre, la contribution à l’infobésité et les dégâts écologiques de la numérisation des moyens de communication. Faut-il mener la « bataille culturelle » par tous les moyens technologiques nécessaires ?

A celleux qui veulent changer le monde, le XXIème siècle pose un dilemme ancien rendu insoluble par la crise environnementale. D’un côté, le besoin de populariser la lutte, de s’imposer dans le débat public. De l’autre, la contribution à l’infobésité[1] et les dégâts écologiques de la numérisation des moyens de communication.

Dans les milieux militants, lutter implique souvent un Frama[2], un groupe Signal[3], une boucle Discord[4], un fil Facebook, une chaîne de mails, un mot-dièse (hashtag), une cagnotte en ligne et du « contenu » pour les réseaux. Autant de moyens d'échanger, de communiquer un récit et de rendre visible son combat. Mais ces outils technologiques sont la propriété et/ou reposent sur les infrastructures de multinationales scélérates. Pire, numériser la lutte implique d’augmenter toujours plus les flux informationnels, énergétiques et matériels, en contradiction totale avec les limites planétaires.

Alors que l’imbrication de la technologie, de l’argent et du pouvoir a rarement été aussi prononcée, alors que l’impact environnemental des outils numériques se fait chaque année plus destructeur, doit-on employer « tous les moyens [technologiques] nécessaires », selon la formule d'un Malcolm X ou d'un Magneto[5], pour faire triompher ses idées ?

Sens commun militant

L’époque a pleinement accepté l’idée que Homo n’était pas tant sage (Sapiens) et raisonnable que fabulateur et crédule. Les récits qu’il se raconte modèlent son existence, son rapport aux autres et au monde. Selon la philosophe Kate Crehan, « ces récits, façonnés par la vie collective, sont médiatisés par l’éducation, les médias, les intellectuels et la littérature populaire, et forment ce que l’on appelle le « sens commun », « un ensemble de vérités considérées comme allant de soi, partagées par un groupe social »[6].

Si ce groupe social domine la société, son « sens commun » devient « hégémonique » s’imposant aux autres groupes – concept clé du philosophe multi-cité Antonio Gramsci. Si le groupe est marginal, il lutte pied à pied pour dé-marginaliser son récit, percer le plafond de verre du débat public, ouvrir la fenêtre d’Overton – le cadre du débat « acceptable ». Il livre bataille pour « l’hégémonie culturelle ».

Les activistes cherchant à bousculer le statu quo, marginales.aux par définition, ont donc recours à des actions-chocs, à même de bousculer le sens commun dominant et à imposer leur récit. Iels ont tendance à surjouer la performance – au sens théâtral – politique, à privilégier l’efficacité et la viralité d’un coup spectaculaire afin de compenser la faiblesse de leur nombre. Dans leur livre, les Soulèvements de la Terre proposent ainsi une « morale de l’efficacité » dans laquelle « le bien c’est l’action »[7]. Avertissant contre les deux écueils de « la visibilité pour elle-même [et] la désertion des plateaux et des réseaux, iels proposent une échelle pour « jauger » son impact[8].

Gagner la « bataille culturelle » implique une logique guerrière qui tend à déifier l’efficacité, la performance, la « culture » du résultat. Une doctrine passée dogme dans l’Occident contemporain et à l’origine de ses pires dérives. Loin de l’argument de la « pente glissante »[9] ou de la dissert’ de philo sur le dilemme du tramway[10], constatons que « la fin justifie-t-elle les moyens ? » est une question vite-évacuée ou vite-répondue dans les milieux militants. Un de leurs sens communs est « Internet est la nouvelle agora. Ne pas être sur les réseaux, c’est ne pas faire vivre son récit, se désarmer, perdre. Concéder le champ de bataille numérique, c’est la défaite culturelle assurée ».

La règle du jeu

Mais diffuser son récit en ligne, c’est entériner l’idée que les grandes entreprises des télécommunications transportent et distribuent la parole dans la société. Beaucoup sont des méga-corporations qui ont prospéré sur puis piétiné les promesses d’Internet. De la Toile reliant l’humanité de façon horizontale, transportant savoirs et idées par-delà les frontières et les rangs sociaux, au déversoir à infox (fake news), aux données monétisées, à l’isolement social, à la surveillance, au cyber harcèlement, aux silos d’opinions, à Elon Musk, à la balkanisation de la réalité … De l’utopie technoscientifique au syndrome « on vit tous un peu dans Black Mirror »[11].

L’Internet des réseaux sociaux est un marché de l’attention, de stimulations mentales, de paniques morales et d’opinions pulsionnelles. Le règne du court-termisme, du potentiel d’excitation supérieur, de l’amnésie historique et contextuelle. Un monde de divertissement perpétuel à la Aldous Huxley où l’on végète en scrollant, quêtant son prochain shot de dopamine devant la vidéo d’un chaton trompettiste. Le contenu publié n’est pas le produit à vendre mais l’outil de vente. L’espace prétendu commun – l’agora – est en fait balkanisé pour correspondre à nos goûts personnels, recalibrant le réel pour tuer tout raisonnement complexe, nous bombardant continûment d’images, de slogans et de clichés séduisants ou rageants.

Tout aplanir, tout mettre à équidistance, tout homogénéiser, la culture Internet est l’univers de la « monoforme »[12]. Sa faculté à digérer toute forme de contestation est extraordinaire. L’intégration permanente des contre-cultures contestataires dans le champ du mainstream faisait récemment dire au Fossoyeur de films, youtubeur critique de cinéma, que « la Matrice[13], elle a gagné. Le système est devenu intouchable et c’est même devenu à son avantage de laisser s’exprimer une petite marge de subversion acceptable. Ca donne un sentiment de liberté »[14].

Le philosophe David Bénabar expliquait lui l’échec des révolutions par la capacité « destructrice-créatrice du capital »[15], cette aptitude à « révolutionner les forces productives », à se nourrir des critiques. Ce qui ne tue pas le capitalisme le rend plus fort. Une perspective désagréable à admettre : le système ne peut être combattu avec ses propres armes, réformé de l’intérieur, révolutionné « passivement »[16]. Contrairement au trope libéral en vigueur depuis les Lumières (only way to fight bad speech is more speech), on ne combat pas l’expression nocive par plus d’expression.

Il y a des limites – cognitives et humaines, énergétiques et environnementales (nous y reviendrons) – à l’extension infinie des moyens de communication et d’information. C’est pourquoi, selon David Edgerton, « les technologies de la communication n’abolissent pas les frontières et ne donnent pas naissance à une « société de l’information ». La technologie a été l’instrument de forces non pas révolutionnaires mais conservatrices. Les nouvelles technologies perpétuent les vieilles relations de pouvoir »[17]. Choisir le champ de bataille culturelle numérique, gadouiller dans la fange digitale, n’est-ce pas déjà échouer ?

Impasse historique

Autre dilemme et non des moindres du libre marché des idées : son coût environnemental. Comme l’écrit l’historien Dipesh Chakrabarty, « la plupart de nos libertés ont jusqu’à présent été à forte intensité énergétique »[18]. Chaque innovation dans les télécommunications a augmenté la consommation d’énergie et de ressources et favorisé la constitution d’entreprises multinationales et l’expansion de puissances impériales. Le télégraphe, le train, le téléphone, la radio, le cinéma, la télévision, le satellite, autant de « progrès de la civilisation » qui ont chamboulé la circulation d’informations et poussé en retour à la domination du monde et à la « réduction des êtres, des espaces et des choses à des fonds d'énergie et de matière dans lesquels il est loisible de puiser jusqu'à l'épuisement »[19].

L’historien François Jarrige donne l’exemple paroxystique des câbles télégraphiques transocéaniques au XIXème siècle. « L’essor de la télégraphie a ainsi été rendu possible par l’exploitation de nouvelles plantes comme la gutta-percha, un latex naturel issu des forêts de Malaisie [alors protectorat britannique], utilisé comme matériau d’isolation pour les câbles et les équipements électriques sous-marins. Fruit de la rencontre entre les progrès de l’ingénierie, les ambitions expansionnistes de certains Etats et la recherche de nouveaux moyens de communication plus rapides, la technologie du câble marque une rupture dans l’histoire des télécommunications modernes et l’essor des entreprises, permettant de réduire considérablement le rythme de circulation de l’information […] »[20].

Aujourd’hui les câbles transocéaniques sont des tubes de cuivre, d’acier ou d’aluminium, « enveloppés dans du polyéthylène (plastique), renfermant […] des fils de verre, dans lesquels [l’information] transite, à environ 200 000 kilomètres par seconde »[21]. Selon le journaliste Guillaume Pitron, ces « tentacules de l’information » totaliseraient 1,2 millions de kilomètres, plus de trois fois la distance Terre-Lune.

« Tentacules », antennes haut débit, centres de données, supports électroniques et leurs minerais de sang façonnent un système d’information et de communication qui participe au « mode de vie impérial » tel que le décrivent Ulrich Brand et Markus Wissen[22]. Les biens et les services dont dépendent les sociétés développées comme leurs contestataires sont produits dans des conditions sociales et environnementales déplorables, fruits d’échanges inégaux avec des pays dits émergents. Numériser la contestation implique de perpétuer ces relations structurelles d’exploitation et les conflits écologico-impériales qui en résultent.

Dés le XIXème siècle, l’artiste Emile Gravelle avertissait : « A ceux qui parleront de révolution tout en déclarant vouloir conserver l’artificiel superflu, nous dirons ceci : vous êtes des conservateurs d’éléments de servitude, vous serez donc toujours esclaves ; vous pensez vous emparer de la production matérielle pour vous l’approprier, eh bien ! Cette production matérielle qui fait la force de vos oppresseurs est bien garantie contre vos convoitises ; tant qu’elle existera, vos révoltes seront réprimées et vos ruées seront autant de sacrifices inutiles »[23].

Conclusion

A toute époque, les contempteurices du statu quo ont utilisé les technologies d’information et de communication disponibles pour chahuter le sens commun dominant. Les journaux lors de la Révolution française, le télégraphe lors du Printemps des peuples, le chemin de fer pour l’Internationale ouvrière. De la presse abolitionniste du XIXème aux reportages radio de mai 68, des images télévisées de la guerre du Vietnam au mouvement en ligne « Me too », à nouveau média, nouvelle façon de lutter.

Cependant gare aux simplifications. Aucune révolution n'est réductible à une cause unique. Toute révolte est multifactorielle. Aucun conflit ne trouve sa source ou sa résolution dans « l'information ». Toute technologie est à double usage. Les structures de pouvoir débordées par les nouveaux médias s’en saisissent aussi vite. Gare aussi aux appropriations. « En 2011, la célébration [occidentalo-centrée] du militantisme sur Twitter et Facebook donnait parfois le sentiment que les révoltes arabes se déroulaient en ligne plutôt que dans la rue »[24]. Une façon de légitimer les multinationales de la tech et de revitaliser le récit du progrès technologique au service du progrès humain.

Alors que « nos esprits sont remplacés par des algorithmes ; nos cœurs sont remplacés par des sujets tendances sur les réseaux ; notre monde est remplacé par des écrans; notre génie créatif est remplacé par des IA »[25], il est urgent d’interroger la lutte, sa fin et ses moyens au regard des enjeux environnementaux. L’urgence écologique doit remodeler les cadres du débat et les modalités d’action. Tout.e militant.e doit savoir que « changer la société [c’est] se consacrer au travail de longue haleine que suppose l’organisation politique plutôt que d’organiser un mouvement en se fiant à des miroirs »[26], a fortiori s’ils sont aussi déformants, énergivores et écocidaires que les moyens de communication numériques.

L’ampleur des crises actuelles appelle un militantisme révolutionnaire délaissant les outils high tech pour s’appuyer sur les rapports sociaux, les manières de vivre et les imaginaires. Une bonne nouvelle ? Comme l’échec des dictatures appuyées par les moyens technologiques les plus novateurs de leur époque l’a prouvé, même transmis de la main à la main ou de bouche de militante à oreille de contestataire, l’émancipation, l’art et la vérité peuvent tout renverser.

 

Besnard Pierre

 



[1] Ou « surcharge informationnelle », l’excès d’information qu’une personne ne peut traiter ou supporter.

[2] Diminutif de Framasoft, réseau de logiciels libres permettant l’organisation, l’information, l’échange en dehors des logiques marchandes. Un de leurs slogans est « Changer le monde un octet à la fois ».

[3]  Application de messagerie cryptée.

[4] Application permettant de créer et de rejoindre des « communautés » en ligne.

[5] Benjamin Patineau, Le syndrome Magneto, Le Diable Vauvert, 2023.

[6] Gramsci’s common sense, Kate Crehan, journals.openedition.org, consulté le 14/05/2025.

[7] Les SDT, Premières secousses, La Fabrique, 2024, p.72.

[8] Ibid., p.74 et p.270.

[9] Thèse imaginant une chaîne de conséquences aboutissant à une conclusion catastrophique et insinuant l’impossibilité de s’arrêter une fois en chemin.

[10] Dilemme moral : faire bifurquer un tramway et tuer une personne pour éviter la mort de cinq autres

[11] Pour reprendre l’expression du youtubeur Norman.

[12] Concept du cinéaste dissident Peter Watkins, la Monoforme est « une structure mono-linéaire de film par un montage frénétique et manipulateur ne laissant pas le temps de penser ou d’espace pour une participation démocratique permettant une remise en cause ou un questionnement », voire le documentaire Peter Watkins – Lituanie, 2001.

[13] A propos de la trilogie Matrix des sœurs Wachowki, chef d’œuvre invitant au renversement du statu quo pour bâtir un monde de tolérance.

[14] Le Fossoyeur de films, Le cinéma. C'était mieux avant. Partie 2, 2024.

[15] Histoire des révolutions, Ludivie Bantigny, Quentin Deluermoz, Boris Gopille, Laurent Jeanpierre, Eugénia Palieraki (dir.), La Découverte, 2023, p.1125.

[16] Autre concept d’Antonio Gramsci, la révolution passive serait une transformation radicale de la société sans remise en cause réelle des hiérarchies sociales. Une « révolution sans révolution » initiée par les dominants plutôt que par les dominés.

[17] Cité par François Jarrige, On arrête (parfois) le progrès, L'Echappée, 2022, p.244.

[18] Histoire des révolutions, ibid., p.744.

[19] Johann Chapoutot, Christian Ingrao, Nicolas Patin, Le monde nazi 1919-1945, Tallandier, 2024, p.500.

[20] Multinationales une histoire du monde contemporain, Olivier Petitjean et Ivan du Roy (sous la dir.), François Jarrige, La Découverte, 2025 p.72.

[21] Guillaume Pitron, L’enfer numérique, Les liens qui libèrent, 2023, p.265.

[22] La Décroissance, n°218 Mai-Juin 2025, p.17.

[23] Histoire des révolutions, ibid., p.749.

[24] Hanouna, la gauche et les médias, Pierre Grimbert, Serge Halimi, Le Monde diplomatiquejanvier 2023, p.18.

[25] Drones, article par Caitlin Johnstone, décembre 2024caitlinjohnstone.com, consulté le 25/05/2025.

[26] Christopher Lasch cité par Pierre Grimbert et Serge Halimi, article cité.