Nota del traduttore
Essere il traduttore di un autentico essere umano in quest’epoca in cui
la disumanità ha un potere sempre più delirante e mortifero – come documenta ampiamente lo spettacolo
sociale che inquina e violenta la vita sul pianeta mettendo ormai in pericolo
la sopravvivenza stessa della specie umana – è soprattutto il segno di un coinvolgimento manifesto nel progetto
radicale di autogestione
generalizzata della vita quotidiana che
Raoul Vaneigem propone, affinandolo progressivamente, fin dall’epoca ormai
lontana del maggio 1968. La mia amicizia complice con l’autore di questo
scritto non è un segreto: l’ho sempre coltivata con affetto e chiarezza, insieme
alla piena autonomia di pensiero e di azione di ogni individuo che condivida un
progetto comune di re-umanizzazione e di emancipazione sociale.
Nella catastrofe che avanza, aumentano a dismisura le vittime del
disastro finale della civiltà produttivista. Gli esseri umani le sono sempre
più ostili, coscienti che il superamento storico della società spettacolare-mercantile
è la conditio sine qua non affinché l’umanità possa sopravvivere al
nichilismo capitalista. Lo Stato totalitario multiplo che, democratico o
dittatoriale, gestisce dappertutto qualcuna tra le variegate forme della società
dello spettacolo integrato è, di fatto, la soluzione finale di un produttivismo che ha ridotto gli
esseri umani a schiavi dell’economia politica – teologia materialista moderna che serve da secoli le oligarchie di
governo sempre conflittuali tra loro, ma tutte volgarmente e tragicamente
sfruttatrici del lavoro e delle passioni degli esseri umani.
La fase terminale della barbarie patriarcale che fin dalla preistoria
recente ha imposto la civiltà suprematista del produttivismo, riapre uno spazio
alla civiltà matricentrica sconfitta e rimossa dalla memoria collettiva dall’imperialismo
della società mercantile, guerriera, bigotta, devota alla merce sovrana e malata
della peste emozionale dei suoi servitori volontari.
Questo breve scritto è una delle preziose iniezioni di agopuntura
radicale con le quali Raoul, a modo suo e in piena autonomia, continua a illuminare
umanamente il cammino organico del vivente, rischiarato artificialmente, in
quest’epoca buia, dell’elettricità mortifera dell’energia nucleare.
Sergio Ghirardi Sauvageon
I. La vita non è un oggetto
Non abbiamo mai imparato altro che a morire, ora è il momento d’imparare
a vivere.
Ci troviamo al punto di rottura tra due civiltà. Il vecchio
mondo sta crollando e tarda a scomparire, il nuovo emerge e tarda a imporsi.
L'onda d'urto che scuote il pianeta squassa la nostra esistenza.
Ne rivela la radice. Ormai nessuna ideologia ha il potere di dissimularla.
La roccia delle verità antiche vola in frantumi.
Rinunciare a vivere per evitare di morire. Nessun passato ha
ottenuto il consenso delle folle a un'assurdità così sconcertante. Nessuna
epoca si è lasciata rincretinire a un tal punto con docilità.
Tuttavia, per quanto lo Stato e le multinazionali riversino le
immondizie della paura, della rassegnazione, della rinuncia, del sacrificio,
della delazione, arriva un momento in cui tutto vacilla, tutto traballa perché
la vita riprende il sopravvento e si riappropria dei propri diritti. Siamo al cuore
di un tale momento. Più esattamente, ne siamo il cuore.
Senza dubbio si deve attribuire al sogno il potere di dissolvere
gli incubi del reale. Tuttavia, ciò resterà una formula vuota finché non avremo
deciso di abbandonare la giungla sociale in cui sopravvivere era la nostra
sorte. Per andare dove? Esattamente dove siamo. Dove si risveglia in noi il
desiderio irrefrenabile di costruire sul terreno della nostra esistenza una
società in cui l'aiuto reciproco e l'autonomia ci insegnano a esplorare una
vita dalla quale eravamo tenuti lontani.
Le nostre società sono macerie. Sguazziamo in mezzo a valori
morti. I tagli di bilancio hanno rovinato il bene pubblico. Le conquiste
sociali strappate con dure lotte dagli scioperi, dalle occupazioni di fabbrica,
dalla protesta rivendicativa, sono state smembrate, sbriciolate, annientate. Le
pensioni e le indennità sono sottratte a chi ha pagato i contributi per goderne
una volta liberatosi dal lavoro. I trasporti pubblici sono in difficoltà,
l'istruzione, che da molto tempo è solo un mezzo di accesso al mercato degli
schiavi, si corrompe al ritmo di caduta del dinamismo capitalista. La cupidigia
affarista ha saccheggiato gli ospedali pubblici che, qualche decennio fa, sarebbero
stati in grado di rispondere efficacemente all'apparizione di un'epidemia.
Che cosa abbiamo imparato da questo spreco scandaloso? Una
semplice diagnosi di morbosità. La constatazione si è banalizzata diventando l’oggetto di dibattiti politici, analisi
sociologiche, proteste filosofiche, rimproveri e lamentele rivolte a un
Leviatano malato, che ha rifiutato di dare loro risposta adducendo uno stato di fatto. “Le cose stanno così e
non altrimenti, tale è la nostra disponibilità”.
Pertanto, nulla è destinato a cambiare. I manifestanti scalpitano,
le rivendicazioni corporative fanno il loro piccolo giro di giostra. I luoghi
comuni rattristano lo sguardo e si confondono tra quei paesaggi cementificati
da cui distogliamo lo sguardo.
La disperazione, la fatalità, il presentimento della sconfitta
sono tutte armi tanto più efficaci nelle mani del Potere quando siamo noi a
regalargliele.
Lo sviluppo del capitalismo industriale ha avuto il merito, nel
XIX secolo, di autorizzare, suo malgrado, la nascita di una coscienza
proletaria. La quale non si limitava a rivendicazioni salariali, né alle
boccate d'aria di una sopravvivenza oppressa. Il suo progetto? Nientemeno che
la creazione di una società senza classi. Vi persisteva l'aspirazione a una
società egualitaria che si era piegata alle fluttuazioni della storia senza mai
cambiare rotta.
Dispensando le sue innovazioni monetizzate – elettricità,
vapore, ferrovie, terapie, radiofonia – il capitalismo industriale aveva saputo
farsi carico di un progressismo prometeico che affascinava e allo stesso tempo ripugnava.
L'eroe della mitologia greca aveva sfidato, lo sappiamo, la tirannia degli Dei
per offrire agli umani il fuoco grazie al quale essi avrebbero forgiato il loro
destino. Il prezzo da pagare per tale audacia fu il sacrificio di una vita,
condannata alla mutilazione perpetua.
La visione filantropica del capitalismo suggeriva spudoratamente
che la promessa di un mondo migliore si realizzasse nell’abisso dell'inferno
industrializzato e al prezzo della sofferenza operaia. Stavolta il paradiso non
aveva alcun bisogno del passaporto per l'aldilà rilasciato dalle religioni. Era
terrestre, tangibile, a portata di mano, se non della destra, occupata a
lavorare, almeno della sinistra dove s’inscriveva il principio-speranza.
Su istigazione del profitto, signore supremo e unico padrone, la
colonizzazione consumistica si sostituiva alla fase essenzialmente produttivista
del capitalismo. Di fronte alla moda di una democrazia
da supermercato, la vecchia filantropia caritativa è diventata obsoleta.
Mentre svaniva, ha rivelato, però, un fenomeno che avevamo sdegnato di esaminare
più da vicino, quello del traffico umanista.
Che cos'è l'umanesimo in origine? Il puro prodotto di una logica
lucrativa. Uno dei primi doni di cittadinanza della civiltà mercantile. Contro
la perdita secca rappresentata dalla tradizionale uccisione dei prigionieri di
guerra, prevalse l'opinione di concedere loro la grazia di sopravvivere
diventando schiavi, assicurando il movimento perpetuo dei meccanismi economici.
La generosità e il calcolo concludevano così un'improbabile alleanza che si è
perpetuata fino ai nostri giorni.
Il processo di Norimberga ha messo in scena un emblematico spettacolo
umanitario. Un capitalismo che si pretende democratico ha condannato e disprezzato
pubblicamente un capitalismo di Stato totalitario di cui il nazismo e lo
stalinismo avevano concretato l’atrocità concorrenziale.
Nella stessa epoca in cui l'Occidente schiacciava la rivolta dei
popoli colonizzati, il settore dei consumi si apriva facendo vibrare le corde
sensibili dell'altruismo. Si trattava, in qualche modo, di ridare umanità alla rudezza
dell’obbligo produttivista, cioè alla barbarie del lavoro. Il Piano Marshall,
che inaugurò lo straripamento dei piaceri consumabili, passò per un obolo che
l'evangelismo americano concedeva all'Europa devastata dalla guerra.
Gli Eden dell'abbondanza non hanno tardato a moltiplicarsi, occupando
città e campagne con le loro luci al neon. Come preludio al suo straripamento
planetario, la pandemia consumistica riguarda, in priorità, i governi europei.
La perdita delle loro colonie ha deteriorato
la loro arroganza da sfruttatori. Si prosternano ai piedi dell'impero
calvinista e baciano le natiche di quell’immondo Bafometto che è il self-made-man.
(Si sa che quest’idolo era venerato dai Templari, ordine militare e affarista
di cui erano debitori numerosi Stati europei del tredicesimo e quattordicesimo
secolo).
Visto dall'interno, il supermercato è un modello di edonismo, di
scelta elettiva, di democrazia. Sotto l'egida del libero scambio, la libertà è
totale, escluso che va pagata all'uscita. Ci sarebbero, dunque, in questi
luoghi brillantemente illuminati, delle oscurità insospettate?
Un modello consumistico di gestione del popolo si è propagato a
forza di campagne promozionali. Applicarlo al mondo intero, compresi ovviamente
i diritti di pedaggio, nutriva l’ambizione di stabilire il famoso Welfare State, lo stato di benessere
universale, la beatitudine vegetativa elevata alla migliore delle sopravvivenze
possibili.
Il che significava dimenticare che invocare le possibilità in
una società intrisa di divieti vuol dire giocare con il fuoco.
Il capitalismo trovava il suo tornaconto nelle feste faunesche
in cui gli “évohé, évohé!” viravano in
"consumate, consumate!".
Non solo i benefici ricavati non erano più minacciati dagli scioperi fastidiosi,
dalle rivendicazioni salariali, dalle geremiadi dei burocrati sindacali, ma i
salari, strappati agli artigli dello sfruttatore, rimbalzavano docilmente nelle
sue mani di velluto.
Scambiando la tuta con il vestito da consumatore, il proletario
perdeva gradualmente coscienza e combattività. Le ideologie s’invischiavano
nella colla di un clientelismo meno preoccupato di un'intelligenza degli esseri
e delle cose che delle campagne pubblicitarie per valorizzare tutto e niente.
L'importanza accordata al prezzo d’acquisto riduceva al minimo l'interesse rivolto
all’uso del prodotto. In tal modo, l'acquirente è arrivato a preferire la
brillantezza spettacolare di un marchio rinomato all’utilità effettiva di un
paio di scarpe.
L'industrializzazione aveva introdotto condizioni favorevoli
all'emergere di una coscienza di classe. Il diluvio consumistico l’aveva
cancellata provocando, però, sulla sua scia, un tracollo dei valori
tradizionali.
La stretta necessità di produrre spronava all'ascetismo, al
puritanesimo, al sacrificio della vita di fronte alla forza lavoro.
L'ingiunzione a consumare ha aperto una via in senso opposto. In una parodia
dolceamara, le condizioni ricordavano il grande mutamento cui il libero
scambio, suonando l'hallalì dell'Ancien
Régime, aveva invitato i Diderot, i Rousseau,
i d'Holbach, i pensatori dell'Illuminismo, ispiratori e istigatori della
Rivoluzione francese.
Destinando all'obsolescenza le ideologie tradizionali,
l'ecumenismo consumistico esaltava l'edonismo, la libera scelta, l'autonomia,
il rifiuto del sacrificio. La merce stabiliva il proprio culto. In nome dell'Avere
eretto a Essere Supremo, essa ha desacralizzato le religioni e il principio d'autorità.
L'idea che fosse naturale spendere spendendosi contribuì a ispirare il pensiero
che una rinnovata alleanza con la natura avrebbe abolito il dogma dell'antinatura.
La celebrazione della donna consumatrice che promuoveva, con la sua disinvolta
innocenza, la sollecitudine verso il bambino e l’animale non ha ingannato a
lungo l'autodifesa femminista e i sostenitori di una rinaturazione degli esseri
e delle cose. Nella scia non c’è voluto molto per capire che il piacere di
spendere spendendosi significava, nella sua sordida realtà “consumarsi
consumando”.
Fin dagli anni Sessanta il movimento situazionista aveva tratto
insegnamento dell’inversione di tendenza che l'evoluzione del capitalismo metteva
a portata d'analisi e di sovversione radicale. Il tornante ha risvegliato e
stimolato la coscienza di chi non aveva rinunciato al progetto di emancipazione
umana, trasmesso di generazione in generazione.
Il Movimento delle Occupazioni del 1968 confermò la maggior
parte delle tesi situazioniste. Pur non essendo riuscito a realizzare il
progetto di autogestione generalizzata e a porre le basi di una società umana,
il bel Maggio non fu una vittoria né
una sconfitta. Convocò la storia a un appuntamento permanente. L'apparizione
dei Gilets jaunes in Francia e la
pacifica conflagrazione delle insurrezioni mondiali se ne sono fatte l’eco
senza bisogno di mentori, tribuni o parole d'ordine che le incitassero.
Il ritorno alla vita possiede la genialità per ravvivare senza
sosta la coscienza paradossalmente storica e atemporale che emana da ogni
abitante della terra. La determinazione nell’accordare la priorità all’essere
umano, nel bandire i capi, i rappresentanti autoproclamati, gli apparati
politici e sindacali e nell’agire per il governo del popolo attraverso le
assemblee popolari, è più che sufficiente per gettare le basi di un mutuo soccorso
sociale.
A causa della legge degli opposti, il clientelismo consumistico
ha contribuito al riemergere dell'autenticità, ha contribuito a spogliare la
vita della sua identificazione con la sopravvivenza. Il potere della sua
menzogna ha sommerso la radicalità del maggio 68, non l’ha soffocata. Il che si
avverte nettamente da quando, sotto i colpi dell’impoverimento crescente, si sgretola
il mito della società del benessere – rimaneggiamento "all'americana" dell'Età dell'oro celebrata
da Esiodo.
La minaccia che l'impoverimento fa pesare sulle fortezze del consumabile
ha convinto il capitalismo a rivolgersi alla speculazione borsistica.
L'ingresso nella fase finanziaria lo allontana dal regno illusorio del consumo.
Le elitre del capitalismo l’hanno sempre consigliato di lasciare
quel che lo lascia. Ha disertato le fabbriche e il lavoro della produzione
utile, abbandona il settore dei consumi di massa, minacciato di saccheggio e di
desertificazione. Agonizza programmando l'agonia per tutti. Il suo nichilismo
beffardo seduce gli aspiranti suicidi. Non gli importa di minare il pilastro
portante dello spettacolo. Semina il disastro
nella grande messa in scena, dove la vita era abituata ad avere esistenza solo di
riflesso e per procura. Assumendo la propria debolezza, il capitalismo contribuisce
involontariamente a farci ritrovare l'autenticità.
La ritirata del capitalismo nell'orbita della speculazione
borsistica lo esenta dal dover rendere conto del crollo dell'economia. Rende
redditizio il proprio declino. Dopo il dinamismo industriale e la
colonizzazione consumistica, si cimenta in una fase finanziaria, in un tornado in
cui il denaro impazzito ruota su se stesso.
Ciò si traduce in un fenomeno che ricorda il panico delle
cellule cancerose di un organismo vivente. Il capitalismo non è né materia viva
né materia morta. È una meccanica innestata sul vivente. Le disgrazie
sperimentali della nostra evoluzione l’hanno chiaramente dimostrato: innestare del meccanico sul vivente produce il
deperimento del vivente e l'autodistruzione del meccanico. Avviso ai
transumanisti e ai sostenitori del Credito sociale!
Abbiamo il diritto di porci la domanda: la paura isterica che ha
soppiantato le cure mediche del coronavirus non è forse un effetto della
cancerizzazione di quest’organismo ibrido che è l'idra capitalista?
Comunque sia, non ci libereremo dalla morsa del vecchio mondo
finché non avremo assicurato le basi di microsocietà umane, basate sulla
solidarietà collettiva e sull'autonomia individuale.
II. La contestazione
alienata
Da lunga data siamo impegnati in una lotta spietata contro lo
sfruttamento della natura terrestre e della natura umana. I colpi inferti al
capitalismo dal proletariato hanno segnato una fase specifica della nostra storia,
ancora scossa da una Rivoluzione e da una rivelazione che avevano messo fine al
totalitarismo monarchico.
La coscienza proletaria armata non ha sconfitto la supremazia
capitalista ma – dalla Comune di Parigi alle collettività libertarie spagnole
del 1936 – ha dimostrato che il progetto di una società radicalmente nuova entrava nell’ordine delle possibilità.
Costruire una società veramente umana non è un'utopia ma un esserci (il “ci siamo” – on est là – ripetuto con enfasi dai
Gilets jaunes, NdT.).
Questa è la realtà esperimentata, secondo la loro specificità,
dagli insegnamenti del maggio 1968, dalla cosiddetta rivolta degli Indignati, dall'apparizione degli
zapatisti, dei Gilets jaunes, dei
combattenti del Rojava e delle insurrezioni della vita quotidiana che divampano,
si estinguono e rinascono ai quattro angoli del mondo.
Ecco dove risiede l'importanza del nostro tempo esistenziale e sociale. Lasciamo gli urlatori dell'anticapitalismo
al loro Gran Meeting metropolitano! Lasciamo che la danza dello scalpo celebri
l'illusoria messa a morte del sistema. L'esecrazione non nasconde più
l'impotenza di chiunque si aspetti qualcosa dallo Stato e dalle mafie che lo
sponsorizzano. Quanti anni ancora prima di rendersi conto che nulla è cambiato dei
decreti e delle misure coercitive che attentano alla nostra libertà di vivere?
Quante elezioni per confermare che i più disprezzati
plebiscitano sempre quello che li disprezza di più?
La fortezza del potere si crepa e noi continuiamo a lanciargli
pietre con l'illusione di abbatterla. Tuttavia è su di noi che crolla. È più
probabile che le sue macerie ci uccidano se indugiamo nei suoi paraggi. La
Torre panoptica del Potere si voleva immutabile. Si sgretola davanti ai nostri
occhi. Rischia di schiacciare con la sua spaventosa nullità coloro che ancora
le attribuiscono un'onnipotenza.
Qual è il bilancio dell'anticapitalismo? Un muro di lamentazioni,
una celebrazione vittimistica in seno a quei cimiteri che le mafie dell'ultimo
profitto costruiscono rasando i nostri paesaggi.
Il populismo gauchista del disotto dà ragione al potere
repressivo del disopra. La contestazione ideologica sposa la tirannia che ne
giustifica l'esistenza. La rabbia militante imita la rabbia militare, si nutre
della propria vanità.
Perché continuare a impantanarsi in un'ideologia rivoluzionaria
che langue all'ombra di una morte economicamente programmata? Siamo, dunque,
condannati ai rigurgiti di una critica-critica che riempie il vuoto creato dal
mancato superamento della filosofia?
L'assenza di vita autentica che affligge i circoli intellettuali
è ancora più costernante del progressivo declino dell'intelligenza.
Ciò che manca di più all'anticapitalismo è l'insurrezione del
cuore.
In Francia, il colmo dell'odioso e del ridicolo è stato
raggiunto da una sinistra e da un gauchismo retro-bolscevico e libertario che
si è schierato a favore dell'obbligo di vaccinarsi decretato dai governi al
soldo delle mafie farmaceutiche. Mentre un populismo fascista difendeva i non
vaccinati aggiungendovi la "libertà" di espellere i migranti, il
populismo gauchista invocava senza scrupoli il principio di solidarietà per
giustificare la vaccinazione obbligatoria e il passaporto vaccinale, primo
vangelo del Credito sociale sperimentato in Cina con successo.
Non possiamo più accontentarci di lottare sul terreno in cui il
nemico ci trascina come una preda. La rivendicazione umana non deve
avventurarsi in zone inquinate e militarizzate. L'avventura è altrove.
La vita da vivere irride il dialogo con lo Stato. Il mutuo
soccorso non tollera che gli artigli del potere e il calcolo egoista lacerino
il tessuto sociale in cui l'autonomia individuale cerca la sua strada.
Troppo spesso abbiamo protetto ciò che c’impediva di vivere.
Indignarsi, lamentarsi, ribellarsi e battere i tamburi dell'etica non hanno
cambiato nulla nello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Dobbiamo arrenderci
all’evidenza: aboliremo la società dei morti viventi solo creando una società
planetaria il cui baricentro sia la vita.
Uscire dai ranghi dell'individualismo gregario significa sventare
la morsa del caos mortifero per creare un ordine vivente.
Chiedetevi perché persiste soltanto un’insurrezione della vita
quotidiana che ovunque riemerge, si ferma, si ravviva, spingendo l'innocenza fino
a ignorare il più freddo dei mostri freddi (lo Stato, secondo la formula di Nietzsche,
NdT) e i suoi aborti sterminatori.
La civiltà del lavoro condanna a un esilio da se stessi. In
questo sta la vera causa di quel malessere universale che il pensiero
disincarnato attribuisce a una maledizione ontologica.
Alla separazione da noi stessi, che ci impedisce di godere della
vita, si aggiunge una suddivisione in due funzioni – una intellettuale, una
manuale – prodotta da una società di signori e di schiavi. Questa distinzione artificiosa
ha propagato un sistema di apprensioni binarie. Ogni realtà gelosamente
accompagnata dal suo opposto è una trappola in cui cade la nostra volontà di
superamento. Il dualismo e la sua logica di A e non-A ostacolano e paralizzano
la nostra volontà di ripristinare l'unità con noi stessi e con il mondo, che il
regno della separazione ha spezzato.
La vecchia opposizione del Bene e del Male non ha smesso di
renderci stupidi. Se il nichilismo affarista l’annulla come distrugge tutti i
valori, è al solo scopo di rafforzare quello del denaro. Il profitto s’incamera
più facilmente dove regna il caos. Per coltivarlo basta lasciar correre l’evidenza
pecoresca: ogni contrario non superato
diventa contrarietà.
Superamento del politico. Abolire la società dei signori e degli schiavi che, dalla fine
del Neolitico ai giorni nostri, ci mantiene in uno stato di morbosità e di morte
latente, implica un superamento del politico in quanto gestione del mondo
dominante e del mondo dominato.
Nel senso originario del termine – gestione della polis, della Città – la pratica politica
è un tentativo di equilibrare l'ordine e il disordine inerenti a una società di
sfruttatori e sfruttati. L'alternanza di guerre e di pace si pesa, come la
giustizia e l'ingiustizia, sulla bilancia del commercio e dei suoi regolamenti di conti tra valore di
scambio – il prezzo – e valore d'uso – l'utile e il piacevole.
Riducendo l'arte politica a una volgare montatura pubblicitaria,
il clientelismo l'ha ridicolizzata oltre ogni aspettativa. I movimenti d’insurrezione
popolare hanno colto in questo un’occasione per proclamare il loro
apoliticismo. Del resto, il loro rifiuto dei capi – la loro acrazia – sarebbe
bastato a denunciare e bandire le manipolazioni e le corruzioni cui sono usi i
governi e il loro machiavellismo da cortile.
Ecco, dunque, una trappola in cui le assemblee di autogestione
non cadranno più finché si affideranno all'aiuto reciproco e all'autonomia per favorire
l'armonizzazione dei desideri individuali e collettivi.
Superamento dell'intellettualità. Il pensiero del signore dominante si affina sul filo dell'organizzazione
pratica richiesta dall'agricoltura, dall'allevamento del gregge – animali e
schiavi indistintamente – e dagli scambi commerciali che ne procurano gli
acquisti monetari.
Quanto al grado d’intelligenza indispensabile al lavoratore
manuale, esso non deve eccedere la semplice capacità di eseguire gli ordini. La
funzione di ottemperare senza discutere richiede un'autorità di controllo.
L'infantilizzazione esige per i piccoli e per il piccolo popolo la severa
benevolenza di un padre. Che cosa di meglio di un mandato celeste e della
garanzia degli Dei per incidere il dovere dell'obbedienza e della tirannia in
un marmo la cui presunta eternità dura quasi da diecimila anni?
Tutte le scienze, tutte le culture stanno crollando. Il sapere
non scompare, si libera di un potere di cui lo rivestiva il principio
gerarchico che governa le società agro-mercantili. La conoscenza si spoglia di
quell'arroganza che la rendeva sospetta, per quanto indispensabile fosse.
L'emancipazione della donna e la rovina ineluttabile del
patriarcato che la riduceva a un oggetto cominciano appena a mostrare i loro
effetti. Essi sono visibili nell'evoluzione sociale ma non abbiamo ancora intuito
fino a che punto la sensibilità femminile sta per rivoluzionare tutte le sfere
di un sapere accaparrato e diretto, fino a oggi, da un virilismo che divulga le
sue verità perentorie e gloriose.
La rinascita verso la quale ci dirigiamo è destinata a
realizzare l'uomo totale la cui visione ossessiona – da Leonardo da Vinci a
Pierre Kropotkin – gli esseri pensanti più generosi e audaci. Questa creatura
posseduta dalla passione per tutto non è altro che la donna e l'uomo dediti a
compiere il loro destino umano, secondo la vocazione della nostra specie.
Così come il proletario aspira a negare se stesso instaurando
una società senza classi, il pensatore, una volta consapevole della vita che lo
ispira, non smette di liberarsi dalla sua intellettualità per giungere a una
potenza poetica universale.
L'intellettualità, cui nessuno sfugge, fa parte della corazza
caratteriale del signore, il cui spirito celeste instilla il suo veleno in noi
e nella società. La funzione intellettuale partecipa alla predazione, impone il
suo potere anche nelle più sincere intenzioni sovversive. Il cielo delle idee
ha desacralizzato il cielo degli dèi senza perdere la sua altezza nei confronti
della terra.
Man mano che la sopravvivenza lascia il posto alla volontà di
vivere, il numero delle mutazioni prevedibili si precisa. Il degrado mentale
degli ultimi intellettuali fieri di esserlo va di pari passo con un Potere che
la sua articolazione meccanica esenta dal dover pensare. Coloro che gestiscono
la macchina per il lavaggio del cervello sono i primi a subirne gli effetti.
Più trionfano l'acefalismo e l'assenza d’intelligenza, più il campo
dei viventi– o che almeno cercano di esserlo – scopre un'intelligenza sensibile
e la priorità che essa accorda alle ragioni del cuore e del corpo.
La voce del vissuto rompe con la comunicazione reificata, con
l'espressione desensibilizzata del discorso affarista, con la scienza oltraggiosamente
investita dalla neolingua.
Le idee sventrate galleggiano a pancia all’aria. Non c'è nulla d’irrazionale
né di mistico nella risposta alla razionalità disincarnata. Essa è la poesia
che ha vocazione di ravvivare il vivente umanizzandolo.
La sopravvivenza è un campo di coerenze, lo stile di vita un
campo di risonanze. Il linguaggio economizzato partecipa del primo, la vivacità
poetica del secondo.
L'era della creazione
abolisce il lavoro. Il
lavoro è la forma inaugurale dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. È
l'atto fondatore di una civiltà, dove il soggetto
che trasforma la manna terrestre in merce diventa esso stesso un oggetto mercantile.
Durante le guerre, apparse verso la fine del Neolitico, i vinti
sfuggivano al massacro solo servendo da schiavi per i vincitori. Da quel
momento in poi, la sopravvivenza è sempre stata il prezzo di una morte in attesa.
Fu un tempo in cui il dinamismo commerciale salvaguardava una parte
di creatività utile al suo processo d’innovazione. Le libertà furtive del
libero scambio arieggiavano lo spirito confinato e disturbavano il conservatorismo
dei regimi agrari. Per quanto scarsa ed emarginata fosse, la passione di creare
rendeva attraenti dei lavori la cui utilità sociale sembrava indiscutibile. Si
sa come le innovazioni originate dal capitalismo in fase d’industrializzazione abbiano
alimentato il mito di un progressismo prometeico.
La graduale diserzione del settore produttivo a favore di quello
dei consumi ha ridotto il lavoro alla necessità di un salario da dilapidare nelle
oasi di supermercati. Il lavoro socialmente utile ha ceduto poco a poco il
posto a un lavoro parassitario che, come negli ospedali, avvantaggia una
gestione della redditività e rovina l'efficacia sanitaria con il pretesto di
migliorarne i servizi.
Il capitalismo è entrato in un trinceramento finanziario, dove
si arroga il diritto di rendere redditizia la sua morte programmando la nostra.
Non abbiamo altra scelta che proteggere, difendere, ricreare la nostra vita e,
con essa, le risorse naturali che sono contemporaneamente offerte e distrutte sotto
i nostri occhi.
I problemi ambientali sono trattati soltanto globalmente e
statisticamente – con i risultati che conosciamo –perché disdegniamo di
affrontarli alla base, a livello locale e regionale. Eppure è nel villaggio e
nei quartieri che l’inquinamento, l’avvelenamento, lo smantellamento dell'istruzione,
degli ospedali, dei trasporti perpetuano i loro misfatti. Laddove un intervento
diretto è possibile.
Gemere, gridare, pregare sono ugualmente ridicoli e rimarranno
tali fino a quando l'audacia d’innovare non sarà riapparsa insieme con quella
di vivere, finalmente.
Superamento del
caratteriale e dell’emozionale. Le dualità regnano e si susseguono senza smettere d’invocare
un superamento delle tensioni e un sogno di armonia. La nostra esistenza
quotidiana è un laboratorio sperimentale. Il desiderio e il suo contrario fanno
dell’esistenza un tormento quando le pulsioni vitali bussano alla porta.
In Psicologia di massa del
fascismo, Reich mostra che l’uscita dal corpo – e bisogna intendere con questo tutte le forme d’isteria, di panico,
di misticismo, di settarismo e di fanatismo – si spiega con il desiderio contrariato e profondamente insoddisfatto
delle masse.
La corazza caratteriale che blocca le emozioni con il pretesto
di controllarle riesce solo a inselvatichirle. L'edonismo è il recupero
ideologico di una dialettica del
desiderio che è al cuore dell'esistenza individuale e collettiva.
Soltanto l'esercizio dell'autogestione generalizzata può
liberare l'individuo dalla sua cappa individualista, solo la pratica del mutuo
soccorso può garantire a tutte e a tutti un'autonomia che non è altro che la libertà
di vivere.
Quel che si gioca alla luce delle insurrezioni che rischiarano
il pianeta, è il passaggio dalla sopravvivenza
a uno stile di vita in cui tutto si
reinventa.
III. L'autogestione
generalizzata e il progetto di una vita umana e sovrana
Nel suo opuscolo Indignez-vous
Stéphane Hessel metteva l’accento sulla resistenza che, al richiamo della vita,
si leva contro ogni forma d’oppressione. Abbiamo visto succedere alla tirannia
del vecchio regime agrario una tirannia del libero scambio dove le libertà menzognere
non erano meno crudeli del cinismo predatorio degli imperi profani e religiosi.
Senza incriminare il disastroso recupero politico e ideologico
degli Indignés, è bene rilevare che
allo spirito di contestazione che li ha risvegliati è succeduta una poesia
insurrezionale in cui l'attrazione della violenza barricadiera lascia il posto
alla violenza pacifica della vita onnipresente.
Troppo spesso le idee si convertono in chimerica astrazione
appena smettono di essere ancorate a una pratica esistenziale e sociale.
L'autorganizzazione del popolo ha una sua storia che, attraverso vittorie e
sconfitte, ci ha lasciato preziosi insegnamenti. Anche se non appaiono
esplicitamente, la Comune di Parigi, i Consigli Operai Russi, i Collettivi
libertari della Rivoluzione spagnola, la radicalità del maggio 1968 non sono
estranei al rifiuto di dirigenti, di rappresentanti autoproclamati e di apparati
politici che l'insurrezione pacifica dei Gilet Gialli ha rivendicato fin dall'inizio.
Una scelta identica guida i sollevamenti che, dal Chiapas alla
Thailandia, propagano le loro differenze e le loro similarità. Nella storia
delle rivoluzioni si tratta di una novità radicale ed essa esprime un’evidenza
che è sempre stata occultata: la vita non vuole padroni.
L'essere che aspira a ritrovare la sua umanità è naturalmente
apolitico, areligioso, acratico. È stato sufficiente al popolo questo guizzo per
abbattere i bastioni gemelli del conservatorismo e del progressismo.
Dalla resistenza a una
poetica dell'insurrezione. Nate da pretesti futili – una tassa indebita, un aumento del
biglietto della metropolitana, un'incongruenza burocratica – le conflagrazioni
planetarie scaturiscono in realtà da una quotidianità i cui desideri sono stati
troppo a lungo compressi.
Tali sollevamenti si sono verificati in passato, ma è la prima
volta che si rivendica apertamente un’unanime volontà di “vivere in piena
libertà”. È la prima volta che il popolo ha deciso di organizzarsi
autonomamente, che bandisce i capi, rifiuta i delegati non nominati, si protegge
dall'intrusione di apparati politici e oppone al calcolo egoistico un mutuo
soccorso che accorda all'umano una priorità assoluta.
Elogio dell'azione
ravvicinata. Il
principio di Tierra y libertad,
proposto da Ricardo Flores Magón e reso popolare da Emiliano Zapata, assume
oggi un’importanza che non sospettava il peone
costretto al lavoro duro per un proprietario terriero nel Messico in rivolta.
La riforma agraria, che ieri reclamava l'appropriazione
collettiva di qualche porzione di terra, ingloba ormai nelle sue esigenze l'intero
pianeta. Nondimeno resta vero che riappropriarsi della manna terrestre comincia
dal pezzo di terra impunemente avvelenato sotto i nostri occhi dall'industria
agroalimentare. Il sistema di sfruttamento della natura è solo un rumore di
corridoio nelle alte sfere. È in basso che il saccheggio e l’inquinamento
soffocano la popolazione, è alla base che bisogna mettere loro fine.
In materia di vissuto individuale, collettivo e ambientale, non
c'è problema trattato dagli organismi statali e sovrastatali che non si sia in
grado di affrontare nell’ambito della realtà locale.
Per quanto disparata possa essere, prevale in ciascuno la
sensazione di condurre un'esistenza contraria ai propri desideri più cari.
Ieri, le conquiste sociali strappate con un’aspra lotta offrivano una sorta di
contropartita all'odiosa necessità di lavorare e obbedire. Che cosa resta di
questo bene pubblico, di questa res
publica che è stata venduta agli interessi privati? Anche le zattere della
consolazione consumistica affondano, prese tra le onde del capitalismo
finanziario. Non si sa chi, tra la speculazione borsistica o l’impoverimento,
spegnerà per primo il luccichio dei supermercati.
Lo Stato non ha più altra funzione che repressiva. Il manganello
risponde alle domande del popolo. Per il Credito sociale che la Cina esporta
con successo, basta una carta elettronica per familiarizzarsi con l'autodistruzione
della cittadinanza.
“L'opera più nefasta del dispotismo, diceva il comunardo Arthur
Arnould, è quella di separare i cittadini, di isolarli gli uni dagli altri, di
spingerli alla diffidenza, al disprezzo reciproci. Nessuno agisce più, perché
nessuno osa più contare sul suo vicino”.
Si sarà capito: dove siamo noi, lo Stato non c'è più. La storia
ha esaurito tutte le forme di Potere destinate a governare il corpo e la sua
coscienza. La morte avanzava le sue pedine di nascosto. Questa volta, essa ci
affronta a viso aperto. La sua assurdità è perentoria.
Charles de Ligne racconta che un generale tedesco, avendo solo
una conoscenza rudimentale del francese, non trovò altra arringa prima della
battaglia che “Andiamo a fottere!”. Ebbene, detta così la cosa, dissero i
soldati, perché no? Accadde, però, che durante la scaramuccia questi stessi
soldati lo facessero sfuggire in extremis alla morte. Dunque, osserva C. de
Ligne, la parola che dà la vita, l’ha salvata.
Tocca ormai a noi di godere sul
momento della primavera della vita, fregandosene della guerra in cui il
passato è in preda al panico per conquistare il futuro.
L'autogestione deve alla violenza repressiva degli Stati le sue
troppo brevi sperimentazioni. Nessuno è così ingenuo da credere che il più
freddo dei mostri freddi rimarrà impassibile di fronte ai nostri tentativi di
soppiantarlo. Tuttavia per quanto temibili siano le esplosioni della sua rabbia
sfiatata, che possibilità ha la sua estinzione auto-programmata di soffocare il
respiro di una vita che si rianima senza tregua?
La vita è un'arma che molesta senza uccidere. Tale è la potenza
offensiva di cui prende lentamente coscienza la guerriglia la cui alba sorge ogni
giorno all'orizzonte del vecchio mondo. La nostra autodifesa non ha altre basi.
L'autogestione implica la creazione di micro-società chiamate a
federarsi. Scommette sulla creatività degli individui, sulla loro disinvolta e
appassionata ricerca di un destino che revochi per sempre Fatalità,
Provvidenza, Destino.
Efficacemente riattivata dalla peste emozionale del coronavirus
– e occasionalmente da gonfiature parodistiche di guerra nucleare – la macchina
per il lavaggio del cervello s’inceppa, implode, tanto i suoi manipolatori
hanno fatto e fanno mostra d’incompetenza anche nelle loro menzogne. È l’ora in
cui coloro che il panico mediatico e la prevaricazione scientifica aveva
sprofondato in un coma artificiale, possono scrollarsi di dosso il loro
letargo.
Il risveglio delle coscienze riscopre la libertà dei possibili.
Anche nelle profondità delle folle asservite, ci si stanca dell'immensa lassitudine
di un universo confinato. Il grado di bassezza e meschinità rende irrespirabili
le nostre società tecnicamente civilizzate.
Come non sognare una società che risolva i suoi problemi senza
fare riferimento a delle élite la cui sola inanità sonora è rappresentativa.
Il sogno è il tessuto del pensiero.
Il calcolo egoistico è sempre e solo riuscito a spingere più
lontano la glaciazione dell'umano. È stato il sudario che seppellisce gli
esseri prima che nascano a se stessi. Dopo aver recitato con tanta docilità
Prometeo incatenato, è davvero il minimo che ci si sia risoluti ad aderire al
progetto di essere umano nella sua infinità.
Si tratta soltanto della realizzazione di un sogno senza tempo e
ricorrente, quello dell'Uomo totale che ispirò le riflessioni del Rinascimento.
Il ritorno al mutuo soccorso, l'emergere d’individui autonomi, la nuova
alleanza con la natura sono barlumi che, nella notte e nella nebbia del dubbio,
segnalano una probabile rinascita dell'umano, un rovesciamento di prospettiva
dove la vita rivendica i suoi diritti assoluti e bandisce le ombre della morte,
più deleterie ancora che la morte stessa.
Il coronavirus ha, tra altri effetti, mostrato dal vivo un mondo
di menzogne, di squilibri, di odi, di delazioni, di disumanità che non vogliamo
più. Tuttavia la domanda sorge qui e ora:
che cosa vogliamo esattamente? Rispondervi è il nostro principale ricorso
contro la confusione e il caos che ci spingono verso l'Ordine del Credito
Sociale, applicato in Cina.
Bisogna pure, innanzitutto, stabilire una distinzione tra
desiderio naturale – o desiderio del cuore – e desiderio snaturato. La
precisione è importante. La priorità accordata all’umano esclude ogni influenza
economica. Essa bandisce la predazione, il potere, il consumismo, la
manipolazione.
Poiché l’astrazione lo priva della sua sostanza viva, il
desiderio trae il suo senso dalla situazione da cui emana. Qualunque sia il
problema che deve affrontare, è della massima importanza che non rinunci alla
sua natura di soggetto per snaturarsi
in oggetto.
Anche se dispone di un enorme sostegno, una decisione disumana è
inaccettabile. La nozione di maggioranza
e minoranza va rivista in questo senso. Si obietterà che nell'ambito dell’autogestione
non si pone la questione della pena di morte o del carcere. Tuttavia, che ne
sarà della macellazione di un animale, dell’abbattimento di un albero?
Tra gli zapatisti, chiunque voglia trovare una soluzione a una
difficoltà incontrata, è incaricato dall'assemblea locale. Riferirà sugli
imprevisti della sua attività, senza rischio di incorrere in lodi o reprimende.
Tutte le età, tutti i sessi hanno il diritto di esprimere la propria opinione.
Agli zapatisti piace ricordare che sono un’esperienza, non un
modello. Il modello conserva in sé qualcosa di autoritario. L'esperienza,
invece, dà libero sfogo agli insegnamenti che se ne possono trarre.
Smettendo di deplorare l'apparente futilità dei miei passi, mi
sento incaricato dai milioni di donne e uomini che, come me, hanno voglia di
vivere.
La solidarietà dà le ali alla mia solitudine.
È nell'esistenza, probabile e tuttora incerta, di società
autogestite che sta a noi prevedere con quali imprese di restauro e rinnovamento
ci troveremo prima o poi confrontati, con l'unico sostegno dell’aiuto reciproco,
del potenziale creativo degli individui autonomi e della prospettiva esaltante
di un’umanizzazione crescente.
Con che diritto vietare alle comunità e agli individui che le
compongono di intervenire direttamente nei problemi posti dal loro ambiente
circostante? Sebbene gli uffici di gestione statistica siano, a quanto pare,
meno esposti ai miasmi dell'inquinamento agroalimentare rispetto alle case situate
ai bordi dei campi, è comunque dalle scartoffie deodorate che provengono le decisioni
prese al vertice nel totale disprezzo per la base.
Il rifiuto di ascoltare da parte delle autorità governative
rende ridicole le lamentele che il popolo rivolge loro. Lo Stato non si
accontenta di stracciare il contratto sociale, medita di sostituirlo con il Credito
alla cinese, che nota, punisce e premia il servilismo dei cittadini.
Se vogliamo scongiurare tale infamia, non è forse giunto il
momento di redigere una Costituzione dei
diritti dell'essere umano che conceda la sua naturale legittimità a un
governo del popolo da parte del popolo? È in nome di questa costituzione eretta
a stato di fatto, che saremo abilitati ad affrontare con piena poesia pratica dei
problemi che gli interessi statali e mafiosi affrontano solo in modo
spettacolare, disincarnandoli, meccanizzandoli.
Ci libereremo di quel che ci è rimasto in gola. Il recupero
delle conoscenze, del sapere, dell'arte, delle scienze acquisite nella civiltà mercantile
non è sufficiente per le esigenze di un mondo nuovo. Esso implica la riconversione
del progresso tecnico in progresso umano.
Tutto è da restaurare, reinventare, rinaturalizzare.
A cominciare dalla scuola, le cure sanitarie, i trasporti, l’agricoltura,
l’ambiente, l’energia, i flussi migratori, la lingua e la libertà d’espressione,
la produzione e lo scambio dei beni di consumo.
L'esercizio di una pratica
di prossimità è una reazione di vita. Essa predomina sugli imperativi del
profitto che la frenano, la distorcono, la rovinano.
Abbiamo la priorità su quel che ci riguarda per primi.
La scuola non può
tollerare oltre la morsa arcaica della predazione, della concorrenza, della
competizione, del sacrificio, dello spirito militare. L'attrazione appassionata
non fa forse della curiosità una pratica di prossimità che revoca la tutela
dell'autorità e dei suoi decreti secolari o religiosi? L'emulazione rimanda la
concorrenza alla sua villania bottegaia. Suscita il desiderio d’istruirsi a
qualsiasi età, in tutti i campi, in qualsiasi momento – secondo il metodo rabelaisiano,
estrapolando dal pezzo di pane, dalla forchetta, dalla tavola i primi rudimenti
di storia, di analisi, di percezione poetica degli esseri e delle cose.
Accordare la priorità all'intelligenza sensibile e non più
all'intellettualità funzionale alimenta il sapere affettivo di una poesia che
evita alla soggettività la trappola dell'oggettivazione e dei suoi psicodrammi.
Oltre che condurre una lotta giuridica ed estenuante contro i
pesticidi, non sarebbe saggio combattere le devastazioni dell'industria
agroalimentare favorendo il passaggio alla permacultura, a forme rinaturate di agricoltura e allevamento, a un'orticoltura
che soddisfi le esigenze della regione, a una varietà di piccoli orti personali
e di terreni comuni coltivati collettivamente?
Finché il profitto di pochi azionisti prevale sulla salute della
popolazione locale, è poco probabile ottenere la chiusura delle industrie tossiche. Per contro,
sull'esempio dei villaggi che acquistano terreni di caccia per riconvertirli in
orti collettivi, aiutare i lavoratori a disertare le loro fabbriche senza
trovarsi privati di mezzi di sussistenza merita di fornire materia di
discussione.
Il deterioramento e la scarsità dei trasporti pubblici incoraggiano a rimetterli alla portata di tutti
rinnovandoli, diversificandoli, garantendone la gratuità, boicottando le lobby
petrolifere e le loro vetture, tanto impropriamente chiamate "automobili".
Lo stato disastroso degli ospedali suggerisce alle microsocietà
autogestite di creare delle case di salute
dove il rapporto tra paziente e curante favorisca quel clima di fiducia
reciproca senza il quale nessuna guarigione è possibile. Abbiamo visto troppi
medici e studiosi screditarsi avallando il passaggio dal sanitario al securitario,
facendosi i valletti mercenari del potere politico e delle mafie farmaceutiche.
Le malversazioni di una scienza priva di coscienza e il
“trattamento alla Semmelweis” applicato agli scienziati che ostacolavano gli
interessi delle mafie farmaceutiche, autorizzano ormai i ricercatori a
esplorare la manna delle terapie naturali rifiutando qualsiasi autorità
nazionale e sovranazionale in materia di rimedi.
Mentre la brutalità dell'allopatia è messa in causa, la nuova
alleanza con la natura riscopre le piante curative e si rivolge allo sviluppo
delle loro virtù. Si ritorna, anche qui, al principio di prossimità.
Come nel diciannovesimo secolo l'ascesa del capitalismo industriale
suscitò i Volta, Watt, Lebon, Papin, Huygens che sperimentarono – spesso con i propri mezzi – il genio inventivo che li sollecitava, così
l'emergere di una civiltà umana incoraggia a fidarsi dell'intelligenza e della
creatività d’individui finalmente consapevoli delle libertà di cui godono.
Il principio del mutuo soccorso invita a creare dei luoghi di parole. La fine degli
intellettuali e del loro disprezzo per la chiacchiera festiva restituisce ai
luoghi pubblici, alle strade, ai bar, alle case del popolo dei modi d’espressione
che grazie alla loro stessa libertà possono prevenire o placare i conflitti, le
psicopatie e gli squilibri esistenziali dovuti al vacillare dei vecchi punti di
riferimento e all’incertezza dei nuovi.
Spetta alle assemblee di micro-società autogestite e federate
riconvertire il passato e ricreare il presente. Che non ci sfugga di mano nessuna
delle questioni su cui il Leviatano e i suoi tirapiedi hanno invano cercato di
mantenere l’esclusiva. Sì, abbiamo in noi la potenza inventiva capace di
affrontare il problema di un'energia gratuita e non inquinante, di ravvivare il
linguaggio destinato a disarticolarsi
e a inaridirsi economizzandosi, di distribuire i flussi migratori – che faciliterebbe sia la ricezione di un
ristretto numero di ospiti da parte di un gran numero di collettività e un
contatto costante delle persone spostate con i loro luoghi di origine.
Non siamo forse abbastanza informati dell’inflazione e della graduale
scomparsa del denaro contante per prevedere
delle banche di mutuo soccorso, dei sistemi di baratto, delle monete non
capitalizzabili?
I frammenti di vita proiettati dai Gilets jaunes hanno favorito la nascita di collettività capaci di
concretizzare in assemblee locali delle proposte che, limitate a una diffusione
in rete, si espongono al controllo e
alla censura delle opinioni. Non è forse questo il punto di partenza per una
distruzione – o più abilmente per una riconversione – di cellulari e altri gadget
che, con un cinismo esilarante, ci spiano e bigbrotherizzano
le nostre tasche e le nostre case?
La storia fatta da noi e contro di noi è arrivata a un mollate tutto dove, per chi ne è
soggettivamente e visceralmente convinto, tutto è possibile.
IV. Il rovesciamento di
prospettiva
L'economia agro-mercantile ha eretto contro il libero sviluppo
dell’umano una diga su cui sbattono continuamente le onde dell'emancipazione.
Nel corso dei secoli, tumulti, rivolte, insurrezioni sono sempre regredite di
fronte a questo gigantesco ostacolo, senza, però, che i loro assalti scemassero
e si esaurissero.
Se oggi i bastioni dell'oppressione s’incrinano e si sgretolano,
la causa è meno imputabile alla violenza che li colpisce dall'esterno che a una
distorsione che li disloca interiormente.
Dall'inizio, la guerra che la civiltà mercantile aveva deciso di
condurre contro la natura era destinata a trionfare solo precipitando la propria
sconfitta. Ci sono voluti diecimila anni per convincerne le sue ultime vittime.
Che sono mai diecimila anni rispetto ai tre milioni di anni che vanno dalla
nostra antenata Lucy ai dipinti parietali di Lascaux?
Vaghiamo tra i brividi dell'inverno che muore e i fremiti della
primavera che rinasce. Il tremito che accompagna quel che spunta o tiene duro non
è lo stesso di quello che precipita.
Il rovesciamento di prospettiva è la libera scelta offerta
all'essere umano. Esso revoca gli imperativi, le parole d'ordine. La nuova era
ha dalla sua la coscienza che la esplora e la rende visibile.
Proporre una sorta di progetto o di programma sarebbe un errore
se lo si sostituisse alla potenza poetica che risveglia l'individuo alle sue
capacità creative.
Nessuno sa come l'homo
economicus spezzerà l'incantesimo
secolare che l’ha così facilmente convinto della sua congenita impotenza. Sarà
un trauma come l'inaspettato allagamento del laboratorio di Pavlov che cancellò
il riflesso di sottomissione, testato con successo sui cani? O, più
felicemente, un ribaltamento foriero di un salutare rovesciamento di
prospettiva, in grado di concentrare la nostra energia su una vita sovrana e
sulla coscienza umana che essa ci ha accordato e che, il più delle volte, ci è
rimasta estranea?
Lottiamo per un ritorno alla vita. Non abbiamo niente a che fare
con una sfida alla morte.
La vita non è un progetto, non ha senso. Siamo noi a darle un senso,
noi cui essa ha delegato la facoltà di intervenire nel suo processo di
proliferazione sperimentale e di evitare, se lo vogliamo, il ricorso alla morte
che regola abitualmente la distruzione dell’eccedente – l’eccesso di nascite,
di creature, di alberi, di avere
accumulato a spese dell'essere.
Portiamo in noi la vita nell'umile scintilla della sua
immensità. Il nostro destino è di umanizzarla.
Per convenire che non c'è altro essere supremo che l'essere
umano, dobbiamo prima spogliarci del ruolo di signore che una storia snaturata
ci ha imposto. È giunto il momento di porre fine per sempre alla stolta,
crudele e devastante superiorità che ci ha fatto regnare sugli animali, le piante,
le pietre.
Non c'è in questo alcuna ingiunzione etica. Vogliamo soltanto
annientare la sofferenza che infliggiamo loro soffrendone noi stessi. Fino a
quale grado di abbrutimento mortifero, cinegetico o militare dobbiamo scendere
per dimenticare che questi cosiddetti regni inferiori fanno parte dei nostri
elementi costitutivi?
Le nostre lotte sono rimaste confinate sul terreno delimitato
militarmente dai nostri nemici. I quali verso di esso ci spingono e ci intrappolano
ma conoscono, invece, della vita solo la spada che la taglia. Non avranno
bisogno d’altro finché offriremo loro le nostre gole!
Se, invece, faremo in modo di sfuggire ai loro mulinelli da
matamori, sono le loro stesse teste che taglieranno. La parodia di guerra
mondiale, di cui l'Ucraina è il viscido pretesto, dimostra ancora una volta che
solo una miserabile e sanguinaria mascherata dissimula il crollo degli Stati.
I tamburi sono rotti, non spaccano più i timpani. Le loro guerre
non ci riguardano! Non siamo trafficanti d'armi, né banchieri, né burattini
politici.
Come immaginare un’autodifesa pacifica, una guerriglia in cui la
vita molesti il nemico fino a precipitarne la debacle? Fourier, che ha poca
simpatia per le rivoluzioni, propone una soluzione che, sotto il suo apparente
candore, indica piste da esplorare. I falansteri, aperti tanto ai ricchi quanto
ai poveri, mantengono una separazione tra la tavola dove i più facoltosi si
riempiono di pietanze squisite cui sono abituati e le feste più frugali di cui
si accontentano le classi inferiori. Ora, la gioia che regna tra i poveri
contrasta talmente con la mestizia e l’insipidezza edonistica che affliggono i
ricchi che questi ultimi disertano poco a poco le mense di un'opulenza senza
attrattiva per unirsi ai poveri che si rallegrano di delizie minori.
L'apologo fa parte della realtà visionaria del teorico
dell'attrazione appassionata. Tuttavia, le evocazioni poetiche di una società
falansteriana non sono prive di echi suggestivi in un progetto di autogestione
che ha il vantaggio rispetto alla costruzione fourierista di essere ancorato nella
storia, dove ha fornito prove indiscutibili di riuscita.
L'osservazione illustrata da Fourier punta oggi il dito sugli
oligarchi svuotati dalle incontinenze dell’avere, mummificati nelle bende dei
loro piaceri noiosi, mentre, dalle strade alle rotonde, dalle città ai paesi, i
poveri celebrano l'eterna primavera della vita.
Il tavolo della convivialità universale è aperto. Coloro i cui
cuori appassiti sono diventati l'emblema della cupidigia rischiano di non scampare
al banchetto del nulla.
La vita non ha bisogno di noi per esistere. Noi, invece, abbiamo
bisogno della vita per esistere e lei ci ha pensato, nella sua assenza di
discernimento. Ciò che stupirà i futuri osservatori del nostro passato è che,
dotati della capacità di armonizzare il vivente o di lasciare che si riequilibri
distruggendoci, abbiamo scelto, finora, l'egualitarismo della morte piuttosto
che i piaceri egualitari della gratuità.
Le insurrezioni della vita quotidiana suonano ovunque la campana
a morto del capitalismo suicida. La menzogna soffoca sotto troppe parole storpiate.
Autonomi e fieri del nostro anonimato, noi siamo gli artigiani
di un ritorno al vivente che risuona ai confini dell'universo. Noi mettiamo
fine al calcolo egoista e alla servitù che hanno fatto della terra una valle di
lacrime.
Noi creeremo un mondo in cui l’essere umano morirà soltanto
sulla soglia della sua pienezza, nello splendore delle sue potenzialità
soddisfatte, anche se non appagate nella loro totalità.
La vita non dice mai un'ultima parola.
Raoul Vaneigem, 7 marzo 2022, revisione del 14 aprile 2022
RAOUL VANEIGEM
RETOUR À LA VIE
I. La vie n’est pas un objet
Nous
n’avons jamais appris qu’à mourir, voici le temps d’apprendre à vivre.
Nous sommes au point de rupture de deux civilisations. Le
vieux monde s’effondre et tarde à disparaître, le nouveau émerge et tarde à
s’imposer.
L’onde de choc qui agite la planète secoue notre existence.
Il en dévoile la racine. Nulle idéologie n’a désormais le pouvoir de la
masquer.
Le roc des vérités anciennes vole en éclats.
Renoncer à vivre
pour éviter de mourir. Aucun passé n’a obtenu l’assentiment des foules à une
aussi stupéfiante absurdité. Aucune époque ne s’est, à ce point, laissée
crétiniser à l’amiable.
Mais l’État et les multinationales ont beau déverser les immondices de la peur, de la résignation,
du renoncement, du sacrifice, de la délation, il arrive un moment où tout
vacille, où tout bascule parce que la vie reprend le dessus et se réapproprie
ses droits. Nous sommes au cœur de ce moment. Plus exactement, nous en sommes
le cœur.
Sans doute faut-il prêter au rêve la puissance de dissoudre
les cauchemars du réel. Mais ce ne sera là qu’une formule creuse tant que nous
n’aurons pas résolu de quitter la jungle sociale où survivre était notre lot.
Pour aller où ? Exactement où nous sommes. Là où s’éveille en nous le
désir irrépressible de bâtir sur le terrain de notre existence une société où
l’entraide et l’autonomie nous enseignent à explorer une vie dont nous étions
tenus à l’écart.
Nos sociétés sont des décombres. Nous pataugeons dans des
valeurs mortes. Les restrictions budgétaires ont ruiné le bien public. Les
avantages sociaux arrachés de haute lutte par les grèves, les occupations
d’usine, le harcèlement revendicatif, ont été dépecés, émiettés, annihilées.
Retraites et allocations sont escroquées à celles et ceux qui ont cotisé pour en jouir, une fois libérés du
travail. Les transports publics sont mis à mal, l’enseignement qui, depuis
longtemps n’est qu’une voie d’accès au marché des esclaves, se délite à la
vitesse de chute du dynamisme capitaliste. La cupidité affairiste a saccagé les
hôpitaux publics qui, il y a quelques décennies, auraient
été à même de réagir efficacement à l’apparition d’une épidémie.
Qu’a-t-on tiré de cette scandaleuse gabegie ? Un
simple diagnostic de morbidité. Le constat s’est banalisé en devenant l’objet
de débats politiques, d’analyses sociologiques, de protestations philosophiques,
de réprimandes et de doléances adressées à un Léviathan cacochyme, qui leur a
signifié sa fin de non-recevoir en alléguant un état de fait.
« C’est ainsi, pas autrement, tel est notre bon vouloir.»
Par conséquent, rien n’est appelé à changer. Les manifestants
trépignent, les revendications corporatistes accomplissent leur petit tour de
manège. Les lieux communs attristent le regard et se fondent parmi ces paysages
bétonnés dont on détourne les yeux.
Le désespoir, la
fatalité, le pressentiment de défaite sont des armes d’autant plus efficaces
entre les mains du Pouvoir que c’est nous qui lui en faisons cadeau.
L’essor du capitalisme industriel a eu le mérite, au XIXe
siècle, d’autoriser, contre son gré, la naissance d’une conscience
prolétarienne. Celle-ci ne se bornait ni à des revendications salariales, ni
aux appels d’air d’une survie oppressée. Son projet ? Rien de moins que la
création d’une société sans classe. On y retrouvait en rémanence cette aspiration
à une société égalitaire qui s’était pliée aux fluctuations de l’histoire sans
jamais changer de cap.
En dispensant ses
innovations monnayées — électricité,
vapeur, chemin de fer, thérapies, radiophonie — le capitalisme industriel avait
su se prévaloir d’un progressisme prométhéen qui tout à la fois fascinait et
rebutait. Le héros de la mythologie grecque avait, on le sait, défié la
tyrannie des Dieux pour offrir aux humains le feu grâce auquel ils forgeraient leur
destinée. Le tribut à payer pour une telle audace fut le sacrifice d’une vie,
condamnée à la mutilation perpétuelle.
La vision philanthropique du capitalisme suggérait sans
vergogne que la promesse d’un monde meilleur s’accomplissait aux tréfonds de
l’enfer industrialisé et au prix de la
souffrance ouvrière. Cette fois, le paradis n’avait nul besoin du passeport
vers l’au-delà que délivraient les religions. Il était terrestre, tangible, à
la portée des mains, sinon de la droite, occupée à travailler, du moins de la
gauche où s’inscrivait le principe d’espérance.
A l’instigation du profit, maître suprême et décideur
unique, la colonisation consumériste allait succéder à la phase essentiellement
productiviste du capitalisme. Avec la vogue d’une démocratie de supermarché,
la vieille philanthropie caritative s’est trouvée obsolète. Mais elle a révélé,
en s’effaçant, un phénomène que l’on avait dédaigné d’examiner de plus près,
celui du traficotage humaniste.
Qu’est-ce, à l’origine, que l’humanisme ? Le pur
produit d’une logique lucrative. Une des premières aumônes citoyennes de la
civilisation marchande. A l’encontre de la perte sèche que représentait la
traditionnelle mise à mort des prisonniers de guerre, l’opinion prévalut de leur accorder la grâce de
survivre en devenant esclaves, en assurant le mouvement perpétuel des rouages
économiques. La générosité et le calcul concluaient là une alliance improbable,
qui s’est perpétuée jusqu’à nos jours.
Le procès de Nuremberg mit en scène un emblématique
spectacle humanitaire. Un capitalisme prétendument démocratique condamnait et
vouait aux gémonies un capitalisme d’État totalitaire dont le nazisme et le
stalinisme avaient mené à bien l’atrocité concurrentielle.
A l’époque même où l’Occident écrasait la révolte des
peuples colonisés, le secteur de la consommation s’ouvrait en faisant vibrer
les cordes sensibles de l’altruisme. Il s’agissait, en quelque sorte de
ré-humaniser la dureté de l’astreinte productiviste, autrement dit la barbarie
du travail. Le plan Marshall, qui inaugura le déferlement des plaisirs consommables, passa pour une obole
que l’évangélisme américain jetait dans la sébile de l’Europe dévastée par la
guerre.
Les Édens d’abondance ne tarderont pas à se multiplier,
quadrillant de leurs néons les villes et les campagnes. En prélude à son
débordement planétaire, la pandémie consumériste intéresse en priorité les
gouvernements européens. La perte de
leurs colonies a ravalé leur arrogance d’exploiteur. Ils se prosternent aux
pieds de l’empire calviniste et baisent les fesses de cet immonde Baphomet qu’est le self-made-man.
(L’idole, on le sait, passait pour être vénérée par les Templiers, ordre
militaire et affairiste dont nombre
d’Etats européens des XIIIe et XIVe siècles étaient les débiteurs.)
Perçu de l’intérieur, le supermarché est un modèle d’hédonisme,
de choix électif, de démocratie. Sous l’égide du libre-échange, la liberté est
totale, à ceci près qu’elle se paie à la sortie. Résiderait-il, au sein de ces
lieux brillamment éclairés, d’insoupçonnables
ténèbres ?
Un modèle consumériste
de gestion du peuple s’est propagé à coups de campagnes promotionnelles.
L’appliquer au monde entier, en incluant bien entendu les droits de péage,
nourrissait l’ambition d’instaurer le fameux Welfare-state, l’état de
bien-être universel, la béatitude végétative élevée à la meilleure des survies
possibles.
C’était oublier qu’invoquer les possibles dans une société
pétrie d’interdits, c’est jouer avec le feu.
Le capitalisme trouvait son compte dans les fêtes
faunesques où les « évohé, évohé !» viraient au
« consommez, consommez ! » Non seulement les bénéfices engrangés
n’étaient plus menacés par les grèves intempestives, les revendications de
salaires, les jérémiades des apparatchiks syndicaux, mais les salaires, arrachés
aux griffes de l’exploiteur, rebondissaient docilement dans ses mains de
velours.
Troquant son bleu de travail contre des habits de
consommateur, le prolétaire perdait peu à peu sa conscience et sa combativité.
Les idéologies se prenaient à la glu d’un clientélisme moins soucieux d’une
intelligence des êtres et des choses que des battages publicitaires valorisant
n’importe quoi. L’importance accordée au prix d’achat minimisait l’intérêt porté
à l’usage du produit. De sorte qu’à un utile pair de godasses, l’acheteur en
vint à préférer la brillance spectaculaire d’une marque renommée.
L’industrialisation avait inauguré des conditions propices
à l’éclosion d’une conscience de classe. Le déluge consumériste l’avait effacée
mais non sans entraîner dans son sillage une débandade des valeurs
traditionnelles.
La stricte nécessité de produire prônait l’ascétisme, le puritanisme, le
sacrifice de la vie à la force de travail. L’injonction de consommer ouvrit une
voie en contre-sens. Les conditions n’étaient pas sans rappeler, dans une
parodie douce-amère, le grand virage auquel le libre-échange, en sonnant
l’hallali de l’Ancien Régime, avait convié les Diderot, les Rousseau, les
d’Holbach, les penseurs des Lumières, inspirateurs et instigateurs de la Révolution française.
En vouant à la désuétude les idéologies traditionnelles,
l’œcuménisme consumériste exaltait l’hédonisme, le libre choix, l’autonomie, le
refus du sacrifice. La marchandise instaurait son propre culte. Au nom de
l’Avoir érigé en Être-suprême, elle
désacralisait les religions et le principe d’autorité.
L’idée qu’il était naturel de dépenser en se dépensant ne
fut pas sans inspirer la pensée qu’une
alliance renouvelée avec la nature abolirait le dogme de l’antiphysis. La
célébration de la femme consommatrice, promotionnant en son innocence
débonnaire, la sollicitude envers l’enfant et l’animal n’abusa pas longtemps
l’autodéfense féministe et les tenants d’une renaturation des êtres et des
choses. Dans la foulée, il ne fallut guère de temps pour comprendre que le
plaisir de dépenser en se dépensant signifiait en sa sordide réalité « se
consumer en consommant. »
Le mouvement situationniste avait dès les années 1960 tiré
les leçons du revirement que l’évolution du capitalisme mettait à portée
d’analyse et de subversion radicale. Le virage réveillait et stimulait la
conscience de celles et de ceux qui n’avaient pas renoncé au projet
d’émancipation humaine, tel qu’il se transmettait de génération en génération.
Le Mouvement des Occupations de 1968 confirma la plupart
des thèses situationnistes. Bien qu’ayant échoué à concrétiser le projet
d’autogestion généralisée et à jeter les bases d’une société humaine, le joli
Mai ne fut ni une victoire ni une défaite. Il convoqua l’histoire à un
rendez-vous permanent. L’apparition
des Gilets jaunes en France et l’embrasement pacifique des insurrections
mondiales s’en sont fait l’écho sans qu’il fût
besoin de maîtres à penser, de tribuns, de mots d’ordre pour y inciter.
Le retour à la vie a le génie de raviver sans trêve la
conscience paradoxalement historique et intemporelle qui émane de chaque
habitant de la terre. La résolution d’accorder la priorité à l’être humain, de
bannir les chefs, les représentants autoproclamés, les appareils politiques et
syndicaux, et d’œuvrer au gouvernement du peuple par les assemblées du peuple,
voilà qui suffit amplement à jeter les bases d’une entraide sociale.
En raison de la loi des contraires, le clientélisme
consumériste a contribué à la réémergence de l’authenticité, il a aidé à
dépouiller la vie de son identification à la survie. La puissance de son
mensonge a submergé la radicalité de mai 68, elle ne l’a pas étouffée. On s’en
aperçoit nettement depuis que, sous les coups de la paupérisation croissante, vole
en éclat le mythe de l’état de bien-être – cette resucée « à
l’américaine » de l’Age d’Or, célébré par Hésiode.
La menace que la paupérisation fait peser sur les
forteresses du consommable a convaincu le capitalisme de se tourner vers la
spéculation boursière. Entrer en phase financière l’éloigne de l’illusoire
royaume de la consommation.
Les antennes du capitalisme l’ont toujours averti de
quitter ce qui le quitte. Il a déserté les usines et le travail de la
production utile, il délaisse le secteur de la consommation de masse, menacé de
pillage et de désertification. Il agonise en programmant l’agonie pour tous.
Son nihilisme ricanant séduit les suicidaires. Il se moque bien de saper le pilier
de soutènement du spectacle. Il sème la débâcle dans la grande mise en
scène où la vie s’accoutumait à n’avoir d’existence que par reflets et
procuration. Sa débilité assumée contribue sans le vouloir à nous faire
retrouver l’authenticité.
Le repli du capitalisme dans l’orbe de la spéculation
boursière le dispense d’avoir à rendre compte de l’effondrement de l’économie.
Il rentabilise son propre dépérissement. Après le dynamisme industriel et la
colonisation consumériste, il s’engage dans une phase financière, dans une
tornade où l’argent fou tourne sur lui-même.
Il en résulte un phénomène qui n’est pas sans évoquer
l’affolement des cellules qui cancérisent un organisme vivant. Le capitalisme
n’est ni une matière vivante ni une matière morte. Il est du mécanique greffé
sur du vivant. Les infortunes expérimentales de notre évolution l’ont nettement
démontré : greffer du mécanique sur du vivant produit le dépérissement
du vivant et l’autodestruction du mécanique. Avis aux transhumanistes et
aux tenants du Crédit social !
On est en droit de
se poser la question : la peur hystérique qui a supplanté le traitement
médical du coronavirus n’est-elle pas un effet de la cancérisation de cet
organisme hybride qu’est l’hydre capitaliste ?
Quoi qu’il en soit nous ne nous affranchirons pas de
l’emprise du vieux monde tant que nous n’aurons pas assuré les assises de
microsociétés humaines, fondées sur la solidarité collective et l’autonomie
individuelle.
II.
La contestation aliénée
Nous sommes engagés de longue date dans une lutte sans
merci contre l’exploitation de la nature terrestre et de la nature humaine. Les
coups portés au capitalisme par le prolétariat ont marqué une phase spécifique
de notre histoire, encore sous le choc d’une Révolution et d’une révélation qui
avaient mis fin au totalitarisme monarchique.
La conscience prolétarienne en armes n’est pas venue à bout
de la suprématie capitaliste mais – de la Commune de Paris aux collectivités
libertaires espagnoles de 1936 – elle a démontré que le projet d’une société radicalement
nouvelle entrait dans l’ordre des possibles.
Bâtir une société véritablement humaine n’est pas une
utopie mais un être-là.
Telle est la réalité qu’expérimentent, selon leur
spécificité, les enseignements de Mai 1968, la révolte dite des Indignés,
l’apparition des Zapatistes, des Gilets jaunes, des combattants du Rojava, et
les insurrections de la vie quotidiennes qui s’allument, s’éteignent et
renaissent aux quatre coins du monde.
Voilà où réside l’importance de notre temps existentiel
et social. Laissons les braillards de l’anticapitalisme à leur Grand
Meeting du métropolitain ! Laissons la danse du scalp célébrer l’illusoire
mise à mort du système. L’exécration ne dissimule plus depuis longtemps
l’impuissance de quiconque attend quoi que ce soit de l’État et des mafias qui
le parrainent.
Combien d’années encore pour s’apercevoir que rien n’a
changé des décrets et des mesures coercitives qui attentent à notre liberté de
vivre ? Combien d’élections pour
confirmer que les plus méprisés plébiscitent toujours celui qui les méprise le
plus ?
La forteresse du pouvoir se fissure et nous sommes là à lui
jeter des pierres en nous illusionnant de l’abattre. Mais c’est sur nous
qu’elle s’effondre. Ses décombres ont plus de chances de nous tuer si nous nous
éternisons dans ses parages. La tour panoptique du Pouvoir se voulait immuable.
Elle se délite sous nos yeux. Elle risque d’écraser de son effarante nullité
ceux qui la créditent encore d’une toute puissance.
Quel est le bilan de l’anticapitalisme ? Un mur des
lamentations, une célébration victimaire au sein de ces cimetières que les
mafias du dernier profit construisent en arasant nos paysages.
Le populisme
gauchiste d’en bas rend raison au pouvoir répressif d’en haut. La contestation
idéologique épouse la tyrannie qui justifie son existence. La rage militante
singe la rage militaire, elle se nourrit de sa propre vanité.
Pourquoi continuer de s’enliser dans une idéologie
révolutionnaire qui croupit à l’ombre d’une mort économiquement
programmée ? Sommes-nous voués aux régurgitations d’une critique-critique
comblant le vide creusé par le non-dépassement de la philosophie ?
Plus consternant encore que l’étiolement progressif de
l’intelligence est l’absence de la vraie vie qui sévit dans les cénacles intellectuels.
Ce qui manque le plus à l’anticapitalisme, c’est
l’insurrection du cœur.
Le comble de l’odieux et du ridicule a été atteint, en
France, par une gauche et un gauchisme rétro-bolchevique et libertaire se
ralliant à l’obligation de se faire vacciner décrétée par les gouvernements à
la botte des mafias pharmaceutiques. Tandis qu’un populisme fascisant prenait
la défense des non vaccinés et y adjoignait la « liberté » d’expulser les
migrants, le populisme gauchiste invoquait sans scrupule le principe de
solidarité pour justifier la vaccination obligatoire et le passeport
sécuritaire, premier évangile du Crédit social expérimenté en Chine avec
succès.
Nous ne pouvons plus nous contenter de lutter sur le
terrain où l’ennemi nous traîne comme une proie. La revendication humaine n’a
pas à s’aventurer en zone polluée et militarisée. L’aventure est ailleurs.
La vie à vivre se moque de dialoguer avec l’État.
L’entraide ne tolère pas que les griffes du pouvoir et du calcul égoïste
déchirent le tissu social où l’autonomie
individuelle cherche sa voie.
Nous avons trop fréquemment abrité ce qui nous empêchait de
vivre. S’indigner, se lamenter, se révolter et battre les tambours de l’éthique
n’ont rien changé à l’exploitation de l’homme par l’homme. Il faut se rendre à
l’évidence : nous n’abolirons la société des morts-vivants qu’en créant
une société planétaire dont le centre de gravitation soit la vie.
Sortir du rang de l’individualisme grégaire, c’est déjouer
l’emprise du chaos mortifère pour créer un ordre vivant.
Demandez-vous pourquoi seule s’obstine cette
insurrection de la vie quotidienne qui partout rebondit, s’arrête, se ravive,
poussant l’innocence jusqu’à ignorer le plus froid des monstres froids et ses
avortons exterminateurs.
La civilisation du travail condamne à un exil de soi. Là
réside la véritable cause de ce mal-être universel que la pensée désincarnée
attribue à une malédiction ontologique.
A la séparation d’avec nous-mêmes, qui nous interdit de
jouir de la vie, s’ajoute une subdivision en deux fonctions – une
intellectuelle, une manuelle – produite par une société de maîtres et
d’esclaves. Cette distinction artificieuse a propagé un mode d’appréhensions
binaires. Toute réalité jalousement accompagnée de son contraire est un piège
où se prend la volonté de dépassement. Le dualisme et sa logique du A et du
non-A entravent et paralysent notre volonté de restaurer l’unité avec
nous-mêmes et avec le monde, que le règne de la séparation a brisée.
La vieille opposition du Bien et du Mal n’a pas fini de
nous crétiniser. Si le nihilisme affairiste l’annule, comme il dézingue toutes
les valeurs, c’est à la seule fin de conforter celle de l’argent. Où règne le
chaos, le profit se grappille impunément. Il suffit pour l’entretenir de
laisser pisser l’évidence moutonnière : tout contraire non dépassé
devient contrariété.
Dépassement du politique. Abolir la société de
maîtres et d’esclaves qui, de la fin du néolithique à nos jours, nous maintient
en état de morbidité et de mort latente, implique un dépassement du politique
en tant que gestion du monde dominant et du monde dominé.
Au sens originel du terme – gestion de la polis, de la Cité –
la pratique politique est une tentative d’équilibrer l’ordre et le
désordre inhérents à une société d’exploiteurs et d’exploités. L’alternance de
guerres et de paix se pèse, comme la justice et l’injustice, sur la balance du
commerce et de ses règlements de compte entre valeur d’échange – le prix
– et valeur d’usage – l’utile et l’agréable.
En réduisant l’art politique à un vulgaire battage
publicitaire, le clientélisme l’a ridiculisé au-delà de toute attente. Les
mouvements d’insurrection populaire ont saisi là une occasion de proclamer leur
apolitisme. Au reste, leur refus des chefs – leur acratie – aurait suffi à dénoncer et à bannir les manipulations et
les subornations dont sont coutumiers les gouvernements et leur machiavélisme
de basse-cour
Voilà donc un piège où les assemblées d’autogestion ne retomberont
pas tant qu’elles miseront sur l’entraide et sur l’autonomie pour œuvrer à
l’harmonisation des désirs individuels et collectifs.
Dépassement de l’intellectualité. La pensée du
maître s’aiguise au fil de l’organisation pratique qu’exigent l’agriculture,
l’élevage du troupeau – bêtes et esclaves confondus – et les échanges commerciaux, qui en ventilent
les acquis monnayés.
Quant au degré d’intelligence indispensable au
travailleur manuel, il ne doit pas excéder la simple capacité d’exécuter
les ordres. À la fonction qui consiste à obtempérer sans discuter, il faut une
autorité de tutelle. L’infantilisation réclame pour les petits et pour le petit
peuple la sévère bienveillance d’un père. Quoi de mieux qu’un mandat céleste et
la caution des Dieux pour graver le devoir d’obédience et de tyrannie dans un
marbre dont l’éternité présumée a tout de même atteint près de dix mille
ans ?
Toutes les sciences, toutes les cultures s’effondrent. Le
savoir ne disparaît pas, il s’affranchit de ce pouvoir dont l’affublait le
principe hiérarchique qui gouverne les sociétés agro-marchandes. La
connaissance se dévêt de cette arrogance qui la rendait suspecte, si
indispensable qu’elle fût.
L’émancipation de la femme et la chute inéluctable du
patriarcat qui la réduisait à un objet commencent à peine à montrer leurs
effets. Ils sont visibles dans l’évolution sociale mais on n’a pas encore
soupçonné à quel point la sensibilité féminine va révolutionner toutes les
sphères d’un savoir accaparé et diligenté, jusqu’à nos jours, par un virilisme
assénant ses vérités péremptoires et glorieuses.
La renaissance vers laquelle nous nous acheminons est
appelée à réaliser l’homme total dont la vision hante – de Léonard de Vinci à Pierre
Kropotkine – les êtres pensants les plus généreux et les plus audacieux. Cette
créature possédée par la passion du tout n’est autre que la femme et l’homme
voués à accomplir leur destinée humaine,
conformément à la vocation de notre espèce.
De même que le prolétaire aspire à se nier en instaurant
une société sans classe, le penseur, une fois conscient de la vie qui
l’inspire, n’a de cesse de se libérer de son intellectualité pour atteindre à
une puissance poétique universelle.
L’intellectualité, à laquelle nul n’échappe, participe de
la carapace caractérielle du maître, dont l’esprit céleste instille son venin
en nous et dans la société. La fonction intellectuelle participe de la
prédation, elle impose son pouvoir jusqu’au sein des plus sincères intentions
subversives. Le ciel des idées a désacralisé le ciel des Dieux sans perdre de
sa hauteur envers la terre.
À mesure que la
survie cède le pas à la volonté de vivre, le nombre des mutations prévisibles
se précise. La dégradation mentale des derniers
intellectuels fiers de l’être va de pair avec un Pouvoir que son
articulation mécanique exempte d’avoir à penser. Ceux qui font tourner la
machine à décerveler sont les premiers à en subir les effets.
Plus l’acéphalisme et l’absence d’intelligence triomphent,
plus le camp des vivants – ou qui du moins tentent de l’être – découvre une
intelligence sensible et la prééminence
qu’elle accorde aux raisons du cœur et du corps.
La voix du vécu rompt avec la communication réifiée, avec
l’expression désensibilisée du discours affairiste, avec la science
outrageusement investie par la novlangue.
Les idées éviscérées flottent le ventre en l’air. La
réponse à la rationalité désincarnée n’a rien d’irrationnel ni de mystique.
Elle est la poésie qui a vocation de raviver le vivant en l’humanisant.
La survie est un champ de cohérences, le style de vie un
champ de résonances. Le langage économisé participe du premier, la vivacité
poétique du second.
L’ère de la création abolit le travail. Le
travail est la forme inaugurale de l’exploitation de l’homme par l’homme. Il
est l’acte fondateur d’une civilisation où le sujet qui transforme la
manne terrestre en marchandise devient lui-même un objet marchand.
Lors des guerres, apparues vers la fin du néolithique, les
vaincus n’échappaient au massacre qu’en servant d’esclaves aux vainqueurs. A dater de cette époque, la
survie a toujours été le prix d’une mort en sursis.
Il fut un temps où le dynamisme commercial sauvegardait une
part de créativité utile à son processus d’innovation. Les furtives libertés du
libre-échange aéraient l’esprit confiné et agaçaient le conservatisme des
régimes agraires. Si mince et si marginalisée qu’elle fût, la passion de créer
rendait attractifs des travaux dont l’utilité sociale paraissait incontestable.
On sait comment les innovations, dispensées par le capitalisme en phase
d’industrialisation, ont nourri le mythe d’un progressisme prométhéen.
La désertion graduelle du secteur de production au profit
du secteur de la consommation a réduit le travail à la nécessité d’un salaire à
dilapider dans les oasis de supermarchés. Le travail socialement utile a peu à
peu cédé la place à un travail parasitaire qui, à l’exemple des hôpitaux,
privilégie une gestion de la rentabilité et ruine l’efficacité sanitaire au
prétexte d’améliorer les services.
Le capitalisme est entré dans un retranchement financier où
il s’arroge le droit de rentabiliser sa mort en programmant la nôtre. Nous
n’avons d’autre choix que de protéger, de défendre, de recréer notre vie et,
avec elle, les ressources naturelles qui sont à la fois offertes et détruites
sous nos yeux.
Les problèmes environnementaux ne sont traités mondialement
et statistiquement – avec les résultats que l’on sait – que parce que nous
dédaignons de les aborder à la base, localement et régionalement. C’est
pourtant au village et dans les quartiers que la pollution, l’empoisonnement,
la casse de l’enseignement, des hôpitaux, des transports exercent leurs
méfaits. Là où une intervention directe est possible.
Gémir, crier, prier sont également dérisoires et le
resteront tant que l’audace d’innover n’aura pas reparu avec l’audace de vivre
enfin.
Dépassement du caractériel et de l’émotionnel. Les
dualités règnent et s’enchaînent, sans cesser d’invoquer un dépassement des tensions et un rêve
d’harmonie. Notre existence quotidienne est un laboratoire expérimental. Le
désir et son contraire font de l’existence un tourment alors que les pulsions
de vie frappent à la porte.
Dans Psychologie de masse du fascisme, Reich montre
que la sortie hors du corps – et il faut
entendre par là toutes les formes d’hystérie, de panique, de mysticisme, de sectarisme et de fanatisme – s’explique par le désir contrarié et profondément insatisfait des masses.
La carapace caractérielle qui bloque les émotions sous
couvert de les contrôler ne réussit qu’à les ensauvager. L’hédonisme est la
récupération idéologique d’une dialectique du désir qui est au cœur de
l’existence individuelle et collective.
Il n’y a que l’exercice de l’autogestion généralisée pour
libérer l’individu de sa chape individualiste ; il n’y a que la pratique
de l’entraide pour garantir à toutes et à tous une autonomie, qui n’est rien
d’autre que la liberté de vivre.
Ce qui se joue à la lueur des insurrections illuminant la
planète, c’est le passage de la survie à un style de vie où tout
se réinvente.
III. L’autogestion généralisée et le projet
d’une vie humaine et souveraine.
Dans son pamphlet Indignez-vous, Stéphane Hessel mettait l’accent
sur la résistance qui à l’appel de la vie se dresse contre toute forme
d’oppression. On a vu succéder à la tyrannie de l’Ancien régime agraire une
tyrannie du libre-échange où les libertés mensongères n’étaient pas moins
cruelles que le cynisme prédateur des empires profanes et religieux.
Sans incriminer la désastreuse récupération politique et
idéologique des Indignés, il est bon de souligner qu’à l’esprit de contestation
qui les a réveillés a succédé une poésie insurrectionnelle où l’attrait de la
violence barricadière cède la place à la paisible violence de la vie
omniprésente.
Trop fréquemment,
les idées tournent à l’abstraction chimérique dès l’instant qu’elles ne sont
pas ancrées dans une pratique existentielle et sociale. L’auto-organisation du peuple a pour elle une histoire qui à
travers victoires et défaites nous a laissé de précieux enseignements. Même
s’ils n’apparaissent pas explicitement, la Commune de Paris, les Conseils
ouvriers russes, les Collectivités libertaires de la Révolution espagnole, la
radicalité de Mai 1968 ne sont pas étrangers au refus de chefs, de
représentants autoproclamés et d’appareils politiques que l’insurrection
pacifique des Gilets jaunes a revendiqué dès le départ.
Un choix identique guide les soulèvements qui, du Chiapas à
la Thaïlande, propagent leurs diversités et leurs similarités. Dans l’histoire
des révolutions, c’est là une nouveauté radicale. Et elle exprime une évidence qui
a toujours été occultée : la vie ne veut pas de
maîtres.
L’être qui aspire à retrouver son humanité est
naturellement apolitique, areligieux, acratique. Il a suffi au peuple de cette
chiquenaude pour jeter à bas les remparts jumelés du conservatisme et du
progressisme.
De la résistance à une poétique de l’insurrection. Issus de prétextes
futiles –une taxe indue, une hausse du
ticket de métro, une incongruité bureaucratique – les embrasements planétaires
jaillissent en fait d’une vie quotidienne dont les désirs ont été trop longtemps
comprimés.
De
tels soulèvements ont eu lieu par le passé, mais c’est la première fois qu’est
ouvertement revendiquée une volonté unanime
de « vivre en toute liberté ». C’est la première fois que le peuple
est résolu à s’organiser lui-même, qu’il bannit les chefs, refuse les délégués
non mandatés, se prémunit contre l’intrusion d’appareils politiques et oppose
au calcul égoïste une entraide qui accorde à l’humain une priorité absolue.
Éloge de l’action rapprochée. Le principe de Tierra y libertad, proposé
par Ricardo Flores Magón et popularisé par Emiliano Zapata, revêt aujourd’hui
une envergure que ne soupçonnait pas le péon trimant pour un propriétaire
terrien dans le Mexique en révolte.
La réforme agraire qui réclamait hier
l’appropriation collective de quelques terres englobe désormais dans ses
exigences la planète entière. Il n’en reste pas moins vrai que nous
réapproprier la manne terrestre commence par le bout de terrain impunément
empoisonné sous nos yeux par l’industrie agro-alimentaire. Le système d’exploitation
de la nature n’est qu’un bruit de couloir en haut lieu. C’est en bas que le
pillage et la pollution suffoquent la population, c’est à la base qu’il faut y
mettre fin.
En matière de vécu individuel,
collectif et environnemental, il n’est pas de problème traité par les instances
étatiques et supra-étatiques que nous ne soyons à même d’aborder par le biais
de la réalité locale.
Si disparate qu’il soit, le sentiment
prévaut, chez chacun, qu’il mène une existence au rebours de ses désirs les
plus chers. Hier les acquis sociaux arrachés de haute lutte offraient une
manière de contrepartie à l’odieuse nécessité de travailler et d’obéir. Que
reste-t-il de ce bien public, de cette res publica qui a été vendue aux
intérêts privés ? Même les radeaux de la consolation consumériste coulent,
happés par les vagues du capitalisme financier. De la spéculation boursière ou
de la paupérisation, on ne sait qui effacera en premier la rutilance des
supermarchés.
L’État n’a plus d’autre fonction que
répressive. La matraque répond aux questionnements du peuple. Pour le Crédit
social, que la Chine exporte avec succès, il n’est besoin que d’une carte
électronique pour se familiariser avec l’autodestruction citoyenne.
« L’œuvre la plus néfaste du despotisme, disait
le communard Arthur Arnould, c’est de séparer les citoyens, de les isoler les
uns les autres, de les amener à la défiance, au mépris réciproques. Personne
n’agit plus, parce que personne n’ose plus compter sur son voisin. »
On l’aura compris : où nous sommes,
l’État n’est plus. L’histoire a épuisé toutes les formes de Pouvoir censées
gouverner le corps et sa conscience. La mort avançait ses pions en sous-main.
Cette fois, elle nous affronte à découvert. Son absurdité est péremptoire.
Charles de Ligne raconte qu’un général
allemand, n’ayant de la langue française qu’une connaissance rudimentaire, ne
trouva d’autre harangue avant la bataille que : « Allons
foutre ! ». Eh, s’il appelle cela comme ça, dirent les soldats,
pourquoi pas ? Or, il arriva qu’au cours de l’échauffourée ces mêmes
soldats le firent in extremis échapper à la mort. Ainsi, note Ligne, le
mot qui donne la vie la lui sauva.
C’est à nous désormais de jouir sur
le champ du printemps de la vie, en nous foutant de la guerre où le passé
s’affole à conquérir l’avenir ?
L’autogestion doit à la violence
répressive des États ses trop brèves mises en œuvre. Nul n’a la naïveté de
croire que le plus froid des monstres froids restera impassible face à nos
tentatives de le supplanter. Mais si redoutables que soient les sursauts de sa
rage essoufflée, quelle chance son extinction autoprogrammée a-t-elle
d’étouffer le souffle d’une vie qui sans trêve se ranime ?
La vie est une arme qui
harcèle sans tuer. Telle est la puissance offensive dont prend lentement conscience la guérilla dont
l’aube chaque jour se lève à l’horizon du vieux monde. Notre autodéfense n’a
pas d’autre base.
L’autogestion
implique la création de microsociétés appelées à se fédérer. Elle mise sur la
créativité des individus, sur leur quête nonchalante et passionnelle d’une
destinée révoquant à jamais la Fatalité, la Providence, le Destin.
Efficacement
réactivée par la peste émotionnelle du coronavirus, – et occasionnellement par
des boursoufflures parodiques de guerre nucléaire – la machine à décerveler
disjoncte, elle se grippe, elle implose, tant ses manipulateurs ont fait et
font montre d’incompétence jusque dans leurs mensonges. C’est l’heure où celles
et ceux que la panique médiatique et la prévarication scientifique avaient plongés
dans un coma artificiel ont une chance de s’ébrouer de leur léthargie.
Le
réveil des consciences redécouvre la liberté des possibles. Même au profond des
foules asservies, on se lasse de l’immense lassitude d’un univers confiné. Le
degré de bassesse et de mesquinerie rend irrespirables nos sociétés
techniquement civilisées.
Comment
ne pas se prendre à rêver d’une société qui règle ses problèmes sans en référer
à des élites dont l’inanité sonore seule est représentative.
Le rêve
est l’étoffe de la pensée.
Le
calcul égoïste n’a jamais réussi qu’à pousser plus avant la glaciation de
l’humain. Il a été le suaire qui ensevelit les êtres avant qu’ils naissent à
eux-mêmes. Après avoir si docilement joué les Prométhée enchaînés, c’est bien
le moindre que nous soyons résolus de rallier le projet d’être humain, en son
infinitude.
Ce
n’est là que la concrétisation d’un rêve intemporel et récurrent, celui de
l’Homme total, qui inspira les réflexions de la Renaissance. Le retour à
l’entraide, l’émergence d’individus autonomes, la nouvelle alliance avec la
nature sont des lueurs qui, dans la nuit et le brouillard du doute, signalent
une probable renaissance de l’humain, un renversement de perspective où la vie
revendique ses droits absolus et bannit les ombres de la mort, plus délétères
encore que la mort elle-même.
Le
coronavirus a, entre autres effets, montré à vif un monde de mensonges, de
déséquilibres, de haines, de délations, d’inhumanités dont nous ne voulons
plus. Mais la question se pose ici et maintenant : que désirons-nous
au juste ? Y répondre est notre principal recours contre la confusion et
le chaos qui nous entraînent vers l’Ordre du Crédit social, appliqué en Chine.
Encore
faut-il, au préalable, établir une distinction entre désir naturel – ou désir
du cœur – et désir dénaturé. La précision est importante. La primauté accordée
à l’humain exclut toute emprise économique. Elle bannit la prédation, le
pouvoir, le consumérisme, la manipulation.
L’abstraction
lui ôtant sa substance vivante, le désir puise son sens de la situation dont il
émane. À quelque problème qu’il soit confronté, il est de la plus grande importance
qu’il ne résigne pas sa nature de sujet pour se dénaturer en objet.
Même
si elle dispose d’un soutien massif, une décision inhumaine est inacceptable. La
notion de majorité et de minorité doit être revue en ce sens. On objectera
qu’en autogestion la question de la peine de mort ou de la prison ne se pose
pas. Mais qu’en sera-t-il de l’abattage d’une bête, d’un arbre ?
Chez
les Zapatistes, quiconque souhaite apporter une solution à une difficulté
rencontrée est mandaté par l’assemblée locale. Il rendra compte des aléas de
son entreprise, sans risque d’encourir éloge ou blâme. Tous les âges, tous les
sexes ont le droit d’exposer leur opinion.
Les
Zapatistes aiment à rappeler qu’ils sont une expérience, non un modèle. Le
modèle garde en soi quelque chose d’autoritaire. L’expérience, elle, laisse
libre cours aux enseignements qui s’en peuvent tirer.
En
cessant de déplorer l’apparente futilité de mes démarches, je me sens mandaté
par les millions de femmes et d’hommes qui, comme moi, ont envie de vivre.
La
solidarité donne des ailes à ma solitude.
C’est
dans l’existence, probable et encore incertaine, de sociétés autogérées qu’il
nous appartient de prévoir à quelles entreprises de restauration et de
rénovation nous serons tôt ou tard confrontés, avec pour seuls soutiens
l’entraide, le potentiel créatif des individus autonomes et l’exaltante
perspective d’une humanisation croissante.
De
quel droit interdire aux collectivités et aux individus qui les composent
d’intervenir directement dans les problèmes posés par leur environnement
immédiat ? Bien que les bureaux de gestion statistique soient, à ce qu’il
semble, moins exposés aux miasmes de la pollution agro-alimentaire que les
maisons en bord de champs, c’est néanmoins de la paperasserie désodorisée que
viennent les décisions prises au sommet
dans le parfait mépris de la base.
La
fin de non-recevoir des instances gouvernementales rend ridicules les doléances
que le peuple lui adresse. L’État ne se contente pas de chiffonner le contrat
social, il médite d’y substituer le Crédit à la chinoise qui note, punit et récompense
la servilité des citoyens.
Si
nous voulons parer à pareille infamie, le moment n’est-il pas venu de rédiger
une Constitution des droits de l’être humain décernant sa légitimité
naturelle à un gouvernement du peuple par le peuple ? C’est au nom de
cette constitution érigée en état de fait, que nous serons habilités à aborder
en toute poésie pratique des problèmes que les intérêts étatiques et mafieux ne
traitent que sur le mode du spectacle, en les désincarnant, en les mécanisant.
Nous allons nous désengorger de ce qui nous
reste en travers du gosier. La
récupération des connaissances, du savoir, de l’art, des sciences acquis en
civilisation marchande ne suffit pas aux exigences d’un monde nouveau. Elle implique
la reconversion du progrès technique en progrès humain.
Tout
est à restaurer, à réinventer, à
renaturer.
À
commencer par l’école, les soins de santé, les transports, l’agriculture,
l’environnement, l’énergie, les flux migratoires, le langage et la liberté
d’expression, la production et l’échange
des biens de consommation.
L’exercice
d’une pratique de proximité est une réaction de vie. Elle prime les
impératifs de profit, qui la brident, la dénaturent, la ruinent.
Nous
sommes prioritaires là où nous sommes concernés en premier.
L’école
ne peut tolérer davantage l’emprise archaïque de la prédation, de la
concurrence, de la compétition, du sacrifice, de l’esprit militaire.
L’attraction passionnelle ne fait-elle pas de la curiosité une pratique de
proximité qui révoque la férule de l’autorité et de ses décrétales laïques ou
religieuses ? L’émulation renvoie la compétition à sa vilenie boutiquière.
Elle attise le désir de s’instruire à tout âge, dans tous les domaines, à tout
moment – selon la méthode rabelaisienne extrapolant du quignon de pain, de la
fourchette, du pichet, de la table les premiers rudiments d’histoire,
d’analyse, de perception poétique des êtres et des choses.
Accorder
la priorité à l’intelligence sensible et non plus à l’intellection
fonctionnelle nourrit le savoir affectif d’une poésie qui évite à la
subjectivité le piège de l’objectivation et de ses psychodrames.
En plus de mener une lutte juridique et
épuisante contre les pesticides, ne serait-il pas judicieux de combattre les
ravages de l’industrie agro-alimentaire en
favorisant le passage à la permaculture, à des formes d’agriculture
et d’élevage renaturés, à un maraîchage répondant aux besoins de la région, à
une diversité de petits potagers personnels et de communs collectivement
cultivés ?
Tant que le profit de quelques
actionnaires l’emporte sur la santé de la population riveraine, obtenir
l’interdiction des industries toxiques est peu probable. En revanche, à
l’exemple de ces villages rachetant des terrains de chasse pour les reconvertir en potagers collectifs, aider
les travailleurs à déserter leurs usines
sans se trouver privés de moyens de subsistance mérite de fournir
matière à débats.
Le
saccage et la raréfaction des transports
publics incitent à les remettre à portée de toutes et tous en les rénovant,
en les diversifiant, en assurant leur gratuité, en boycottant les lobbies
pétroliers et leurs voitures dites, si improprement,
« auto-mobiles. »
L’état
désastreux des hôpitaux suggère aux microsociétés autogérées d’aménager des
maisons de santé où la relation entre soigné et soignant favorise cette
atmosphère de confiance mutuelle sans laquelle aucune guérison n’est possible.
On a vu trop de médecins et de savants se discréditer en cautionnant le passage
du sanitaire au sécuritaire, en se faisant, contre rémunération, les valets du
pouvoir politique et des mafias pharmaceutiques.
Les
malversations d’une science sans conscience et le « traitement à la
Semmelweis » appliqué aux scientifiques qui desservaient les intérêts des
mafias pharmaceutiques autorisent désormais les chercheurs à explorer la manne
des thérapies naturelles en rejetant toute autorité nationale et supranationale
en matière de remèdes.
Alors
que la brutalité de l’allopathie est mise en cause, la nouvelle alliance avec
la nature redécouvre les plantes soignantes et s’attache au développement de
leurs vertus. On en revient, ici aussi, au principe de proximité.
De
même qu’au XIXe siècle l’essor du capitalisme industriel suscita les Volta,
Watt, Lebon, Papin, Huygens expérimentant – souvent par leurs propres moyens –,
le génie inventif qui les
sollicitait, de même l’émergence d’une civilisation humaine encourage-t-elle à
miser sur l’intelligence et sur la créativité d’individus enfin conscients des
libertés dont ils jouissent.
Le
principe d’entraide appelle à créer des lieux de paroles. La fin des
intellectuels et de leur mépris pour la
palabre festive restitue aux places publiques, aux rues, aux bistrots, aux
maisons du peuple des modes d’expression qui par leur liberté sont à même de
prévenir ou d’apaiser les conflits, les psychopathies, les déséquilibres existentiels
qu’entraînent le vacillement des repères anciens et l’incertitude des nouveaux.
C’est
aux assemblées de microsociétés autogérées et fédérées qu’il appartient de reconvertir le passé et de recréer le présent.
Que n’échappe à notre mainmise aucune des questions dont le Léviathan et ses
séides ont vainement tenté de garder l’exclusivité. Oui, nous avons en nous la
puissance d’inventivité capable d’aborder le problème d’une énergie gratuite
et non polluante, de raviver le langage voué à se désarticuler et à se
dessécher en s’économisant, de répartir les flux migratoires –
qu’allégeraient à la fois l’accueil d’un petit nombre d’hôtes par un grand
nombre de collectivités et un contact constant des personnes déplacées avec
leur lieu d’origine.
Ne
sommes-nous pas assez avertis de l’inflation et de la disparition graduelle de
l’argent liquide pour prévoir des banques d’entraide, des systèmes de
troc, de monnaies non capitalisables ?
Les
éclats de vie propulsés par les Gilets jaunes ont favorisé la naissance de
collectivités concrétisant en assemblées locales des propositions qui, limitées
à une diffusion par réseau, s’exposent au contrôle et à la censure des
opinions. N’est-ce pas le point de départ d’une destruction – ou plus
habilement d’une reconversion – des téléphones portables et des gadgets qui,
avec un cynisme désopilant, nous espionnent et bigbrothérisent nos poches et nos maisons.
L’histoire
faite par nous et contre nous en est arrivée à un lâchez-tout où, pour qui en
est subjectivement et viscéralement persuadé, tout est possible.
IV. Le renversement de perspective
L’économie agro-marchande a érigé contre le libre
développement de l’humain une digue que heurtent sans discontinuer les vagues
de l’émancipation. Au fil des siècles, les tumultes, les révoltes, les
insurrections ont toujours régressé devant cet obstacle gigantesque, sans pour
autant que leurs assauts faiblissent et s’épuisent.
Si, de nos jours, les remparts de l’oppression se fissurent
et se délitent, la cause est moins imputable à la violence qui les frappe du
dehors qu’à une distorsion qui les disloque intérieurement.
Dès le départ, la guerre que la civilisation marchande
avait résolu de mener contre la nature était vouée à ne triompher qu’en
précipitant sa défaite. Il a fallu dix mille ans pour en convaincre ses
dernières victimes. Qu’est-ce que dix mille ans en regard des trois millions
d’années qui mènent de notre ancêtre Lucy aux peintures pariétales de
Lascaux ?
Nous errons entre les grelottements de l’hiver qui meurt et
les frémissements du printemps qui renaît. Le tremblement qui accompagne ce qui
pousse ou s’accroche à ce qui tombe n’est pas le même.
Le renversement de perspective est le libre choix offert à
l’être humain. Il révoque les impératifs, les mots d’ordre. L’ère nouvelle a
pour elle la conscience qui l’explore et la rend visible.
Proposer une manière de plan ou de programme serait
une erreur s’il se substituait à la puissance poétique qui
éveille l’individu à ses capacités créatives.
Nul
ne sait par quel biais l’Homme économisé brisera l’envoûtement séculaire qui
l’a si aisément convaincu de son impuissance native. Sera-ce un traumatisme
comme l’inondation inopinée du laboratoire de Pavlov qui effaça le réflexe de soumission, expérimenté
avec succès sur des chiens ? Ou, avec plus de bonheur, un basculement
opérant un salutaire renversement de perspective, focalisant notre énergie sur
une vie souveraine et sur la conscience humaine qu’elle nous a accordée et qui,
le plus souvent, nous est demeurée étrangère ?
Nous
luttons pour un retour à la vie. Nous n’avons que faire d’un défi lancé à la
mort.
La vie n’est pas un projet, elle n’a pas de sens. C’est nous
qui lui donnons un sens, nous à qui elle a délégué la faculté d’intervenir dans
son processus de prolifération expérimentale, d’éviter, si nous le voulons, le
recours à la mort qui régule à l’ordinaire la destruction des excédents – le
trop plein de naissances, de créatures, d’arbres, d’avoir accumulé aux
dépens de l’être.
Nous
portons en nous la vie dans l’humble étincelle
de son immensité. Notre destinée est de l’humaniser.
Pour
convenir qu’il n’y a d’autre être suprême que l’être humain, il faut au
préalable nous dépouiller du rôle de maître qu’une histoire dénaturée nous
imposa. Le moment est venu de résilier à jamais la supériorité imbécile,
cruelle et dévastatrice qui nous fit régner sur les animaux, les plantes, les
pierres.
Il
n’y a là nulle injonction éthique. Nous souhaitons seulement annihiler la
souffrance que nous leur infligeons en nous en accablant nous-mêmes. A quel
degré d’abrutissement mortifère, cynégétique ou militaire faut-il descendre
pour oublier que ces règnes dits inférieurs font partie de nos éléments
constitutifs ?
Nos luttes sont restées cantonnées sur le
terrain militairement balisé par nos ennemis qui nous y entraînent
et nous piègent. De la vie, en revanche, ils ne connaissent que le glaive qui
la tranche. Il ne leur en faudra pas davantage tant que nous leur tendrons nos
gorges !
Si en revanche nous faisons en sorte d’échapper à leurs
moulinets de matamores, c’est leurs propres têtes qu’ils vont couper. La
parodie de guerre mondiale, dont l’Ukraine est la marotte poisseuse, démontre
une fois de plus que seule une pitoyable et sanglante mascarade dissimule
l’effondrement des États.
Les tambours sont crevés, ils ne crèvent plus les tympans.
Leurs guerres ne nous concernent en rien ! Nous ne sommes ni marchands
d’armes, ni banquiers, ni guignols politiques.
Comment imaginer une autodéfense pacifique, une guérilla où
la vie harcèlerait l’ennemi jusqu’à précipiter sa débâcle ? Fourier, qui
n’éprouve guère de sympathies pour les révolutions, propose une solution qui,
sous sa candeur apparente signale des pistes à explorer. Les phalanstères,
ouverts aux riches comme aux pauvres, maintiennent une séparation entre la
table, où les plus fortunés se gobergent des mets exquis, auxquels ils sont
accoutumés, et les agapes plus frugales dont les classes inférieures se
satisfont. Or, la joie qui règne chez les pauvres tranche à ce point avec la
morosité et la fadeur hédoniste qui désolent les riches que ceux-ci peu à peu
désertent les tables d’une opulence sans attrait pour rejoindre les pauvres qui
se font une joie des moindres délices.
L’apologue s’inscrit dans la réalité visionnaire du
théoricien de l’attraction passionnelle. Cependant, les évocations poétiques
d’une société phalanstérienne ne sont pas sans résonner en échos suggestifs
dans un projet d’autogestion qui a sur la construction fouriériste l’avantage
d’être ancré dans l’histoire, où il a fourni d’indiscutables preuves
d’accomplissement.
Le constat qu’illustre Fourier pointe aujourd’hui les
oligarques épuisés par les incontinences de l’avoir, momifiés dans les
bandelettes de leurs ennuyeux plaisirs, tandis que, des rues aux ronds-points,
des villes aux villages, les pauvres célèbrent l’éternel printemps de la vie.
La table de la commensalité universelle est ouverte. Ceux
dont le cœur desséché est devenu l’emblème de la cupidité risquent de ne pas
échapper au banquet du néant.
La
vie n’a pas besoin de nous pour être
par elle-même. En revanche, nous avons besoin d’elle pour exister et
elle y a pourvu, en son absence de discernement. Ce qui va sidérer les futurs
observateurs de notre passé, c’est que, dotés de la capacité d’harmoniser le
vivant ou de le laisser se rééquilibrer en nous détruisant, nous ayons choisi,
jusqu’à ce jour, l’égalitarisme de la mort plutôt que les jouissances
égalitaires de la gratuité.
Les
insurrections de la vie quotidienne sonnent partout le glas du capitalisme
suicidaire. Le mensonge s’étouffe sous trop de paroles estropiées.
Autonomes et fiers de notre anonymat, nous sommes les
artisans d’un retour au vivant qui résonne aux confins de l’univers. Nous
mettons fin au calcul égoïste et à la servitude qui ont fait de la terre une
vallée de larmes.
Nous
créerons un monde où l’être humain ne mourra qu’au seuil de sa plénitude, dans l’éclat de ses
potentialités satisfaites, bien que non assouvies en leur totalité.
La
vie ne dit jamais de dernier mot.
Raoul Vaneigem, 7 mars 2022, révision 14 avril 2022