sabato 28 maggio 2022

RITORNO ALLA VITA Raoul Vaneigem, 7 marzo 2022, revisione del 14 aprile 2022

 


 

Nota del traduttore

Essere il traduttore di un autentico essere umano in quest’epoca in cui la disumanità ha un potere sempre più delirante e mortifero come documenta ampiamente lo spettacolo sociale che inquina e violenta la vita sul pianeta mettendo ormai in pericolo la sopravvivenza stessa della specie umana è soprattutto il segno di un coinvolgimento manifesto nel progetto radicale di autogestione generalizzata della vita quotidiana che Raoul Vaneigem propone, affinandolo progressivamente, fin dall’epoca ormai lontana del maggio 1968. La mia amicizia complice con l’autore di questo scritto non è un segreto: l’ho sempre coltivata con affetto e chiarezza, insieme alla piena autonomia di pensiero e di azione di ogni individuo che condivida un progetto comune di re-umanizzazione e di emancipazione sociale.

Nella catastrofe che avanza, aumentano a dismisura le vittime del disastro finale della civiltà produttivista. Gli esseri umani le sono sempre più ostili, coscienti che il superamento storico della società spettacolare-mercantile è la conditio sine qua non affinché l’umanità possa sopravvivere al nichilismo capitalista. Lo Stato totalitario multiplo che, democratico o dittatoriale, gestisce dappertutto qualcuna tra le variegate forme della società dello spettacolo integrato è, di fatto, la soluzione finale di un produttivismo che ha ridotto gli esseri umani a schiavi dell’economia politica teologia materialista moderna che serve da secoli le oligarchie di governo sempre conflittuali tra loro, ma tutte volgarmente e tragicamente sfruttatrici del lavoro e delle passioni degli esseri umani.

La fase terminale della barbarie patriarcale che fin dalla preistoria recente ha imposto la civiltà suprematista del produttivismo, riapre uno spazio alla civiltà matricentrica sconfitta e rimossa dalla memoria collettiva dall’imperialismo della società mercantile, guerriera, bigotta, devota alla merce sovrana e malata della peste emozionale dei suoi servitori volontari.

Questo breve scritto è una delle preziose iniezioni di agopuntura radicale con le quali Raoul, a modo suo e in piena autonomia, continua a illuminare umanamente il cammino organico del vivente, rischiarato artificialmente, in quest’epoca buia, dell’elettricità mortifera dell’energia nucleare.

Sergio Ghirardi Sauvageon

I. La vita non è un oggetto

Non abbiamo mai imparato altro che a morire, ora è il momento d’imparare a vivere.

Ci troviamo al punto di rottura tra due civiltà. Il vecchio mondo sta crollando e tarda a scomparire, il nuovo emerge e tarda a imporsi.

L'onda d'urto che scuote il pianeta squassa la nostra esistenza. Ne rivela la radice. Ormai nessuna ideologia ha il potere di dissimularla.

La roccia delle verità antiche vola in frantumi.

 

Rinunciare a vivere per evitare di morire. Nessun passato ha ottenuto il consenso delle folle a un'assurdità così sconcertante. Nessuna epoca si è lasciata rincretinire a un tal punto con docilità.

Tuttavia, per quanto lo Stato e le multinazionali riversino le immondizie della paura, della rassegnazione, della rinuncia, del sacrificio, della delazione, arriva un momento in cui tutto vacilla, tutto traballa perché la vita riprende il sopravvento e si riappropria dei propri diritti. Siamo al cuore di un tale momento. Più esattamente, ne siamo il cuore.

Senza dubbio si deve attribuire al sogno il potere di dissolvere gli incubi del reale. Tuttavia, ciò resterà una formula vuota finché non avremo deciso di abbandonare la giungla sociale in cui sopravvivere era la nostra sorte. Per andare dove? Esattamente dove siamo. Dove si risveglia in noi il desiderio irrefrenabile di costruire sul terreno della nostra esistenza una società in cui l'aiuto reciproco e l'autonomia ci insegnano a esplorare una vita dalla quale eravamo tenuti lontani.

 

Le nostre società sono macerie. Sguazziamo in mezzo a valori morti. I tagli di bilancio hanno rovinato il bene pubblico. Le conquiste sociali strappate con dure lotte dagli scioperi, dalle occupazioni di fabbrica, dalla protesta rivendicativa, sono state smembrate, sbriciolate, annientate. Le pensioni e le indennità sono sottratte a chi ha pagato i contributi per goderne una volta liberatosi dal lavoro. I trasporti pubblici sono in difficoltà, l'istruzione, che da molto tempo è solo un mezzo di accesso al mercato degli schiavi, si corrompe al ritmo di caduta del dinamismo capitalista. La cupidigia affarista ha saccheggiato gli ospedali pubblici che, qualche decennio fa, sarebbero stati in grado di rispondere efficacemente all'apparizione di un'epidemia.

Che cosa abbiamo imparato da questo spreco scandaloso? Una semplice diagnosi di morbosità. La constatazione si è banalizzata diventando l’oggetto di dibattiti politici, analisi sociologiche, proteste filosofiche, rimproveri e lamentele rivolte a un Leviatano malato, che ha rifiutato di dare loro risposta adducendo uno stato di fatto. “Le cose stanno così e non altrimenti, tale è la nostra disponibilità”.

Pertanto, nulla è destinato a cambiare. I manifestanti scalpitano, le rivendicazioni corporative fanno il loro piccolo giro di giostra. I luoghi comuni rattristano lo sguardo e si confondono tra quei paesaggi cementificati da cui distogliamo lo sguardo.

 

La disperazione, la fatalità, il presentimento della sconfitta sono tutte armi tanto più efficaci nelle mani del Potere quando siamo noi a regalargliele.

 

Lo sviluppo del capitalismo industriale ha avuto il merito, nel XIX secolo, di autorizzare, suo malgrado, la nascita di una coscienza proletaria. La quale non si limitava a rivendicazioni salariali, né alle boccate d'aria di una sopravvivenza oppressa. Il suo progetto? Nientemeno che la creazione di una società senza classi. Vi persisteva l'aspirazione a una società egualitaria che si era piegata alle fluttuazioni della storia senza mai cambiare rotta.

Dispensando le sue innovazioni monetizzate – elettricità, vapore, ferrovie, terapie, radiofonia – il capitalismo industriale aveva saputo farsi carico di un progressismo prometeico che affascinava e allo stesso tempo ripugnava. L'eroe della mitologia greca aveva sfidato, lo sappiamo, la tirannia degli Dei per offrire agli umani il fuoco grazie al quale essi avrebbero forgiato il loro destino. Il prezzo da pagare per tale audacia fu il sacrificio di una vita, condannata alla mutilazione perpetua.

La visione filantropica del capitalismo suggeriva spudoratamente che la promessa di un mondo migliore si realizzasse nell’abisso dell'inferno industrializzato e al prezzo della sofferenza operaia. Stavolta il paradiso non aveva alcun bisogno del passaporto per l'aldilà rilasciato dalle religioni. Era terrestre, tangibile, a portata di mano, se non della destra, occupata a lavorare, almeno della sinistra dove s’inscriveva il principio-speranza.

 

Su istigazione del profitto, signore supremo e unico padrone, la colonizzazione consumistica si sostituiva alla fase essenzialmente produttivista del capitalismo. Di fronte alla moda di una democrazia da supermercato, la vecchia filantropia caritativa è diventata obsoleta. Mentre svaniva, ha rivelato, però, un fenomeno che avevamo sdegnato di esaminare più da vicino, quello del traffico umanista.

Che cos'è l'umanesimo in origine? Il puro prodotto di una logica lucrativa. Uno dei primi doni di cittadinanza della civiltà mercantile. Contro la perdita secca rappresentata dalla tradizionale uccisione dei prigionieri di guerra, prevalse l'opinione di concedere loro la grazia di sopravvivere diventando schiavi, assicurando il movimento perpetuo dei meccanismi economici. La generosità e il calcolo concludevano così un'improbabile alleanza che si è perpetuata fino ai nostri giorni.

Il processo di Norimberga ha messo in scena un emblematico spettacolo umanitario. Un capitalismo che si pretende democratico ha condannato e disprezzato pubblicamente un capitalismo di Stato totalitario di cui il nazismo e lo stalinismo avevano concretato l’atrocità concorrenziale.

Nella stessa epoca in cui l'Occidente schiacciava la rivolta dei popoli colonizzati, il settore dei consumi si apriva facendo vibrare le corde sensibili dell'altruismo. Si trattava, in qualche modo, di ridare umanità alla rudezza dell’obbligo produttivista, cioè alla barbarie del lavoro. Il Piano Marshall, che inaugurò lo straripamento dei piaceri consumabili, passò per un obolo che l'evangelismo americano concedeva all'Europa devastata dalla guerra.

Gli Eden dell'abbondanza non hanno tardato a moltiplicarsi, occupando città e campagne con le loro luci al neon. Come preludio al suo straripamento planetario, la pandemia consumistica riguarda, in priorità, i governi europei. La perdita delle loro colonie ha deteriorato la loro arroganza da sfruttatori. Si prosternano ai piedi dell'impero calvinista e baciano le natiche di quell’immondo Bafometto che è il self-made-man. (Si sa che quest’idolo era venerato dai Templari, ordine militare e affarista di cui erano debitori numerosi Stati europei del tredicesimo e quattordicesimo secolo).

 

Visto dall'interno, il supermercato è un modello di edonismo, di scelta elettiva, di democrazia. Sotto l'egida del libero scambio, la libertà è totale, escluso che va pagata all'uscita. Ci sarebbero, dunque, in questi luoghi brillantemente illuminati, delle oscurità insospettate?

Un modello consumistico di gestione del popolo si è propagato a forza di campagne promozionali. Applicarlo al mondo intero, compresi ovviamente i diritti di pedaggio, nutriva l’ambizione di stabilire il famoso Welfare State, lo stato di benessere universale, la beatitudine vegetativa elevata alla migliore delle sopravvivenze possibili.

Il che significava dimenticare che invocare le possibilità in una società intrisa di divieti vuol dire giocare con il fuoco.

 

Il capitalismo trovava il suo tornaconto nelle feste faunesche in cui gli “évohé, évohé!” viravano in "consumate, consumate!". Non solo i benefici ricavati non erano più minacciati dagli scioperi fastidiosi, dalle rivendicazioni salariali, dalle geremiadi dei burocrati sindacali, ma i salari, strappati agli artigli dello sfruttatore, rimbalzavano docilmente nelle sue mani di velluto.

Scambiando la tuta con il vestito da consumatore, il proletario perdeva gradualmente coscienza e combattività. Le ideologie s’invischiavano nella colla di un clientelismo meno preoccupato di un'intelligenza degli esseri e delle cose che delle campagne pubblicitarie per valorizzare tutto e niente. L'importanza accordata al prezzo d’acquisto riduceva al minimo l'interesse rivolto all’uso del prodotto. In tal modo, l'acquirente è arrivato a preferire la brillantezza spettacolare di un marchio rinomato all’utilità effettiva di un paio di scarpe.

 

L'industrializzazione aveva introdotto condizioni favorevoli all'emergere di una coscienza di classe. Il diluvio consumistico l’aveva cancellata provocando, però, sulla sua scia, un tracollo dei valori tradizionali.

La stretta necessità di produrre spronava all'ascetismo, al puritanesimo, al sacrificio della vita di fronte alla forza lavoro. L'ingiunzione a consumare ha aperto una via in senso opposto. In una parodia dolceamara, le condizioni ricordavano il grande mutamento cui il libero scambio, suonando l'hallalì dell'Ancien Régime, aveva invitato i Diderot, i Rousseau, i d'Holbach, i pensatori dell'Illuminismo, ispiratori e istigatori della Rivoluzione francese.

Destinando all'obsolescenza le ideologie tradizionali, l'ecumenismo consumistico esaltava l'edonismo, la libera scelta, l'autonomia, il rifiuto del sacrificio. La merce stabiliva il proprio culto. In nome dell'Avere eretto a Essere Supremo, essa ha desacralizzato le religioni e il principio d'autorità. L'idea che fosse naturale spendere spendendosi contribuì a ispirare il pensiero che una rinnovata alleanza con la natura avrebbe abolito il dogma dell'antinatura. La celebrazione della donna consumatrice che promuoveva, con la sua disinvolta innocenza, la sollecitudine verso il bambino e l’animale non ha ingannato a lungo l'autodifesa femminista e i sostenitori di una rinaturazione degli esseri e delle cose. Nella scia non c’è voluto molto per capire che il piacere di spendere spendendosi significava, nella sua sordida realtà “consumarsi consumando”.

Fin dagli anni Sessanta il movimento situazionista aveva tratto insegnamento dell’inversione di tendenza che l'evoluzione del capitalismo metteva a portata d'analisi e di sovversione radicale. Il tornante ha risvegliato e stimolato la coscienza di chi non aveva rinunciato al progetto di emancipazione umana, trasmesso di generazione in generazione.

 

Il Movimento delle Occupazioni del 1968 confermò la maggior parte delle tesi situazioniste. Pur non essendo riuscito a realizzare il progetto di autogestione generalizzata e a porre le basi di una società umana, il bel Maggio non fu una vittoria né una sconfitta. Convocò la storia a un appuntamento permanente. L'apparizione dei Gilets jaunes in Francia e la pacifica conflagrazione delle insurrezioni mondiali se ne sono fatte l’eco senza bisogno di mentori, tribuni o parole d'ordine che le incitassero.

Il ritorno alla vita possiede la genialità per ravvivare senza sosta la coscienza paradossalmente storica e atemporale che emana da ogni abitante della terra. La determinazione nell’accordare la priorità all’essere umano, nel bandire i capi, i rappresentanti autoproclamati, gli apparati politici e sindacali e nell’agire per il governo del popolo attraverso le assemblee popolari, è più che sufficiente per gettare le basi di un mutuo soccorso sociale.

A causa della legge degli opposti, il clientelismo consumistico ha contribuito al riemergere dell'autenticità, ha contribuito a spogliare la vita della sua identificazione con la sopravvivenza. Il potere della sua menzogna ha sommerso la radicalità del maggio 68, non l’ha soffocata. Il che si avverte nettamente da quando, sotto i colpi dell’impoverimento crescente, si sgretola il mito della società del benessere rimaneggiamento "all'americana" dell'Età dell'oro celebrata da Esiodo.

La minaccia che l'impoverimento fa pesare sulle fortezze del consumabile ha convinto il capitalismo a rivolgersi alla speculazione borsistica. L'ingresso nella fase finanziaria lo allontana dal regno illusorio del consumo.

Le elitre del capitalismo l’hanno sempre consigliato di lasciare quel che lo lascia. Ha disertato le fabbriche e il lavoro della produzione utile, abbandona il settore dei consumi di massa, minacciato di saccheggio e di desertificazione. Agonizza programmando l'agonia per tutti. Il suo nichilismo beffardo seduce gli aspiranti suicidi. Non gli importa di minare il pilastro portante dello spettacolo. Semina il disastro nella grande messa in scena, dove la vita era abituata ad avere esistenza solo di riflesso e per procura. Assumendo la propria debolezza, il capitalismo contribuisce involontariamente a farci ritrovare l'autenticità.

 

La ritirata del capitalismo nell'orbita della speculazione borsistica lo esenta dal dover rendere conto del crollo dell'economia. Rende redditizio il proprio declino. Dopo il dinamismo industriale e la colonizzazione consumistica, si cimenta in una fase finanziaria, in un tornado in cui il denaro impazzito ruota su se stesso.

Ciò si traduce in un fenomeno che ricorda il panico delle cellule cancerose di un organismo vivente. Il capitalismo non è né materia viva né materia morta. È una meccanica innestata sul vivente. Le disgrazie sperimentali della nostra evoluzione l’hanno chiaramente dimostrato: innestare del meccanico sul vivente produce il deperimento del vivente e l'autodistruzione del meccanico. Avviso ai transumanisti e ai sostenitori del Credito sociale!

Abbiamo il diritto di porci la domanda: la paura isterica che ha soppiantato le cure mediche del coronavirus non è forse un effetto della cancerizzazione di quest’organismo ibrido che è l'idra capitalista?

 

Comunque sia, non ci libereremo dalla morsa del vecchio mondo finché non avremo assicurato le basi di microsocietà umane, basate sulla solidarietà collettiva e sull'autonomia individuale.

 


 

II. La contestazione alienata

 

Da lunga data siamo impegnati in una lotta spietata contro lo sfruttamento della natura terrestre e della natura umana. I colpi inferti al capitalismo dal proletariato hanno segnato una fase specifica della nostra storia, ancora scossa da una Rivoluzione e da una rivelazione che avevano messo fine al totalitarismo monarchico.

La coscienza proletaria armata non ha sconfitto la supremazia capitalista ma – dalla Comune di Parigi alle collettività libertarie spagnole del 1936 – ha dimostrato che il progetto di una società radicalmente nuova entrava nell’ordine delle possibilità.

Costruire una società veramente umana non è un'utopia ma un esserci (il “ci siamo” – on est là – ripetuto con enfasi dai Gilets jaunes, NdT.).

 

Questa è la realtà esperimentata, secondo la loro specificità, dagli insegnamenti del maggio 1968, dalla cosiddetta rivolta degli Indignati, dall'apparizione degli zapatisti, dei Gilets jaunes, dei combattenti del Rojava e delle insurrezioni della vita quotidiana che divampano, si estinguono e rinascono ai quattro angoli del mondo.

Ecco dove risiede l'importanza del nostro tempo esistenziale e sociale. Lasciamo gli urlatori dell'anticapitalismo al loro Gran Meeting metropolitano! Lasciamo che la danza dello scalpo celebri l'illusoria messa a morte del sistema. L'esecrazione non nasconde più l'impotenza di chiunque si aspetti qualcosa dallo Stato e dalle mafie che lo sponsorizzano. Quanti anni ancora prima di rendersi conto che nulla è cambiato dei decreti e delle misure coercitive che attentano alla nostra libertà di vivere?

Quante elezioni per confermare che i più disprezzati plebiscitano sempre quello che li disprezza di più?

 

La fortezza del potere si crepa e noi continuiamo a lanciargli pietre con l'illusione di abbatterla. Tuttavia è su di noi che crolla. È più probabile che le sue macerie ci uccidano se indugiamo nei suoi paraggi. La Torre panoptica del Potere si voleva immutabile. Si sgretola davanti ai nostri occhi. Rischia di schiacciare con la sua spaventosa nullità coloro che ancora le attribuiscono un'onnipotenza.

Qual è il bilancio dell'anticapitalismo? Un muro di lamentazioni, una celebrazione vittimistica in seno a quei cimiteri che le mafie dell'ultimo profitto costruiscono rasando i nostri paesaggi.

Il populismo gauchista del disotto dà ragione al potere repressivo del disopra. La contestazione ideologica sposa la tirannia che ne giustifica l'esistenza. La rabbia militante imita la rabbia militare, si nutre della propria vanità.

 

Perché continuare a impantanarsi in un'ideologia rivoluzionaria che langue all'ombra di una morte economicamente programmata? Siamo, dunque, condannati ai rigurgiti di una critica-critica che riempie il vuoto creato dal mancato superamento della filosofia?

L'assenza di vita autentica che affligge i circoli intellettuali è ancora più costernante del progressivo declino dell'intelligenza.

 

Ciò che manca di più all'anticapitalismo è l'insurrezione del cuore.

 

In Francia, il colmo dell'odioso e del ridicolo è stato raggiunto da una sinistra e da un gauchismo retro-bolscevico e libertario che si è schierato a favore dell'obbligo di vaccinarsi decretato dai governi al soldo delle mafie farmaceutiche. Mentre un populismo fascista difendeva i non vaccinati aggiungendovi la "libertà" di espellere i migranti, il populismo gauchista invocava senza scrupoli il principio di solidarietà per giustificare la vaccinazione obbligatoria e il passaporto vaccinale, primo vangelo del Credito sociale sperimentato in Cina con successo.

 

Non possiamo più accontentarci di lottare sul terreno in cui il nemico ci trascina come una preda. La rivendicazione umana non deve avventurarsi in zone inquinate e militarizzate. L'avventura è altrove.

La vita da vivere irride il dialogo con lo Stato. Il mutuo soccorso non tollera che gli artigli del potere e il calcolo egoista lacerino il tessuto sociale in cui l'autonomia individuale cerca la sua strada.

Troppo spesso abbiamo protetto ciò che c’impediva di vivere. Indignarsi, lamentarsi, ribellarsi e battere i tamburi dell'etica non hanno cambiato nulla nello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Dobbiamo arrenderci all’evidenza: aboliremo la società dei morti viventi solo creando una società planetaria il cui baricentro sia la vita.

Uscire dai ranghi dell'individualismo gregario significa sventare la morsa del caos mortifero per creare un ordine vivente.

Chiedetevi perché persiste soltanto un’insurrezione della vita quotidiana che ovunque riemerge, si ferma, si ravviva, spingendo l'innocenza fino a ignorare il più freddo dei mostri freddi (lo Stato, secondo la formula di Nietzsche, NdT) e i suoi aborti sterminatori.

 

La civiltà del lavoro condanna a un esilio da se stessi. In questo sta la vera causa di quel malessere universale che il pensiero disincarnato attribuisce a una maledizione ontologica.

Alla separazione da noi stessi, che ci impedisce di godere della vita, si aggiunge una suddivisione in due funzioni – una intellettuale, una manuale – prodotta da una società di signori e di schiavi. Questa distinzione artificiosa ha propagato un sistema di apprensioni binarie. Ogni realtà gelosamente accompagnata dal suo opposto è una trappola in cui cade la nostra volontà di superamento. Il dualismo e la sua logica di A e non-A ostacolano e paralizzano la nostra volontà di ripristinare l'unità con noi stessi e con il mondo, che il regno della separazione ha spezzato.

 

La vecchia opposizione del Bene e del Male non ha smesso di renderci stupidi. Se il nichilismo affarista l’annulla come distrugge tutti i valori, è al solo scopo di rafforzare quello del denaro. Il profitto s’incamera più facilmente dove regna il caos. Per coltivarlo basta lasciar correre l’evidenza pecoresca: ogni contrario non superato diventa contrarietà.

 

Superamento del politico. Abolire la società dei signori e degli schiavi che, dalla fine del Neolitico ai giorni nostri, ci mantiene in uno stato di morbosità e di morte latente, implica un superamento del politico in quanto gestione del mondo dominante e del mondo dominato.

Nel senso originario del termine – gestione della polis, della Città – la pratica politica è un tentativo di equilibrare l'ordine e il disordine inerenti a una società di sfruttatori e sfruttati. L'alternanza di guerre e di pace si pesa, come la giustizia e l'ingiustizia, sulla bilancia del commercio e dei suoi regolamenti di conti tra valore di scambio – il prezzo – e valore d'uso – l'utile e il piacevole.

 

Riducendo l'arte politica a una volgare montatura pubblicitaria, il clientelismo l'ha ridicolizzata oltre ogni aspettativa. I movimenti d’insurrezione popolare hanno colto in questo un’occasione per proclamare il loro apoliticismo. Del resto, il loro rifiuto dei capi – la loro acrazia – sarebbe bastato a denunciare e bandire le manipolazioni e le corruzioni cui sono usi i governi e il loro machiavellismo da cortile.

Ecco, dunque, una trappola in cui le assemblee di autogestione non cadranno più finché si affideranno all'aiuto reciproco e all'autonomia per favorire l'armonizzazione dei desideri individuali e collettivi.

 

Superamento dell'intellettualità. Il pensiero del signore dominante si affina sul filo dell'organizzazione pratica richiesta dall'agricoltura, dall'allevamento del gregge – animali e schiavi indistintamente – e dagli scambi commerciali che ne procurano gli acquisti monetari.

Quanto al grado d’intelligenza indispensabile al lavoratore manuale, esso non deve eccedere la semplice capacità di eseguire gli ordini. La funzione di ottemperare senza discutere richiede un'autorità di controllo. L'infantilizzazione esige per i piccoli e per il piccolo popolo la severa benevolenza di un padre. Che cosa di meglio di un mandato celeste e della garanzia degli Dei per incidere il dovere dell'obbedienza e della tirannia in un marmo la cui presunta eternità dura quasi da diecimila anni?

 

Tutte le scienze, tutte le culture stanno crollando. Il sapere non scompare, si libera di un potere di cui lo rivestiva il principio gerarchico che governa le società agro-mercantili. La conoscenza si spoglia di quell'arroganza che la rendeva sospetta, per quanto indispensabile fosse.

L'emancipazione della donna e la rovina ineluttabile del patriarcato che la riduceva a un oggetto cominciano appena a mostrare i loro effetti. Essi sono visibili nell'evoluzione sociale ma non abbiamo ancora intuito fino a che punto la sensibilità femminile sta per rivoluzionare tutte le sfere di un sapere accaparrato e diretto, fino a oggi, da un virilismo che divulga le sue verità perentorie e gloriose.

La rinascita verso la quale ci dirigiamo è destinata a realizzare l'uomo totale la cui visione ossessiona – da Leonardo da Vinci a Pierre Kropotkin – gli esseri pensanti più generosi e audaci. Questa creatura posseduta dalla passione per tutto non è altro che la donna e l'uomo dediti a compiere il loro destino umano, secondo la vocazione della nostra specie.

 

Così come il proletario aspira a negare se stesso instaurando una società senza classi, il pensatore, una volta consapevole della vita che lo ispira, non smette di liberarsi dalla sua intellettualità per giungere a una potenza poetica universale.

L'intellettualità, cui nessuno sfugge, fa parte della corazza caratteriale del signore, il cui spirito celeste instilla il suo veleno in noi e nella società. La funzione intellettuale partecipa alla predazione, impone il suo potere anche nelle più sincere intenzioni sovversive. Il cielo delle idee ha desacralizzato il cielo degli dèi senza perdere la sua altezza nei confronti della terra.

 

Man mano che la sopravvivenza lascia il posto alla volontà di vivere, il numero delle mutazioni prevedibili si precisa. Il degrado mentale degli ultimi intellettuali fieri di esserlo va di pari passo con un Potere che la sua articolazione meccanica esenta dal dover pensare. Coloro che gestiscono la macchina per il lavaggio del cervello sono i primi a subirne gli effetti.

Più trionfano l'acefalismo e l'assenza d’intelligenza, più il campo dei viventi– o che almeno cercano di esserlo – scopre un'intelligenza sensibile e la priorità che essa accorda alle ragioni del cuore e del corpo.

La voce del vissuto rompe con la comunicazione reificata, con l'espressione desensibilizzata del discorso affarista, con la scienza oltraggiosamente investita dalla neolingua.

 

Le idee sventrate galleggiano a pancia all’aria. Non c'è nulla d’irrazionale né di mistico nella risposta alla razionalità disincarnata. Essa è la poesia che ha vocazione di ravvivare il vivente umanizzandolo.

 

La sopravvivenza è un campo di coerenze, lo stile di vita un campo di risonanze. Il linguaggio economizzato partecipa del primo, la vivacità poetica del secondo.

 

L'era della creazione abolisce il lavoro. Il lavoro è la forma inaugurale dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. È l'atto fondatore di una civiltà, dove il soggetto che trasforma la manna terrestre in merce diventa esso stesso un oggetto mercantile.

Durante le guerre, apparse verso la fine del Neolitico, i vinti sfuggivano al massacro solo servendo da schiavi per i vincitori. Da quel momento in poi, la sopravvivenza è sempre stata il prezzo di una morte in attesa.

 

Fu un tempo in cui il dinamismo commerciale salvaguardava una parte di creatività utile al suo processo d’innovazione. Le libertà furtive del libero scambio arieggiavano lo spirito confinato e disturbavano il conservatorismo dei regimi agrari. Per quanto scarsa ed emarginata fosse, la passione di creare rendeva attraenti dei lavori la cui utilità sociale sembrava indiscutibile. Si sa come le innovazioni originate dal capitalismo in fase d’industrializzazione abbiano alimentato il mito di un progressismo prometeico.

La graduale diserzione del settore produttivo a favore di quello dei consumi ha ridotto il lavoro alla necessità di un salario da dilapidare nelle oasi di supermercati. Il lavoro socialmente utile ha ceduto poco a poco il posto a un lavoro parassitario che, come negli ospedali, avvantaggia una gestione della redditività e rovina l'efficacia sanitaria con il pretesto di migliorarne i servizi.

 

Il capitalismo è entrato in un trinceramento finanziario, dove si arroga il diritto di rendere redditizia la sua morte programmando la nostra. Non abbiamo altra scelta che proteggere, difendere, ricreare la nostra vita e, con essa, le risorse naturali che sono contemporaneamente offerte e distrutte sotto i nostri occhi.

 

I problemi ambientali sono trattati soltanto globalmente e statisticamente – con i risultati che conosciamo –perché disdegniamo di affrontarli alla base, a livello locale e regionale. Eppure è nel villaggio e nei quartieri che l’inquinamento, l’avvelenamento, lo smantellamento dell'istruzione, degli ospedali, dei trasporti perpetuano i loro misfatti. Laddove un intervento diretto è possibile.

 

Gemere, gridare, pregare sono ugualmente ridicoli e rimarranno tali fino a quando l'audacia d’innovare non sarà riapparsa insieme con quella di vivere, finalmente.

 

Superamento del caratteriale e dell’emozionale. Le dualità regnano e si susseguono senza smettere d’invocare un superamento delle tensioni e un sogno di armonia. La nostra esistenza quotidiana è un laboratorio sperimentale. Il desiderio e il suo contrario fanno dell’esistenza un tormento quando le pulsioni vitali bussano alla porta.

 

In Psicologia di massa del fascismo, Reich mostra che l’uscita dal corpo e bisogna intendere con questo tutte le forme d’isteria, di panico, di misticismo, di settarismo e di fanatismo si spiega con il desiderio contrariato e profondamente insoddisfatto delle masse.

 

La corazza caratteriale che blocca le emozioni con il pretesto di controllarle riesce solo a inselvatichirle. L'edonismo è il recupero ideologico di una dialettica del desiderio che è al cuore dell'esistenza individuale e collettiva.

Soltanto l'esercizio dell'autogestione generalizzata può liberare l'individuo dalla sua cappa individualista, solo la pratica del mutuo soccorso può garantire a tutte e a tutti un'autonomia che non è altro che la libertà di vivere.

Quel che si gioca alla luce delle insurrezioni che rischiarano il pianeta, è il passaggio dalla sopravvivenza a uno stile di vita in cui tutto si reinventa.

 


 

III. L'autogestione generalizzata e il progetto di una vita umana e sovrana

 

Nel suo opuscolo Indignez-vous Stéphane Hessel metteva l’accento sulla resistenza che, al richiamo della vita, si leva contro ogni forma d’oppressione. Abbiamo visto succedere alla tirannia del vecchio regime agrario una tirannia del libero scambio dove le libertà menzognere non erano meno crudeli del cinismo predatorio degli imperi profani e religiosi.

Senza incriminare il disastroso recupero politico e ideologico degli Indignés, è bene rilevare che allo spirito di contestazione che li ha risvegliati è succeduta una poesia insurrezionale in cui l'attrazione della violenza barricadiera lascia il posto alla violenza pacifica della vita onnipresente.

 

Troppo spesso le idee si convertono in chimerica astrazione appena smettono di essere ancorate a una pratica esistenziale e sociale. L'autorganizzazione del popolo ha una sua storia che, attraverso vittorie e sconfitte, ci ha lasciato preziosi insegnamenti. Anche se non appaiono esplicitamente, la Comune di Parigi, i Consigli Operai Russi, i Collettivi libertari della Rivoluzione spagnola, la radicalità del maggio 1968 non sono estranei al rifiuto di dirigenti, di rappresentanti autoproclamati e di apparati politici che l'insurrezione pacifica dei Gilet Gialli ha rivendicato fin dall'inizio.

Una scelta identica guida i sollevamenti che, dal Chiapas alla Thailandia, propagano le loro differenze e le loro similarità. Nella storia delle rivoluzioni si tratta di una novità radicale ed essa esprime un’evidenza che è sempre stata occultata: la vita non vuole padroni.

L'essere che aspira a ritrovare la sua umanità è naturalmente apolitico, areligioso, acratico. È stato sufficiente al popolo questo guizzo per abbattere i bastioni gemelli del conservatorismo e del progressismo.

 

Dalla resistenza a una poetica dell'insurrezione. Nate da pretesti futili – una tassa indebita, un aumento del biglietto della metropolitana, un'incongruenza burocratica – le conflagrazioni planetarie scaturiscono in realtà da una quotidianità i cui desideri sono stati troppo a lungo compressi.

Tali sollevamenti si sono verificati in passato, ma è la prima volta che si rivendica apertamente un’unanime volontà di “vivere in piena libertà”. È la prima volta che il popolo ha deciso di organizzarsi autonomamente, che bandisce i capi, rifiuta i delegati non nominati, si protegge dall'intrusione di apparati politici e oppone al calcolo egoistico un mutuo soccorso che accorda all'umano una priorità assoluta.

 

Elogio dell'azione ravvicinata. Il principio di Tierra y libertad, proposto da Ricardo Flores Magón e reso popolare da Emiliano Zapata, assume oggi un’importanza che non sospettava il peone costretto al lavoro duro per un proprietario terriero nel Messico in rivolta.

La riforma agraria, che ieri reclamava l'appropriazione collettiva di qualche porzione di terra, ingloba ormai nelle sue esigenze l'intero pianeta. Nondimeno resta vero che riappropriarsi della manna terrestre comincia dal pezzo di terra impunemente avvelenato sotto i nostri occhi dall'industria agroalimentare. Il sistema di sfruttamento della natura è solo un rumore di corridoio nelle alte sfere. È in basso che il saccheggio e l’inquinamento soffocano la popolazione, è alla base che bisogna mettere loro fine.

 

In materia di vissuto individuale, collettivo e ambientale, non c'è problema trattato dagli organismi statali e sovrastatali che non si sia in grado di affrontare nell’ambito della realtà locale.

 

Per quanto disparata possa essere, prevale in ciascuno la sensazione di condurre un'esistenza contraria ai propri desideri più cari. Ieri, le conquiste sociali strappate con un’aspra lotta offrivano una sorta di contropartita all'odiosa necessità di lavorare e obbedire. Che cosa resta di questo bene pubblico, di questa res publica che è stata venduta agli interessi privati? Anche le zattere della consolazione consumistica affondano, prese tra le onde del capitalismo finanziario. Non si sa chi, tra la speculazione borsistica o l’impoverimento, spegnerà per primo il luccichio dei supermercati.

 

Lo Stato non ha più altra funzione che repressiva. Il manganello risponde alle domande del popolo. Per il Credito sociale che la Cina esporta con successo, basta una carta elettronica per familiarizzarsi con l'autodistruzione della cittadinanza.

 

“L'opera più nefasta del dispotismo, diceva il comunardo Arthur Arnould, è quella di separare i cittadini, di isolarli gli uni dagli altri, di spingerli alla diffidenza, al disprezzo reciproci. Nessuno agisce più, perché nessuno osa più contare sul suo vicino”.

 

Si sarà capito: dove siamo noi, lo Stato non c'è più. La storia ha esaurito tutte le forme di Potere destinate a governare il corpo e la sua coscienza. La morte avanzava le sue pedine di nascosto. Questa volta, essa ci affronta a viso aperto. La sua assurdità è perentoria.

 

Charles de Ligne racconta che un generale tedesco, avendo solo una conoscenza rudimentale del francese, non trovò altra arringa prima della battaglia che “Andiamo a fottere!”. Ebbene, detta così la cosa, dissero i soldati, perché no? Accadde, però, che durante la scaramuccia questi stessi soldati lo facessero sfuggire in extremis alla morte. Dunque, osserva C. de Ligne, la parola che dà la vita, l’ha salvata.

Tocca ormai a noi di godere sul momento della primavera della vita, fregandosene della guerra in cui il passato è in preda al panico per conquistare il futuro.

 

L'autogestione deve alla violenza repressiva degli Stati le sue troppo brevi sperimentazioni. Nessuno è così ingenuo da credere che il più freddo dei mostri freddi rimarrà impassibile di fronte ai nostri tentativi di soppiantarlo. Tuttavia per quanto temibili siano le esplosioni della sua rabbia sfiatata, che possibilità ha la sua estinzione auto-programmata di soffocare il respiro di una vita che si rianima senza tregua?

 

La vita è un'arma che molesta senza uccidere. Tale è la potenza offensiva di cui prende lentamente coscienza la guerriglia la cui alba sorge ogni giorno all'orizzonte del vecchio mondo. La nostra autodifesa non ha altre basi.

 

L'autogestione implica la creazione di micro-società chiamate a federarsi. Scommette sulla creatività degli individui, sulla loro disinvolta e appassionata ricerca di un destino che revochi per sempre Fatalità, Provvidenza, Destino.

 

Efficacemente riattivata dalla peste emozionale del coronavirus – e occasionalmente da gonfiature parodistiche di guerra nucleare – la macchina per il lavaggio del cervello s’inceppa, implode, tanto i suoi manipolatori hanno fatto e fanno mostra d’incompetenza anche nelle loro menzogne. È l’ora in cui coloro che il panico mediatico e la prevaricazione scientifica aveva sprofondato in un coma artificiale, possono scrollarsi di dosso il loro letargo.

 

Il risveglio delle coscienze riscopre la libertà dei possibili. Anche nelle profondità delle folle asservite, ci si stanca dell'immensa lassitudine di un universo confinato. Il grado di bassezza e meschinità rende irrespirabili le nostre società tecnicamente civilizzate.

Come non sognare una società che risolva i suoi problemi senza fare riferimento a delle élite la cui sola inanità sonora è rappresentativa.

Il sogno è il tessuto del pensiero.

 

Il calcolo egoistico è sempre e solo riuscito a spingere più lontano la glaciazione dell'umano. È stato il sudario che seppellisce gli esseri prima che nascano a se stessi. Dopo aver recitato con tanta docilità Prometeo incatenato, è davvero il minimo che ci si sia risoluti ad aderire al progetto di essere umano nella sua infinità.

Si tratta soltanto della realizzazione di un sogno senza tempo e ricorrente, quello dell'Uomo totale che ispirò le riflessioni del Rinascimento. Il ritorno al mutuo soccorso, l'emergere d’individui autonomi, la nuova alleanza con la natura sono barlumi che, nella notte e nella nebbia del dubbio, segnalano una probabile rinascita dell'umano, un rovesciamento di prospettiva dove la vita rivendica i suoi diritti assoluti e bandisce le ombre della morte, più deleterie ancora che la morte stessa.

 

Il coronavirus ha, tra altri effetti, mostrato dal vivo un mondo di menzogne, di squilibri, di odi, di delazioni, di disumanità che non vogliamo più. Tuttavia la domanda sorge qui e ora: che cosa vogliamo esattamente? Rispondervi è il nostro principale ricorso contro la confusione e il caos che ci spingono verso l'Ordine del Credito Sociale, applicato in Cina.

Bisogna pure, innanzitutto, stabilire una distinzione tra desiderio naturale – o desiderio del cuore – e desiderio snaturato. La precisione è importante. La priorità accordata all’umano esclude ogni influenza economica. Essa bandisce la predazione, il potere, il consumismo, la manipolazione.

 

Poiché l’astrazione lo priva della sua sostanza viva, il desiderio trae il suo senso dalla situazione da cui emana. Qualunque sia il problema che deve affrontare, è della massima importanza che non rinunci alla sua natura di soggetto per snaturarsi in oggetto.

 

Anche se dispone di un enorme sostegno, una decisione disumana è inaccettabile. La nozione di maggioranza e minoranza va rivista in questo senso. Si obietterà che nell'ambito dell’autogestione non si pone la questione della pena di morte o del carcere. Tuttavia, che ne sarà della macellazione di un animale, dell’abbattimento di un albero?

 

Tra gli zapatisti, chiunque voglia trovare una soluzione a una difficoltà incontrata, è incaricato dall'assemblea locale. Riferirà sugli imprevisti della sua attività, senza rischio di incorrere in lodi o reprimende. Tutte le età, tutti i sessi hanno il diritto di esprimere la propria opinione.

Agli zapatisti piace ricordare che sono un’esperienza, non un modello. Il modello conserva in sé qualcosa di autoritario. L'esperienza, invece, dà libero sfogo agli insegnamenti che se ne possono trarre.

 

Smettendo di deplorare l'apparente futilità dei miei passi, mi sento incaricato dai milioni di donne e uomini che, come me, hanno voglia di vivere.

La solidarietà dà le ali alla mia solitudine.

 

È nell'esistenza, probabile e tuttora incerta, di società autogestite che sta a noi prevedere con quali imprese di restauro e rinnovamento ci troveremo prima o poi confrontati, con l'unico sostegno dell’aiuto reciproco, del potenziale creativo degli individui autonomi e della prospettiva esaltante di un’umanizzazione crescente.

 

Con che diritto vietare alle comunità e agli individui che le compongono di intervenire direttamente nei problemi posti dal loro ambiente circostante? Sebbene gli uffici di gestione statistica siano, a quanto pare, meno esposti ai miasmi dell'inquinamento agroalimentare rispetto alle case situate ai bordi dei campi, è comunque dalle scartoffie deodorate che provengono le decisioni prese al vertice nel totale disprezzo per la base.

 

Il rifiuto di ascoltare da parte delle autorità governative rende ridicole le lamentele che il popolo rivolge loro. Lo Stato non si accontenta di stracciare il contratto sociale, medita di sostituirlo con il Credito alla cinese, che nota, punisce e premia il servilismo dei cittadini.

Se vogliamo scongiurare tale infamia, non è forse giunto il momento di redigere una Costituzione dei diritti dell'essere umano che conceda la sua naturale legittimità a un governo del popolo da parte del popolo? È in nome di questa costituzione eretta a stato di fatto, che saremo abilitati ad affrontare con piena poesia pratica dei problemi che gli interessi statali e mafiosi affrontano solo in modo spettacolare, disincarnandoli, meccanizzandoli.

 

Ci libereremo di quel che ci è rimasto in gola. Il recupero delle conoscenze, del sapere, dell'arte, delle scienze acquisite nella civiltà mercantile non è sufficiente per le esigenze di un mondo nuovo. Esso implica la riconversione del progresso tecnico in progresso umano.

 

Tutto è da restaurare, reinventare, rinaturalizzare.

A cominciare dalla scuola, le cure sanitarie, i trasporti, l’agricoltura, l’ambiente, l’energia, i flussi migratori, la lingua e la libertà d’espressione, la produzione e lo scambio dei beni di consumo.

L'esercizio di una pratica di prossimità è una reazione di vita. Essa predomina sugli imperativi del profitto che la frenano, la distorcono, la rovinano.

Abbiamo la priorità su quel che ci riguarda per primi.

 

La scuola non può tollerare oltre la morsa arcaica della predazione, della concorrenza, della competizione, del sacrificio, dello spirito militare. L'attrazione appassionata non fa forse della curiosità una pratica di prossimità che revoca la tutela dell'autorità e dei suoi decreti secolari o religiosi? L'emulazione rimanda la concorrenza alla sua villania bottegaia. Suscita il desiderio d’istruirsi a qualsiasi età, in tutti i campi, in qualsiasi momento – secondo il metodo rabelaisiano, estrapolando dal pezzo di pane, dalla forchetta, dalla tavola i primi rudimenti di storia, di analisi, di percezione poetica degli esseri e delle cose.

Accordare la priorità all'intelligenza sensibile e non più all'intellettualità funzionale alimenta il sapere affettivo di una poesia che evita alla soggettività la trappola dell'oggettivazione e dei suoi psicodrammi.

 

Oltre che condurre una lotta giuridica ed estenuante contro i pesticidi, non sarebbe saggio combattere le devastazioni dell'industria agroalimentare favorendo il passaggio alla permacultura, a forme rinaturate di agricoltura e allevamento, a un'orticoltura che soddisfi le esigenze della regione, a una varietà di piccoli orti personali e di terreni comuni coltivati collettivamente?

 

Finché il profitto di pochi azionisti prevale sulla salute della popolazione locale, è poco probabile ottenere la chiusura delle industrie tossiche. Per contro, sull'esempio dei villaggi che acquistano terreni di caccia per riconvertirli in orti collettivi, aiutare i lavoratori a disertare le loro fabbriche senza trovarsi privati di mezzi di sussistenza merita di fornire materia di discussione.

 

Il deterioramento e la scarsità dei trasporti pubblici incoraggiano a rimetterli alla portata di tutti rinnovandoli, diversificandoli, garantendone la gratuità, boicottando le lobby petrolifere e le loro vetture, tanto impropriamente chiamate "automobili".

 

Lo stato disastroso degli ospedali suggerisce alle microsocietà autogestite di creare delle case di salute dove il rapporto tra paziente e curante favorisca quel clima di fiducia reciproca senza il quale nessuna guarigione è possibile. Abbiamo visto troppi medici e studiosi screditarsi avallando il passaggio dal sanitario al securitario, facendosi i valletti mercenari del potere politico e delle mafie farmaceutiche.

Le malversazioni di una scienza priva di coscienza e il “trattamento alla Semmelweis” applicato agli scienziati che ostacolavano gli interessi delle mafie farmaceutiche, autorizzano ormai i ricercatori a esplorare la manna delle terapie naturali rifiutando qualsiasi autorità nazionale e sovranazionale in materia di rimedi.

Mentre la brutalità dell'allopatia è messa in causa, la nuova alleanza con la natura riscopre le piante curative e si rivolge allo sviluppo delle loro virtù. Si ritorna, anche qui, al principio di prossimità.

 

Come nel diciannovesimo secolo l'ascesa del capitalismo industriale suscitò i Volta, Watt, Lebon, Papin, Huygens che sperimentarono spesso con i propri mezzi il genio inventivo che li sollecitava, così l'emergere di una civiltà umana incoraggia a fidarsi dell'intelligenza e della creatività d’individui finalmente consapevoli delle libertà di cui godono.

 

Il principio del mutuo soccorso invita a creare dei luoghi di parole. La fine degli intellettuali e del loro disprezzo per la chiacchiera festiva restituisce ai luoghi pubblici, alle strade, ai bar, alle case del popolo dei modi d’espressione che grazie alla loro stessa libertà possono prevenire o placare i conflitti, le psicopatie e gli squilibri esistenziali dovuti al vacillare dei vecchi punti di riferimento e all’incertezza dei nuovi.

 

Spetta alle assemblee di micro-società autogestite e federate riconvertire il passato e ricreare il presente. Che non ci sfugga di mano nessuna delle questioni su cui il Leviatano e i suoi tirapiedi hanno invano cercato di mantenere l’esclusiva. Sì, abbiamo in noi la potenza inventiva capace di affrontare il problema di un'energia gratuita e non inquinante, di ravvivare il linguaggio destinato a disarticolarsi e a inaridirsi economizzandosi, di distribuire i flussi migratori – che faciliterebbe sia la ricezione di un ristretto numero di ospiti da parte di un gran numero di collettività e un contatto costante delle persone spostate con i loro luoghi di origine.

 

Non siamo forse abbastanza informati dell’inflazione e della graduale scomparsa del denaro contante per prevedere delle banche di mutuo soccorso, dei sistemi di baratto, delle monete non capitalizzabili?

 

I frammenti di vita proiettati dai Gilets jaunes hanno favorito la nascita di collettività capaci di concretizzare in assemblee locali delle proposte che, limitate a una diffusione in rete, si espongono al controllo e alla censura delle opinioni. Non è forse questo il punto di partenza per una distruzione – o più abilmente per una riconversione – di cellulari e altri gadget che, con un cinismo esilarante, ci spiano e bigbrotherizzano le nostre tasche e le nostre case?

La storia fatta da noi e contro di noi è arrivata a un mollate tutto dove, per chi ne è soggettivamente e visceralmente convinto, tutto è possibile.

 


 

IV. Il rovesciamento di prospettiva

 

L'economia agro-mercantile ha eretto contro il libero sviluppo dell’umano una diga su cui sbattono continuamente le onde dell'emancipazione. Nel corso dei secoli, tumulti, rivolte, insurrezioni sono sempre regredite di fronte a questo gigantesco ostacolo, senza, però, che i loro assalti scemassero e si esaurissero.

Se oggi i bastioni dell'oppressione s’incrinano e si sgretolano, la causa è meno imputabile alla violenza che li colpisce dall'esterno che a una distorsione che li disloca interiormente.

Dall'inizio, la guerra che la civiltà mercantile aveva deciso di condurre contro la natura era destinata a trionfare solo precipitando la propria sconfitta. Ci sono voluti diecimila anni per convincerne le sue ultime vittime. Che sono mai diecimila anni rispetto ai tre milioni di anni che vanno dalla nostra antenata Lucy ai dipinti parietali di Lascaux?

Vaghiamo tra i brividi dell'inverno che muore e i fremiti della primavera che rinasce. Il tremito che accompagna quel che spunta o tiene duro non è lo stesso di quello che precipita.

 

Il rovesciamento di prospettiva è la libera scelta offerta all'essere umano. Esso revoca gli imperativi, le parole d'ordine. La nuova era ha dalla sua la coscienza che la esplora e la rende visibile.

 

Proporre una sorta di progetto o di programma sarebbe un errore se lo si sostituisse alla potenza poetica che risveglia l'individuo alle sue capacità creative.

 

Nessuno sa come l'homo economicus spezzerà l'incantesimo secolare che l’ha così facilmente convinto della sua congenita impotenza. Sarà un trauma come l'inaspettato allagamento del laboratorio di Pavlov che cancellò il riflesso di sottomissione, testato con successo sui cani? O, più felicemente, un ribaltamento foriero di un salutare rovesciamento di prospettiva, in grado di concentrare la nostra energia su una vita sovrana e sulla coscienza umana che essa ci ha accordato e che, il più delle volte, ci è rimasta estranea?

 

Lottiamo per un ritorno alla vita. Non abbiamo niente a che fare con una sfida alla morte.

La vita non è un progetto, non ha senso. Siamo noi a darle un senso, noi cui essa ha delegato la facoltà di intervenire nel suo processo di proliferazione sperimentale e di evitare, se lo vogliamo, il ricorso alla morte che regola abitualmente la distruzione dell’eccedente – l’eccesso di nascite, di creature, di alberi, di avere accumulato a spese dell'essere.

 

Portiamo in noi la vita nell'umile scintilla della sua immensità. Il nostro destino è di umanizzarla.

 

Per convenire che non c'è altro essere supremo che l'essere umano, dobbiamo prima spogliarci del ruolo di signore che una storia snaturata ci ha imposto. È giunto il momento di porre fine per sempre alla stolta, crudele e devastante superiorità che ci ha fatto regnare sugli animali, le piante, le pietre.

Non c'è in questo alcuna ingiunzione etica. Vogliamo soltanto annientare la sofferenza che infliggiamo loro soffrendone noi stessi. Fino a quale grado di abbrutimento mortifero, cinegetico o militare dobbiamo scendere per dimenticare che questi cosiddetti regni inferiori fanno parte dei nostri elementi costitutivi?

 

Le nostre lotte sono rimaste confinate sul terreno delimitato militarmente dai nostri nemici. I quali verso di esso ci spingono e ci intrappolano ma conoscono, invece, della vita solo la spada che la taglia. Non avranno bisogno d’altro finché offriremo loro le nostre gole!

Se, invece, faremo in modo di sfuggire ai loro mulinelli da matamori, sono le loro stesse teste che taglieranno. La parodia di guerra mondiale, di cui l'Ucraina è il viscido pretesto, dimostra ancora una volta che solo una miserabile e sanguinaria mascherata dissimula il crollo degli Stati.

I tamburi sono rotti, non spaccano più i timpani. Le loro guerre non ci riguardano! Non siamo trafficanti d'armi, né banchieri, né burattini politici.

 

Come immaginare un’autodifesa pacifica, una guerriglia in cui la vita molesti il nemico fino a precipitarne la debacle? Fourier, che ha poca simpatia per le rivoluzioni, propone una soluzione che, sotto il suo apparente candore, indica piste da esplorare. I falansteri, aperti tanto ai ricchi quanto ai poveri, mantengono una separazione tra la tavola dove i più facoltosi si riempiono di pietanze squisite cui sono abituati e le feste più frugali di cui si accontentano le classi inferiori. Ora, la gioia che regna tra i poveri contrasta talmente con la mestizia e l’insipidezza edonistica che affliggono i ricchi che questi ultimi disertano poco a poco le mense di un'opulenza senza attrattiva per unirsi ai poveri che si rallegrano di delizie minori.

L'apologo fa parte della realtà visionaria del teorico dell'attrazione appassionata. Tuttavia, le evocazioni poetiche di una società falansteriana non sono prive di echi suggestivi in un progetto di autogestione che ha il vantaggio rispetto alla costruzione fourierista di essere ancorato nella storia, dove ha fornito prove indiscutibili di riuscita.

L'osservazione illustrata da Fourier punta oggi il dito sugli oligarchi svuotati dalle incontinenze dell’avere, mummificati nelle bende dei loro piaceri noiosi, mentre, dalle strade alle rotonde, dalle città ai paesi, i poveri celebrano l'eterna primavera della vita.

Il tavolo della convivialità universale è aperto. Coloro i cui cuori appassiti sono diventati l'emblema della cupidigia rischiano di non scampare al banchetto del nulla.

 

La vita non ha bisogno di noi per esistere. Noi, invece, abbiamo bisogno della vita per esistere e lei ci ha pensato, nella sua assenza di discernimento. Ciò che stupirà i futuri osservatori del nostro passato è che, dotati della capacità di armonizzare il vivente o di lasciare che si riequilibri distruggendoci, abbiamo scelto, finora, l'egualitarismo della morte piuttosto che i piaceri egualitari della gratuità.

Le insurrezioni della vita quotidiana suonano ovunque la campana a morto del capitalismo suicida. La menzogna soffoca sotto troppe parole storpiate.

 

Autonomi e fieri del nostro anonimato, noi siamo gli artigiani di un ritorno al vivente che risuona ai confini dell'universo. Noi mettiamo fine al calcolo egoista e alla servitù che hanno fatto della terra una valle di lacrime.

Noi creeremo un mondo in cui l’essere umano morirà soltanto sulla soglia della sua pienezza, nello splendore delle sue potenzialità soddisfatte, anche se non appagate nella loro totalità.

La vita non dice mai un'ultima parola.

Raoul Vaneigem, 7 marzo 2022, revisione del 14 aprile 2022




 

RAOUL VANEIGEM

 

 

RETOUR À LA VIE

 

 

 

 

I. La vie n’est pas un objet

 

          Nous n’avons jamais appris qu’à mourir, voici le temps d’apprendre à vivre.

          Nous sommes au point de rupture de deux civilisations. Le vieux monde s’effondre et tarde à disparaître, le nouveau émerge et tarde à s’imposer. 

          L’onde de choc qui agite la planète secoue notre existence. Il en dévoile la racine. Nulle idéologie n’a désormais le pouvoir de la masquer.

          Le roc des vérités anciennes vole en éclats.

 

           Renoncer à vivre pour éviter de mourir. Aucun passé n’a obtenu l’assentiment des foules à une aussi stupéfiante absurdité. Aucune époque ne s’est, à ce point, laissée crétiniser à l’amiable.

          Mais l’État et les multinationales ont beau déverser  les immondices de la peur, de la résignation, du renoncement, du sacrifice, de la délation, il arrive un moment où tout vacille, où tout bascule parce que la vie reprend le dessus et se réapproprie ses droits. Nous sommes au cœur de ce moment. Plus exactement, nous en sommes le cœur.

          Sans doute faut-il prêter au rêve la puissance de dissoudre les cauchemars du réel. Mais ce ne sera là qu’une formule creuse tant que nous n’aurons pas résolu de quitter la jungle sociale où survivre était notre lot. Pour aller où ? Exactement où nous sommes. Là où s’éveille en nous le désir irrépressible de bâtir sur le terrain de notre existence une société où l’entraide et l’autonomie nous enseignent à explorer une vie dont nous étions tenus à l’écart.

 

          Nos sociétés sont des décombres. Nous pataugeons dans des valeurs mortes. Les restrictions budgétaires ont ruiné le bien public. Les avantages sociaux arrachés de haute lutte par les grèves, les occupations d’usine, le harcèlement revendicatif, ont été dépecés, émiettés, annihilées. Retraites et allocations sont escroquées à celles et ceux qui ont  cotisé pour en jouir, une fois libérés du travail. Les transports publics sont mis à mal, l’enseignement qui, depuis longtemps n’est qu’une voie d’accès au marché des esclaves, se délite à la vitesse de chute du dynamisme capitaliste. La cupidité affairiste a saccagé les hôpitaux publics qui, il y a quelques décennies,  auraient  été à même de réagir efficacement à l’apparition d’une épidémie.

          Qu’a-t-on tiré de cette scandaleuse gabegie ? Un simple diagnostic de morbidité. Le constat s’est banalisé en devenant l’objet de débats politiques, d’analyses sociologiques, de protestations philosophiques, de réprimandes et de doléances adressées à un Léviathan cacochyme, qui leur a signifié sa fin de non-recevoir en alléguant un état de fait. « C’est ainsi, pas autrement, tel est notre bon vouloir.»

          Par conséquent, rien n’est appelé à changer. Les manifestants trépignent, les revendications corporatistes accomplissent leur petit tour de manège. Les lieux communs attristent le regard et se fondent parmi ces paysages bétonnés dont on détourne les yeux.

 

           Le désespoir, la fatalité, le pressentiment de défaite sont des armes d’autant plus efficaces entre les mains du Pouvoir que c’est nous qui lui en faisons  cadeau.

 

          L’essor du capitalisme industriel a eu le mérite, au XIXe siècle, d’autoriser, contre son gré, la naissance d’une conscience prolétarienne. Celle-ci ne se bornait ni à des revendications salariales, ni aux appels d’air d’une survie oppressée. Son projet ? Rien de moins que la création d’une société sans classe. On y retrouvait en rémanence cette aspiration à une société égalitaire qui s’était pliée aux fluctuations de l’histoire sans jamais changer de cap.

          En dispensant  ses innovations  monnayées — électricité, vapeur, chemin de fer, thérapies, radiophonie — le capitalisme industriel avait su se prévaloir d’un progressisme prométhéen qui tout à la fois fascinait et rebutait. Le héros de la mythologie grecque avait, on le sait, défié la tyrannie des Dieux pour offrir aux humains le feu grâce auquel ils forgeraient leur destinée. Le tribut à payer pour une telle audace fut le sacrifice d’une vie, condamnée à la mutilation perpétuelle.

          La vision philanthropique du capitalisme suggérait sans vergogne que la promesse d’un monde meilleur s’accomplissait aux tréfonds de l’enfer industrialisé  et au prix de la souffrance ouvrière. Cette fois, le paradis n’avait nul besoin du passeport vers l’au-delà que délivraient les religions. Il était terrestre, tangible, à la portée des mains, sinon de la droite, occupée à travailler, du moins de la gauche où s’inscrivait le principe d’espérance.

 

          A l’instigation du profit, maître suprême et décideur unique, la colonisation consumériste allait succéder à la phase essentiellement productiviste du capitalisme. Avec la vogue d’une démocratie de supermarché, la vieille philanthropie caritative s’est trouvée obsolète. Mais elle a révélé, en s’effaçant, un phénomène que l’on avait dédaigné d’examiner de plus près, celui du traficotage humaniste.

          Qu’est-ce, à l’origine, que l’humanisme ? Le pur produit d’une logique lucrative. Une des premières aumônes citoyennes de la civilisation marchande. A l’encontre de la perte sèche que représentait la traditionnelle mise à mort des prisonniers de guerre, l’opinion  prévalut de leur accorder la grâce de survivre en devenant esclaves, en assurant le mouvement perpétuel des rouages économiques. La générosité et le calcul concluaient là une alliance improbable, qui s’est perpétuée jusqu’à nos jours.

 

          Le procès de Nuremberg mit en scène un emblématique spectacle humanitaire. Un capitalisme prétendument démocratique condamnait et vouait aux gémonies un capitalisme d’État totalitaire dont le nazisme et le stalinisme avaient mené à bien l’atrocité concurrentielle.

          A l’époque même où l’Occident écrasait la révolte des peuples colonisés, le secteur de la consommation s’ouvrait en faisant vibrer les cordes sensibles de l’altruisme. Il s’agissait, en quelque sorte de ré-humaniser la dureté de l’astreinte productiviste, autrement dit la barbarie du travail. Le plan Marshall, qui inaugura le déferlement des  plaisirs consommables, passa pour une obole que l’évangélisme américain jetait dans la sébile de l’Europe dévastée par la guerre.

          Les Édens d’abondance ne tarderont pas à se multiplier, quadrillant de leurs néons les villes et les campagnes. En prélude à son débordement planétaire, la pandémie consumériste intéresse en priorité les gouvernements européens. La perte  de leurs colonies a ravalé leur arrogance d’exploiteur. Ils se prosternent aux pieds de l’empire calviniste et baisent les fesses de cet  immonde Baphomet qu’est le self-made-man. (L’idole, on le sait, passait pour être vénérée par les Templiers, ordre militaire et affairiste dont  nombre d’Etats européens des XIIIe et XIVe siècles étaient les  débiteurs.)

 

          Perçu de l’intérieur, le supermarché est un modèle d’hédonisme, de choix électif, de démocratie. Sous l’égide du libre-échange, la liberté est totale, à ceci près qu’elle se paie à la sortie. Résiderait-il, au sein de ces lieux brillamment éclairés, d’insoupçonnables  ténèbres ?  

          Un modèle consumériste  de gestion du peuple s’est propagé à coups de campagnes promotionnelles. L’appliquer au monde entier, en incluant bien entendu les droits de péage, nourrissait l’ambition d’instaurer le fameux Welfare-state, l’état de bien-être universel, la béatitude végétative élevée à la meilleure des survies possibles.

          C’était oublier qu’invoquer les possibles dans une société pétrie d’interdits, c’est jouer avec le feu.

 

          Le capitalisme trouvait son compte dans les fêtes faunesques où les « évohé,  évohé !» viraient au « consommez, consommez ! » Non seulement les bénéfices engrangés n’étaient plus menacés par les grèves intempestives, les revendications de salaires, les jérémiades des apparatchiks syndicaux, mais les salaires, arrachés aux griffes de l’exploiteur, rebondissaient docilement dans ses mains de velours. 

          Troquant son bleu de travail contre des habits de consommateur, le prolétaire perdait peu à peu sa conscience et sa combativité. Les idéologies se prenaient à la glu d’un clientélisme moins soucieux d’une intelligence des êtres et des choses que des battages publicitaires valorisant n’importe quoi. L’importance accordée au prix d’achat minimisait l’intérêt porté à l’usage du produit. De sorte qu’à un utile pair de godasses, l’acheteur en vint à préférer la brillance spectaculaire d’une marque renommée.

 

          L’industrialisation avait inauguré des conditions propices à l’éclosion d’une conscience de classe. Le déluge consumériste l’avait effacée mais non sans entraîner dans son sillage une débandade des valeurs traditionnelles.

          La stricte nécessité de produire  prônait l’ascétisme, le puritanisme, le sacrifice de la vie à la force de travail. L’injonction de consommer ouvrit une voie en contre-sens. Les conditions n’étaient pas sans rappeler, dans une parodie douce-amère, le grand virage auquel le libre-échange, en sonnant l’hallali de l’Ancien Régime, avait convié les Diderot, les Rousseau, les d’Holbach, les penseurs des Lumières, inspirateurs et instigateurs de  la Révolution française.

          En vouant à la désuétude les idéologies traditionnelles, l’œcuménisme consumériste exaltait l’hédonisme, le libre choix, l’autonomie, le refus du sacrifice. La marchandise instaurait son propre culte. Au nom de l’Avoir érigé en  Être-suprême, elle désacralisait les religions et le principe d’autorité. 

          L’idée qu’il était naturel de dépenser en se dépensant ne fut pas sans inspirer  la pensée qu’une alliance renouvelée avec la nature abolirait le dogme de l’antiphysis. La célébration de la femme consommatrice, promotionnant en son innocence débonnaire, la sollicitude envers l’enfant et l’animal n’abusa pas longtemps l’autodéfense féministe et les tenants d’une renaturation des êtres et des choses. Dans la foulée, il ne fallut guère de temps pour comprendre que le plaisir de dépenser en se dépensant signifiait en sa sordide réalité « se consumer en consommant. »

 

          Le mouvement situationniste avait dès les années 1960 tiré les leçons du revirement que l’évolution du capitalisme mettait à portée d’analyse et de subversion radicale. Le virage réveillait et stimulait la conscience de celles et de ceux qui n’avaient pas renoncé au projet d’émancipation humaine, tel qu’il se transmettait de génération en génération.

 

          Le Mouvement des Occupations de 1968 confirma la plupart des thèses situationnistes. Bien qu’ayant échoué à concrétiser le projet d’autogestion généralisée et à jeter les bases d’une société humaine, le joli Mai ne fut ni une victoire ni une défaite. Il convoqua l’histoire à un rendez-vous permanent.         L’apparition des Gilets jaunes en France et l’embrasement pacifique des insurrections mondiales s’en sont fait l’écho sans qu’il fût  besoin de maîtres à penser, de tribuns, de mots d’ordre pour y inciter.

 

          Le retour à la vie a le génie de raviver sans trêve la conscience paradoxalement historique et intemporelle qui émane de chaque habitant de la terre. La résolution d’accorder la priorité à l’être humain, de bannir les chefs, les représentants autoproclamés, les appareils politiques et syndicaux, et d’œuvrer au gouvernement du peuple par les assemblées du peuple, voilà qui suffit amplement à jeter les bases d’une entraide sociale.

 

          En raison de la loi des contraires, le clientélisme consumériste a contribué à la réémergence de l’authenticité, il a aidé à dépouiller la vie de son identification à la survie. La puissance de son mensonge a submergé la radicalité de mai 68, elle ne l’a pas étouffée. On s’en aperçoit nettement depuis que, sous les coups de la paupérisation croissante, vole en éclat le mythe de l’état de bien-être – cette resucée « à l’américaine » de l’Age d’Or, célébré par Hésiode.

 

          La menace que la paupérisation fait peser sur les forteresses du consommable a convaincu le capitalisme de se tourner vers la spéculation boursière. Entrer en phase financière l’éloigne de l’illusoire royaume de la consommation.

          Les antennes du capitalisme l’ont toujours averti de quitter ce qui le quitte. Il a déserté les usines et le travail de la production utile, il délaisse le secteur de la consommation de masse, menacé de pillage et de désertification. Il agonise en programmant l’agonie pour tous. Son nihilisme ricanant séduit les suicidaires. Il se moque bien de saper le pilier de soutènement du spectacle. Il sème la débâcle dans la grande mise en scène où la vie s’accoutumait à n’avoir d’existence que par reflets et procuration. Sa débilité assumée contribue sans le vouloir à nous faire retrouver l’authenticité.

 

          Le repli du capitalisme dans l’orbe de la spéculation boursière le dispense d’avoir à rendre compte de l’effondrement de l’économie. Il rentabilise son propre dépérissement. Après le dynamisme industriel et la colonisation consumériste, il s’engage dans une phase financière, dans une tornade où l’argent fou tourne sur lui-même.

          Il en résulte un phénomène qui n’est pas sans évoquer l’affolement des cellules qui cancérisent un organisme vivant. Le capitalisme n’est ni une matière vivante ni une matière morte. Il est du mécanique greffé sur du vivant. Les infortunes expérimentales de notre évolution l’ont nettement démontré : greffer du mécanique sur du vivant produit le dépérissement du vivant et l’autodestruction du mécanique. Avis aux transhumanistes et aux tenants du Crédit social !

          On est en  droit de se poser la question : la peur hystérique qui a supplanté le traitement médical du coronavirus n’est-elle pas un effet de la cancérisation de cet organisme hybride qu’est l’hydre capitaliste ?

 

          Quoi qu’il en soit nous ne nous affranchirons pas de l’emprise du vieux monde tant que nous n’aurons pas assuré les assises de microsociétés humaines, fondées sur la solidarité collective et l’autonomie individuelle.

 

II. La contestation aliénée

 

          Nous sommes engagés de longue date dans une lutte sans merci contre l’exploitation de la nature terrestre et de la nature humaine. Les coups portés au capitalisme par le prolétariat ont marqué une phase spécifique de notre histoire, encore sous le choc d’une Révolution et d’une révélation qui avaient mis fin au totalitarisme monarchique.

          La conscience prolétarienne en armes n’est pas venue à bout de la suprématie capitaliste mais – de la Commune de Paris aux collectivités libertaires espagnoles de 1936 – elle a démontré que le projet d’une société radicalement nouvelle entrait dans l’ordre des possibles.

          Bâtir une société véritablement humaine n’est pas une utopie mais un être-là.

 

          Telle est la réalité qu’expérimentent, selon leur spécificité, les enseignements de Mai 1968, la révolte dite des Indignés, l’apparition des Zapatistes, des Gilets jaunes, des combattants du Rojava, et les insurrections de la vie quotidiennes qui s’allument, s’éteignent et renaissent aux quatre coins du monde.

          Voilà où réside l’importance de notre temps existentiel et social. Laissons les braillards de l’anticapitalisme à leur Grand Meeting du métropolitain ! Laissons la danse du scalp célébrer l’illusoire mise à mort du système. L’exécration ne dissimule plus depuis longtemps l’impuissance de quiconque attend quoi que ce soit de l’État et des mafias qui le parrainent. 

          Combien d’années encore pour s’apercevoir que rien n’a changé des décrets et des mesures coercitives qui attentent à notre liberté de vivre ?   Combien d’élections pour confirmer que les plus méprisés plébiscitent toujours celui qui les méprise le plus ?

 

          La forteresse du pouvoir se fissure et nous sommes là à lui jeter des pierres en nous illusionnant de l’abattre. Mais c’est sur nous qu’elle s’effondre. Ses décombres ont plus de chances de nous tuer si nous nous éternisons dans ses parages. La tour panoptique du Pouvoir se voulait immuable. Elle se délite sous nos yeux. Elle risque d’écraser de son effarante nullité ceux qui la créditent encore d’une toute puissance.

          Quel est le bilan de l’anticapitalisme ? Un mur des lamentations, une célébration victimaire au sein de ces cimetières que les mafias du dernier profit construisent en arasant nos paysages.

           Le populisme gauchiste d’en bas rend raison au pouvoir répressif d’en haut. La contestation idéologique épouse la tyrannie qui justifie son existence. La rage militante singe la rage militaire, elle se nourrit de sa propre vanité.

 

          Pourquoi continuer de s’enliser dans une idéologie révolutionnaire qui croupit à l’ombre d’une mort économiquement programmée ? Sommes-nous voués aux régurgitations d’une critique-critique comblant le vide creusé par le non-dépassement de la philosophie ?

          Plus consternant encore que l’étiolement progressif de l’intelligence est l’absence de la vraie vie qui sévit dans les cénacles intellectuels.

 

          Ce qui manque le plus à l’anticapitalisme, c’est l’insurrection du cœur.

 

          Le comble de l’odieux et du ridicule a été atteint, en France, par une gauche et un gauchisme rétro-bolchevique et libertaire se ralliant à l’obligation de se faire vacciner décrétée par les gouvernements à la botte des mafias pharmaceutiques. Tandis qu’un populisme fascisant prenait la défense des non vaccinés et y adjoignait  la « liberté » d’expulser les migrants, le populisme gauchiste invoquait sans scrupule le principe de solidarité pour justifier la vaccination obligatoire et le passeport sécuritaire, premier évangile du Crédit social expérimenté en Chine avec succès.

 

          Nous ne pouvons plus nous contenter de lutter sur le terrain où l’ennemi nous traîne comme une proie. La revendication humaine n’a pas à s’aventurer en zone polluée et militarisée. L’aventure est ailleurs.

          La vie à vivre se moque de dialoguer avec l’État. L’entraide ne tolère pas que les griffes du pouvoir et du calcul égoïste déchirent le tissu social où l’autonomie  individuelle cherche sa voie.

          Nous avons trop fréquemment abrité ce qui nous empêchait de vivre. S’indigner, se lamenter, se révolter et battre les tambours de l’éthique n’ont rien changé à l’exploitation de l’homme par l’homme. Il faut se rendre à l’évidence : nous n’abolirons la société des morts-vivants qu’en créant une société planétaire dont le centre de gravitation soit la vie.

          Sortir du rang de l’individualisme grégaire, c’est déjouer l’emprise du chaos mortifère pour créer un ordre vivant.

          Demandez-vous pourquoi seule s’obstine cette insurrection de la vie quotidienne qui partout rebondit, s’arrête, se ravive, poussant l’innocence jusqu’à ignorer le plus froid des monstres froids et ses avortons exterminateurs.

 

          La civilisation du travail condamne à un exil de soi. Là réside la véritable cause de ce mal-être universel que la pensée désincarnée attribue à une malédiction ontologique.

          A la séparation d’avec nous-mêmes, qui nous interdit de jouir de la vie, s’ajoute une subdivision en deux fonctions – une intellectuelle, une manuelle – produite par une société de maîtres et d’esclaves. Cette distinction artificieuse a propagé un mode d’appréhensions binaires. Toute réalité jalousement accompagnée de son contraire est un piège où se prend la volonté de dépassement. Le dualisme et sa logique du A et du non-A entravent et paralysent notre volonté de restaurer l’unité avec nous-mêmes et avec le monde, que le règne de la séparation a brisée.

 

          La vieille opposition du Bien et du Mal n’a pas fini de nous crétiniser. Si le nihilisme affairiste l’annule, comme il dézingue toutes les valeurs, c’est à la seule fin de conforter celle de l’argent. Où règne le chaos, le profit se grappille impunément. Il suffit pour l’entretenir de laisser pisser l’évidence moutonnière : tout contraire non dépassé devient contrariété.

 

          Dépassement du politique. Abolir la société de maîtres et d’esclaves qui, de la fin du néolithique à nos jours, nous maintient en état de morbidité et de mort latente, implique un dépassement du politique en tant que gestion du monde dominant et du monde dominé.

          Au sens originel du terme – gestion de la polis,  de la Cité –  la pratique politique est une tentative d’équilibrer l’ordre et le désordre inhérents à une société d’exploiteurs et d’exploités. L’alternance de guerres et de paix se pèse, comme la justice et l’injustice, sur la balance du commerce et de ses règlements de compte entre valeur d’échange – le prix – et valeur d’usage – l’utile et l’agréable.

 

          En réduisant l’art politique à un vulgaire battage publicitaire, le clientélisme l’a ridiculisé au-delà de toute attente. Les mouvements d’insurrection populaire ont saisi là une occasion de proclamer leur apolitisme. Au reste, leur refus des chefs – leur acratie – aurait suffi  à dénoncer et à bannir les manipulations et les subornations dont sont coutumiers les gouvernements et leur machiavélisme de basse-cour

          Voilà donc un piège où les assemblées d’autogestion ne retomberont pas tant qu’elles miseront sur l’entraide et sur l’autonomie pour œuvrer à l’harmonisation des désirs individuels et collectifs.

 

          Dépassement de l’intellectualité. La pensée du maître s’aiguise au fil de l’organisation pratique qu’exigent l’agriculture, l’élevage du troupeau – bêtes et esclaves confondus –  et les échanges commerciaux, qui en ventilent les acquis monnayés.

          Quant au degré d’intelligence indispensable au travailleur manuel, il ne doit pas excéder la simple capacité d’exécuter les ordres. À la fonction qui consiste à obtempérer sans discuter, il faut une autorité de tutelle. L’infantilisation réclame pour les petits et pour le petit peuple la sévère bienveillance d’un père. Quoi de mieux qu’un mandat céleste et la caution des Dieux pour graver le devoir d’obédience et de tyrannie dans un marbre dont l’éternité présumée a tout de même atteint près de dix mille ans ?

 

          Toutes les sciences, toutes les cultures s’effondrent. Le savoir ne disparaît pas, il s’affranchit de ce pouvoir dont l’affublait le principe hiérarchique qui gouverne les sociétés agro-marchandes. La connaissance se dévêt de cette arrogance qui la rendait suspecte, si indispensable qu’elle fût.

          L’émancipation de la femme et la chute inéluctable du patriarcat qui la réduisait à un objet commencent à peine à montrer leurs effets. Ils sont visibles dans l’évolution sociale mais on n’a pas encore soupçonné à quel point la sensibilité féminine va révolutionner toutes les sphères d’un savoir accaparé et diligenté, jusqu’à nos jours, par un virilisme assénant ses vérités péremptoires et glorieuses.

          La renaissance vers laquelle nous nous acheminons est appelée à réaliser l’homme total dont la vision hante – de Léonard de Vinci à Pierre Kropotkine – les êtres pensants les plus généreux et les plus audacieux. Cette créature possédée par la passion du tout n’est autre que la femme et l’homme voués à  accomplir leur destinée humaine, conformément à la vocation de notre espèce.

 

          De même que le prolétaire aspire à se nier en instaurant une société sans classe, le penseur, une fois conscient de la vie qui l’inspire, n’a de cesse de se libérer de son intellectualité pour atteindre à une puissance poétique universelle.

          L’intellectualité, à laquelle nul n’échappe, participe de la carapace caractérielle du maître, dont l’esprit céleste instille son venin en nous et dans la société. La fonction intellectuelle participe de la prédation, elle impose son pouvoir jusqu’au sein des plus sincères intentions subversives. Le ciel des idées a désacralisé le ciel des Dieux sans perdre de sa hauteur envers la terre.

 

           À mesure que la survie cède le pas à la volonté de vivre, le nombre des mutations prévisibles se précise. La dégradation mentale des derniers  intellectuels fiers de l’être va de pair avec un Pouvoir que son articulation mécanique exempte d’avoir à penser. Ceux qui font tourner la machine à décerveler sont les premiers à en subir les effets.

          Plus l’acéphalisme et l’absence d’intelligence triomphent, plus le camp des vivants – ou qui du moins tentent de l’être – découvre une intelligence sensible et la  prééminence qu’elle accorde aux raisons du cœur et du corps.

          La voix du vécu rompt avec la communication réifiée, avec l’expression désensibilisée du discours affairiste, avec la science outrageusement investie par la novlangue. 

         

          Les idées éviscérées flottent le ventre en l’air. La réponse à la rationalité désincarnée n’a rien d’irrationnel ni de mystique. Elle est la poésie qui a vocation de raviver le vivant en l’humanisant.

 

          La survie est un champ de cohérences, le style de vie un champ de résonances. Le langage économisé participe du premier, la vivacité poétique du second.

 

          L’ère de la création abolit le travail. Le travail est la forme inaugurale de l’exploitation de l’homme par l’homme. Il est l’acte fondateur d’une civilisation où le sujet qui transforme la manne terrestre en marchandise devient lui-même un objet marchand.

          Lors des guerres, apparues vers la fin du néolithique, les vaincus n’échappaient au massacre qu’en servant d’esclaves aux  vainqueurs. A dater de cette époque, la survie a toujours été le prix d’une mort en sursis.

 

          Il fut un temps où le dynamisme commercial sauvegardait une part de créativité utile à son processus d’innovation. Les furtives libertés du libre-échange aéraient l’esprit confiné et agaçaient le conservatisme des régimes agraires. Si mince et si marginalisée qu’elle fût, la passion de créer rendait attractifs des travaux dont l’utilité sociale paraissait incontestable. On sait comment les innovations, dispensées par le capitalisme en phase d’industrialisation, ont nourri le mythe d’un progressisme prométhéen.

          La désertion graduelle du secteur de production au profit du secteur de la consommation a réduit le travail à la nécessité d’un salaire à dilapider dans les oasis de supermarchés. Le travail socialement utile a peu à peu cédé la place à un travail parasitaire qui, à l’exemple des hôpitaux, privilégie une gestion de la rentabilité et ruine l’efficacité sanitaire au prétexte d’améliorer les services. 

 

          Le capitalisme est entré dans un retranchement financier où il s’arroge le droit de rentabiliser sa mort en programmant la nôtre. Nous n’avons d’autre choix que de protéger, de défendre, de recréer notre vie et, avec elle, les ressources naturelles qui sont à la fois offertes et détruites sous nos yeux.

 

          Les problèmes environnementaux ne sont traités mondialement et statistiquement – avec les résultats que l’on sait – que parce que nous dédaignons de les aborder à la base, localement et régionalement. C’est pourtant au village et dans les quartiers que la pollution, l’empoisonnement, la casse de l’enseignement, des hôpitaux, des transports exercent leurs méfaits. Là où une intervention directe est possible.

 

          Gémir, crier, prier sont également dérisoires et le resteront tant que l’audace d’innover n’aura pas reparu avec l’audace de vivre enfin.

 

          Dépassement du caractériel et de l’émotionnel. Les dualités règnent et s’enchaînent, sans cesser d’invoquer un  dépassement des tensions et un rêve d’harmonie. Notre existence quotidienne est un laboratoire expérimental. Le désir et son contraire font de l’existence un tourment alors que les pulsions de vie frappent à la porte.

 

          Dans Psychologie de masse du fascisme, Reich montre que la sortie hors du corps  – et il faut entendre par là toutes les formes d’hystérie, de panique, de mysticisme, de sectarisme et de fanatisme s’explique par le désir contrarié et profondément insatisfait des masses.

 

          La carapace caractérielle qui bloque les émotions sous couvert de les contrôler ne réussit qu’à les ensauvager. L’hédonisme est la récupération idéologique d’une dialectique du désir qui est au cœur de l’existence individuelle et collective.

          Il n’y a que l’exercice de l’autogestion généralisée pour libérer l’individu de sa chape individualiste ; il n’y a que la pratique de l’entraide pour garantir à toutes et à tous une autonomie, qui n’est rien d’autre que la liberté de vivre.

 

          Ce qui se joue à la lueur des insurrections illuminant la planète, c’est le passage de la survie à un style de vie où tout se réinvente.

 

III. L’autogestion généralisée et le projet d’une vie humaine et souveraine.

 

          Dans son pamphlet Indignez-vous, Stéphane Hessel mettait l’accent sur la résistance qui à l’appel de la vie se dresse contre toute forme d’oppression. On a vu succéder à la tyrannie de l’Ancien régime agraire une tyrannie du libre-échange où les libertés mensongères n’étaient pas moins cruelles que le cynisme prédateur des empires profanes et religieux.

          Sans incriminer la désastreuse récupération politique et idéologique des Indignés, il est bon de souligner qu’à l’esprit de contestation qui les a réveillés a succédé une poésie insurrectionnelle où l’attrait de la violence barricadière cède la place à la paisible violence de la vie omniprésente.

 

           Trop fréquemment, les idées tournent à l’abstraction chimérique dès l’instant qu’elles ne sont pas ancrées dans une pratique existentielle et sociale.   L’auto-organisation du peuple a pour elle une histoire qui à travers victoires et défaites nous a laissé de précieux enseignements. Même s’ils n’apparaissent pas explicitement, la Commune de Paris, les Conseils ouvriers russes, les Collectivités libertaires de la Révolution espagnole, la radicalité de Mai 1968 ne sont pas étrangers au refus de chefs, de représentants autoproclamés et d’appareils politiques que l’insurrection pacifique des Gilets jaunes a revendiqué dès le départ.

          Un choix identique guide les soulèvements qui, du Chiapas à la Thaïlande, propagent leurs diversités et leurs similarités. Dans l’histoire des révolutions, c’est là une nouveauté radicale. Et elle exprime une évidence qui a toujours été occultée : la vie ne veut pas de maîtres.

          L’être qui aspire à retrouver son humanité est naturellement apolitique, areligieux, acratique. Il a suffi au peuple de cette chiquenaude pour jeter à bas les remparts jumelés du conservatisme et du progressisme.

 

          De la résistance à une poétique de l’insurrection. Issus de prétextes futiles  –une taxe indue, une hausse du ticket de métro, une incongruité bureaucratique – les embrasements planétaires jaillissent en fait d’une vie quotidienne dont les désirs ont été trop longtemps comprimés.

          De tels soulèvements ont eu lieu par le passé, mais c’est la première fois qu’est ouvertement revendiquée une  volonté unanime de « vivre en toute liberté ». C’est la première fois que le peuple est résolu à s’organiser lui-même, qu’il bannit les chefs, refuse les délégués non mandatés, se prémunit contre l’intrusion d’appareils politiques et oppose au calcul égoïste une entraide qui accorde à l’humain une priorité absolue.

 

          Éloge de l’action rapprochée. Le principe de  Tierra y libertad, proposé par Ricardo Flores Magón et popularisé par Emiliano Zapata, revêt aujourd’hui une envergure que ne soupçonnait pas le péon trimant pour un propriétaire terrien dans le Mexique en révolte.

          La réforme agraire qui réclamait hier l’appropriation collective de quelques terres englobe désormais dans ses exigences la planète entière. Il n’en reste pas moins vrai que nous réapproprier la manne terrestre commence par le bout de terrain impunément empoisonné sous nos yeux par l’industrie agro-alimentaire. Le système d’exploitation de la nature n’est qu’un bruit de couloir en haut lieu. C’est en bas que le pillage et la pollution suffoquent la population, c’est à la base qu’il faut y mettre fin.

 

          En matière de vécu individuel, collectif et environnemental, il n’est pas de problème traité par les instances étatiques et supra-étatiques que nous ne soyons à même d’aborder par le biais de la réalité locale.

 

          Si disparate qu’il soit, le sentiment prévaut, chez chacun, qu’il mène une existence au rebours de ses désirs les plus chers. Hier les acquis sociaux arrachés de haute lutte offraient une manière de contrepartie à l’odieuse nécessité de travailler et d’obéir. Que reste-t-il de ce bien public, de cette res publica qui a été vendue aux intérêts privés ? Même les radeaux de la consolation consumériste coulent, happés par les vagues du capitalisme financier. De la spéculation boursière ou de la paupérisation, on ne sait qui effacera en premier la rutilance des supermarchés.

 

          L’État n’a plus d’autre fonction que répressive. La matraque répond aux questionnements du peuple. Pour le Crédit social, que la Chine exporte avec succès, il n’est besoin que d’une carte électronique pour se familiariser avec l’autodestruction citoyenne.

 

          « L’œuvre la plus néfaste du despotisme, disait le communard Arthur Arnould, c’est de séparer les citoyens, de les isoler les uns les autres, de les amener à la défiance, au mépris réciproques. Personne n’agit plus, parce que personne n’ose plus compter sur son voisin. »

 

          On l’aura compris : où nous sommes, l’État n’est plus. L’histoire a épuisé toutes les formes de Pouvoir censées gouverner le corps et sa conscience. La mort avançait ses pions en sous-main. Cette fois, elle nous affronte à découvert. Son absurdité est péremptoire.

 

          Charles de Ligne raconte qu’un général allemand, n’ayant de la langue française qu’une connaissance rudimentaire, ne trouva d’autre harangue avant la bataille que : « Allons foutre ! ». Eh, s’il appelle cela comme ça, dirent les soldats, pourquoi pas ? Or, il arriva qu’au cours de l’échauffourée ces mêmes soldats le firent in extremis échapper à la mort. Ainsi, note Ligne, le mot qui donne la vie la lui sauva.

          C’est à nous désormais de jouir sur le champ du printemps de la vie, en nous foutant de la guerre où le passé s’affole à conquérir l’avenir ?

                                                                               

          L’autogestion doit à la violence répressive des États ses trop brèves mises en œuvre. Nul n’a la naïveté de croire que le plus froid des monstres froids restera impassible face à nos tentatives de le supplanter. Mais si redoutables que soient les sursauts de sa rage essoufflée, quelle chance son extinction autoprogrammée a-t-elle d’étouffer le souffle d’une vie qui sans trêve se ranime ?

 

          La vie est une arme qui harcèle sans tuer. Telle est la puissance offensive dont  prend lentement conscience la guérilla dont l’aube chaque jour se lève à l’horizon du vieux monde. Notre autodéfense n’a pas d’autre base.

 

          L’autogestion implique la création de microsociétés appelées à se fédérer. Elle mise sur la créativité des individus, sur leur quête nonchalante et passionnelle d’une destinée révoquant à jamais la Fatalité, la Providence, le Destin.

 

          Efficacement réactivée par la peste émotionnelle du coronavirus, – et occasionnellement par des boursoufflures parodiques de guerre nucléaire – la machine à décerveler disjoncte, elle se grippe, elle implose, tant ses manipulateurs ont fait et font montre d’incompétence jusque dans leurs mensonges. C’est l’heure où celles et ceux que la panique médiatique et la prévarication scientifique avaient plongés dans un coma artificiel ont une chance de s’ébrouer de leur léthargie.

                                                                                                              

          Le réveil des consciences redécouvre la liberté des possibles. Même au profond des foules asservies, on se lasse de l’immense lassitude d’un univers confiné. Le degré de bassesse et de mesquinerie rend irrespirables nos sociétés techniquement civilisées.

          Comment ne pas se prendre à rêver d’une société qui règle ses problèmes sans en référer à des élites dont l’inanité sonore seule est représentative.

          Le rêve est l’étoffe de la pensée.

 

          Le calcul égoïste n’a jamais réussi qu’à pousser plus avant la glaciation de l’humain. Il a été le suaire qui ensevelit les êtres avant qu’ils naissent à eux-mêmes. Après avoir si docilement joué les Prométhée enchaînés, c’est bien le moindre que nous soyons résolus de rallier le projet d’être humain, en son infinitude.

          Ce n’est là que la concrétisation d’un rêve intemporel et récurrent, celui de l’Homme total, qui inspira les réflexions de la Renaissance. Le retour à l’entraide, l’émergence d’individus autonomes, la nouvelle alliance avec la nature sont des lueurs qui, dans la nuit et le brouillard du doute, signalent une probable renaissance de l’humain, un renversement de perspective où la vie revendique ses droits absolus et bannit les ombres de la mort, plus délétères encore que la mort elle-même.

 

          Le coronavirus a, entre autres effets, montré à vif un monde de mensonges, de déséquilibres, de haines, de délations, d’inhumanités dont nous ne voulons plus. Mais la question se pose ici et maintenant : que désirons-nous au juste ? Y répondre est notre principal recours contre la confusion et le chaos qui nous entraînent vers l’Ordre du Crédit social, appliqué en Chine.

          Encore faut-il, au préalable, établir une distinction entre désir naturel – ou désir du cœur – et désir dénaturé. La précision est importante. La primauté accordée à l’humain exclut toute emprise économique. Elle bannit la prédation, le pouvoir, le consumérisme, la manipulation. 

 

          L’abstraction lui ôtant sa substance vivante, le désir puise son sens de la situation dont il émane. À quelque problème qu’il soit confronté, il est de la plus grande importance qu’il ne résigne pas sa nature de sujet pour se dénaturer en objet.

 

          Même si elle dispose d’un soutien massif, une décision inhumaine est inacceptable. La notion de majorité et de minorité doit être revue en ce sens. On objectera qu’en autogestion la question de la peine de mort ou de la prison ne se pose pas. Mais qu’en sera-t-il de l’abattage d’une bête, d’un arbre ?

 

          Chez les Zapatistes, quiconque souhaite apporter une solution à une difficulté rencontrée est mandaté par l’assemblée locale. Il rendra compte des aléas de son entreprise, sans risque d’encourir éloge ou blâme. Tous les âges, tous les sexes ont le droit d’exposer leur opinion.

          Les Zapatistes aiment à rappeler qu’ils sont une expérience, non un modèle. Le modèle garde en soi quelque chose d’autoritaire. L’expérience, elle, laisse libre cours aux enseignements qui s’en peuvent tirer.

 

          En cessant de déplorer l’apparente futilité de mes démarches, je me sens mandaté par les millions de femmes et d’hommes qui, comme moi, ont envie de vivre.

          La solidarité donne des ailes à ma solitude.

 

          C’est dans l’existence, probable et encore incertaine, de sociétés autogérées qu’il nous appartient de prévoir à quelles entreprises de restauration et de rénovation nous serons tôt ou tard confrontés, avec pour seuls soutiens l’entraide, le potentiel créatif des individus autonomes et l’exaltante perspective d’une humanisation croissante.

 

          De quel droit interdire aux collectivités et aux individus qui les composent d’intervenir directement dans les problèmes posés par leur environnement immédiat ? Bien que les bureaux de gestion statistique soient, à ce qu’il semble, moins exposés aux miasmes de la pollution agro-alimentaire que les maisons en bord de champs, c’est néanmoins de la paperasserie désodorisée que viennent les décisions  prises au sommet dans le parfait mépris de la base.

 

          La fin de non-recevoir des instances gouvernementales rend ridicules les doléances que le peuple lui adresse. L’État ne se contente pas de chiffonner le contrat social, il médite d’y substituer le Crédit à la chinoise qui note, punit et récompense la servilité des citoyens.

          Si nous voulons parer à pareille infamie, le moment n’est-il pas venu de rédiger une Constitution des droits de l’être humain décernant sa légitimité naturelle à un gouvernement du peuple par le peuple ? C’est au nom de cette constitution érigée en état de fait, que nous serons habilités à aborder en toute poésie pratique des problèmes que les intérêts étatiques et mafieux ne traitent que sur le mode du spectacle, en les désincarnant, en les mécanisant.

 

           Nous allons nous désengorger de ce qui nous reste en travers du gosier.  La récupération des connaissances, du savoir, de l’art, des sciences acquis en civilisation marchande ne suffit pas aux exigences d’un monde nouveau. Elle implique la reconversion du progrès technique en progrès humain.

 

          Tout est  à restaurer, à réinventer, à renaturer.

          À commencer par l’école, les soins de santé, les transports, l’agriculture, l’environnement, l’énergie, les flux migratoires, le langage et la liberté d’expression, la production et l’échange  des biens de consommation.

          L’exercice d’une pratique de proximité est une réaction de vie. Elle prime les impératifs de profit, qui la brident, la dénaturent, la ruinent.

          Nous sommes prioritaires là où nous sommes concernés en premier.

 

          L’école ne peut tolérer davantage l’emprise archaïque de la prédation, de la concurrence, de la compétition, du sacrifice, de l’esprit militaire. L’attraction passionnelle ne fait-elle pas de la curiosité une pratique de proximité qui révoque la férule de l’autorité et de ses décrétales laïques ou religieuses ? L’émulation renvoie la compétition à sa vilenie boutiquière. Elle attise le désir de s’instruire à tout âge, dans tous les domaines, à tout moment – selon la méthode rabelaisienne extrapolant du quignon de pain, de la fourchette, du pichet, de la table les premiers rudiments d’histoire, d’analyse, de perception poétique des êtres et des choses.

          Accorder la priorité à l’intelligence sensible et non plus à l’intellection fonctionnelle nourrit le savoir affectif d’une poésie qui évite à la subjectivité le piège de l’objectivation et de ses psychodrames.

 

          En plus de mener une lutte juridique et épuisante contre les pesticides, ne serait-il pas judicieux de combattre les ravages de l’industrie agro-alimentaire en  favorisant le passage à la permaculture, à des formes d’agriculture et d’élevage renaturés, à un maraîchage répondant aux besoins de la région, à une diversité de petits potagers personnels et de communs collectivement cultivés ?

 

          Tant que le profit de quelques actionnaires l’emporte sur la santé de la population riveraine, obtenir l’interdiction des industries toxiques est peu probable. En revanche, à l’exemple de ces villages rachetant des terrains de chasse pour  les reconvertir en potagers collectifs, aider les travailleurs à déserter leurs usines  sans se trouver privés de moyens de subsistance mérite de fournir matière à débats.

 

          Le saccage  et la raréfaction des transports publics incitent à les remettre à portée de toutes et tous en les rénovant, en les diversifiant, en assurant leur gratuité, en boycottant les lobbies pétroliers et leurs voitures dites, si improprement, « auto-mobiles. »

 

          L’état désastreux des hôpitaux suggère aux microsociétés autogérées d’aménager des maisons de santé où la relation entre soigné et soignant favorise cette atmosphère de confiance mutuelle sans laquelle aucune guérison n’est possible. On a vu trop de médecins et de savants se discréditer en cautionnant le passage du sanitaire au sécuritaire, en se faisant, contre rémunération, les valets du pouvoir politique et des mafias pharmaceutiques.

          Les malversations d’une science sans conscience et le « traitement à la Semmelweis » appliqué aux scientifiques qui desservaient les intérêts des mafias pharmaceutiques autorisent désormais les chercheurs à explorer la manne des thérapies naturelles en rejetant toute autorité nationale et supranationale en  matière de remèdes. 

          Alors que la brutalité de l’allopathie est mise en cause, la nouvelle alliance avec la nature redécouvre les plantes soignantes et s’attache au développement de leurs vertus. On en revient, ici aussi, au principe de proximité.

 

          De même qu’au XIXe siècle l’essor du capitalisme industriel suscita les Volta, Watt, Lebon, Papin, Huygens expérimentant – souvent par leurs propres moyens –, le génie inventif  qui les sollicitait, de même l’émergence d’une civilisation humaine encourage-t-elle à miser sur l’intelligence et sur la créativité d’individus enfin conscients des libertés dont ils jouissent.

 

          Le principe d’entraide appelle à créer des lieux de paroles. La fin des intellectuels et de  leur mépris pour la palabre festive restitue aux places publiques, aux rues, aux bistrots, aux maisons du peuple des modes d’expression qui par leur liberté sont à même de prévenir ou d’apaiser les conflits, les psychopathies, les déséquilibres existentiels qu’entraînent le vacillement des repères anciens et l’incertitude des nouveaux.

 

          C’est aux assemblées de microsociétés autogérées et fédérées qu’il appartient de reconvertir le passé et de recréer le présent. Que n’échappe à notre mainmise aucune des questions dont le Léviathan et ses séides ont vainement tenté de garder l’exclusivité. Oui, nous avons en nous la puissance d’inventivité capable d’aborder le problème d’une énergie gratuite et non polluante, de raviver le langage voué à se désarticuler et à se dessécher en s’économisant, de répartir les flux migratoires – qu’allégeraient à la fois l’accueil d’un petit nombre d’hôtes par un grand nombre de collectivités et un contact constant des personnes déplacées avec leur lieu d’origine.

 

          Ne sommes-nous pas assez avertis de l’inflation et de la disparition graduelle de l’argent liquide pour prévoir des banques d’entraide, des systèmes de troc, de monnaies non capitalisables ?

 

          Les éclats de vie propulsés par les Gilets jaunes ont favorisé la naissance de collectivités concrétisant en assemblées locales des propositions qui, limitées à une diffusion par réseau, s’exposent au contrôle et à la censure des opinions. N’est-ce pas le point de départ d’une destruction – ou plus habilement d’une reconversion – des téléphones portables et des gadgets qui, avec un cynisme désopilant, nous espionnent et bigbrothérisent nos poches et nos maisons.

          L’histoire faite par nous et contre nous en est arrivée à un lâchez-tout où, pour qui en est subjectivement et viscéralement persuadé, tout est possible.

 

IV. Le renversement de perspective

 

          L’économie agro-marchande a érigé contre le libre développement de l’humain une digue que heurtent sans discontinuer les vagues de l’émancipation. Au fil des siècles, les tumultes, les révoltes, les insurrections ont toujours régressé devant cet obstacle gigantesque, sans pour autant que leurs assauts faiblissent et s’épuisent.

          Si, de nos jours, les remparts de l’oppression se fissurent et se délitent, la cause est moins imputable à la violence qui les frappe du dehors qu’à une distorsion qui les disloque intérieurement.

          Dès le départ, la guerre que la civilisation marchande avait résolu de mener contre la nature était vouée à ne triompher qu’en précipitant sa défaite. Il a fallu dix mille ans pour en convaincre ses dernières victimes. Qu’est-ce que dix mille ans en regard des trois millions d’années qui mènent de notre ancêtre Lucy aux peintures pariétales de Lascaux ?

          Nous errons entre les grelottements de l’hiver qui meurt et les frémissements du printemps qui renaît. Le tremblement qui accompagne ce qui pousse ou s’accroche à ce qui tombe n’est pas le même.

 

          Le renversement de perspective est le libre choix offert à l’être humain. Il révoque les impératifs, les mots d’ordre. L’ère nouvelle a pour elle la conscience qui l’explore et la rend visible.

 

          Proposer une manière de plan ou de programme serait une erreur s’il se substituait à la puissance poétique qui éveille l’individu à ses capacités créatives.

 

          Nul ne sait par quel biais l’Homme économisé brisera l’envoûtement séculaire qui l’a si aisément convaincu de son impuissance native. Sera-ce un traumatisme comme l’inondation inopinée du laboratoire de Pavlov qui  effaça le réflexe de soumission, expérimenté avec succès sur des chiens ? Ou, avec plus de bonheur, un basculement opérant un salutaire renversement de perspective, focalisant notre énergie sur une vie souveraine et sur la conscience humaine qu’elle nous a accordée et qui, le plus souvent, nous est demeurée étrangère ?

 

          Nous luttons pour un retour à la vie. Nous n’avons que faire d’un défi lancé à la mort.

 

          La vie n’est pas un projet, elle n’a pas de sens. C’est nous qui lui donnons un sens, nous à qui elle a délégué la faculté d’intervenir dans son processus de prolifération expérimentale, d’éviter, si nous le voulons, le recours à la mort qui régule à l’ordinaire la destruction des excédents – le trop plein de naissances, de créatures, d’arbres, d’avoir accumulé aux dépens de l’être.

 

          Nous portons en nous la vie dans l’humble étincelle de son immensité. Notre destinée est de l’humaniser.

 

          Pour convenir qu’il n’y a d’autre être suprême que l’être humain, il faut au préalable nous dépouiller du rôle de maître qu’une histoire dénaturée nous imposa. Le moment est venu de résilier à jamais la supériorité imbécile, cruelle et dévastatrice qui nous fit régner sur les animaux, les plantes, les pierres.

          Il n’y a là nulle injonction éthique. Nous souhaitons seulement annihiler la souffrance que nous leur infligeons en nous en accablant nous-mêmes. A quel degré d’abrutissement mortifère, cynégétique ou militaire faut-il descendre pour oublier que ces règnes dits inférieurs font partie de nos éléments constitutifs ?

 

           Nos luttes sont restées cantonnées sur le terrain militairement balisé par nos ennemis qui nous y entraînent et nous piègent. De la vie, en revanche, ils ne connaissent que le glaive qui la tranche. Il ne leur en faudra pas davantage tant que nous leur tendrons nos gorges !

          Si en revanche nous faisons en sorte d’échapper à leurs moulinets de matamores, c’est leurs propres têtes qu’ils vont couper. La parodie de guerre mondiale, dont l’Ukraine est la marotte poisseuse, démontre une fois de plus que seule une pitoyable et sanglante mascarade dissimule l’effondrement des États.

          Les tambours sont crevés, ils ne crèvent plus les tympans. Leurs guerres ne nous concernent en rien ! Nous ne sommes ni marchands d’armes, ni banquiers, ni guignols politiques.

 

          Comment imaginer une autodéfense pacifique, une guérilla où la vie harcèlerait l’ennemi jusqu’à précipiter sa débâcle ? Fourier, qui n’éprouve guère de sympathies pour les révolutions, propose une solution qui, sous sa candeur apparente signale des pistes à explorer. Les phalanstères, ouverts aux riches comme aux pauvres, maintiennent une séparation entre la table, où les plus fortunés se gobergent des mets exquis, auxquels ils sont accoutumés, et les agapes plus frugales dont les classes inférieures se satisfont. Or, la joie qui règne chez les pauvres tranche à ce point avec la morosité et la fadeur hédoniste qui désolent les riches que ceux-ci peu à peu désertent les tables d’une opulence sans attrait pour rejoindre les pauvres qui se font une joie des moindres délices.

          L’apologue s’inscrit dans la réalité visionnaire du théoricien de l’attraction passionnelle. Cependant, les évocations poétiques d’une société phalanstérienne ne sont pas sans résonner en échos suggestifs dans un projet d’autogestion qui a sur la construction fouriériste l’avantage d’être ancré dans l’histoire, où il a fourni d’indiscutables preuves d’accomplissement.

          Le constat qu’illustre Fourier pointe aujourd’hui les oligarques épuisés par les incontinences de l’avoir, momifiés dans les bandelettes de leurs ennuyeux plaisirs, tandis que, des rues aux ronds-points, des villes aux villages, les pauvres célèbrent l’éternel printemps de la vie.

          La table de la commensalité universelle est ouverte. Ceux dont le cœur desséché est devenu l’emblème de la cupidité risquent de ne pas échapper au banquet du néant.

 

          La vie n’a pas besoin de nous  pour être par elle-même. En revanche, nous avons besoin d’elle pour exister et elle y a pourvu, en son absence de discernement. Ce qui va sidérer les futurs observateurs de notre passé, c’est que, dotés de la capacité d’harmoniser le vivant ou de le laisser se rééquilibrer en nous détruisant, nous ayons choisi, jusqu’à ce jour, l’égalitarisme de la mort plutôt que les jouissances égalitaires de la gratuité.

          Les insurrections de la vie quotidienne sonnent partout le glas du capitalisme suicidaire. Le mensonge s’étouffe sous trop de paroles estropiées.

 

          Autonomes et fiers de notre anonymat, nous sommes les artisans d’un retour au vivant qui résonne aux confins de l’univers. Nous mettons fin au calcul égoïste et à la servitude qui ont fait de la terre une vallée de larmes.

          Nous créerons un monde où l’être humain ne mourra qu’au seuil de sa plénitude, dans l’éclat de ses potentialités satisfaites, bien que non assouvies en leur totalité.

          La vie ne dit jamais de dernier mot.

  

Raoul Vaneigem, 7 mars 2022, révision 14 avril 2022