[Articolo di Besnard Pierre pubblicato
in francese sul Club di Mediapart, tradotto
e trasmesso al servizio della coscienza di specie]
Per chi vuole cambiare il mondo, il XXI° secolo pone un dilemma antico reso
insolubile dalla crisi ambientale. Da un lato, il bisogno di rendere popolare la
lotta e affermarsi nel dibattito pubblico. Dall'altro, il contributo all’info-obesità
e ai danni ecologici causati dalla digitalizzazione dei mezzi di comunicazione.
Si deve dunque combattere la "battaglia culturale" con tutti i mezzi
tecnologici necessari?
Per
chi vuole cambiare il mondo, il XXI° secolo pone un dilemma antico reso
insolubile dalla crisi ambientale. Da un lato, il bisogno di rendere popolare la
lotta e affermarsi nel dibattito pubblico. Dall'altro, il contributo all’info-obesità[1] e ai danni ecologici causati dalla digitalizzazione dei mezzi
di comunicazione.
Negli
ambienti militanti, la lotta implica spesso un Frama[2], un gruppo Signal[3], un loop Discord[4], un file Facebook, una catena di mail, un hashtag, una raccolta
fondi online e “contenuti” per i social network. Sono tutti modi per scambiarsi
idee, comunicare una storia e rendere visibile la propria lotta. Tuttavia,
questi strumenti tecnologici sono di proprietà e/o si basano
sull'infrastruttura di multinazionali senza scrupoli. Peggio ancora, la
digitalizzazione della lotta implica un flusso sempre crescente di
informazioni, energia e risorse materiali, in totale contraddizione con i
limiti planetari.
Allorché
l'intreccio tra tecnologia, denaro e potere raramente è stato così pronunciato,
mentre l'impatto ambientale degli strumenti digitali diventa ogni anno più
distruttivo, si dovrebbero usare “tutti i mezzi [tecnologici] necessari”, secondo
la formula di un Malcolm X o di un Magneto[5], per far trionfare le proprie idee?
Senso comune militante
L'epoca
ha accettato pienamente l'idea che l'Homo sapiens non fosse tanto saggio e
ragionevole, quanto affabulatore e credulone. Le storie che costui si racconta
plasmano la sua esistenza, il suo rapporto con gli altri e con il mondo.
Secondo la filosofa Kate Crehan, “queste storie, plasmate dalla vita
collettiva, sono mediatizzate dall'educazione, dai media, dagli intellettuali e
dalla letteratura popolare, e formano quello che viene chiamato “senso comune”,
"un insieme di verità date per scontate, condivise da un gruppo sociale”[6].
Se
questo gruppo sociale domina la società, il suo “senso comune” diventa
“egemonico”, imponendosi agli altri gruppi – concetto chiave del filosofo spesso
citato Antonio Gramsci. Se il gruppo è marginale, combatte con le unghie e con
i denti per de marginalizzare la propria narrazione, sfondare il soffitto di
cristallo del dibattito pubblico e aprire la Finestra di Overton – il quadro
del dibattito “accettabile”. Si batte per l'“egemonia culturale”.
Gli
attivisti che cercano di rompere lo status quo, marginali per definizione,
ricorrono quindi ad azioni shock in grado di scuotere il senso comune dominante
e imporre la propria narrazione. Tendono a sopravvalutare la performance politica
– in senso teatrale –, a dare priorità all'efficacia e alla viralità di un
colpo spettacolare per compensare la loro esiguità numerica. Nel loro libro, il
gruppo Soulèvements de la Terre propone
dunque una “morale dell'efficienza” in cui “il bene è azione”[7]. Mettendo in guardia contro le due insidie della
"visibilità fine a se stessa [e] dell'abbandono di piattaforme e reti,
propone una scala per "misurare" il suo impatto[8].
Vincere
la "battaglia culturale" implica una logica guerriera che tende a
deificare l'efficienza, la performance, la "cultura" dei risultati.
Una dottrina diventata dogma nell'Occidente contemporaneo e all’origine delle
peggiori derive. Lungi dall'argomento del “pendio scivoloso”[9] o dal saggio filosofico sul dilemma del tram[10], osserviamo che “il fine giustifica i mezzi?” è una domanda
rapidamente liquidata o dalla risposta facile in ambito militante. Uno dei loro
luoghi comuni è “Internet è la nuova agorà. Non essere in rete significa non
dare vita alla propria recitazione, disarmarsi, perdere. Lasciar perdere il campo
di battaglia digitale è la sconfitta culturale garantita”.
La regola del gioco
Tuttavia,
diffondere la propria recitazione online significa sostenere l'idea che le
grandi aziende di telecomunicazioni trasportino e distribuiscano la parola nella
società. Molte sono mega-corporazioni che hanno prosperato e poi calpestato le
promesse di Internet. Dal Web che connette l'umanità orizzontalmente,
trasportando conoscenza e idee oltre i confini e le classi sociali, alla
discarica di fake news, di dati monetizzati, d’isolamento sociale, di sorveglianza,
di cyber bullismo, di silos di opinioni, di Elon Musk, della balcanizzazione
della realtà ... Dall'utopia tecno scientifica alla sindrome del “viviamo tutti
un po' in Black Mirror”[11].
L'Internet dei
social network è un mercato dell’attenzione, di stimoli
mentali, di panico morale e di opinioni impulsive. Il regno del breve termine,
del potenziale di eccitazione superiore, dell'amnesia storica e contestuale. Un
mondo di divertimento perpetuo nello stile di Aldous Huxley, dove si vegeta defilandosi,
alla ricerca della prossima dose di dopamina davanti al video di un gattino che
suona la tromba. Il contenuto pubblicato non è il prodotto da vendere, ma lo
strumento di vendita. Il presunto spazio comune – l'agorà – è in realtà
balcanizzato per corrispondere ai nostri gusti personali, ricalibrando la
realtà per annientare ogni ragionamento complesso, bombardandoci continuamente
d”immagini, slogan e cliché seducenti o esasperanti.
Appiattendo
tutto, mettendolo a equidistanza, omogeneizzandolo, la cultura di Internet è
l'universo del “monoforme”[12]. La sua facoltà di digerire qualsiasi forma di contestazione è
straordinaria. L’integrazione permanente delle controculture di protesta nel campo
del mainstream ha recentemente
portato Fossoyeur de films – youtuber
critico cinematografico – ad affermare che “la Matrice[13] ha vinto. Il sistema è diventato intoccabile e approfitta per permettere
che un piccolo margine di sovversione accettabile possa esprimersi. Il che dà
una sensazione di libertà”[14].
Il filosofo
David Bénabar ha spiegato il fallimento delle rivoluzioni con la capacità “distruttrice-creatrice
del capitale” tendenza a “rivoluzionare le forze produttive”, a nutrirsi delle
critiche. Ciò che non uccide il capitalismo lo rafforza. Una prospettiva
spiacevole da ammettere: il sistema non può essere combattuto con le sue stesse
armi, riformato dall'interno o rivoluzionato “passivamente”[15]. Contrariamente al luogo comune liberale in vigore fin
dall'Illuminismo (only way to fight bad speech is more
speech), non si combatte il discorso nocivo aggiungendo
del discorso.
Ci
sono dei limiti – cognitivi e umani, energetici e ambientali (torneremo su
questo) – all'espansione infinita dei mezzi di comunicazione e d’informazione.
Ecco perché, secondo David Edgerton, “le tecnologie della comunicazione non
aboliscono le frontiere e non danno origine a una “società dell'informazione”.
La tecnologia è stata lo strumento di forze non rivoluzionarie, ma
conservatrici. Le nuove tecnologie perpetuano i vecchi rapporti di potere”[16]. Scegliere il campo di battaglia culturale digitale, sguazzare
nel pantano digitale, non è già fare fallimento?
Impasse storica
Un
altro dilemma del libero mercato delle idee, e non il meno importante: il suo
costo ambientale. Come scrive lo storico Dipesh Chakrabarty, “la maggior parte
delle nostre libertà è stata finora ad alta intensità energetica”[17]. Ogni innovazione nelle telecomunicazioni ha aumentato il
consumo di energia e risorse e ha favorito la creazione di multinazionali e
l'espansione di potenze imperialiste. Il telegrafo, il treno, il telefono, la
radio, il cinema, la televisione, il satellite, altrettanti “progressi della
civiltà” che hanno sconvolto il flusso d’informazioni e spinto invece al
dominio del mondo e alla “riduzione degli esseri, degli spazi e delle cose a
riserve di energia e di materia da cui è lecito attingere fino all'esaurimento”[18].
Lo
storico François Jarrige cita l’esempio parossistico dei cavi telegrafici
transoceanici del XIX secolo. “L'ascesa della telegrafia è stata quindi resa
possibile dallo sfruttamento di nuove piante come la guttaperca, un lattice
naturale proveniente dalle foreste della Malesia [allora protettorato
britannico], utilizzato come materiale isolante per cavi sottomarini e
apparecchiature elettriche. Frutto della convergenza tra i progressi
ingegneristici, le ambizioni espansionistiche di alcuni Stati e la ricerca di
nuovi mezzi di comunicazione più rapidi, la tecnologia via cavo segna una
svolta nella storia delle telecomunicazioni moderne e nell'ascesa delle imprese,
consentendo di ridurre considerevolmente il ritmo di circolazione dell’informazione
[...]”[19].
Oggi,
i cavi transoceanici sono tubi di rame, acciaio o alluminio, “avvolti in
polietilene (plastica), contenenti [...] fili di vetro, attraverso i quali
[l’informazione] transita a circa 200.000 chilometri il secondo”[20]. Secondo il giornalista Guillaume Pitron, questi “tentacoli dell’informazione”
raggiungerebbero una lunghezza totale di 1,2 milioni di chilometri, più di tre
volte la distanza tra la Terra e la Luna.
“Tentacoli”,
antenne a banda larga, data center, media elettronici e i loro minerali di
sangue plasmano un sistema d”informazione e di comunicazione che partecipa allo
“stile di vita imperiale” descritto da Ulrich Brand e Markus Wissen[21]. I beni e i servizi da cui dipendono sia le società sviluppate
che i loro contestatori sono prodotti in condizioni sociali e ambientali
deplorevoli, frutto di scambi ineguali con i cosiddetti paesi emergenti.
Digitalizzare la protesta implica il perpetuarsi di queste relazioni
strutturali di sfruttamento e dei conseguenti conflitti ecologico-imperiali.
Già
nel XIX° secolo, l'artista Émile Gravelle ammoniva: “A coloro che parleranno di
rivoluzione dichiarando di volere preservare l’artificiale superfluo, diremo
questo: siete conservatori di elementi di servitù, quindi sarete sempre
schiavi; pensate d’impossessarvi della produzione materiale per appropriarvene.
Ebbene, questa produzione materiale, che è la forza dei vostri oppressori, è
ben protetta contro la vostra cupidigia; finché esisterà, le vostre rivolte
saranno represse e le vostre ricerche affannose saranno altrettanti sacrifici
inutili”[22].
Conclusione
In
ogni epoca, per criticare lo status quo si sono utilizzate le tecnologie d'informazione
e di comunicazione disponibili per disturbare il buon senso dominante. I
giornali durante la Rivoluzione Francese, il telegrafo durante la Primavera dei
popoli, la ferrovia per l'Internazionale operaia. Dalla stampa abolizionista
del XIX° secolo ai resoconti radiofonici del Maggio 1968, dalle immagini
televisive della guerra del Vietnam al movimento online “Me Too”, per ogni
nuovo mass media, un nuovo modo di lottare.
Tuttavia,
attenzione alle semplificazioni. Nessuna rivoluzione può essere ridotta a
un’unica causa. Ogni rivolta è multifattoriale. Nessun conflitto trova la sua
origine o la sua risoluzione nell'“informazione”. Ogni tecnologia ha un duplice
uso. Le strutture di potere messe in crisi dai nuovi media se ne appropriano
immediatamente. Attenzione anche alle prese di possesso. “Nel 2011, la
celebrazione [occidentale-centrica] del militantismo su Twitter e Facebook ha
talvolta dato l'impressione che le rivolte arabe si stessero svolgendo online
piuttosto che in piazza”[23]. Una maniera di legittimare le multinazionali tecnologiche e
rivitalizzare la narrazione del progresso tecnologico al servizio del progresso
umano.
Nel
momento in cui “le nostre menti sono sostituite da algoritmi, i nostri cuori
sono rimpiazzati da argomenti di moda sui social media, al nostro mondo subentrano
degli schermi, al nostro genio creativo si sostituiscono delle IA”[24], è urgente interrogare la lotta, i suoi fini e i suoi mezzi in
riferimento alle questioni ambientali. L'urgenza ecologica deve rimodellare i
quadri del dibattito e le modalità d'azione. Ogni militante deve sapere che “cambiare
la società significa dedicarsi al lavoro a lungo termine che l'organizzazione
politica richiede, piuttosto che organizzare un movimento affidandosi a degli
specchi”[25], soprattutto se sono deformanti, dispendiosi in energia ed
ecocidi quanto i mezzi di comunicazione digitali.
La
portata delle crisi attuali richiede un militantismo rivoluzionario che
abbandoni gli strumenti high-tech per
affidarsi alle relazioni sociali, agli stili di vita e all'immaginario. Una
buona notizia? Come ha dimostrato il fallimento delle dittature sostenute dai
mezzi tecnologici più innovativi del loro tempo, anche trasmesse di mano in
mano o da bocca di militante a orecchio di contestatore, l'emancipazione,
l'arte e la verità possono rovesciare tutto.
Besnard Pierre
[1] Altrimenti detto “sovraccarico informativo”, l’eccesso d’informazioni che una persona non riesce a elaborare o
sopportare.
[2] Abbreviazione di Framasoft, rete di software liberi che consente
l'organizzazione, l'informazione e lo scambio al di fuori della logica
mercantile. Uno dei loro slogan è “Cambiare il mondo, un byte alla volta”.
[3] Applicazione di messaggistica crittografata.
[4] Applicazione
per creare e unirsi a “comunità” online.
[5] Benjamin Patineau, Le syndrome Magneto, Le
Diable Vauvert, 2023.
[6] Gramsci’s common sense, Kate Crehan, journals.openedition.org,
consulté le 14/05/2025.
[7] Les SDT, Premières secousses, La
Fabrique, 2024, pag.72.
[8] Ibid.,
pag.74 et pag.270.
[9] Tesi
che immagina una catena di conseguenze che portano a una conclusione
catastrofica che implica l'impossibilità di fermarsi una volta in corso.
[10] Dilemma morale: deviare un tram e uccidere una persona per
evitare la morte di altre cinque.
[11] Per usare l'espressione dell’youtuber Norman.
[12] Un'idea del regista dissidente Peter Watkins, Monoforme è “una struttura
cinematografica monolineare attraverso un montaggio frenetico e manipolatore
che non lascia tempo per pensare né spazio per una partecipazione democratica
che consente una rimessa in discussione o un’interrogazione”, vedi il
documentario Peter Watkins – Lituania,
2001.
[13] A proposito della trilogia di Matrix delle sorelle Wachowki, capolavoro che esorta a sovvertire
lo status quo per costruire un mondo di tolleranza.
[14] Le Fossoyeur de films, Le cinéma. C'était mieux
avant. Partie 2, 2024.
[15] Un altro concetto di Antonio Gramsci: la rivoluzione passiva sarebbe una trasformazione radicale della
società senza alcuna reale messa in discussione delle gerarchie sociali. Una “rivoluzione
senza rivoluzione”, avviata dai dominanti piuttosto che dai dominati.
[16] Citato da François Jarrige, On arrête (parfois)
le progrès, L'Echappée, 2022, pag.244.
[17] Histoire des révolutions, ibid., pag.744.
[18] Johann
Chapoutot, Christian Ingrao, Nicolas Patin, Le monde nazi 1919-1945,
Tallandier, 2024, pag 500.
[19] Multinationales une histoire du monde contemporain,
Olivier Petitjean et Ivan du Roy (sous la dir.), François Jarrige, La
Découverte, 2025 pag.72.
[20] Guillaume Pitron, L’enfer numérique, Les
liens qui libèrent, 2023, pag.265.
[21] La Décroissance, n°218 Mai-Juin 2025, pag.17.
[22] Histoire des révolutions, ibid., pag.749.
[23] Hanouna, la gauche et les médias,
Pierre Grimbert, Serge Halimi, Le Monde diplomatique, gennaio 2023, pag.18.
[24] Droni, articolo di Caitlin Johnstone, dicembre 2024,
caitlinjohnstone.com, consultato il 25/05/2025.
[25] Christopher
Lasch citato da Pierre Grimbert e Serge Halimi, articolo citato.
Technocritique militante - Militantisme technocritique
Besnard Pierre sur le Club de Mediapart
A celleux qui veulent
changer le monde, le XXIème siècle pose un dilemme ancien rendu insoluble par
la crise environnementale. D’un côté, le besoin de populariser la lutte, de
s’imposer dans le débat public. De l’autre, la contribution à l’infobésité et
les dégâts écologiques de la numérisation des moyens de communication. Faut-il
mener la « bataille culturelle » par tous les moyens technologiques
nécessaires ?
A celleux qui veulent changer le
monde, le XXIème siècle pose un dilemme ancien rendu insoluble par la crise
environnementale. D’un côté, le besoin de populariser la lutte, de s’imposer
dans le débat public. De l’autre, la contribution à l’infobésité[1] et les dégâts écologiques
de la numérisation des moyens de communication.
Dans les milieux militants,
lutter implique souvent un Frama[2], un groupe Signal[3], une boucle Discord[4], un fil Facebook, une
chaîne de mails, un mot-dièse (hashtag), une cagnotte en ligne et du
« contenu » pour les réseaux. Autant de moyens d'échanger, de
communiquer un récit et de rendre visible son combat. Mais ces outils
technologiques sont la propriété et/ou reposent sur les infrastructures de
multinationales scélérates. Pire, numériser la lutte implique d’augmenter
toujours plus les flux informationnels, énergétiques et matériels, en
contradiction totale avec les limites planétaires.
Alors que l’imbrication de la
technologie, de l’argent et du pouvoir a rarement été aussi prononcée, alors
que l’impact environnemental des outils numériques se fait chaque année plus
destructeur, doit-on employer « tous les moyens [technologiques]
nécessaires », selon la formule d'un Malcolm X ou d'un Magneto[5], pour faire triompher ses
idées ?
Sens commun militant
L’époque a pleinement accepté
l’idée que Homo n’était pas tant sage (Sapiens) et raisonnable que
fabulateur et crédule. Les récits qu’il se raconte modèlent son existence, son
rapport aux autres et au monde. Selon la philosophe Kate Crehan, « ces
récits, façonnés par la vie collective, sont médiatisés par l’éducation, les
médias, les intellectuels et la littérature populaire, et forment ce que l’on
appelle le « sens commun », « un ensemble de vérités considérées
comme allant de soi, partagées par un groupe social »[6].
Si ce groupe social domine la
société, son « sens commun » devient « hégémonique »
s’imposant aux autres groupes – concept clé du philosophe multi-cité Antonio
Gramsci. Si le groupe est marginal, il lutte pied à pied pour dé-marginaliser
son récit, percer le plafond de verre du débat public, ouvrir la fenêtre
d’Overton – le cadre du débat « acceptable ». Il livre bataille pour
« l’hégémonie culturelle ».
Les activistes cherchant à
bousculer le statu quo, marginales.aux par définition, ont donc recours à des
actions-chocs, à même de bousculer le sens commun dominant et à imposer leur
récit. Iels ont tendance à surjouer la performance – au sens théâtral – politique,
à privilégier l’efficacité et la viralité d’un coup spectaculaire afin de
compenser la faiblesse de leur nombre. Dans leur livre, les Soulèvements de la
Terre proposent ainsi une « morale de l’efficacité » dans laquelle
« le bien c’est l’action »[7]. Avertissant contre les
deux écueils de « la visibilité pour elle-même [et] la désertion des
plateaux et des réseaux, iels proposent une échelle pour « jauger »
son impact[8].
Gagner la « bataille
culturelle » implique une logique guerrière qui tend à déifier
l’efficacité, la performance, la « culture » du résultat. Une
doctrine passée dogme dans l’Occident contemporain et à l’origine de ses pires
dérives. Loin de l’argument de la « pente glissante »[9] ou de la dissert’ de philo sur le dilemme du tramway[10], constatons que « la
fin justifie-t-elle les moyens ? » est une question vite-évacuée ou
vite-répondue dans les milieux militants. Un de leurs sens communs est
« Internet est la nouvelle agora. Ne pas être sur les réseaux, c’est ne
pas faire vivre son récit, se désarmer, perdre. Concéder le champ de bataille
numérique, c’est la défaite culturelle assurée ».
La règle du jeu
Mais diffuser son récit en ligne,
c’est entériner l’idée que les grandes entreprises des télécommunications
transportent et distribuent la parole dans la société. Beaucoup sont des
méga-corporations qui ont prospéré sur puis piétiné les promesses d’Internet.
De la Toile reliant l’humanité de façon horizontale, transportant savoirs et
idées par-delà les frontières et les rangs sociaux, au déversoir à infox (fake
news), aux données monétisées, à l’isolement social, à la surveillance, au cyber
harcèlement, aux silos d’opinions, à Elon Musk, à la balkanisation de la
réalité … De l’utopie technoscientifique au syndrome « on vit tous un peu
dans Black Mirror »[11].
L’Internet
des réseaux sociaux est un marché de l’attention, de stimulations mentales, de
paniques morales et d’opinions pulsionnelles. Le règne du court-termisme, du
potentiel d’excitation supérieur, de l’amnésie historique et contextuelle. Un
monde de divertissement perpétuel à la Aldous Huxley où l’on végète en
scrollant, quêtant son prochain shot de dopamine devant la vidéo d’un chaton
trompettiste. Le contenu publié n’est pas le produit à vendre mais l’outil de
vente. L’espace prétendu commun – l’agora – est en fait balkanisé pour
correspondre à nos goûts personnels, recalibrant le réel pour tuer tout
raisonnement complexe, nous bombardant continûment d’images, de slogans et de
clichés séduisants ou rageants.
Tout aplanir, tout mettre à
équidistance, tout homogénéiser, la culture Internet est l’univers de la
« monoforme »[12]. Sa faculté à digérer
toute forme de contestation est extraordinaire. L’intégration permanente des
contre-cultures contestataires dans le champ du mainstream faisait
récemment dire au Fossoyeur de films, youtubeur
critique de cinéma, que « la Matrice[13], elle a gagné. Le système
est devenu intouchable et c’est même devenu à son avantage de laisser
s’exprimer une petite marge de subversion acceptable. Ca donne un sentiment de
liberté »[14].
Le philosophe David Bénabar
expliquait lui l’échec des révolutions par la capacité
« destructrice-créatrice du capital »[15], cette aptitude à
« révolutionner les forces productives », à se nourrir des critiques.
Ce qui ne tue pas le capitalisme le rend plus fort. Une perspective désagréable
à admettre : le système ne peut être combattu avec ses propres armes,
réformé de l’intérieur, révolutionné « passivement »[16]. Contrairement au trope
libéral en vigueur depuis les Lumières (only way to fight bad speech is more
speech), on ne combat pas l’expression nocive par plus d’expression.
Il y a des limites – cognitives
et humaines, énergétiques et environnementales (nous y reviendrons) – à
l’extension infinie des moyens de communication et d’information. C’est
pourquoi, selon David Edgerton, « les technologies de la communication n’abolissent
pas les frontières et ne donnent pas naissance à une « société de
l’information ». La technologie a été l’instrument de forces non pas
révolutionnaires mais conservatrices. Les nouvelles technologies perpétuent les
vieilles relations de pouvoir »[17]. Choisir le champ de
bataille culturelle numérique, gadouiller dans la fange digitale, n’est-ce pas
déjà échouer ?
Impasse historique
Autre dilemme et non des moindres
du libre marché des idées : son coût environnemental. Comme l’écrit
l’historien Dipesh Chakrabarty, « la plupart de nos libertés ont jusqu’à
présent été à forte intensité énergétique »[18]. Chaque innovation dans
les télécommunications a augmenté la consommation d’énergie et de ressources et
favorisé la constitution d’entreprises multinationales et l’expansion de
puissances impériales. Le télégraphe, le train, le téléphone, la radio, le cinéma,
la télévision, le satellite, autant de « progrès de la civilisation »
qui ont chamboulé la circulation d’informations et poussé en retour à la
domination du monde et à la « réduction des êtres, des espaces et des
choses à des fonds d'énergie et de matière dans lesquels il est loisible de
puiser jusqu'à l'épuisement »[19].
L’historien François Jarrige
donne l’exemple paroxystique des câbles télégraphiques transocéaniques au
XIXème siècle. « L’essor de la télégraphie a ainsi été rendu possible par
l’exploitation de nouvelles plantes comme la gutta-percha, un latex naturel
issu des forêts de Malaisie [alors protectorat britannique], utilisé comme
matériau d’isolation pour les câbles et les équipements électriques
sous-marins. Fruit de la rencontre entre les progrès de l’ingénierie, les
ambitions expansionnistes de certains Etats et la recherche de nouveaux moyens
de communication plus rapides, la technologie du câble marque une rupture dans
l’histoire des télécommunications modernes et l’essor des entreprises,
permettant de réduire considérablement le rythme de circulation de l’information
[…] »[20].
Aujourd’hui les câbles
transocéaniques sont des tubes de cuivre, d’acier ou d’aluminium,
« enveloppés dans du polyéthylène (plastique), renfermant […] des fils de
verre, dans lesquels [l’information] transite, à environ 200 000
kilomètres par seconde »[21]. Selon le journaliste
Guillaume Pitron, ces « tentacules de l’information » totaliseraient
1,2 millions de kilomètres, plus de trois fois la distance Terre-Lune.
« Tentacules »,
antennes haut débit, centres de données, supports électroniques et leurs
minerais de sang façonnent un système d’information et de communication qui
participe au « mode de vie impérial » tel que le décrivent Ulrich Brand
et Markus Wissen[22].
Les biens et les services dont dépendent les sociétés développées comme leurs
contestataires sont produits dans des conditions sociales et environnementales
déplorables, fruits d’échanges inégaux avec des pays dits émergents. Numériser
la contestation implique de perpétuer ces relations structurelles
d’exploitation et les conflits écologico-impériales qui en résultent.
Dés le XIXème siècle, l’artiste
Emile Gravelle avertissait : « A ceux qui parleront de révolution
tout en déclarant vouloir conserver l’artificiel superflu, nous dirons
ceci : vous êtes des conservateurs d’éléments de servitude, vous serez
donc toujours esclaves ; vous pensez vous emparer de la production
matérielle pour vous l’approprier, eh bien ! Cette production matérielle
qui fait la force de vos oppresseurs est bien garantie contre vos
convoitises ; tant qu’elle existera, vos révoltes seront réprimées et vos
ruées seront autant de sacrifices inutiles »[23].
Conclusion
A toute époque, les
contempteurices du statu quo ont utilisé les technologies d’information et de
communication disponibles pour chahuter le sens commun dominant. Les journaux
lors de la Révolution française, le télégraphe lors du Printemps des peuples,
le chemin de fer pour l’Internationale ouvrière. De la presse abolitionniste du
XIXème aux reportages radio de mai 68, des images télévisées de la guerre du
Vietnam au mouvement en ligne « Me too », à nouveau média, nouvelle
façon de lutter.
Cependant gare aux
simplifications. Aucune révolution n'est réductible à une cause unique. Toute
révolte est multifactorielle. Aucun conflit ne trouve sa source ou sa résolution
dans « l'information ». Toute technologie est à double usage. Les
structures de pouvoir débordées par les nouveaux médias s’en saisissent aussi
vite. Gare aussi aux appropriations. « En 2011, la célébration
[occidentalo-centrée] du militantisme sur Twitter et Facebook donnait parfois
le sentiment que les révoltes arabes se déroulaient en ligne plutôt que dans la
rue »[24].
Une façon de légitimer les multinationales de la tech et de revitaliser le
récit du progrès technologique au service du progrès humain.
Alors que « nos esprits sont
remplacés par des algorithmes ; nos cœurs sont remplacés par des sujets
tendances sur les réseaux ; notre monde est remplacé par des écrans; notre
génie créatif est remplacé par des IA »[25], il est urgent
d’interroger la lutte, sa fin et ses moyens au regard des enjeux
environnementaux. L’urgence écologique doit remodeler les cadres du débat et
les modalités d’action. Tout.e militant.e doit savoir que « changer la
société [c’est] se consacrer au travail de longue haleine que suppose
l’organisation politique plutôt que d’organiser un mouvement en se fiant à des
miroirs »[26],
a fortiori s’ils sont aussi déformants, énergivores et écocidaires que les
moyens de communication numériques.
L’ampleur des crises actuelles appelle
un militantisme révolutionnaire délaissant les outils high tech pour
s’appuyer sur les rapports sociaux, les manières de vivre et les imaginaires.
Une bonne nouvelle ? Comme l’échec des dictatures appuyées par les moyens
technologiques les plus novateurs de leur époque l’a prouvé, même transmis de
la main à la main ou de bouche de militante à oreille de contestataire,
l’émancipation, l’art et la vérité peuvent tout renverser.
Besnard Pierre
[1] Ou
« surcharge informationnelle », l’excès d’information qu’une personne
ne peut traiter ou supporter.
[2] Diminutif
de Framasoft, réseau de logiciels libres permettant l’organisation,
l’information, l’échange en dehors des logiques marchandes. Un de leurs slogans
est « Changer le monde un octet à la fois ».
[3] Application de
messagerie cryptée.
[4] Application
permettant de créer et de rejoindre des « communautés » en ligne.
[5] Benjamin
Patineau, Le syndrome Magneto, Le Diable Vauvert, 2023.
[6] Gramsci’s common sense, Kate
Crehan, journals.openedition.org, consulté le 14/05/2025.
[7] Les SDT, Premières
secousses, La Fabrique, 2024, p.72.
[8] Ibid.,
p.74 et p.270.
[9] Thèse
imaginant une chaîne de conséquences aboutissant à une conclusion
catastrophique et insinuant l’impossibilité de s’arrêter une fois en chemin.
[10] Dilemme
moral : faire bifurquer un tramway et tuer une personne pour éviter la
mort de cinq autres
[11] Pour reprendre
l’expression du youtubeur Norman.
[12] Concept
du cinéaste dissident Peter Watkins, la Monoforme est
« une structure mono-linéaire de film par un montage frénétique et
manipulateur ne laissant pas le temps de penser ou d’espace pour une participation
démocratique permettant une remise en cause ou un questionnement », voire
le documentaire Peter Watkins – Lituanie, 2001.
[13] A
propos de la trilogie Matrix des sœurs Wachowki, chef d’œuvre
invitant au renversement du statu quo pour bâtir un monde de tolérance.
[14] Le Fossoyeur de
films, Le cinéma. C'était mieux avant. Partie 2, 2024.
[15] Histoire
des révolutions, Ludivie Bantigny, Quentin
Deluermoz, Boris Gopille, Laurent Jeanpierre, Eugénia Palieraki (dir.), La
Découverte, 2023, p.1125.
[16] Autre
concept d’Antonio Gramsci, la révolution passive serait une
transformation radicale de la société sans remise en cause réelle des
hiérarchies sociales. Une « révolution sans révolution » initiée par
les dominants plutôt que par les dominés.
[17] Cité
par François Jarrige, On arrête (parfois) le progrès, L'Echappée,
2022, p.244.
[18] Histoire
des révolutions, ibid., p.744.
[19] Johann
Chapoutot, Christian Ingrao, Nicolas Patin, Le monde nazi 1919-1945,
Tallandier, 2024, p.500.
[20] Multinationales
une histoire du monde contemporain, Olivier Petitjean
et Ivan du Roy (sous la dir.), François Jarrige, La Découverte, 2025 p.72.
[21] Guillaume
Pitron, L’enfer numérique, Les liens qui libèrent, 2023, p.265.
[22] La
Décroissance, n°218 Mai-Juin 2025,
p.17.
[23] Histoire
des révolutions, ibid., p.749.
[24] Hanouna,
la gauche et les médias, Pierre Grimbert,
Serge Halimi, Le Monde diplomatique, janvier 2023, p.18.
[25] Drones,
article par Caitlin Johnstone, décembre 2024, caitlinjohnstone.com, consulté le 25/05/2025.
[26] Christopher Lasch
cité par Pierre Grimbert et Serge Halimi, article cité.