sabato 18 dicembre 2010

Caro Saviano, il problema della violenza è intrinseco alla questione sociale.


Caro Saviano,
Il problema della violenza è intrinseco alla questione sociale.
La stessa esistenza di una questione sociale indica, infatti, l’esistenza di un cattivo funzionamento della società. Palesemente, se nessuno subisse ingiustizie, soprusi, sfruttamento, truffe e imposizioni di vario tipo non ci sarebbe una questione sociale, ma ci sarebbe solo da rinnovare costantemente, correggendola in meglio, l’armonia di una società in cui ognuno troverebbe il proprio spazio per esprimersi e inventarsi forme diverse di felicità.
Nell’assenza programmata, interessata e voluta di quest’armonia sta la radice della violenza nelle sue forme sociali.
La prima violenza sociale è quando un sistema di governo nato da una volontà “quasi”generale si traduce nella gestione dell’interesse di pochi, si impone a tutti contro la loro volontà e si spinge addirittura a prenderli per i fondelli quando la corruzione, il servilismo e l’ignoranza toccano il fondo dell’Italia attuale. Per riprendere, modificandola appena, una riflessione di questi giorni del direttore del Fatto: la prossima volta davanti alla folla incazzata provate a mandare gli scilipoti con l’agopuntura anziché i poliziotti con il manganello.
Qualunque logica di diritto e di giustizia avvalora il diritto alla legittima difesa. Nessuno è scandalizzato dal fatto che un aggredito, un truffato, un violentato si difenda come può, esprima come può il suo dissenso e persino il suo disgusto. Il raffinamento giudiziario introduce soltanto la proporzionalità della risposta all’offesa ricevuta. Il che vale tanto per gli atti individuali che per quelli collettivi.
Qui, però, si entra nell’opinabile, perché non mi pare, a priori, insensato porsi la seguente questione: è più grave, per esempio, distruggere il sistema educativo di un paese, il suo tessuto umano di fraternità, per quanto relativa, in nome della riduzione di tutto a potere e possesso di pochi (e per giunta mostruosi), o frantumare, come selvaggi, qualche vetrina di banche che hanno intrallazzato con gli averi sudaticci di lavoro e di umiliazione dei poveri cittadini ignari? Nel rapporto di proporzionalità, mi pare che, in questo caso, l’offesa sia molto più grave della rabbia per quanto cieca che essa riceve in risposta.
Dal punto di vista dell’etica giudiziaria di un qualunque stato di diritto “modernamente” borghese è evidente che degli individui che hanno subito in quanto popolo quello che le democrazie spettacolari impongono ai loro sudditi, hanno il pieno diritto di insorgere, di ribellarsi e di rivendicare la fine dei giochi che li manipolano e impediscono loro di vivere.
Quale democrazia è quella dove un fascista ottenebrato come La Russa può gargarizzarsi impunemente di un patriottismo da caserma o da birreria, mentre i suoi colleghi parlamentari stanno scappando con l’argenteria?
Il diritto alla rivolta di fronte all’oppressione e al sopruso fa parte dei diritti dell’uomo consacrati da quella stessa borghesia che ha fatto della democrazia rappresentativa il suo modello preferito di governo. Un metodo di governo così utile agli affari che è sopravvissuto alla borghesia stessa, assunta in leasing nella gestione di un capitalismo che considera ormai gli esseri umani - tutti gli esseri umani senza eccezione, pur nell’ineguaglianza redditizia dei ruoli e delle caste - necessari a produrre valore economico, ma superflui, e addirittura nocivi, per l’accumulazione senza fine di questo stesso valore.
Certo, sono sempre degli uomini volgarmente e sprezzantemente privilegiati ad approfittare delle abbondanti briciole di ricchezza inquinata prodotte dalla società globale, ma come non vedere l’autonomizzarsi demenziale del sistema economico al di fuori della logica stessa del vivente che il produttivismo sta distruggendo in maniera sempre più irreparabile?
Lo sfruttamento insensato della natura si è aggiunto, aggravandolo, a quello antico dell’uomo sull’uomo: da Kyoto a Cancun, passando per Copenhagen, lo spettacolo dello sviluppo sostenibile dell’economia programma la reale distruzione insostenibile del vivente.
Su una cosa - mi pare - siamo tutti d’accordo: non va affatto bene. Persino quelli che, come sacre vergini patriarcali di fronte a un coito, si scandalizzano per qualche episodio di violenza nevrotica sulle cose, vorrebbero, però, che degli angeli scendessero dal cielo rendendo gli uomini buoni e ragionevoli. Per una magia sadicamente buonista, tipica del cattolicesimo, il pianeta diventerebbe allora un presepe dove tutti adorano il bue e l’asinello mentre il bambinello, per par condicio, reciterebbe poesie con lo sguardo pericolosamente sdolcinato di Bondi o di Veltroni.
Non va affatto bene, lo dicono tutti i pompieri professionisti di una politica che accende fuocherelli nella prateria che hanno ridotto a un deserto chiamandolo progresso, per poi accorrere a spegnerli intonando viva l’Italia, viva l’umanità, viva la democrazia e più sommessamente viva le società offshore e il nepotismo trionfante.
Non va affatto bene in Italia e nel mondo, al punto che non si contano più quelli che, pur con interpretazioni, metodi e obiettivi diversi, parlano senza mezzi termini di cambiamenti radicali necessari se non addirittura di rivoluzione. Anche tu, se ho capito bene, sia pur con gentilezza squisita, ti esprimi in questo senso: bisogna cambiare!
Allora, in ultima analisi, possono la mia perplessità su un’ortodossia pacifista disincarnata e la mia chiara irritazione per i predicozzi benpensanti alla Telese ( i benpensanti hanno sempre avuto il privilegio di non aver bisogno di pensare molto per formulare i loro sillogismi da omelia domenicale), essere assimilate a un’apologia della violenza? Niente affatto.
Indosso forse, con malaugurata incoscienza, i panni diabolici di un cattivo maestro? Nemmeno per sogno, anzi per incubo. Odio deliziosamente tutte le autorità non autogestite, anche quella del pensiero, dunque, fosse pure per davvero rivoluzionario. Nessun pensiero separato dal corpo cambierà i destini del mondo, nessuna coscienza può venire dall’esterno senza diventare una credenza religiosa col fanatismo che essa implica.
L’icona demoniaca del cattivo maestro è stata inventata dai pedagoghi perversi della servitù volontaria, dagli ignoranti diplomati opportunisti, dagli stragisti di Stato e dalle multinazionali del business e del terrore che infiltrano e utilizzano i terroristi psicotici per far regnare la psicosi affaristica a cui vogliono ridurre il mondo.
Chi è caduto nella trappola nichilista della lotta armata e degli anni di piombo non ha seguito nessun maestro, ma solo una nera disperazione nell’assenza di prospettive.
Dai precari della vita ai precari della sopravvivenza il passo è stato, del resto, assai lesto e sulla paura coltivata dei cattivi maestri, gli sgherri del totalitarismo economicista hanno costruito il neoanalfabetismo dello spettacolo: il più immondo macchinario di alienazione e umiliazione mai visto al mondo, inclusivo di mafie, corrotti, corruttori, assassini, fascisti e puttanieri; un sistema di addomesticamento tale che ogni pecora è diventata il proprio cane.
Senza avere mai fatto la minima concessione ideologica a nessun autoritarismo pseudo rivoluzionario, io mi batto come posso con molti altri da più di quarant’anni per una rivoluzione pacifica - ma non pacifista nel senso cristiano del termine, che se qualcuno spara, secondo me è doveroso difendersi, altro che porgere l’altra guancia - contro i difensori del vecchio mondo e contro il nichilismo di chi gli si oppone con un estremismo suicida senza scalfirlo nella sua struttura, anzi rafforzandolo.
Su quest’ultima parte della mia analisi potremmo, credo, essere d’accordo, ma non per etica o estetica della rivoluzione. Dal punto di vista della rivoluzione necessaria e della democrazia diretta che la può organizzare e rendere operativa, la critica della violenza è semplicemente, e prima di tutto, strategica.
Non si può combattere la società dell’alienazione con forme alienate e la violenza è il sintomo più evidente dell’alienazione, oltre che il suo riproduttore più fedele. Se posso capire la rabbia di chi vuole distruggere i totem di un mondo infetto, non ne condivido affatto la strategia narcisistica, ottusa, nichilista e impotente.
Attenzione però che a fare il gioco del nemico non è solo chi con la violenza fa inconsciamente la pubblicità dello Stato protettore, ma anche chi accetta di dare a manifestazioni magari isteriche di sabotaggio simbolico e di distruzione iconoclasta la parvenza e il significato del terrorismo.
Esistono due terrorismi: quello delle organizzazioni mafiose private - sette di business come la Camorra, non diverse nell’essenziale da sette religiose e politiche come Al Qaida e le Bande Armate di qualunque ideologia putchista e affarista - e quello di un terrorismo di Stato che da sempre ha fatto sua la logica del Principe del Machiavelli.
Il terrorismo uccide volontariamente delle persone, per impossessarsi delle cose, anzi della cosa a cui riduce il senso della vita: il potere di cui il denaro è l’equivalente generale.
Il sabotaggio attacca le cose in nome delle persone e nega in principio il potere nella sua essenza. Si tratta allora di criticarne ogni volta gli effetti perversi, le derive che possono ridurlo a un ricatto utilitaristico. La corruzione capitalista può inquinarlo e deviarlo da quel sindacalismo rivoluzionario che ha in linea di mira l’emancipazione degli individui e dei popoli attraverso il sabotaggio che li comprende tutti: lo sciopero generale.
C’è invece un’asfissia evidente dell’intelligenza sensibile nell’identificarlo a priori con un’immoralità intrinseca e una volontà nociva, come predica chi lo amalgama al terrorismo.
Dovresti, mi sembra, essere particolarmente sensibile a quest’argomento proprio tu che sei stato trattato da disfattista nazionale per aver denunciato la ragnatela camorrista. Il trucco è altrettanto volgare.
Io credo che un buon sabotaggio sia complice di chi subisce il sistema e, per esempio, anziché bloccare gli autobus li faccia circolare gratis.
La gratuità è quanto il mondo degli affari sopporta peggio.
Un cattivo sabotaggio riporta, invece, le masse a rifugiarsi sotto l’ala sadica e paternalista del potere, così come sempre fa il terrorismo.
Se un colpo di fucile potesse mai emancipare per sempre il mondo dal sopruso e dalla sofferenza, varrebbe la pena di spararlo. Ma ogni volta che la rivoluzione si cerca sulle canne dei fucili, essa inventa nuovi mostri che la rendono indesiderabile e nefasta, trasformandola in una controrivoluzione: bolscevismo, maoismo, castrismo e “polpottismo”, per non citare che esempi di sinistra del totalitarismo che impesta il mondo da tutti i lati e con il favore di tutte le ideologie.
Alla fin fine la violenza ottiene sempre lo stesso scopo e anche per questo è una risposta ottusa all’ingiustizia e alla violenza del sistema. Per questo sono da sempre contro la violenza attiva e mi batto contro un uso alienato della propria rabbia senza però pretendere di dare lezioni di stile a quella violenza dei poveri che è il sintomo evidente dell’insopportabilità della loro situazione.
Nonostante i più schifosi rigurgiti fascisti attraversino come fantasmi inquietanti il quotidiano triste degli schiavi produttivi con la protervia degli impotenti avidi di potere, anzi forse anche per questo, il grande compito di questo inizio secolo è di sottrarci al ricatto ignobile che vuole imporci la scelta tra continuità dello sfruttamento e dell’alienazione capitalistica o una controrivoluzione autoritaria che ripristinerebbe l’antica sottomissione come il minore dei mali.
Fino a oggi gli intellettuali hanno fatto la morale al vecchio mondo. Un altro mondo è possibile e si tratta ormai di dimostrarlo oltre le parole, trasformando quello in rovine nel quale ci arrabattiamo con sinistre prospettive.
Salutandoti con la solidarietà e il sostegno che merita chi osa denunciare l’intollerabile a proprio rischio e pericolo, ti invito a leggere il testo di Raoul Vaneigem “Lo Stato non è più niente, sta a noi essere tutto!” che ho di recente tradotto in italiano per le Edizioni Nautilus di Torino, appena prima che il rifiuto di essere sia guerrieri che martiri tornasse, con tanta prepotenza, di attualità.
Sergio Ghirardi