venerdì 1 ottobre 2010

LO STATO NON È PIÙ NIENTE, NOI POSSIAMO ESSERE TUTTO!



Il movimento antiautoritario per una democrazia diretta si è messo in contatto con me per il tramite delle Edizioni del Cherche Midi. I compagni greci esprimevano il desiderio di vedermi partecipare a delle assemblee per discutere le scelte alle quali ci confronta un capitalismo mondiale che, per la frenesia del profitto, rovina la terra e snatura gli esseri umani mentre distrugge se stesso. Come al solito ho risposto che non avrei partecipato a nessun dibattito o manifestazione pubblica, ma che, nel caso particolare, avrei inviato un testo di cui i compagni avrebbero potuto fare l’uso voluto.
Mi è stato allora espresso il desiderio di indicare tre amici disposti a intervenire sull’esperienza e la problematica della democrazia diretta. La prospettiva di accompagnare Sergio Ghirardi, Behrouz Safdari e Marc Tomsin mi ha rapidamente persuaso a fare il viaggio con loro e andare a respirare un po’ di quell’aria di libertà creatrice ancora così rara in Francia. Il calore dell’accoglienza e la pubblicazione preventiva del mio testo, diffuso gratuitamente e messo a disposizione di tutti, mi hanno permesso di godere di un’atmosfera di solidarietà e delle effervescenze dell’intelligenza sensibile, senza correre il rischio di essere rivestito degli orpelli della “vedette”.
Resta che pur accettando di buon grado il mio rifiuto di ogni prestazione, alcuni partecipanti - tra quelli che non ho potuto incontrare durante le passeggiate festive alla scoperta del fascino di Salonicco - avevano nutrito la speranza di un dibattito nell’ambito delle assemblee tenute negli anfiteatri dell’università. Ho redatto per loro una “spiegazione” che alcune amiche hanno avuto la gentilezza di tradurre e leggere in greco.

Qualche parola di spiegazione.
Ho voluto essere presente tra voi perché sono cosciente dell’importanza che rappresenta per l’avvenire dell’umanità un movimento antiautoritario per la democrazia diretta.
Preferisco, tuttavia, astenermi dal partecipare a dibattiti e manifestazioni pubbliche. Perché?
Perché, essendo ostile a ogni forma di spettacolo - nel senso di una separazione dalla vita quotidiana - non voglio entrare in questo spettacolo neppure per farne la critica.
Do troppa importanza all’autenticità vissuta per assumere un ruolo in cui rischierei di diventare un guru o un “maître à penser”.
Aggiungo, però, che nutro maggiore fiducia nel testo scritto che nel discorso. Il discorso è sottomesso al fattore emozionale e si trasforma facilmente in una manipolazione delle emozioni (è tutta l’arte del demagogo). Nel testo scritto il lettore conserva la sua coscienza e la sua libertà di scelta. Può rileggere, essere d’accordo o no, ha il tempo di riflettere.
Ringrazio i compagni greci per avere permesso che il mio testo fosse disponibile in versione scritta. Se avete delle domande è importante che esse si rivolgano al testo e non a me. Perché il mio rispondervi farebbe di me, mio malgrado, un vettore emozionale. Soprattutto è importante che queste domande voi le poniate a voi stessi perché le risposte sono in voi. Si tratta solo di trovarle.
Grazie a tutte e a tutti.

Lo Stato non è più niente, sta a noi d’essere tutto.
Non è un caso che la Grecia, dove l’idea di democrazia è nata, sia la prima ad aprire la via della lotta da condurre contro una corruzione democratica che aggrava dovunque la pressione delle multinazionali e delle mafie finanziarie. Abbiamo visto manifestarsi in questo paese una resistenza che rompe con la letargia di un proletariato europeo anestetizzato da decenni dal peso del consumerismo e dalle imposture dell’emancipazione.
Mi sia permesso ricordare qualche banalità.
Il consumerismo ha volgarizzato una democrazia da supermercato dove il cittadino dispone della più grande libertà di scelta a dichiarata condizione di pagarne il prezzo all’uscita.
Le vecchie ideologie politiche hanno perso la loro sostanza e sono diventate dei depliant pubblicitari di cui si servono gli eletti per aumentare la loro audience e il loro potere. La politica che si voglia di destra o di sinistra non è più che un clientelismo dove gli eletti hanno in mente i loro interessi personali anziché quelli dei cittadini che hanno il compito di rappresentare. Ancora una volta la Grecia è ben piazzata per restituire alla politica il suo senso originario: l’arte di governare la città.
La seconda banalità è che gli Stati hanno perduto il privilegio che si arrogavano di gestire il bene pubblico. Beninteso, lo Stato tradizionale ha sempre prelevato il suo tributo a spese dei cittadini a forza di tasse e imposte, ma, in contropartita, assicurava il funzionamento dei servizi pubblici, dell’insegnamento, dell’assistenza sanitaria, delle poste, dei trasporti, dei sussidi di disoccupazione, delle pensioni … Ormai gli Stati non sono più che i valletti delle banche e delle imprese multinazionali. Ora, queste ultime sono confrontate alla debacle del denaro impazzito che investito nelle speculazioni borsistiche e non più nello sviluppo delle industrie prioritarie e dei settori socialmente utili, forma una bolla destinata all’implosione, al crac borsistico. Siamo in mano ai gestori del fallimento, avidi di incassare gli ultimi profitti a breve termine sovra sfruttando dei cittadini invitati a colmare, al prezzo di una vita sempre più precaria, l’abisso senza fondo del deficit scavato dalle malversazioni bancarie.
Non solo lo Stato non è più in grado di assolvere i suoi obblighi in virtù del contratto sociale, ma lesina sui bilanci dei servizi pubblici, manda in malora tutto quello che garantiva almeno la sopravvivenza, vista la sua incapacità nel permettere a ognuno di condurre una vita vera. E questo nel nome di quella gigantesca truffa battezzata col nome di debito pubblico.
Non resta allo Stato che una sola funzione: la repressione poliziesca. La sola difesa dello Stato consiste nel diffondere la paura e la disperazione. Ci riesce con una certa efficacia accreditando una sorta di visione apocalittica. Lo Stato stesso propaga il rumore che il domani sarà peggiore di oggi. La saggezza consiste dunque, a suo dire, nel consumare, nello spendere prima della bancarotta, nel rendere redditizio tutto quello che può esserlo, a costo di sacrificare la propria esistenza e il pianeta intero purché l’imbroglio generalizzato si perpetui.
Il nichilismo è la filosofia degli affari. Laddove il denaro è tutto, i valori scompaiono totalmente, fatta eccezione per il valore mercantile. Abbiamo visto il consumerismo malmenare le pretese eterne “verità” del passato: autorità paterna e potere patriarcale, religioni, ideologie, prestigio dell’esercito e della polizia, rispetto dei capi, santità del sacrificio, virtù del lavoro, disprezzo della donna, del bambino, della natura … Nello stesso tempo, però, ha addormentato quella coscienza che oggi tocca a noi risvegliare offrendo come punti di riferimento i valori umani, quelli che tante volte sono stati al cuore delle sommosse, delle rivolte, delle rivoluzioni.
Noi sappiamo che una nuova alleanza sta per concludersi con quel che la natura ci offre gratuitamente, un’alleanza che metterà fine allo sfruttamento cupido della terra e dell’uomo. Toccherà a noi di strappare al dominio di un dinamismo capitalista in cerca di nuovi profitti quelle energie gratuite che il sistema si prepara a farci pagare molto care. In questo la nostra epoca, sconvolta non da una crisi economica ma da una crisi dell’economia di sfruttamento, designa anche il momento propizio in cui l’uomo può diventare un essere umano. E diventare umano significa negarsi come schiavo del lavoro e del potere per affermare il diritto di ognuno a crearsi il proprio destino e costruire contemporaneamente delle situazioni favorevoli alla felicità di tutti.
Molte questioni si pongono con un’urgenza che lo scatenarsi degli avvenimenti rischia di precipitare. Mi guarderò bene dal fornire delle risposte che, al di fuori delle condizioni pratiche e delle collettività in cui esse emergeranno, rischierebbero di scadere nell’astrazione – la quale, in quanto pensiero separato dalla vita, risuscita sempre i vecchi mostri del potere. Mi sono accontentato di dar loro un qualche chiarimento.
1. Che cosa siamo pronti a mettere in funzione per rimediare alla carenza di uno Stato che non solo non serve più i cittadini ma li vampirizza per nutrire la piovra bancaria internazionale?
La forza d’inerzia gioca contro di noi. Le tradizioni familiari, sociali, politiche, economiche, religiose, ideologiche non hanno smesso di perpetuare, di generazione in generazione, quella servitù volontaria che già La Boetie denunciava. Per contro, è possibile trarre vantaggio dallo choc che stanno per produrre il crollo del sistema, la disintegrazione dello Stato e la tentazione di guardare più lontano delle meschine frontiere della merce. Bisogna aspettarsi un rovesciamento di prospettiva. Oltre l’eventuale saccheggio dei supermercati, al quale rischia d’indurre una pauperizzazione accelerata, molti consumatori minacciati di esclusione non mancheranno di accorgersi che la sopravvivenza non è la vita, che l’accumulazione di prodotti artefatti e inutili non vale il piacere di un’esistenza in cui la scoperta delle energie e dei beni prodigati dalla natura s’accorda alle attrattive del desiderio. Che la vita è qui, ora, e che tra le mani della maggior parte della gente, essa non domanda che di costruirsi e propagarsi.
Smettiamo di impietosirci per i fallimenti dell’emancipazione che costellano la nostra storia, non per celebrare dei successi occasionali - perché dalle nozioni di riuscita e di fallimento emana il cattivo odore della concorrenza mercantile, di tattica e di strategia, di competizione predatrice - ma per spingere in avanti delle esperienze che abbozzate con felicità e audacia, aspettano che noi le perseguiamo con l’attuazione di un progetto di autogestione e con l’istituzione delle assemblee di democrazia diretta.
Le collettività zapatiste del Chiapas sono forse le sole ad applicare oggi la democrazia diretta. Le terre messe in comune escludono fin da principio i conflitti legati all’appropriazione privativa. Ciascuno ha il diritto di partecipare alle assemblee, di prendere la parola e manifestarvi la propria scelta, anche i bambini. Non ci sono, a dire il vero, degli eletti plebiscitari dall’assemblea. Si propone soltanto a degli individui che manifestano dell’interesse per certi settori (l’insegnamento, la salute, la meccanica, il caffè, l’organizzazione delle feste, i metodi di coltura biologica, le relazioni con l’esterno …) di diventare per un periodo limitato i mandatari della collettività. Essi entrano allora in una “giunta di buon governo” e rendono regolarmente conto della loro missione per tutta la durata del mandato. Le donne reticenti all’inizio, in ragione delle abitudini patriarcali dei Maya, occupano ora un posto preponderante nelle “giunte di buon governo”. Per definire la loro volontà di fondare una società più umana, gli zapatisti hanno una formula che ricorda la necessità di una vigilanza costante: noi non siamo un esempio ma un’esperienza.
2. Il denaro non si sta solo svalutando, è sul punto di scomparire. Durante la rivoluzione spagnola, alcune collettività dell’Andalusia, dell’Aragonese e della Catalogna avevano stabilito un sistema di distribuzione che escludeva il ricorso alla moneta (altre hanno continuato a usare la peseta e altre ancora hanno battuto una nuova moneta locale, collaborando tutte benissimo insieme). Oggi sta a noi esaminare come soppiantare con una relazione umana fondata sul dono piuttosto che sullo scambio un rapporto di sfruttamento dove il commercio delle cose determina il commercio degli uomini.
Siamo stati gli schiavi di un funzionamento economico il cui instaurarsi ha segnato l’atto di nascita della civiltà mercantile, alterando i comportamenti individuali e sociali, favorendo una confusione permanente tra confort e snaturamento, progresso e regressione, aspirazione umana e barbarie.
Certo, il modo di finanziamento concreto e virtuale costituisce ancor oggi un sistema coerente – una coerenza assurda, è vero, eppure suscettibile di continuare a governare i comportamenti. Per contro, che cosa rischia di succedere il giorno in cui il crac finanziario toglierà al denaro il suo valore e la sua utilità?
La sua scomparsa, non c’è dubbio, sarà salutata come una liberazione da quanti gli negano il diritto di tiranneggiare la loro vita quotidiana. Tuttavia, il feticismo del denaro è talmente incrostato nei nostri costumi che molti individui assoggettati al suo giogo millenario, finiranno per trovarsi in preda a quegli scompensi emotivi in cui regna la legge della giungla sociale, in cui si scatenano la lotta di tutti contro tutti e la violenza cieca in cerca di capri espiatori.
Non dobbiamo sottovalutare i tentacoli della piovra intrappolata nei suoi ultimi rifugi. Il crollo del denaro non implica, infatti, la fine della depredazione, del potere, dell’appropriazione degli esseri e delle cose. L’esacerbarsi del caos, tanto utile alle organizzazioni statali e mafiose, propaga un virus di autodistruzione i cui rigurgiti nazionalisti, gli sfoghi sfocianti in genocidi, i conflitti religiosi, i rigurgiti della peste fascista, bolscevica o integralista rischiano di avvelenare gli spiriti se l’intelligenza sensibile del vivente non rimette al centro delle nostre preoccupazioni la questione della felicità e della gioia di vivere.
È sempre esistito un fascino dell’abiezione che dopo le prime reticenze si apre un cammino segreto e attende, una volta infettati tutti gli strati della popolazione, di garantire l’impunità e la legittimità alla barbarie banalizzata (l’ascesa del nazismo in Germania ha mostrato come l’umanesimo astratto poteva trasformarsi in un’esplosione di efferatezza).
Per contro, non bisogna che la disumanità del passato cancelli la memoria dei grandi movimenti di emancipazione in quel che ebbero di più radicale: la volontà di liberare l’uomo alienato e di far nascere in lui quella vera umanità che riappare di generazione in generazione.
La società a venire non ha altra scelta che quella di riprendere e sviluppare i progetti di autogestione che dalla Comune di Parigi alle collettività libertarie della Spagna rivoluzionaria, hanno fondato sull’autonomia degli individui una ricerca di armonia in cui la felicità di tutti fosse solidale con la felicità di ciascuno.
3. Il fallimento dello Stato obbliga le collettività locali a mettere in atto una gestione del bene pubblico più adatta agli interessi vitali degli individui. Sarebbe illusorio pensare che liberare dei territori dal dominio mercantile e instaurare delle zone in cui i diritti umani sradichino il diritto del commercio e della redditività si possa compiere senza urti. Come difendere le enclavi della gratuità che cercheremo di impiantare in un mondo rastrellato e controllato da un sistema universale di depredazione e di cupidigia?
È in una tale prospettiva che la questione sollevata da un amico persiano mi è sembrata rivestire un’importanza particolare. Confrontato alla violenza repressiva della dittatura islamista in Iran, egli si è fatto eco dei problemi incontrati da un’opposizione cosciente insieme della propria potenza numerica ma anche della drammatica impotenza di fronte agli interventi dell’esercito, della polizia e dei “guardiani della rivoluzione”, gruppi paramilitari composti di delinquenti le cui esazioni sono legittimate dal potere religioso. Le riflessioni che seguono sono state scritte su sua domanda.

Né guerriero né martire.

“Chi può di più può di meno” è un principio pertinente nella riflessione che esige il ricorso alla violenza o alla non violenza, dovunque la repressione di uno Stato, di un partito, di una classe, di un’organizzazione mafiosa, di una religione, di un’ideologia ostacola la libertà di esistere e di esprimersi degli individui. Se arriviamo a trattare il problema laddove la repressione è più feroce, più spietata, saremo in grado di trarne delle conseguenze per i paesi dove il formalismo democratico limita gli oltraggi della barbarie. È evidente che le condizioni dell’oppressione sono molto diverse se si comparano paesi come l’Iran, l’Arabia Saudita, l’Algeria, la Francia, l’Italia, la Russia, la Cina, gli Stati Uniti, la Colombia …
Abbordare la questione tenendo in mente l’esempio dell’Iran, della Corea del Nord o della Birmania mi pare di natura da proporre delle risposte appropriate ad altri paesi, meno avvezzi all’uso dell’efferatezza.
Siamo stati finora confrontati a un’alternativa: o la determinazione a mettere fine alla violenza repressiva entrava nel terreno del nemico e vi s’installava, opponendogli una violenza di uguale natura ma di senso contrario, oppure l’opposizione alla tirannia ricorreva a una resistenza passiva alla maniera del pacifismo praticato da Gandhi con un innegabile successo.
Cionondimeno, se il Gandhismo ha trionfato sull’occupazione inglese è perché ha trovato di fronte un avversario che per quanto spietato, è stato sconcertato, vuoi paralizzato nelle sue reazioni, da un formalismo filantropico, un’etica residua, una deontologia della guerra che inclinavano a rimproverare il massacro di una popolazione ostile ma inerme.
Nonostante la sua ipocrisia, una sorta di fair-play militare metteva in imbarazzo la determinazione tattica che avrebbe prescritto di soffocare alla nascita e senza tentennamenti il movimento di rivolta. Si sa che la saggezza diplomatica di Lord Mountbatten ha influito molto sulla vittoria delle rivendicazioni popolari. Per contro, quando il gandhismo si è urtato a un potere poco assillato da preoccupazioni etiche, come il regime di Apartheid dell’Africa del Sud, è diventato inoperante. Ugualmente la giunta birmana non ha esitato a mitragliare le folle di oppositori che manifestavano pacificamente. L’Iran s’iscrive in una logica repressiva simile.
Quali risposte propone la guerriglia? Ogni volta che ha vinto ha prodotto il peggio. Il trionfo delle armi finisce sempre in un’amara disfatta umana.
L’errore fondamentale della lotta armata è quello di accordare la priorità a un obiettivo militare piuttosto che alla creazione di una vita migliore per tutti. Ora, penetrare nel territorio del nemico per venirne a capo, vuol dire tradire la volontà di vivere in favore della volontà di potere. I comunardi s’impadroniscono dei cannoni, ma trascurando il denaro della Banca di Francia e l’uso che avrebbero potuto farne, si sono trovati in inferiorità di fronte alle truppe di Versailles. Si sa come, in nome della rivoluzione, il bolscevismo militarizzato schiacciò i primi soviet, i marinai di Cronstadt, i Machnovisti e, più tardi, le comunità libertarie di Spagna. Fatte le debite proporzioni, è stato ancora il partito cosiddetto comunista e lo spirito stalinista a svuotare della sua sostanza il movimento del maggio 68 (In questo caso non si trattava di guerriglia, ma di quella desolante persistenza dell’idea di potere che ha pervertito lo slancio insurrezionale).
È davvero necessario ricordare che laddove la guerriglia ha trionfato - nella Cina di Mao, in Vietnam, in Cambogia, a Cuba - l’ideologia armata è stata un’arma ideologica che ha schiacciato la libertà con la pretesa di combattere per essa? Lo slogan ripugnante “il potere è sulla canna del fucile” prende innanzitutto di mira i refrattari a ogni forma di autorità. Esso ha fatto meno vittime nei ranghi dei controrivoluzionari che tra i rivoluzionari nemici della tirannia.
Agli antipodi, non siamo certamente più favorevoli ai fatti di Frankenhausen dove, nel 1535, i contadini tedeschi in rivolta si astennero dal resistere lasciandosi massacrare dall’esercito dei principi perché, dando per scontato l’aiuto di Dio, si erano dimenticati che secondo la formula di Bussy-Rabutin, “Dio sta sempre dalla parte dei grossi battaglioni”. Vogliamo un esempio più recente? Il 22 dicembre 1997, quarantacinque persone, in maggioranza donne e bambini, furono massacrate a Actéal, una borgata messicana da paramilitari di etnia autoctona, all’interno di una chiesa dove stavano in preghiera. Appartenevano al movimento degli Abejas (le api), un gruppo di cristiani pacifisti che pur essendo vicini agli zapatisti rivendicano una non violenza assoluta. La ragione di una tale crudeltà ha radici nello stabilirsi degli Abejas su terre ambite da altri autoctoni membri di quel partito della corruzione che è il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI).
Oltre al disgusto suscitato da una simile atrocità, come indignarsi contro i torturatori senza denunciare anche quell’inclinazione cristiana al martirio e alla rinuncia che agisce sul vigliacco come un eccitante e presta al più irresoluto una crudeltà da matamoro. Il peggior codardo sa che non rischia nulla quando le vittime rifiutano di difendersi, quando non offrono addirittura la gola al coltello.
Dovremmo essere più attenti a quello che nel nostro comportamento, si traduce in un invito al nemico e lo incita ad attaccarci, perché - senza esserne sempre coscienti - gli abbiamo aperto la porta.
Come i nostri avversari arrivano ai loro fini? Spesso istillando in noi una credenza assurda nella loro onnipotenza. Stimolano quel riflesso di paura che accredita l’invincibilità del vecchio mondo, proprio mentre esso sta crollando. L’effetto disastroso di un tale dogma non risiede soltanto nella rassegnazione e nel fatalismo delle masse, esso anima anche il coraggio disperato che spinge all’assalto col sentimento di avviarsi alla morte in una lotta tanto più gloriosa perché vana.
Eppure, che ne è di quest’arsenale repressivo la cui sofisticazione suggerisce una capacità d’intervento folgorante e imparabile? La vigilanza tecnologica onnipresente non ha impedito la distruzione delle torri di Manhattan con dei mezzi sommari e artigianali. Così un tempo l’invincibile linea Maginot fu ridicolizzata dall’offensiva tedesca che l’ha semplicemente ignorata.
Se le reti di sorveglianza presentano delle lacune siffatte nella lotta contro le forze distruttrici la cui minaccia è permanente, come potrebbero essere efficienti nei confronti di un’azione che non ha l’obiettivo di annichilirle ma progetta soltanto di creare una società radicalmente altra, capace di rendere obsoleti e risibili gli spaventapasseri addobbati con kalashnikov o missili nucleari?
Ritorno alla domanda: che fare se rifiutiamo sia di restare indifesi di fronte ai fucili dell’oppressione sia di opporre al potere dominante le stesse armi che esso dirige contro di noi?
La discussione è aperta. Non ho alcuna risposta perentoria da proporre. Desidero soltanto chiarire il dibattito formulando qualche osservazione.
La miglior protezione consiste nel non entrare sul terreno dove il nemico ci attende e spera di trovarci. Conosce tutti i meandri del territorio tenuto sotto il controllo della merce e delle abitudini comportamentali che essa instaura (depredazione, concorrenza, competizione, autoritarismo, paura, sensi di colpa, feticismo del denaro, cupidigia, clientelismo). Per contro ignora tutto della vita e delle sue innumerevoli risorse creatrici.
Una precauzione preliminare consiste, dunque, per la nostra salvezza, nello sradicare nelle assemblee ogni forma e velleità di potere e di organizzazione autoritaria. La pratica dell’autonomia individuale è un presupposto dell’autogestione. È quanto si sforza di instaurare il movimento VOCAL impiantato a Oaxaca con la sua assemblea di base che trasmette le sue decisioni ai suoi mandatari rigettando ogni intrusione da parte dei partiti, dei sindacati, delle fazioni politiche, dei demagoghi clientelari.
La coesione non può che fondarsi su un progetto di vita individuale e sociale. L’avvenire apparterrà a delle collettività locali capaci di pensare globalmente. Intendo dire: che scommettano sulla loro radicalità e la sua diffusione per gettare le basi di un’Internazionale del genere umano. Questo è il solo modo di evitare la trappola del comunitarismo prodotto dal giacobinismo statale.
L’idea dei comitati di quartiere istituiti a Oaxaca merita di essere esaminata come una pista possibile. Il Messico non è l’Iran, ben lungi, ma non offre, tuttavia, le condizioni dell’Europa. A Oaxaca, i paramilitari uccidono con la benedizione di un governo dispotico. Il quale ha bisogno d’interlocutori infettati dai germi di corruzione inerenti al potere, qualunque esso sia. Un tale governo ha bisogno di partiti, di sindacati, di fazioni. Ne scopre facilmente l’esistenza. Con loro si sente a suo agio e può dunque, secondo le circostanze, schiacciarli o aprire delle trattative.
Per contro, i comitati di quartiere non hanno altro scopo che difendere gli interessi di una popolazione locale cogliendo gli esseri e le cose alla radice, in modo tale che quel che s’intraprende in favore di qualcuno è compatibile con un gran numero di persone (tale è ancora una volta il principio del locale inseparabile dal globale). I comitati di quartiere non rappresentano una minaccia armata, non sono un pericolo identificabile per il potere. Essi formano un paese appena identificato, dove è questione di approvvigionamento in cibo, in acqua, energia. Vi si sviluppa una solidarietà che, su dei temi apparentemente anodini, fa cambiare le mentalità, aprendole alla coscienza e all’inventività. Così, l’uguaglianza dell’uomo e della donna, il diritto alla felicità, il miglioramento della vita quotidiana e dell’ambiente perdono il loro carattere astratto e modificano i comportamenti. Abbordare prioritariamente le questioni poste dalla vita quotidiana rende progressivamente desueti i problemi rimasticati tradizionalmente dalle ideologie, dalle religioni e da quella vecchia politica che è la politica del vecchio mondo. Si ritorna così al senso originale del termine “politica”: l’arte di gestire la città, di migliorare il luogo sociale e psicologico dove una popolazione aspira a vivere secondo i suoi desideri.
Abbiamo tutto da guadagnare nell’attaccarci al sistema e non agli uomini che ne sono contemporaneamente i responsabili e gli schiavi. Cedere alla peste emozionale, alla vendetta, allo sfogo, vuol dire partecipare al caos e alla violenza cieca di cui lo Stato e le sue istanze repressive hanno bisogno per continuare ad esistere. Non sottovaluto il sollievo rabbioso al quale cede una folla che incendia una banca o saccheggia un supermercato. Sappiamo, però, che la trasgressione è un omaggio al divieto che offre una via d’uscita all’oppressione. Essa non la distrugge, la restaura. L’oppressione ha bisogno di rivolte cieche.
Per contro, non vedo mezzo più efficace per dedicarsi alla distruzione del sistema mercantile che propagare la nozione e le pratiche della gratuità (qui e là, per esempio, si abbozza timidamente il sabotaggio dei parchimetri con gran dispetto delle società che pretendono di rubarci lo spazio e il tempo che ci appartengono).
Mancheremmo a tal punto d’immaginazione e di creatività da non poter sradicare gli obblighi legati ai racket delle lobby pubbliche e private? Quale ricorso potrebbero opporre a un movimento collettivo che decretasse la gratuità dei trasporti pubblici, che rifiutasse di pagare tasse e imposte allo Stato truffatore per investirli, a beneficio di tutti, dotando una regione di energie rinnovabili, ristabilendo la qualità dell’assistenza medica, dell’insegnamento, dell’alimentazione, dell’ambiente? Non è forse restaurando una vera politica di prossimità che getteremo le basi di una società autogestita? Anziché degli scioperi dei trasporti (treni, autobus e metro) che rendono difficile il movimento dei cittadini, perché non decidere invece di farli circolare gratuitamente? Non ci sarebbe un quadruplo vantaggio: nuocere alla redditività delle imprese di trasporti, ridurre i profitti delle lobby petrolifere, spezzare il controllo burocratico dei sindacati e, soprattutto, suscitare l’adesione e il sostegno massiccio degli utenti?
Siamo sommersi di falsi problemi che occultano quelli veri. Le opinioni incessantemente manipolate manipolano, in effetti, quel che dovrebbe essere un puro frutto degli individui: le mosse imprevedibili dei desideri quotidiani, quel che essi desiderano vivere e come trovare i mezzi per spezzare le catene che li imprigionano. Qual è il peso di tutti i discorsi intorno a una crisi da cui si deve uscire senza uscirne, di fronte alla disperazione di dover lavorare, di annoiarsi a consumare, di rinunciare alle proprie passioni, di possedere sempre di più perdendo tutte le gioie dell’essere a vantaggio di un avere la cui rovina è del resto programmata?
Aggiungendosi alle imposture dell’emancipazione (liberalismo, socialismo, comunismo), il consumerismo e il clientelismo dei regimi cosiddetti democratici hanno annientato la coscienza di classe che aveva strappato al capitalismo un buon numero di conquiste sociali. Siamo stati trascinati nel fango e nel sangue tramite delle idee astratte. La “Causa del popolo” gli è rovinata addosso e gli ha spezzato le reni.
Il ritorno alla base è la sola radicalità. Essa elimina le false questioni che alimentano il caos emozionale a detrimento della presa di coscienza. All’occorrenza, la querelle sul “velo islamico” mi pare rivelatrice della funzione spettacolare che recupera e falsifica il nostro diritto a una vita autentica. Questa polemica, dove giustificazioni e anatemi, puritanismo e lassismo, oppressione e libertà, divieto e trasgressione girano a vuoto, dissimula una realtà vissuta: la condizione cui è ridotta la donna. Lo spettacolo fa il suo panem et circenses d’interminabili dibattiti su un fronzolo: segno di servitù volontaria, provocazione deliberata, manifestazione folclorica, adesione comunitarista, opzione religiosa, reazione contro il disprezzo pubblicitario della donna, sottinteso erotico di un fascino dissimulato, alleanza della civetteria e della buona creanza, espressione di una certa sacralità, comodo mezzo per premunirsi dalle molestie sessuali di maschi autorizzatisi per tradizione patriarcale a sfogarsi con lo sguardo bavoso della frustrazione.
In realtà, la vera lotta non è là, è alla base, è nell’emancipazione congiunta dell’uomo e della donna, è nel rifiuto di un apartheid, di un’esclusione, di un comportamento misogino o omofobo. Basta con i falsi dibattiti, basta con le ideologie! In “Niente è sacro tutto si può dire”, ho difeso il principio: tolleranza per tutte le idee, intolleranza per ogni atto barbaro. Il nostro criterio unico è il progresso umano, la generosità del comportamento, l’arricchimento dell’esistenza quotidiana. Il diritto alla vita garantisce la nostra legittimità.
Il potere gioca sull’elemento emozionale. La paura irrazionale che esso propaga è una fonte di violenza cieca da cui è bravo a trarre vantaggio. Il vantaggio delle collettività locali attente a decidere del loro destino, accordando la priorità all’instaurazione di una vita autenticamente umana, è che la loro pratica implica il superamento dell’emozione allo stato bruto e suscita il risveglio di una coscienza poetica.
Così come, senza l’accesso a un’alimentazione di qualità, il boicottaggio dei prodotti artefatti derivati dalle mafie petrolchimiche e agricole, resta inoperante, anche la volontà di farla finita col consumerismo, dove l’avere soppianta l’essere, ubbidirà meno volentieri alle ingiunzioni etiche che all’attrattiva di una vita libera.
Se ricorrere alle armi del nemico prelude a una sconfitta programmata, l’attitudine opposta sbocca con altrettanta certezza su un altro tipo di evidenza: più si propagherà il sentimento che la vita e la solidarietà umana sono i soli fermenti di un’esistenza degna di questo nome, più il malessere e la confusione indeboliranno la determinazione e il fanatismo che animano i mercenari del partito della corruzione e della morte.
Diverse testimonianze fanno segno delle incertezze che attanagliano un numero crescente di assassini patentati, che si tratti dei “guardiani della rivoluzione” iraniani, dei delinquenti reclutati da Hamas, dei soldati israeliani la cui barbarie è stata denunciata nella striscia di Gaza, degli assassini del nord e del sud del Sudan, dei saccheggiatori somali. Questa constatazione non implica alcun argomento tattico, non s’iscrive in una prospettiva militare dove s’insinuerebbe, abbastanza facilmente, che il nemico scava la propria tomba. Insiste soltanto su una probabilità: nello stesso modo in cui si profila il crac finanziario che manderà in rovina la moneta, la stessa svalutazione minaccia la determinazione suicida sulla quale i burocrati del crimine, le mafie della barbarie resa redditizia, contano per arruolare le loro truppe (tanto più che i vecchi pretesti religiosi o ideologici perdono di credibilità e che i fanatici arrivano a dubitare dell’accomandita di un Dio assassino).
È in questo senso che io scommetto sulla proliferazione di una reazione di vita capace di fertilizzare i territori desertificati e sterilizzati dall’economia di sfruttamento e dalla sua burocrazia mafiosa. La nostra ricchezza creativa possiede il segreto di approntare nella vita sociale e individuale degli spazi e dei tempi finalmente affrancati dall’oppressione mercantile. Solo la poesia sfugge all’occhio caustico del potere. Solo la passione di vivere fa retrocedere la morte.

Due postille sull’autodifesa
1. L’armata zapatista di liberazione nazionale (EZLN) comprende qualche migliaio di combattenti, residenti nella selva. Le donne hanno proposto e ottenuto, nelle assemblee di democrazia diretta, che essa non intervenga mai in maniera offensiva ma si limiti a esercitare un ruolo difensivo. Ciononostante, quando dei villaggi zapatisti sono stati minacciati da gruppi paramilitari, l’EZLN si é tenuto fuori. Le “giunte di buon governo” hanno costituito uno scudo umano formato da centinaia di partigiani e di simpatizzanti, accorsi da ogni parte. I giornalisti e i cameraman della televisione coprivano l’avvenimento, servendosi dello spettacolo in modo che il mondo intero fosse informato di quel che accadeva. Ciò è bastato per far fare marcia indietro agli aggressori.
2. In un racconto indiano, gli abitanti di un villaggio vanno a lamentarsi da un saggio della crudeltà di un serpente gigante che li morde e li uccide. Il fischio che annuncia il suo arrivo basta a seminare il terrore nel villaggio. Il saggio va a trovare il serpente e riesce a convincerlo di lasciare in pace la popolazione. Tuttavia, la gente finisce presto per prendere in giro il serpente diventato pacifico, ridendo della sua debolezza e divertendosi a provocarlo. Stanco del loro disprezzo, il serpente si reca dal saggio e gli confessa il suo sgomento. Quale comportamento adottare? Il saggio ci pensa su e dice: “Ti ho chiesto di non mordere, mica di non fischiare.”


INDIRIZZO AI RIVOLUZIONARI GRECI

Compagni, non ho mai disperato della rivoluzione fondata sull’autogestione in quanto rivoluzione della vita quotidiana. Ora meno che mai.
Sono convinto che, oltrepassando le barricate della resistenza e dell’autodifesa, le forze vive del mondo intero si sveglino da un lungo sonno. La loro offensiva, irresistibile e pacifica, spazzerà via tutti gli ostacoli alzati contro l’immenso desiderio di vivere nutrito dagli innumerevoli individui che nascono e rinascono ogni giorno. La violenza di un mondo da creare soppianterà la violenza di un mondo che si distrugge.
Noi non siamo stati finora che degli ibridi, metà umani, metà bestie selvatiche. Le nostre società sono state dei vasti depositi dove l’uomo, ridotto allo stato di merce, contemporaneamente preziosa e vile, era sottoposto a corvè e interscambiabile. Stiamo per inaugurare il tempo in cui l’uomo assumerà il suo destino di pensatore e di creatore diventando quel che non è mai stato: un essere umano a parte intera.
Non domando l’impossibile. Non sollecito nulla. Non coltivo né speranza né disperazione. Desidero soltanto vedere concretizzata nelle vostre mani e in quelle delle popolazioni della terra intera un’Internazionale del genere umano che seppellirà nel passato la civiltà mercantile oggi moribonda e il partito della morte che illustra i suoi ultimi soprassalti.

Raoul Vaneigem, 17 luglio 2010




Il piacere della traduzione in italiano è di Sergio Ghirardi.