Tradotto dallo spagnolo in francese da Manuel Martinez. Presentato da
Andrés Bredlow e Anselm Jappe Crisis & Critique, “Al cuore dell'oscurità”,
2022, 192 pagg. Traduzione in italiano di Sergio Ghirardi Sauvageon.
In un'intervista del 2010 condotta da Isidro López, Agustín
García Calvo ha dichiarato: “Durante gli anni del mio piacevole esilio a
Parigi, dal 1969 al 1976, pubblicai con Ruedo Ibérico Apoftegmi contro il marxismo in cui si denunciavano le credenze
propagate dal Partito Comunista e da altri che, molto presto, mi avevano
infastidito e contro le quali bisognava lottare. In seguito ho avuto il piacere
di appoggiarmi di tanto in tanto sulle scoperte dello stesso Marx, come la
vendita della forza lavoro, un'idea che ho cercato di sviluppare per altre vie”.
Nel maggio 1970, prima della fine del primo anno di esilio di Agustín, la casa
editrice Ruedo Ibérico pubblicò, in modo molto discreto e senza indicarne
l'autore, un opuscolo intitolato Apoftegmi
sul marxismo in occasione della commemorazione della nascita di Karl Marx.
L'intenzione che ha guidato Agustín non era quella di fare una critica dell'opera
di Marx, ricca di contributi, e quindi di partecipare, per il semplice fatto di
effettuarla, al rafforzamento dell'Ordine costituito, ma di rivelare come la sua
divulgazione sotto forma di marxismo era degenerata in un credo, un sistema di
dogmi "inerte e reazionario". Proprio per questo, dialogando
"sul marxismo finito a far parte dell'ideologia dominante", le
edizioni di Ruedo Ibérico hanno deciso di pubblicare nuovamente gli Apoftegmi nel
numero 55-57 della loro rivista, Cuadernos,
corrispondente al periodo di gennaio-giugno 1977 e dedicato a Bakunin, Marx, in
margine della polemica. In questo scritto, Agustín ha voluto dedicarsi
all'"oscuro lavoro di uccidere ciò che è morto", vittima dei
"germi letali dell'ideologia e della dottrina", parlando dei
"pesi morti del marxismo", del suo onere, e non della sua forza
sovversiva e liberatrice, in particolare quella che era alla base dei suoi
sviluppi di concetti come Lavoro, Denaro e Capitale. È curioso che García Calvo non sia mai stato catalogato come
marxista, quando, per molto meno, alcuni hanno cercato di integrarlo nel
pensiero dominante come post-strutturalista, attribuendogli un'affiliazione con
autori come Nietzsche, di cui ha sempre negato l'influenza, e affibbiandogli
somiglianze con Deleuze e Foucault. A prima vista, per comprendere il legame
tra Agustín e Marx, sarebbe opportuno fare appello al suo trattamento critico
della nozione di Realtà, parola che, in quanto idea – rappresentazione al
servizio del Potere – è sempre scritta da lui con una lettera maiuscola. Il
termine “Realtà” è specifico, prodotto della nostra cultura in un determinato
momento storico; fu un'invenzione accademica medievale, costruita dal latino res (cosa), per designare un quadro situato
tra il regno di Dio e l'ignoto, ciò che non si conosce, che gli Antichi
chiamavano talvolta natura. In linea di principio si riferiva ad attività quali
il Commercio, la Giustizia o le Arti. È vano cercare un termine simile
nell'antichità. La realtà è stata stabilita dall'apice dell'autorità terrena
con l'aiuto dell'autorità scolastica. Per influsso di astrazioni come Uno,
Niente o Tutto, si sono obbligate le cose, gli esseri viventi e inerti, “a
essere o credere di essere, ciascuna di loro, una, niente o tutte”. Sotto la determinazione
dalle idee, le persone e gli oggetti potevano ormai credersi Realtà, una Realtà
determinata dalle "ingiunzioni dall'alto" – siano esse chiamate Regime, Chiesa, Stato o Capitale –, accettate dai mortali come atto di fede. È a smascherare questo
inganno, questa falsificazione, che Agustín dedicherà tutti i suoi sforzi. Il
suo tenace e filologico desiderio di seguire la via eraclitea, cioè quella del
pensiero pre-filosofico, complicava il suo linguaggio e rendeva difficile la
comprensione, ma lo stesso si poteva dire della via hegeliana seguita da Marx.
In definitiva, la Realtà non era “tutto ciò che c'è”, e ancor meno il
ricettacolo della verità residente al di fuori di essa. Così come si presentava
a noi, era semplicemente la concretizzazione materiale delle ideologie del
Dominio o, come direbbe Marx, del Capitale stesso. In definitiva era una
relazione sociale mediata da astrazioni e sostenuta dalla fede in esse. Agustín
ha trovato nel Capitale di Marx un metodo originale per comprendere ciò che
chiamava Realtà, per svelarne le contraddizioni e distruggerle. Con esso si
annullava l'antitesi tra soggetto e oggetto; la persona – il lavoratore – era
semplicemente una cosa, con tutte le sue caratteristiche economiche. La realtà
era solo Economia. Al suo interno il Denaro, "nome comune di tutte le
cose", divorando letteralmente la forza lavoro, si convertiva in Capitale,
Denaro "reso umano", "erede di tutti i tratti di soggettività
che gli hanno ceduto i lavoratori". Leggendo questi brevi commenti,
comprendiamo la gioia suscitata, decisamente post festum, nella scuola della "critica del valore" all'ascolto
del suono di queste "poche note della dialettica marxiana", in un'opera
ben anteriore alle riflessioni di Postone. Agustín ha attaccato il grande punto
debole del marxismo, il suo materialismo. Il concetto di Materia è idealistico
quanto il concetto di Spirito attorno al quale Hegel ha centrato il suo
sistema, e doveva essere combattuto come erede della Religione. In verità,
l'idea non è venuta da Marx, ma da Engels, adottata con entusiasmo dalla
socialdemocrazia tedesca e da Lenin. Il salto indietro verso il materialismo
meccanico e scientistico fu già abilmente criticato da Anton Pannekoek in Lenin come filosofo e da Karl Korsch in Marxismo e filosofia, e non c'è, dunque,
molto da aggiungere. L'altra contraddizione segnalata da Agustín derivava
dall'aggettivo “storico” che accompagnava il materialismo e la dialettica
marxista. Perché, confondendo Storia e Realtà, la narrazione dei fatti accaduti
ha finito per convertirsi in un passato morto, oggetto di studio scientifico:
l'azione era sostituita dall'Idea dell'azione, e la narrazione dall'ideologia,
"visione diffusa e imposta dalla Società in funzione”. La contraddizione
stava nel Tempo – tempo lineare, cronologico, ovviamente –, chiamato anche
Evoluzione o Progresso. Tuttavia, già Walter Benjamin – cui allude lo stesso
Agustín – aveva affrontato l'argomento con maggiore chiarezza, esponendo la
dialettica della rivoluzione come una rottura nel continuum storico reificato, quell'improvviso slancio della vita fuori
dall'epoca determinato dalle improvvise accelerazioni del tempo durante le
rivolte popolari. Un altro autore contemporaneo di Benjamin, Siegfried
Kracauer, in Storia – Delle penultime
cose, citerà il concetto di "avvenimento emergente", riferendosi
all'avvenimento che determina il proprio contesto invece di essere prodotto da esso,
consigliando allo storico – al narratore – di “dedicarsi alle molteplici forme
di tempo”. Uno dei punti più deboli dell'ideologia marxista era – ed è tuttora
– la sua valorizzazione positiva del lavoro e l'esaltazione della condizione operaia,
in totale contraddizione con le analisi di Marx. L'operaismo spiegava i limbi
in cui erano relegati tanto il disgusto per la fabbrica quanto la critica del
consumismo e della vita quotidiana, escluse le ricerche di Henri Lefebvre e dell'Internazionale
situazionista che Agustín certamente ignorava. Più incisiva è stata la sua
disapprovazione del luogo comune per eccellenza del marxismo – e non solo del
marxismo – ovvero la lotta di classe. Sebbene la dinamica capitalista non avesse
ancora chiuso con le classi così come esse esistevano all'inizio del secolo, e
il proletariato fosse quindi ancora una forza storica da considerare, pur se
questo non era vero ovunque, il processo di razionalizzazione che aveva
significativamente modificato lo schema delle classi era molto visibile.
Stavano affermandosi nuove classi, alimentate dallo sviluppo statale e
tecnologico e il proletariato stava perdendo slancio mentre il ruolo dello Stato
cresceva. Inoltre, le lotte per la liberazione delle nazioni oppresse,
soppiantando la lotta di classe, trascinavano Marx nel letamaio del
nazionalismo. In una prospettiva terzomondista contraria all'internazionalismo,
gli sfruttati non erano gli stessi ovunque e il Capitale era meno dannoso in alcuni
paesi che in altri; una cosa del genere doveva, secondo Agustín, essere
contraddetta dagli stessi oppressi, senza mezze misure e senza “moltiplicare i
regni delle successive epifanie del Signore”. Agustín insisteva sulla convergenza tra Capitale e Stato che
stava dando vita a un nuovo capitalismo – già denunciato da Bruno Rizzi nei
confronti della società sovietica e da Friedrich Pollock e Franz Neumann,
teorici della Scuola di Francoforte – e quindi a una trasformazione delle
classi e della natura dell'oppressione. Il capitalismo di Stato, totalitario o
"democratico", che ha sostituito la sua forma liberale, si
caratterizzava per un ordinamento burocratico dei mercati e per un controllo statale
dei movimenti di capitale, responsabile quindi di una prima smaterializzazione
del Denaro, non più basato su alcun valore di riferimento ma sull'autorità
dello Stato. Lo Stato diventava più attraente, ammesso che ciò sia possibile,
per il marxismo ordinario, ma per Agustín la conquista politica dello Stato non
eliminava la contraddizione tra governanti e governati, non eliminava lo
sfruttamento, poiché qualsiasi forma di potere costituito – qualsiasi Stato –
era una forma di Capitale. Stato e Capitale erano due facce della stessa cosa,
quella pubblica e quella privata, impossibili da distruggere separatamente.
Oggi, quando entrambi sono entrati nella fase neoliberista, le cose vanno molto
peggio, perché il Denaro – il Potere, la Realtà, il Tutto – si basa sul credito
e sulla fiducia nella Banca privata, mentre lo Stato resta ai margini,
svolgendo le funzioni enormemente sviluppate di esecutore delle sue direttive, di
poliziotto e di carceriere. L'enorme rinforzamento dello Stato ha reso quasi puerili
le osservazioni perspicaci di Agustín. Visto
a distanza, questo sostanzioso opuscolo è oggi un po' inferiore ai fatti, sia
per il degrado subito dal marxismo ideologico, sia per la disintegrazione della
più grande conquista della civiltà borghese, cioè l'Individuo, immerso nelle
categorie – idee o immagini – strutturanti del capitalismo. Le osservazioni
finali ci portano a Freud, altro autore elogiato da Agustín che si diverte ad affermare
che l'anima è di natura freudiana poiché segue le regole descritte dalla
psicoanalisi. Allo stesso modo, l'anima è marxista poiché si comporta secondo
le regole dell'economia descritte da Marx. Infine, Agustín, e questa è la cosa
più importante, ammette che questi apoftegmi sulle scoperte di Marx e sulle
aberrazioni del marxismo funzioneranno solo nella misura in cui sembrano
provenire dalla voce anonima dei miserabili della terra, del popolo che non
esiste in quanto componente positiva della Realtà, del comune che dice sempre
“no”.
Miguel AMORÓS – À contretemps / Recensioni e studi critici /
Maggio 2022 – [http://acontretemps.org/spip.php?article918 ]
Le fardeau réaliste
Agustín GARCĺA CALVO
APOPHTEGMES SUR LE
MARXISME
Traduit de l’espagnol par Manuel Martinez Présenté par
Andrés Bredlow et Anselm Jappe Crise & Critique, « Au cœur des ténèbres »,
2022, 192 p.
Dans un entretien de 2010 réalisé par Isidro López, Agustín García Calvo
déclarait : « Durant les années de mon agréable exil à Paris, de 1969
à 1976, je publiai chez Ruedo Ibérico des apophtegmes contre le marxisme où
étaient dénoncées les croyances, propagées par le Parti communiste et par
d’autres qui, très tôt, m’avaient dérangé et contre lesquelles il fallait lutter.
J’ai pris plaisir ensuite à m’appuyer de temps à autre sur les découvertes de
Marx lui-même, comme la vente de la force de travail, une notion que j’ai tenté
de développer par d’autres voies ». En mai 1970, avant la fin de la
première année d’exil d’Agustín, les éditions Ruedo Ibérico éditaient en effet,
très discrètement et sans indication d’auteur, une brochure intitulée
Apophtegmes à propos du marxisme à l’occasion de la commémoration de la
naissance de Karl Marx. L’intention qui guidait Agustín n’était pas d’effectuer
une critique de l’œuvre de Marx, riche en contributions, et de participer
ainsi, du simple fait de la faire, au renforcement de l’Ordre établi, mais de
dévoiler comment sa vulgarisation sous la forme de marxisme avait dégénéré en un
credo, un système de dogmes « inerte et réactionnaire ». C’est
précisément pour cela, pour discourir « sur le marxisme qui a fini par
faire partie de l’idéologie dominante », que les éditions Ruedo Ibérico
décidèrent de publier de nouveau les Apophtegmes dans le numéro 55-57 de leur
revue, Cuadernos, correspondant à la
période de janvier-juin 1977 et consacré à Bakounine, Marx, en marge de la
polémique. Dans cet écrit, Agustín souhaitait se consacrer à l’« obscur labeur
de tuer ce qui est mort », victime des « germes létaux de l’idéologie
et de la doctrine », en parlant « des poids morts du marxisme »,
de son fardeau, et non de sa force subversive et libératrice, particulièrement
celle qui était sous-jacente dans ses développements de concepts comme Travail,
Argent et Capital. Il est curieux que García Calvo n’ait jamais été taxé de
marxiste, alors que, pour bien moins, certains ont tenté de l’intégrer à la
pensée dominante comme poststructuraliste en lui attribuant une filiation avec
des auteurs comme Nietzsche, dont il nia toujours l’influence, et en lui
cherchant des similitudes avec Deleuze et Foucault. À première vue, pour
comprendre le lien entre Agustín et Marx, il conviendrait de faire appel à son
traitement critique de la notion de Réalité, mot qui, en tant qu’idée –
représentation au service du Pouvoir – s’écrit toujours chez lui avec une
majuscule. Le terme « Réalité » est spécifique, produit de notre
culture en un moment historique déterminé ; ce fut une invention savante
médiévale, construite à partir du latin res
(chose), pour désigner un cadre situé entre le royaume de Dieu et
l’inconnu, ce qui ne se sait pas, que les Anciens appelaient parfois natura. En
principe, il faisait référence à des activités comme le Commerce, la Justice ou
les Arts. C’est en vain que l’on chercherait un semblable vocable dans
l’Antiquité. La Réalité fut établie depuis le sommet de l’autorité terrestre
avec l’aide de l’autorité scolastique. Par influence des abstractions comme Un,
Rien ou Tout, on obligea les choses, les êtres vivants et inertes, « à
être ou à croire qu’elles sont, chacune d’entre elles, une, rien ou
toutes ». Attrapés dans les idées, les personnes et les objets pouvaient
dès lors se croire Réalité, Réalité qui était déterminée par « les
injonctions d’en haut » – qu’on les nomme Régime, Église, État ou Capital
– et acceptée par les mortels comme un acte de foi. C’est à démasquer cette
tromperie, cette falsification, qu’Agustín consacrera tous ses efforts. Sa
volonté tenace et philologique de suivre la voie héraclitéenne, c’est-à-dire
celle de la pensée pré philosophique, compliqua son langage et rendit difficile
sa compréhension, mais l’on pouvait en dire tout autant de la voie hégélienne
suivie par Marx. Finalement, la Réalité n’était pas « tout ce qu’il y
a », et encore moins le réceptacle de la vérité, qui résidait en dehors
d’elle. Telle qu’elle se présentait à nous, c’était simplement la
concrétisation matérielle des idéologies de la Domination, ou comme le dirait
Marx, le Capital lui-même. C’était en fin de compte une relation sociale
médiatisée par des abstractions et étayée par la foi en celles-ci. Agustín
trouva dans Le Capital de Marx une méthode originale pour comprendre ce qu’il
appelait Réalité, pour en dévoiler les contradictions et les détruire. Avec
elle, l’antithèse entre sujet et objet se trouvait annulée ; la personne –
le travailleur – était simplement une chose, avec tous ses attributs
économiques. La Réalité n’était qu’Économie. En son sein, l’Argent, « nom
commun de toutes les choses », en dévorant littéralement la force de
travail, se convertissait en Capital, l’Argent « rendu humain », qui
« hérite de tous les traits de subjectivité que les travailleurs lui ont
cédés ». À la lecture de ces brefs commentaires, nous comprenons
l’allégresse suscitée très post festum
dans l’école de la « critique de la valeur » en écoutant le son de
ces « quelques notes de la dialectique marxienne », dans une œuvre
bien antérieure aux réflexions de Postone. Agustín attaquait le grand point
faible du marxisme, son matérialisme. Le concept de Matière est aussi idéaliste
que le concept d’Esprit autour duquel Hegel centra son système, et il devait
être combattu comme héritier de la Religion. En vérité, l’idée ne provenait pas
de Marx, mais d’Engels, étant adoptée avec enthousiasme par la
social-démocratie allemande et par Lénine. Le saut en arrière, vers le
matérialisme mécanique et scientiste, fut déjà critiqué adroitement par Anton
Pannekoek dans Lénine philosophe et par Karl Korsch dans Marxisme et
philosophie, et il n’y a donc pas grand-chose à ajouter. L’autre contradiction
signalée par Agustín dérivait de l’appellatif « historique » qui
accompagnait le matérialisme et la dialectique marxiste. Car, Histoire et
Réalité se confondant, la narration des faits ayant eu lieu finissait par se
convertir en un passé mort, objet d’étude scientifique : l’action était
remplacée par l’Idée de l’action, et la narration par l’idéologie, « vision
répandue et imposée par la Société en vigueur ». La contradiction résidait
dans le Temps – temps linéaire, chronologique, bien sûr –, qu’on l’appelle
aussi Évolution ou Progrès. Toutefois, Walter Benjamin déjà – auquel Agustín
lui-même fait allusion – avait abordé le sujet avec une clarté supérieure, en
exposant la dialectique de la révolution comme une rupture du continuum
historique réifié, ce saut soudain de la vie hors de l’époque qu’entraînaient
les brusques accélérations du temps durant les insurrections populaires. Un
autre auteur contemporain de Benjamin, Siegfried Kracauer, dans L’Histoire - Des avant-dernières choses,
mentionnera le concept d’« événement émergent », en se référant à
l’événement qui détermine son contexte au lieu d’être produit par celui-ci, et
il conseillait à l’historien – au narrateur – de « se consacrer aux
multiples formes de temps ». Un des points les plus faibles de l’idéologie
marxiste était – et est encore – sa valorisation positive du travail et
l’exaltation de la condition ouvrière, en totale contradiction avec les
analyses de Marx. L’ouvriérisme expliquait les limbes où se trouvaient
consignés tout autant le dégoût envers l’usine que la critique de la
consommation et de la vie quotidienne, si nous exceptons les recherches d’Henri
Lefebvre et de l’Internationale situationniste, qu’Agustín ignorait
certainement. Plus incisive était sa réprobation du lieu commun par excellence
du marxisme – et pas seulement du marxisme –, à savoir la lutte des classes.
Bien que la dynamique capitaliste n’en avait pas encore fini avec les classes
telles qu’elles existaient au début du siècle, et que le prolétariat
constituait donc encore une force historique à considérer, même si cela n’était
pas vrai partout, le processus de rationalisation qui avait considérablement
modifié le schéma des classes était très visible. De nouvelles classes se
développaient, couvées par le développement étatique et technologique, et le
prolétariat s’essoufflait tandis que le rôle de l’État grandissait. De plus,
les luttes pour la libération des nations opprimées, en déplaçant la lutte des
classes, entraînaient Marx dans le fumier du nationalisme. Dans une optique
tiers-mondiste contraire à l’internationalisme, les exploités n’étaient pas les
mêmes partout et le Capital était moins nocif dans certains pays que dans
d’autres ; une telle chose se devait, selon Agustín, d’être contredite par les
opprimés eux-mêmes, sans demi-mesures et sans « multiplier les règnes des
successives épiphanies du Seigneur ». Agustín insistait sur la convergence
du Capital et de l’État, qui était en train de donner lieu à un nouveau
capitalisme – déjà dénoncé par Bruno Rizzi en ce qui concerne la société
soviétique et par Friedrich Pollock et Franz Neumann, théoriciens de l’École de
Francfort – et par conséquent à une transformation des classes et de la nature
de l’oppression. Le capitalisme d’État, totalitaire ou
« démocratique », qui remplaçait sa forme libérale, se caractérisait
par une régulation bureaucratique des marchés et un contrôle étatique des
mouvements de capital, ainsi responsable d’une première dématérialisation de
l’Argent, qui n’est plus basé sur aucun étalon mais sur l’autorité de l’État.
L’État devenait plus attractif, à supposer que cela soit possible, pour le
marxisme ordinaire, mais pour Agustín, la conquête politique de l’État ne
supprimait pas la contradiction entre gouvernants et gouvernés, n’éliminait pas
l’exploitation, puisque n’importe quelle forme de Pouvoir constitué – n’importe
quel État – était une forme de Capital. État et Capital étaient deux faces de
la même chose, la face publique et la face privée, impossibles à détruire
séparément. Aujourd’hui, alors qu’ils sont tous deux entrés dans la phase néolibérale,
les choses sont bien pires, car l’Argent – le Pouvoir, la Réalité, le Tout – se
fonde sur le crédit et la foi en la Banque privée, alors que l’État reste en
marge, accomplissant les fonctions hautement développées d’exécuteur de ses
directives, de gendarme et de geôlier. L’énorme renforcement de l’État a rendu
presque puériles les observations perspicaces d’Agustín. Vu à distance, ce
substantiel opuscule est aujourd’hui un peu en dessous des faits, aussi bien
pour ce qui est de la dégradation subie par le marxisme idéologique que de la
désintégration de la plus grande réussite de la civilisation bourgeoise, à
savoir l’Individu, immergé dans les catégories – idées ou images –
structurantes du capitalisme. Les observations finales nous conduisent à Freud,
autre auteur dont Agustín fait l’éloge, s’amusant à affirmer que l’âme est de
nature freudienne puisqu’elle suit les règles décrites par la psychanalyse. De
la même façon, l’âme est marxiste puisqu’elle se comporte selon les règles de
l’économie décrites par Marx. Finalement, Agustín, et c’est là le plus
important, avoue que ces apophtegmes à propos des découvertes de Marx et des
aberrations du marxisme ne fonctionneront que dans la mesure où ils semblent
provenir de la voix anonyme des misérables de la terre, du peuple qui n’existe
pas en tant que composante positive de la Réalité, du commun qui toujours dit
« non ».
Miguel AMORÓS – À contretemps / Recensions et études critiques / mai 2022 –
[http://acontretemps.org/spip.php?article918]
EL LASTRE REALISTA
Comentarios
inspirados en la lectura del folleto de Agustín García Calvo, Apotegmes sur
le marxisme, editado por Crise & Critique, Albi (Francia), febrero de
2022.
En una entrevista de
2010 realizada por Isidro López, Agustín García Calvo declaraba: “En los
años de mi amable destierro en París, desde 1969 a 1976, publiqué en Ruedo
Ibérico unos apotegmas contra el marxismo en los que se denuncian las creencias
divulgadas por el Partido Comunista y otros, que me habían molestado desde muy
pronto y contra las que había que luchar. Y, sin embargo, luego me he
complacido en apoyarme de vez en cuando en descubrimientos del propio Marx,
como la venta de la fuerza de trabajo, una noción que he tratado de desarrollar
por otros caminos.” Efectivamente, en mayo de 1970, cuando todavía Agustín
no cumplía el año de exilio, la editorial Ruedo Ibérico editaba muy
discretamente y sin indicación de autor un folleto titulado Apotegmas a
propósito del marxismo con motivo de la conmemoración del nacimiento de Carlos
Marx. La intención que guiaba a Agustín no era la de llevar a cabo una
crítica de la obra de Marx, rica en aportaciones, y contribuir por el mero
hecho de hacerla al refuerzo del Orden establecido, sino de desvelar cómo su
vulgarización bajo la forma de marxismo había degenerado en un credo, un
sistema de dogmas “inerte y reaccionario”. Precisamente por eso, para discurrir
“sobre el marxismo que ha pasado a formar parte de la ideología dominante”
Ruedo Ibérico decidió publicar de nuevo los Apotegmas en su Cuaderno nº 55-57,
correspondiente a enero-junio de 1977 y dedicado a Bakunin, Marx, al margen
de la polémica. En el folleto, Agustín pretendía dedicarse a “la oscura
labor de matar lo que está muerto”, víctima de “los gérmenes letales de la
ideología y la doctrina”, hablando “de los pesos muertos del marxismo”, de su
lastre, no de su fuerza subversiva y liberadora, especialmente la que subyacía
en sus desarrollos de conceptos como Trabajo, Dinero y Capital. Resulta curioso
que nunca le tacharan de marxista, cuando por mucho menos lo han tratado de
integrar en el pensamiento dominante como post estructuralista, atribuyéndole
padrinos como Nietzsche, cuya influencia siempre negó, y buscándole similitudes
con Deleuze y Foucault. En principio, para entender la conexión de Agustín con
Marx, convendría recurrir a su tratamiento crítico de la noción de Realidad,
palabra que, en tanto que idea -representación al servicio del Poder- siempre
escribe con mayúscula.
El término “Realidad” es específico, producto de nuestra cultura en un
determinado momento histórico; fue una invención culta medieval, hecha a partir
del latín res (cosa), para designar un escenario situado entre el reino
de Dios y lo desconocido, lo que no se sabe, aquello a lo que los antiguos a
veces llamaban natura. En principio se refería a actividades como el
Comercio, la Justicia o las Artes. En vano se buscará un vocablo semejante en
la Antigüedad. La Realidad quedó establecida desde la cúspide de la autoridad
terrenal con auxilio de la escolástica. Por influjo de abstracciones como Uno,
Nada o Todo, se obligó a las cosas, a los seres vivos e inertes,“a ser o a
creer que son, cada una de ellas, una, nada o todas”. Atrapadas en las
ideas, las personas y los objetos, ya podían creerse Realidad, la cual quedaba
determinada por “los dictados de arriba” -llámese Régimen, Iglesia, Estado o
Capital- y aceptada por los mortales como acto de fe. Era pues un engaño, una
falsificación, a cuyo desenmascaramiento Agustín dedicará todos sus esfuerzos.
Su voluntad pertinaz y filológica de andar por la vía heracliteana, es decir,
del pensamiento prefilosófico, complicó su lenguaje y dificultó su comprensión,
pero otro tanto podía decirse de la vía hegeliana de Marx. En fin, la Realidad
no era “todo lo que hay”, ni mucho menos el receptáculo de la verdad, algo que
campaba fuera de ella. Tal como se nos presentaba, era simplemente la
concreción material de las ideologías de la Dominación, o tal como diría Marx,
el mismísimo Capital. Era a fin de cuentas una relación social mediatizada por
abstracciones y apuntalada por la fe en ellas.
Agustín halló en El Capital de Marx un método original de entender
lo que llamaba Realidad, desvelar sus contradicciones y demolerlas. Con él, la
antítesis entre sujeto y objeto quedaba superada; la persona -el trabajador- no
era sino la cosa, con todos sus atributos económicos. La Realidad no era más
que Economía. En su seno, el Dinero, “nombre común de todas las cosas”, gracias
a devorar literalmente la fuerza de trabajo, se convertía en Capital, el Dinero
“hecho hombre”, que “hereda todos los rasgos de la subjetividad que los trabajadores
le han cedido”. Ante estas breves glosas nos hacemos cargo del jolgorio
levantado muy post festum en la escuela de la “crítica del valor” al
escuchar el sonido de unas cuantas teclas del “esqueleto de la dialéctica
marxista” en una obrita muy anterior a las reflexiones de Postone.
Agustín atacaba el gran punto débil de marxismo, su materialismo. El
concepto de Materia es tan idealista como el concepto de Espíritu con el que
Hegel centró su sistema y aquella tenía que ser combatida como heredera de la
Religión. En verdad, la idea no provenía de Marx, sino de Engels, siendo
adoptada con entusiasmo por la socialdemocracia alemana y por Lenin. El salto
hacia atrás, hacia el materialismo mecánico y cientista, ya fue criticado
certeramente por Anton Pannekoek en Lenin Filósofo y por Karl Korsch en Marxismo
y Filosofía, por lo que queda poco por añadir. La siguiente contradicción
señalada por Agustín derivaba del apelativo “histórico” que acompañaba al
materialismo y a la dialéctica marxista. Pues, al confundirse Historia con
Realidad, la narración de los hechos acontecidos acababa convirtiéndose en
pasado muerto, objeto de estudio científico: la acción quedaba reemplazada por
la Idea de la acción, y la narración por la ideología, “visión vulgar e
impuesta por la Sociedad vigente”. La contradicción radicaba en el Tiempo,
-tiempo lineal, cronológico, se entiende- llámese también Evolución o Progreso.
Sin embargo, ya Walter Benjamín –al que el propio Agustín alude- había tratado
el tema con mucha más claridad, al exponer la dialéctica de la revolución como
una ruptura del continuum histórico reificado, el salto repentino de la
vida fuera de la época que conllevaban las bruscas aceleraciones del tiempo
durante las insurrecciones populares. Otro autor coetáneo de Benjamín,
Siegfried Krakauer, en L’Histoire des avant-dernières coses mencionaría
el concepto de “acontecimiento emergente”, refiriéndose al suceso que determina
su contexto en vez de ser producido por él, y aconsejaba al historiador –al
narrador- a “consagrarse a las múltiples formas de tiempo.”
Uno de los puntos más débiles de la ideología marxista era -y es- su
valoración positiva del trabajo y la exaltación de la condición obrera, en
contradicción total con los análisis de Marx. El obrerismo explicaba el limbo
en el que se tenía tanto al horror de la fábrica, como a la crítica del consumo
y de la vida cotidiana, si exceptuamos las indagaciones de Henri Lefebvre y la
Internacional Situacionista, que seguramente Agustín ignoraba. Mas incisiva
resultaba su reprobación del lugar común por excelencia del marxismo –y no solo
del marxismo-, o sea, la lucha de clases. Si bien la dinámica capitalista aún
no había acabado con las clases tal como existían a principios de siglo, y, por
consiguiente, el proletariado constituía todavía una fuera histórica a
considerar, aunque no en todas partes, era muy visible el proceso de
racionalización que había modificado considerablemente el esquema clasista. Al
calor del desarrollo estatal y tecnológico se desarrollaban nuevas clases, el
proletariado perdía fuelle y crecía el papel del Estado. Encima, las luchas por
la liberación de las naciones oprimidas, al desplazar la lucha de clases
arrastraban a Marx por el estercolero del nacionalismo. Bajo una óptica
tercermundista contraria al internacionalismo, los explotados no eran los
mismos en todas partes y el Capital resultaba también menos dañino en unos
países que en otros, algo que en opinión de Agustín tocaba a los oprimidos
contradecir, pero sin conformarse con medias tintas y no “multiplicar los
reinos de las sucesivas epifanías del Señor.”
Agustín insistía en la convergencia del Capital y el Estado, que estaba
dando lugar a un nuevo capitalismo -ya denunciado por Bruno Rizzi en lo que
respecta a la sociedad soviética y por Friedrich Pollock y Franz Neumann,
teóricos de la Escuela de Frankfurt- y por lo tanto, a una transformación de
las clases y la naturaleza de la opresión. El capitalismo de Estado,
totalitario o “democrático”, que venía a sustituir a su forma liberal, se caracterizaba
por una regulación burocrática de los mercados y un control estatal de los
movimientos de capital. Responsable de una primera desmaterialización del
Dinero, ya no basado en un patrón cualquiera, sino en la autoridad del Estado.
El Estado se volvía más atractivo si cabe para el marxismo vulgar, pero para
Agustín, la conquista política del Estado no suprimía la contradicción entre
gobernantes y gobernados, ni eliminaba la explotación, pues cualquier forma de
Poder constituido –cualquier Estado- era una forma de Capital. Estado y Capital
eran dos caras de lo mismo, la pública y la privada, imposibles de destruir por
separado. Hoy, cuando ambos han entrado en la fase neoliberal, las cosas son
mucho peores, pues el Dinero –el Poder, la Realidad, el Todo- se fundamenta en
el crédito y la fe en la Banca Privada, mientras el Estado queda al margen,
cumpliendo las funciones altamente desarrolladas de ejecutor de sus
directrices, gendarme y carcelero.
El enorme rearme
del Estado ha vuelto casi pueriles las agudas advertencias de Agustín. Visto
desde la distancia, este sustancioso opúsculo se queda algo corto, tanto en la
degradación experimentada por el marxismo ideológico, como en la desintegración
del mayor logro de la civilización burguesa, a saber, el Individuo, inmerso en
las categorías -ideas o imágenes- estructurantes del capitalismo. Las
observaciones finales nos conducen a Freud, otro autor ponderado por nuestro
personaje, quien ironiza al afirmar que el alma es de naturaleza freudiana,
puesto que obedece a las pautas descritas por el psicoanálisis. De igual
manera, el alma es marxista, puesto que se comporta según las reglas de la
economía descritas por Marx. Finalmente, Agustín, y eso es lo más importante,
se siente obligado a confiar en que sus apotegmas a propósito de los aciertos
de Marx y las aberraciones del marxismo no funcionarán a menos que parezcan
salidos de la voz anónima de los miserables de la tierra, del pueblo que no
existe como componente positivo de la Realidad, del común que siempre dice
“no”.
Miguel Amorós, 11 de mayo de 2022.