mercoledì 6 novembre 2024

DECOMPOSIZIONE ASSOLUTA AD ALTI LIVELLI - Miguel Amorós

 


Il disastro causato dalle inondazioni causate dalla “goccia fredda” del 29 ottobre scorso, soprattutto nella parte meridionale dell’area metropolitana valenciana, non ha nulla di naturale. Nella genesi e nello sviluppo della più grande catastrofe avvenuta nella zona, sono confluite quattro cause innaturali, strettamente intrecciate nel modo di abitare, lavorare e gestire la cosa pubblica in un regime capitalista. La prima causa, di origine industriale, è il riscaldamento globale generato dall’emissione di gas serra da parte delle fabbriche, degli impianti di riscaldamento e dei veicoli, causa di fenomeni meteorologici estremi come la d.a.n.a. La seconda, di carattere politico, è la colpevole incompetenza dell'amministrazione statale e regionale, la cui irresponsabile passività e negligenza potrebbe essere tacciata di omicida. La terza, di carattere economico e sociale, è la completa suburbanizzazione della periferia agraria della città di Valencia, cioè la conversione dei comuni di La Huerta in un grande sobborgo-dormitorio e in un polo polivalente logistico, commerciale e industriale. La quarta, conseguenza della precedente, è la motorizzazione generalizzata della popolazione suburbana, obbligata dalla netta separazione che la società di sviluppo ha attuato tra luoghi di lavoro e di residenza.

 

Il riscaldamento globale dovuto al colossale consumo di combustibili fossili da parte dell’attività industriale e della circolazione è stato chiamato “mutamento climatico” dai leader per mascherarne la natura economica. I maquillage ecologici cui ha dato origine l’apparente opposizione delle élite all’aumento della temperatura globale hanno promosso un capitalismo “verde” di scarso effetto nei dintorni delle metropoli, plasmate da un urbanismo selvaggio e da infrastrutture stradali avvolgenti che rendono inoperanti anche le misure più puerili di “de carbonizzazione” (punti di ricarica elettrica, miglioramenti del paesaggio, uso di biciclette, ecc.). Quale sostenibilità può realizzarsi in spazi metropolitani per natura insostenibili? 

 

La plebaglia dominante e la classe politica in generale non sono assolutamente inette in tutti i settori, al contrario, sono abbastanza abili quando si tratta dei loro interessi, chiaramente estranei agli interessi della popolazione che amministrano. La professionalizzazione della gestione del potere ha creato esseri con una psicologia speciale, molto concentrati sulla disputa partitica per parcelle di autorità e con una mancanza di senso della realtà così grande da permettere al loro lato più cialtrone e imbroglione di emergere spudoratamente, consegnando involontariamente allo spettacolo un'immagine di parassiti e di truffatori. Nessuno merita un tal tipo di politici, nemmeno quelli che li votano, ma visto il modo in cui funzionano il sistema dei partiti e i media, non se ne possono avere di altro tipo.

Attualmente l'area metropolitana di Valencia, la AMV degli assassini del territorio, conta quasi un milione di persone, in maggioranza lavoratori, che superano la popolazione della stessa capitale. Questa concentrazione demografica è un fatto dinamico, di origine relativamente recente. Dagli anni Sessanta del secolo scorso si scatenò un triplice processo d’industrializzazione estensiva, urbanizzazione incontrollata e regressione agricola, attraverso il quale la periferia urbana divenne un polo economico di prima importanza, un paradiso per i promotori immobiliari e un’importante fonte di posti di lavoro. La società di sviluppo della peggior specie. Nel caso in questione, i comuni di Horta Sud, che nel 1950 insieme superavano appena i centomila abitanti, oggi, nel 2024, diventati ormai satelliti proletarizzati, raggiungono il mezzo milione. Solo una cittadina come Torrent conta più di 90.000 abitanti. La regione ospita anche 27 poligoni industriali e tre grandi aree commerciali. È attraversata dalla rambla di Chiva, o dal Poio, un torrente che raccoglie contributi della società di sviluppo e scarichi inquinanti di ogni genere, e che sfocia nell'Albufera. Inutile dire che i rendimenti pecuniari del commercio immobiliare hanno riempito molti di loro, mentre edifici, magazzini, strade e persino frutteti erano sparsi nelle zone soggette a inondazioni, e quelli con la concezione più assurda occupavano i bordi o addirittura parti dellalveo poco curato della rambla principale, che raccoglieva l'acqua della Foya de Buñol. Curiosamente, la città di Valencia è stata salvata dall'alluvione grazie alla deviazione canalizzata del Turia realizzata ai tempi di Franco, garantendo una divisione geografica “di classe” che le tangenziali e i corridoi dell'AVE non hanno fatto altro che riaffermare. Da un lato la Valencia gentrificata, quella dei turisti, degli uomini d'affari e dei funzionari, con i prezzi delle case e degli affitti alle stelle; dall'altro, le escrescenze metropolitane prive di servizi pubblici efficaci, abitate prevalentemente da gente modesta e con mezzi limitati. Semplificando: la Valencia delle classi post-borghesi e la non-Valencia delle classi popolari.

 

La crescita dell’AMV ha scoperto problemi di connettività tra periferia e centro, costringendo a una mobilità poco assistita da autobus, metropolitane e treni. Inoltre il collegamento tra comuni è quasi nullo. Nella periferia-dormitorio si vive di fronte alla capitale, non di fronte al vicino. Di conseguenza, la conversione del lavoratore suburbano in un automobilista frenetico è obbligatoria: l’auto è la protesi necessaria del proletariato postmoderno. È uno strumento di lavoro la cui manutenzione è a carico del lavoratore. Il risultato è che tre quarti dei 2,7 milioni di spostamenti giornalieri nell'area metropolitana, sono effettuati con veicoli privati. Il parco auto è ormai impressionante: nel 2022, più di un milione di auto, furgoni e camion erano parcheggiati sull'AMV, e quasi 500.000 erano parcheggiati nella stessa Valencia. Tra 50 e 60 veicoli ogni cento abitanti. Non sorprende quindi che le automobili siano state le macchine più danneggiate dall“inondazione” – 44.000 – e che il loro accumulo ovunque sembri così impressionante.

 

“Solo il popolo salva il popolo” è uno slogan spontaneo che ha fatto fortuna all’inizio della tragedia. La totale assenza di reazione amministrativa è stata felicemente compensata dalla presenza di migliaia di volontari arrivati da tutta la Spagna che hanno svolto i compiti più urgenti: pulizia dal fango degli oggetti danneggiati, messa in salvo dei locali, assistenza agli anziani e malati, distribuzione di acqua e cibo... Adolescenti della capitale, insegnanti, vicini sinistrati, cuochi, vigili del fuoco, medici, infermieri, hanno improvvisato gruppi di lavoro, mense, farmacie mobili, punti di distribuzione, alloggi e perfino un ospedale da campo per rispondere alle emergenze del momento. Quando lo Stato ha fallito, quando la marmaglia burocratica che prende decisioni sbagliate si è sottratta alle colpe accusandosi a vicenda, quando le bufale hanno inondato i social network, sono emersi la società civile e il volontariato, senza altra motivazione che la solidarietà e l’empatia con le vittime. Le quali sono sopravvissute nei primi cinque giorni senza nessun altro aiuto oltre a quello. Il che ci porta a credere che non appena il popolo si auto-organizza e si libera dagli ostacoli in condizioni meno estreme, lo Stato e la classe politica diventano superflui. Nessuno ne ha davvero bisogno. Lorrore, la disumanità e la politica tenebrosa vanno di pari passo. Anche seguendo i parametri di verità tipici della società dello spettacolo, questa malvagia confraternita si mostra reale, visto che è apparsa in televisione.

 Miguel Amorós

Appunti per la mia partecipazione al programma Contratertulia trasmesso da Ágora Sol Radio, il 5 novembre


DESCOMPOSICIÓN ABSOLUTA A NIVELES ALTOS

 

El desastre causado por las inundaciones provocadas por la “gota fría” del 29 de octubre pasado, especialmente en la parte sur del Área Metropolitana Valenciana, no tiene nada de natural. En la génesis y desarrollo de la mayor catástrofe habida en la zona han confluido cuatro causas antinaturales muy imbricadas en los modos de habitar, trabajar y administrar la cosa pública bajo un régimen capitalista. La primera, de origen industrial, es el calentamiento global generado por la emisión de gases de efecto invernadero de las fábricas, calefacciones y vehículos, causante de fenómenos meteorológicos extremos como la d.a.n.a. La segunda, de carácter político, es la incompetencia culpable de la administración estatal y autonómica, cuya irresponsable pasividad y negligencia podría tacharse de homicida. La tercera, de características económicas y sociales, es la suburbanización completa de la periferia agraria de la ciudad de Valencia, o sea, la conversión de los municipios de la Huerta en un gran suburbio-dormitorio y en una zona poligonera logística, comercial e industrial. La cuarta, consecuencia de la anterior, es la motorización generalizada de la población suburbial, forzada por la tajante separación que el desarrollismo ha implantado entre los lugares de trabajo y de residencia.

 

El calentamiento global debido a la quema colosal de combustibles fósiles por parte de la actividad industrial y la circulación, ha sido llamado “cambio climático” por los dirigentes para disimular su naturaleza económica. Los maquillajes ecológicos a que ha dado lugar la aparente oposición de las élites al aumento global de temperatura han promocionado un capitalismo “verde” de poco efecto en las coronas de las metrópolis, modeladas por un urbanismo salvaje y unas infraestructuras viarias envolventes que vuelven inoperantes incluso las medidas “descarbonizadoras” más pueriles (puntos de recarga eléctrica, ajardinamientos, uso de bicicletas, etc). ¿Qué sostenibilidad puede darse en espacios metropolitanos insostenibles por esencia? 

 

La gentuza gobernante y la clase política en general no es absolutamente inepta en todos los terrenos, al contrario, es bastante capaz en lo que concierne a sus propios intereses, ajenos claro está a los intereses de la población que administran. La profesionalización de la gestión del poder ha fabricado seres con una psicología especial, muy centrada en la disputa partidista por parcelas de autoridad y con una falta de sentido de la realidad tan grande que permite aflorar sin pudor su lado más canalla y fullero, librando involuntariamente al espectáculo una imagen de parásito y estafador. Nadie se merece ese tipo de políticos, ni siquiera los que les votan, pero dada la manera de funcionar el sistema de partidos y los medios de comunicación, no pueden haber de otra clase.

 

En la actualidad, el área metropolitana de Valencia, la AMV de los asesinos del territorio, apelotona a cerca de un millón de personas, mayoritariamente trabajadores, sobrepasando la población de la misma capital. Esta concentración poblacional es un hecho dinámico, de origen relativamente reciente. A partir de los años sesenta del pasado siglo se desencadenó un proceso triple de industrialización extensiva, urbanización descontrolada y regresión agrícola, por el cual la periferia urbana se convirtió en un foco económico de primera magnitud, paraíso de los promotores inmobiliarios e importante fuente de empleos. Desarrollismo de la peor especie. Para el caso que nos ocupa, los municipios de la Horta Sud, que en 1950 apenas superaban todos juntos los cien mil habitantes, hoy, en 2024, ya satelizados y proletarizados, alcanzan el medio millón. Solamente un pueblo como Torrent, sobrepasa los 90.000 habitantes. La comarca alberga además 27 polígonos industriales y tres grandes superficies comerciales. Es atravesada por la rambla de Chiva, o del Poio, una torrentera que recoge aportaciones de Desarrollismo y toda clase de vertidos contaminantes, yendo a parar a la Albufera. Ni qué decir tiene que los rendimientos pecuniarios del negocio inmobiliario colmataron a muchos de ellos, mientras edificios, naves, calles e incluso huertos se repartían por las zonas inundables, y los de concepción más insensata ocupaban los bordes o incluso partes del mal cuidado cauce de la rambla principal, que recogía aguas de la Foya de Buñol. Curiosamente, la ciudad de Valencia se ha salvado de la riada gracias al desvío canalizado del Turia construido en tiempos de Franco, garantizando una división geográfica “de clase” que las autopistas de circunvalación y los corredores del AVE no han hecho más que reafirmar. A un lado, la Valencia gentrificada, la de los turistas, hombres de negocios y funcionarios, con el precio de la vivienda y el alquiler por los cielos; al otro, las excrecencias metropolitanas carentes de servicios públicos eficaces, habitadas mayoritariamente por gente modesta de medios escasos. Simplificando: la Valencia de las clases posburguesas y la no-Valencia de las clases populares.

 

El crecimiento de la AMV destapó problemas de conectividad entre el extrarradio y el centro, obligando a una movilidad deficientemente asistida por autobuses, metro y trenes. Además, la conexión entre municipios es casi nula. En la periferia-dormitorio se vive de cara a la capital, no de cara al vecino. En consecuencia, la conversión del trabajador de las afueras en automovilista frenético es obligatoria: el coche es la prótesis necesaria del proletariado posmoderno. Es un instrumento de trabajo cuyo mantenimiento corre de su cuenta. Como resultado, de los 2’7 millones de desplazamientos diarios que hay en la corona metropolitana, las tres cuartas partes se hacen en vehículo privado. El parque de automóviles es ahora impresionante: en 2022 por la AMV aparcaban más de un millón de turismos, furgonetas y camiones, y cerca de 500.000 lo hacían en la propia Valencia. Entre 50 y 60 vehículos por cada cien habitantes. No sorprende entonces que los coches hayan sido las máquinas más siniestradas por la “barrancada” -44.000- y que su amontonamiento por todas partes parezca tan impresionante. 

 

“Solo el pueblo salva al pueblo” es un eslogan espontáneo que ha hecho fortuna al comienzo de la tragedia. La ausencia total de reacción administrativa había sido felizmente suplida por la presencia de miles de voluntarios llegados de cualquier parte de España que realizaron las tareas más urgentes: limpieza de barro y enseres estropeados, achique de locales, atención a ancianos y enfermos, reparto de agua y alimentos... Adolescentes de la capital, enseñantes, vecinos afectados, cocineros, bomberos, médicos, enfermeros, improvisaron grupos de trabajo, comedores, farmacias ambulantes, puntos de reparto, alojamiento y hasta un hospital de campaña para responder a las urgencias del momento. Cuando el Estado fallaba, cuando la chusma burocrática que toma decisiones equivocadas escurría el bulto acusándose unos a otros, cuando los bulos inundaban las redes sociales, emergía la sociedad civil, el voluntariado, sin más motivación que la solidaridad y la empatía con los damnificados. Los primeros cinco días estos han sobrevivido sin más ayuda que la de aquél. Lo que nos induce a creer que a poco que el pueblo se autoorganice y se libere de trabas en condiciones menos extremas, el Estado y la clase política sobran. Realmente nadie los necesita. El horror, la inhumanidad y la política parda van de la mano. Incluso según los parámetros de verdad típicos de la sociedad del espectáculo, esa confraternidad malhechora es real, puesto que ha salido por la tele.

 

Miguel Amorós

Notas para mi participación en el programa Contratertulia que emite Ágora Sol Radio, habido el 5 de noviembre.

 

sabato 2 novembre 2024

BREVE NOTA SULLA TURISTIZZAZIONE COMPULSIVA di Miquel Amorós

 






 

La turistizzazione o turistificazione è il processo di trasformazione incontrollata dei luoghi costieri, rurali o urbani attraverso il loro collegamento al turismo di massa. Il lavoratore della società produttivista cerca la sua identità e il significato della vita non nel lavoro o negli hobby, ma nel tempo libero industriale, che abbonda nei centri disneyficati delle città. Quella che oggi viene ancora impropriamente chiamata città non è altro che la massima espressione del dominio del capitale sullo spazio abitato in extenso. Sempre più spesso, inoltre, un tale capitale proviene dall’industria del tempo libero, cioè dal turismo. Da questo punto di vista, l’attuale slogan di protesta “La città è in vendita”, significa in termini esatti che gli agglomerati urbani, sottoposti a grandi flussi di visitatori, sono diventati un puro mercato immobiliare, spinto al limite, dove lo spazio è la merce, l’abitazione, un bene, mentre l'abitante è la fastidiosa eccezione. Tali agglomerati, mercificati da ogni parte, sono diventati estremamente nocivi e ostili per il vicinato stanziale, considerato poco redditizio. Si tratta di luoghi da visitare e fotografare, da comprare e vendere, ma non da vivere. Ciò che è redditizio adesso è ciò che non si ferma. La chiave del profitto è la temporalità breve, il movimento, e chi si muove più delle classi medie e operaie del Nord nei loro periodi di svago programmato? Infine, un aumento eccessivo della domanda di alloggi attraverso piattaforme virtuali ha attratto come una calamita investimenti speculativi di ogni tipo (soprattutto da parte di promotori nascosti dietro società temporanee, fondi avvoltoio e denaro nero); di conseguenza, il costo sproporzionato degli alloggi e gli alti prezzi degli affitti soprattutto nei centri storici e nei quartieri un tempo popolari delle conurbazioni dove si accumulano le visite e, soprattutto, l'espulsione della popolazione verso i ghetti periferici, hanno trasformato il problema dell’alloggio nella questione sociale per eccellenza. Per questi motivi il turismo urbano di massa, così legato alla speculazione, è stato messo nel mirino delle proteste di quartiere. Tuttavia, le proposte sottoposte a un’amministrazione produttivista che non ha la volontà di contraddire gli interessi che stanno alla base del mercato turistico e tanto meno di creare un’offerta sufficiente di affitti e di edilizia sociale, hanno il difetto d’ignorare che la valorizzazione compulsiva ed esponenziale del territorio urbano è una caratteristica tipica del capitalismo finanziario contemporaneo. Pertanto, le prospettive della lotta per un’edilizia rispettosa dei metodi capitalisti non sono molto promettenti. La critica dell'industria del turismo su cui s’intende basarsi deve tenere maggiormente conto delle forme particolarmente devastanti del capitalismo nella sua fase tardiva.

 


Il turismo è il fenomeno più caratteristico della predazione culturale e sociale della società capitalista globalizzata e la quarta industria dell’economia mondiale. Questa “industria senza fumo” è quindi un settore strategico di prim’ordine, per cui gli interessi acquisiti sono quasi impossibili da sradicare. Le stesse persone che ner sono vittime dipendono in gran parte da loro. Quando i turisti sbarcano, non si può più tornare indietro. Dagli anni Sessanta del secolo scorso, l’economia spagnola ha seguito un modello di sviluppo sostenuto quasi esclusivamente dall’edilizia a ruota libera e dal turismo di massa, al quale è stato dedicato un ministero. Il cambio di regime non ha portato all’abbandono del modello, anzi il governo “democratico” ne ha incoraggiato l’estensione all’intero Paese. Nonostante siano evidenti, ancora oggi, l'inquinamento, il degrado ambientale, la banalizzazione del territorio, la museificazione dei centri antichi, la distruzione del tessuto sociale dei quartieri e delle città, i lavori di merda, la proliferazione della cultura trash, ecc ormai per la classe dirigente, che lo si esprima per bocca di imprenditori, esperti o politici, il turismo continua a essere la risposta a tutti i problemi, una sorta di salvagente; come durante il regime franchista, è considerato come il “passaporto per lo sviluppo”.

Dopo l’impunità dei successivi tsunami immobiliari, appare che l’obiettivo dichiarato di ogni amministrazione, indipendentemente dal suo colore politico o ecologico, consiste nel porre il Paese, la comunità autonoma o il comune, come “leader di destinazione”, esprimendo al massimo una fonte di reddito per pochi sempre più importante. Da più di sessant'anni, cioè dal momento del decollo, non ce n'è mai stato altro. Rispetto alla tradizionale attività agricola, commerciale o industriale, in via di sparizione, l'attività turistica rappresenta il modo più veloce per ottenere enormi profitti con un investimento minimo. Di fronte ad ogni crisi globale – nel 1973, 1992, 2008, 2020 – si riafferma la mentalità dello sviluppo e la specializzazione turistica, ormai con le dovute considerazioni prive di sostenibilità, avanza a passi da gigante nell’Europa meridionale e in particolare nella penisola iberica. Alla fine del secolo, le nuove leggi fondiarie e la riforma della Legge sui litorali tradussero la nuova normativa del tutto edificabile, mentre i voli low cost rendevano i viaggi accessibili a tutte le tasche. Alla fine del percorso legislativo, tutto era suscettibile di essere catturato da promotori speculativi e convertito in merce turistica: tutto diventava turismo. Il turismo ha trasformato la scena sociale in un proprio spazio, dando origine a una forma di gentrificazione più cannibalistica.

 

La differenziazione tra aree d’invio e di accoglienza dei turisti è dovuta a una divisione internazionale dell’attività economica: finanza, tecnologia e mobilità da un lato, evasione e intrattenimento industrializzato dall'altro. Tra gli strati sociali modesti – dipendenti pubblici, impiegati, operai, studenti, pensionati – si espande uno stile di vita iperconsumistico dedito allo spostamento ossessivo, negli altri, convertiti in “destinazioni”, la de-capitalizzazione delle attività tradizionali costringe all’immersione nel mercato del lavoro volatile e mal retribuito creato dall’ondata barbarica invasiva. Ogni volta che il turismo s’impone in un territorio, sia esso urbano o rurale, l’economia, la politica e le abitudini che vi prevalevano fino ad allora vengono destrutturate, lasciandolo immerso in un’industria globale che le vecchie élite non controllano più. Inizia una situazione di dipendenza economica che tende all'assoluto, mentre si accelera il trasferimento sub culturale di comportamenti importati, più efficace quanto più questi sono mediocri e febbrili. In questo senso possiamo dire che il turismo di massa è allo stesso tempo degradante e neocolonialista. Lasciamo da parte la storia della turistizzazione del Mediterraneo, dal primitivo impulso alberghiero degli anni '60 del secolo scorso e la costruzione di isolati residenziali negli anni '80 – epoca dell'ascesa postfordista delle classi medie europee – passando attraverso le diverse modalità con cui la crescita del settore ha portato all'accelerazione della fine degli anni '90 dovuta al modello low cost – momento di radicale “democratizzazione” dell'attività: turismo rurale, verde, cittadino, crocieristico, religioso, congressuale, dell'ubriachezza, gastronomico, sportivo, ecc. Ci concentreremo sull’ultima fase della turistizzazione, quella più nociva, ovvero il turismo urbano.

 

Il turismo urbano si è sviluppato in modo preoccupante dalla crisi del 2008, quando il turismo “sole e spiaggia” ha raggiunto il suo apice e il relax delle vacanze ha lasciato il posto a “nuovi prodotti turistici”, soprattutto quelli basati sullo scatto sfrenato di selfie con cui creare un’identità virtuale. Contemporaneamente, i portali digitali debuttano con un turismo “collaborativo”, che presto si rivela come uno schermo per i fondi d’investimento internazionali che si rifugiano nelle aree a tema parco delle metropoli con il loro patrimonio confezionato, la nuova materia prima dell’industria. Quest’ultima fase è segnata dalla digitalizzazione, che facilita molto l’organizzazione individuale del viaggio in tempo reale mentre la permanenza di una folla festante si ripercuote sui social network. In brevissimo tempo si passa da un’economia di servizi vari a una monocultura industriale netta, sfruttata principalmente attraverso piattaforme e applicazioni. La domanda di alloggi esplode e le case in affitto vengono “hotelizzate”, o più chiaramente diventano pensioni. Questa trasformazione del consueto appartamento residenziale in ostello turistico toglie dal mercato una quantità di alloggi di tal entità che gli effetti sul prezzo sono letali. Il modo di vivere è profondamente modificato man mano che le conurbazioni si articolano attorno al turismo di massa e all’accaparramento immobiliare, rendendo lo spazio urbano inaccessibile per la popolazione lavoratrice. Allo stesso tempo, l’“urbanizzazione” o la de-naturalizzazione della città si è diffusa poiché la popolazione nativa è stata espulsa dai quartieri originari. Tuttavia, i primi sintomi di turismo-fobia si sono manifestati solo nel 2017, quando la sovra saturazione dei visitatori nei servizi, nei trasporti e nei luoghi pubblici è diventata più che palpabile e il deterioramento del patrimonio collettivo e lo svuotamento dei quartieri sono diventati irreversibili. Inoltre, il cambiamento climatico, favorendo la destagionalizzazione del turismo – obiettivo della classe politico-imprenditoriale autoctona – ha esteso gli effetti della massificazione ben oltre l’estate. Tuttavia, il grande squilibrio tra domanda e offerta, responsabile di un eccesso senza precedenti di capacità di trasporto turistico, si è verificato quando la pandemia è stata superata. La valanga di stranieri e nazionali ha spinto una parte considerevole dei capitali nel mercato degli affitti, mentre un diritto costituzionale fortemente concordato è rimasto lettera morta. Una nuova tappa della turistizzazione peninsulare lascia alle spalle i vecchi modelli di sviluppo che ipocritamente lottavano per un turismo di “qualità” elitista, manifestandosi invece come dichiarato sostegno della massima suburbanizzazione delle classi popolari.

 

Il turismo è per ora il motore dell'economia spagnola e tutto indica che continuerà a esserlo in futuro. Fattore di maggior peso nella bilancia dei pagamenti, negli investimenti e nell'accumulazione di capitali, ha dietro di sé potenti interessi tentacolari, particolarmente radicati nella finanza e nello Stato. Qualsiasi lotta che proponga una regolamentazione restrittiva del fenomeno turistico, una “decrescita” o un ripopolamento dei centri urbani, deve sapere che si trova di fronte al capitalismo più corsaro, all’amministrazione più sottomessa e allo Stato più incondizionato. Di conseguenza, deve mettere in atto una strategia antistatale e anticapitalista il cui asse è la questione dell’affitto. Ovviamente i contestatori devono appropriarsi del vecchio spazio pubblico e agire a partire da esso. Giocare sul proprio terreno. Tutto il resto sarà fatto di posture e discorsi del tipo “turismo responsabile”, “pianificazione sostenibile dello spazio turistico” o “gestione equilibrata delle risorse per il turismo”.

 

Miquel Amorós, 1 novembre 2024



BREVE APUNTE SOBRE LA TURISTIZACIÓN COMPULSIVA

 

Turistización o turistificación es el proceso de transformación descontrolada de lugares costeros, rurales o urbanos mediante su vinculación al turismo de masas. El asalariado de la sociedad desarrollista busca su identidad y el sentido de la vida no en el trabajo o las aficciones, sino en el ocio industrial, que abunda en los centros disneyficados de las ciudades. Lo que hoy impropiamente se sigue llamando ciudad no es más que la máxima expresión del dominio del capital en el espacio habitado in extenso. Y cada vez con mayor frecuencia, dicho capital proviene de la industria del ocio, es decir, del turismo. El actual eslogan contestatario de “La ciudad está en venta”, bajo esa óptica, significa en términos exactos que las aglomeraciones urbanas sometidas a grandes flujos de visitantes, se han convertido en puro mercado inmobiliario, tensionado al límite, donde el espacio es la mercancía, la vivienda, un activo, y el habitante, la molesta excepción. Tales aglomerados, mercantilizados por todos lados, se han vuelto extremadamente nocivos y hostiles al vecindario fijo, considerado poco rentable. Son lugares para visitar y fotografiar, para comprar y vender, pero no para vivir. Lo rentable ahora es lo que no para quieto. La clave de la ganancia es la temporalidad breve, el movimiento, y ¿quién se mueve más que las clases medias y trabajadoras del Norte en sus periodos de ocio programado? En fin, un excesivo aumento de la demanda de hospedaje a través de plataformas virtuales ha atraído como un imán a inversiones especulativas de todo tipo (especialmente de promotores ocultos tras empresas temporales, de fondos buitre y de dinero negro); como consecuencia, el desmesurado importe de la vivienda y el elevado precio de los alquileres -especialmente en los centros históricos y los barrios antaño populares de las conurbaciones donde se acumulan las visitas- y por encima de todo, la expulsión de la población hacia guetos periféricos, han convertido el problema habitacional en la cuestión social por excelencia. Por esos motivos, el turismo de masas urbano, tan ligado a la especulación, se ha visto colocado en el punto de mira de las protestas vecinales. Sin embargo, las propuestas elevadas a una administración desarrollista sin voluntad de contrariar los intereses que subyacen en el mercado turístico y menos aún, de crear una oferta suficiente de alquiler y vivienda social, pecan de ignorar que la valorización compulsiva y exponencial del suelo urbano es un rasgo típico del capitalismo financiero contemporáneo. Así pues, las perspectivas de la lucha por la vivienda respetuosas con los modos capitalistas son poco halagüeñas. La crítica de la industria turística en la que pretende basarse ha de tener más en cuenta las formas especialmente devastadoras de capitalismo en su fase tardía.

 

El turismo es el fenómeno de depredación cultural y social más característico de la sociedad capitalista globalizada y la cuarta industria de la economía mundial. Esta “industria sin humo” es pues un sector estratégico de primer orden, por lo cual los intereses creados son casi imposibles de erradicar. Los mismos afectados en gran medida dependen de ellos. Cuando desembarcan los turistas, no hay vuelta atrás. Desde los años sesenta del siglo pasado, la economía española ha seguido un modelo desarrollista apoyado casi exclusivamente en la construcción a mansalva y el turismo de masas, al que se consagraba un ministerio. El cambio de régimen no acarreó el abandono del modelo, antes bien el gobierno “democrático” propició su extensión a todo el país. A pesar de resultar evidentes la contaminación, la degradación del medio ambiente, la banalización del territorio, la museificación de los centros antiguos, la destrucción del tejido social de barrios y pueblos, los trabajos de mierda, la proliferación de la cultura basura, etc., a día de hoy, para la clase dirigente, tanto si se expresa por boca de empresarios, de expertos o de políticos, el turismo continúa siendo la respuesta a todos los problemas, una especie de salvavidas, y, como durante el franquismo, es tenido por el “pasaporte al desarrollo”. Tras la impunidad de los sucesivos tsunamis inmobiliarios, aparece el objetivo confeso de toda administración, cualquiera que sea su color político o ecológico, que consiste en posicionar el país, la comunidad autonómica o el municipio, como “destino-líder”, exprimiendo al máximo una fuente de ingresos para pocos cada vez más importante. Desde hace más de sesenta años, o sea, desde la época del despegue, nunca ha sido otro. Frente a la tradicional actividad agraria, comercial o industrial, en vías de desaparición, el negocio turístico se yergue como la manera más rápida de obtener pingües beneficios con una mínima inversión. Ante cada crisis global -en 1973, 1992, 2008, 2020- la mentalidad desarrollista se reafirma y la especialización turística, ahora con las debidas consideraciones vacías a la sostenibilidad, avanza a pasos agigantados en el sur de Europa, y en particular, en la Península Ibérica. Al acabar el siglo, las nuevas leyes del suelo y la reforma de la Ley de Costas traducían la nueva norma del todo edificable, mientras que los vuelos low cost ponían el viaje al alcance de todos los bolsillos. Al final del recorrido legislador, cualquier cosa era susceptible de ser capturada por promotores especuladores y convertida en mercancía turística: todo se volvía turismo. El turismo transformaba el escenario social en espacio suyo, dando lugar a una forma más caníbal de gentrificación.

 

La diferenciación entre zonas emisoras y zonas receptoras de turistas obedece a una división internacional de la actividad económica: finanzas, tecnología y movilidad por un lado, evasión y entretenimiento industrializado por el otro. En unas se expande en las capas sociales modestas -funcionarios, oficinistas, obreros, estudiantes, jubilados- un estilo de vida hiperconsumista y adicto al desplazamiento obsesivo; en las otras, convertidas en “destinos”, la descapitalización de las actividades tradicionales obliga a la inmersión en el mercado del trabajo volátil y mal pagado creado por la oleada bárbara invasora. Siempre que el turismo se impone en un territorio, urbano o campestre, se desestructura la economía, la política y los hábitos que imperaban hasta entonces en él, quedando este inmerso en una industria global que la viejas élites ya no controlan. Empieza una situación de dependencia económica que tiende a lo absoluto, al tiempo que se acelera el trasvase subcultural de conductas importadas, más efectivo cuando más mediocres y febriles sean aquellas. En ese sentido podemos decir que el turismo de masas es a la vez degradante y neocolonialista. Dejaremos de lado la historia de la turistización del Mediterráneo, desde el primitivo impulso hotelero de los años 60 del siglo pasado y la construcción de bloques residenciales de los 80 -momento del auge posfordista de las clases medias europeas- pasando por las diferentes modalidades que el crecimiento de la industria ha dado lugar por la aceleración de finales de los 90 debida al modelo low cost -momento de la “democratización” radical de la actividad: turismo rural, verde, de adosados, de cruceros, religioso, de congresos, de borrachera, gastronómico, deportivo, etc. Nos centraremos en la última fase de la turistización, la más nociva, a saber, el turismo urbano.

 

El turismo urbano se desarrolla de forma preocupante a partir de la crisis de 2008, cuando el turismo de “sol y playa” ha tocado techo y la relajación vacacional cede plaza a “nuevos productos turísticos”, especialmente los basados en la realización desenfrenada de selfies con los que confeccionar una identidad virtual. Simultáneamente, los portales digitales debutan con un turismo “colaborativo”, que pronto se revela como pantalla de fondos de inversión internacionales refugiándose en las áreas parquetematizadas de las metrópolis con su patrimonio empaquetado, la nueva materia prima de la industria. Esta última fase viene marcada por la digitalización, que facilita enormemente en tiempo real la organización individual del viaje y la estancia de una multitud jaranera afecta a las redes sociales. Se produce en muy poco tiempo el tránsito de una economía de servicios varios a un monocultivo industrial neto explotado principalmente a través de plataformas y aplicaciones. La demanda de alojamiento se dispara y la vivienda de alquiler se “hoteliza”, o más claramente se convierte en hospedería. Esta reconversión del piso residencial de siempre en albergue de turistas sustrae del mercado una cantidad de alojamientos de tal magnitud que los efectos sobre el precio son letales. La forma de habitar se modifica profundamente a medida que las conurbaciones se articulan alrededor del turismo masivo y del acaparamiento inmobiliario, volviéndose el espacio urbano inasequible para la población trabajadora. A su vez, la “urbanalización” o desnaturalización de la urbe se ha ido generalizando a medida que la población autóctona iba siendo expulsada de sus barriadas originales. Aún así, los primeros síntomas de turismofobia no se produjeron hasta 2017, cuando se hacía más que palpable la sobresaturación de visitantes en los servicios, el transporte y los lugares públicos, y se hacía irreversible el deterioro del patrimonio colectivo y el vaciado de los barrios. Además, el cambio climático, al favorecer la desestacionalización del turismo -la meta de la clase político-empresarial nativa- extendía los efectos de la masificación mucho más allá del veraneo. Sin embargo, el gran desajuste entre oferta y demanda responsable de un desbordamiento sin precedentes de la capacidad de carga turística, ocurrió al superarse la pandemia. La avalancha de foráneos y nacionales empujó a una parte considerable de capitales al mercado del alquiler; mientras tanto, un derecho constitucional muy consensuado quedaba en letra muerta. Una nueva etapa en la turistización peninsular deja atrás a los viejos modelos desarrollistas que pugnaban hipócritamente por un turismo “de calidad” elitista, mientras se manifiesta como partidaria declarada de la máxima suburbanización de las clases populares.

 

El turismo es por ahora el motor de la economía española y todo indica que lo seguirá siendo en el futuro. Factor de mayor peso en la balanza de pagos, en la inversión y en la acumulación de capitales, tiene detrás poderosos intereses tentaculares, particularmente muy arraigados en las finanzas y el Estado. Cualquier lucha que se plantee una regulación restrictiva del fenómeno turístico, un “decrecimiento” o una repoblación de los centros urbanos, ha de saber que tiene enfrente al capitalismo más corsario, a la administración más sumisa y al Estado más incondicional. Por consiguiente, ha de desplegar una estrategia antiestatal y anticapitalista cuyo eje sea la cuestión del alquiler. Como es obvio, los contestatarios han de apropiarse del antiguo espacio público y actuar desde él. Jugar en su propio terreno. Todo lo demás será pose y palabrería del estilo “turismo responsable”, “planificación sostenible del espacio turístico” o “gestión equilibrada de recursos para el turismo.”

 

Miquel Amorós, 1 de noviembre de 2024.

  

 





 


 

mercoledì 2 ottobre 2024

Anarchismo teorico e ideologia anarchica di Miguel Amorós

 





Anarchismo teorico e ideologia anarchica

Continuando il dialogo con compagni illuminanti, ecco la mia traduzione di un testo del 2008, ma tuttora attuale, di Miguel Amorós sul tema dell’anarchia, in particolare nel contesto spagnolo.

Colgo parallelamente l’occasione per comunicare la prossima uscita in libreria (18 ottobre in Italia) del mio ultimo scritto: La falsificazione del mondo – Dalla società dello spettacolo alla tecnocrazia totalitaria, Ortica editrice, Roma 2024.

Sergio Ghirardi Sauvageon

 

Se la riflessione, il sentimento o qualunque altro aspetto adottato dalla coscienza soggettiva giudica vano l’esistente, va oltre di esso e cerca di conoscerlo in tal modo, cosicché si ritrova nel vuoto, e, poiché solo nel presente c'è la realtà, la coscienza risulta unicamente vanità.

Hegel, Filosofia del diritto

 

Le sconfitte sono propizie agli inventari con le loro inevitabili conclusioni; l'uccello di Minerva prende il volo a mezzanotte, ma non è meno sicuro che a causa delle sue ferite non sempre si alzi abbastanza in alto per posarsi vigile sui rami più alti, e resti spesso al livello del suolo, dibattendosi tra le erbacce. Le condizioni degli sconfitti, la profonda demoralizzazione della disfatta, le speranze impossibili alimentate da un esasperato istinto di sopravvivenza, contaminano la riflessione e le impediscono di prendere la necessaria distanza dai fatti che giudica per concludere oggettivamente e suggerire una nuova condotta storica. Qualcosa di simile accadde con l’anarchismo spagnolo dopo il 1939. Nell’esilio e la prigione degli anni Quaranta l’anarchismo si è dibattuto davanti allo stesso bivio che mezzo secolo prima si era presentato alla socialdemocrazia: riforma o rivoluzione. Una parte – e non la meno importante – sosteneva che l’anarchismo si fosse sempre mosso in modo negativo e che fosse giunto il momento di preoccuparsi delle creazioni positive e a breve termine, anche se di poca importanza, il che in qualche modo significava un cambiamento radicale di percorso. L'azione doveva essere orientata non allo scontro frontale contro il dominio, ma alla collaborazione politica ed economica con le sue istituzioni, com’era stato fatto durante la guerra civile rivoluzionaria e come si continuava a fare in esilio da sei anni. L'azione non doveva strappare il suo spazio alla borghesia ma piuttosto penetrare e svilupparsi nel suo territorio. Secondo l’alternativa riformista, l’anarchismo era accettabile come idea ma non come metodo, buono come “filosofia di vita”, non come prassi fondata sulla “comprensione del presente e del reale”: un ideale astratto separato dalla prosaica attività quotidiana che accompagnava solo come chimera decorativa. Come se gli ideali fossero “troppo eccellenti per godersi la realtà, oppure troppo impotenti per potersela offrire” e dovessero limitarsi “solo a dover essere senza esserlo effettivamente” (Hegel). Tuttavia, il problema per i revisionisti non era avere a che fare con “l’idea”, bensì con la realtà. E se nel difficile contesto del dopoguerra l’anarchismo rivoluzionario aveva pochissime possibilità di esercitarsi quando nel paese si pensava solo a sopravvivere, neanche il revisionismo dottrinale aveva molto spazio, e per questo si è concretizzato solo in diversi progetti di partito e in inutili compromessi con le istituzioni inoperanti dell'esilio o con il pretendente al trono, in programmi politici che perseguivano ora la costituzione borghese del 1931 ora la monarchia parlamentare, anche se c'era chi spingeva fino in fondo la sua logica, collaborando con il regime franchista.

Dal lato opposto, si sosteneva che la collaborazione istituzionale era stata frutto di circostanze eccezionali ed era stata un completo fallimento, contribuendo al disastro finale. Sarebbe stato molto meglio l’apoliticismo anche a costo dell’isolamento, perché, persi per persi, si sarebbe caduti con onore, in difesa delle proprie idee, non in difesa dello Stato. Per lottare per il ritorno alle “conquiste del 19 luglio”, si sarebbe imposto un ripristino dei “principi, delle tattiche e degli scopi” del movimento libertario. La frazione “purista”, compromessa quanto l’altra nella politica repubblicana, evitava di entrare nei dettagli sulle vere motivazioni di questa svolta a centottanta gradi nel suo comportamento organico, senza specificare come quelle conquiste si sarebbero evolute, o come quei principi sarebbero stati ripristinati. Non una parola sul funzionamento dei sindacati nella clandestinità di un regime totalitario, né sulla ripresa dell’azione diretta, sulla lotta antistatale e sull'insurrezione rivoluzionaria contro il franchismo. La nuova ortodossia non si sentiva disposta a rivedere criticamente la propria traiettoria politica e militare durante la guerra civile, né a calarsi nell’atroce realtà della dittatura. Per i “puri” l'azione non sembrava costituire un problema, poiché non si trattava di salvare la vita di qualcuno o di conquistare davvero qualcosa, ma di trincerarsi dietro ai principi, arsenale ben fornito da cui estrarre tutte le giustificazioni possibili. Se i principi finivano sopraffatti dalla realtà, tanto peggio per la realtà. Su un tale cammino l’anarchismo si attuava soltanto in retorica, inibizione e immobilità, e al massimo in qualche avventura insensata. Se nel revisionismo l'azione diventava sempre più repellente, nel purismo evaporava. Nell’uno l'idea si trasformava in paesaggio della politica borghese; nell'altro, saliva al cielo delle cause perse. Per alcuni l’anarchismo faceva parte di una sorta di morale privata con cui affrontare in un modo o nell’altro la volgarità della quotidianità politica; per gli altri costituiva una fede con cui consolarsi dei mali della terra, un credo da difendere dai suoi Giuda con un patriottismo da campanile. In entrambi i casi, un'ideologia.

L’anarchismo cessava dunque di essere l’espressione intellettuale del settore più avanzato del movimento operaio nella penisola, un prodotto della lotta di classe e una teoria di questa lotta. E non perché il suo contenuto non fosse più la realtà – in quel momento, la realtà della sconfitta, dell’arretramento e dell’annientamento del movimento operaio. Non c’era più bisogno di comprendere la realtà nella sua manifesta amara involuzione, per trovare il modo di agire su di essa e trasformarla conformemente ai suoi fini applicando i suoi metodi specifici. L'anarchismo è scomparso come forza materiale per diventare etichetta, catechismo, ghetto. Un'entità per metà chiesa e per metà partito. Cessava di essere un'idea fusa con una pratica che non la contraddiceva, ma anzi la sviluppava, una critica sociale radicata nelle condizioni materiali di esistenza del proletariato, per diventare qualcosa di triviale, accidentale, contingente e, quindi, propriamente irreale. Un’utopia, un sogno, un’illusione, qualcosa che non poteva servire gli interessi generali di classe.

La prima differenza tra l’anarchismo teorico – tra la riflessione concernente l’anarchismo – e l’ideologia anarchica, risiede nella separazione tra idea e pratica, fini e mezzi, coscienza e azione. L'ideologia è sia il potere separato delle idee sia le idee del potere separato. Nel caso spagnolo, le idee erano “i principi” o “le circostanze” secondo come si guardano le cose, mentre il potere separato era l’Organizzazione e le sue sedute plenarie, la routine burocratica con le lettere maiuscole. La seconda differenza risiede nella confusione della parte con il tutto, del momento con il processo, delle questioni tattiche con le linee strategiche, come dimostrano, per esempio, le ideologie municipaliste, primitiviste o insurrezionaliste. Il concetto d’ideologia deriva dal concetto di religione, materia la cui critica i giovani hegeliani consideravano “la prima condizione di ogni critica”. La religione, come l'ideologia in generale, è la coscienza invertita del mondo. Il mondo dell’ideologia è un mondo visto a rovescio, di fronte al quale bisogna capovolgersi per capirlo. La realtà, la verità di questo mondo, va trovata nella vita materiale concreta, nell'azione umana trasformatrice; in concreto, nel lavoro, non al di fuori di esso. Marx, in gioventù, chiamò ideologia tutto ciò che non era forza produttiva, tutto ciò che accadeva in margine all’economia senza riconoscergli un’origine economica. L'ideologia era costituita da fantasie con cui gli esseri umani, in una società non sufficientemente sviluppata, spiegavano le loro forze essenziali, le loro potenzialità. Essa nasceva dall'insoddisfazione di una prassi limitata, dovuta al fatto che il progresso tecnico-economico non aveva ancora raggiunto la totalità degli aspetti della vita. Secondo il punto di vista marxista, l’ideologia tenderebbe a scomparire con il pieno sviluppo delle forze produttive, cioè con lo sviluppo della forza principale, il proletariato, le cui condizioni oggettive di vita imporrebbero un realismo liquidatore delle fantasmagorie che allontanavano i lavoratori dalla loro vita autentica. La dissoluzione dei pregiudizi ideologici era per il lavoratore un'esigenza della sua realtà immediata. Estendendo questo ragionamento, alcuni discepoli di Marx (Plekhanov, Rosa Luxemburg, Maurín) caratterizzarono l'anarchismo come un'ideologia tipica di un proletariato non sufficientemente sviluppato. È molto facile costatare l’ingenuità che permea questo ragionamento, poiché è più vero che la generalizzazione della condizione proletaria si accompagna con uno sviluppo supremo dell’ideologia. Il mondo della merce e della tecnica autonoma è il mondo completamente a rovescio. Basterebbe l’esperienza del movimento operaio a dimostrare la sopravvivenza dell’ideologia, l’impostura delle false rappresentazioni che i burocrati organici elevavano facilmente sopra la vita proletarizzata. La critica dell'ideologia ha potuto essere completata grazie alla psicoanalisi, che è riuscita a collegarla a varie forme di degrado della personalità come la nevrosi caratteriale, la schizofrenia e la falsa coscienza in generale, spiegando fenomeni ideologici come il razzismo, l'autoritarismo o il militantismo.
In momenti e periodi dati, quando erano esempi viventi di un pensiero emancipatore, di una riflessione, per dirlo con parole di Proudhon, che veniva dall'azione e volgeva all'azione, in breve, quando erano momenti rivoluzionari, il marxismo e l'anarchismo hanno fornito al proletariato una sufficiente conoscenza della società tenendolo fuori dalla politica borghese, permettendogli di fare la storia. D'altra parte, le creazioni rivoluzionarie dei lavoratori, i comitati di fabbrica, i sindacati unici o i consigli operai, furono luoghi d'incontro tra le idee astratte e la pratica concreta, lo spazio in cui queste teorie diventavano veramente operaie e gli operai teorici. Altre volte e in altri periodi, quando sia il socialismo sia l’anarchismo divennero ideologie al servizio di fini spuri, quelli di una burocrazia parassitaria o di un comportamento evasivo e sottomesso, furono responsabili dell’oscuramento della loro coscienza di classe e dei falsi sentieri della loro condotta. E così, oggi, la critica dell'ideologia, religione secolarizzata, continua a essere la prima condizione di ogni critica.

Al culmine del capitalismo fordista, interrogarsi sulla validità degli insegnamenti di Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Reclus, Malatesta, Landauer o Berneri aveva poco senso. Nessuno poteva sapere fino a che punto fossero stretti i rapporti che esistevano tra lo sviluppo delle forze produttive, la colonizzazione della vita quotidiana e la controrivoluzione. I teorici anarchici dovevano essere considerati semplicemente come parte della coorte di precursori, fondatori e continuatori del pensiero socialista rivoluzionario, così come Marx, Engels, Rosa Luxemburg, Pannekoek, Reich, Benjamin o Fourier, per citarne solo alcuni. Particolarmente criticabili nel vecchio anarchismo sarebbero l'eccessiva fiducia nella spontaneità insurrezionale delle masse proletarie e contadine, le sue oscillazioni tra le tattiche ultralegaliste e la propaganda attraverso il fatto o le espropriazioni, la sua incapacità di allearsi con altri settori operai, la permanente tentazione politica, la mancanza di una strategia chiara, il confusionismo organizzativo, ecc. Qualsiasi tentativo di ristabilire una dottrina anarchica – un sistema – con brandelli d’idee decontestualizzate non sarebbe altro che un’utopia reazionaria. Se cercassimo un Lenin dell’anarchia, non troveremmo altro che un Abad de Santillán o una Federica Montseny. Tuttavia, alcuni elementi dell’anarchismo mantengono la loro efficacia sovversiva e la loro negatività, potendo essere applicati anche quando le condizioni sociali siano cambiate e le circostanze siano diverse. Il che vale per la critica dello Stato e del parlamentarismo, dei partiti e della scienza, senza dimenticare il suo amore per la libertà, il suo egualitarismo solidale e i suoi contributi alla pedagogia, alla medicina sociale e alla sessuologia. Durante la Rivoluzione spagnola l’anarchismo raggiunse i suoi massimi livelli di realizzazione, ma la sconfitta trasformò i suoi postulati teorico-pratici in ideologia.

Negli anni Sessanta nessun rivoluzionario sincero poteva astenersi dal criticare l'ideologia anarchica e i suoi rappresentanti. La ricostruzione di un pensiero radicale e di un'azione rivoluzionaria comportava una rottura con quel mondo. Ho chiamato ciò critica anarchica dell'anarchismo reale, anche se sarebbe stato meglio chiamarlo irreale – cioè ideologico, frutto dell'irragionevolezza – poiché solo il razionale è propriamente reale. Critica immediata eminentemente negativa e che riguardava le rivoluzioni del '18 e del '36. In effetti, gli anni Sessanta videro l'ascesa di un anarchismo irrispettoso entrato subito in conflitto sia con la sinistra tradizionale che con i guardiani del tempio dell'anarchia. Questa critica dovette affrontare nuovi problemi che emanavano dalle condizioni di vita in un tardo capitalismo e che invano si sarebbero chiariti limitandosi ai testi classici: le lotte anticoloniali, il maoismo, la rivolta ungherese, l'autogestione, l'integrazione dell'arte, la cultura delle masse, le armi nucleari, l'inquinamento e la distruzione dell'ambiente naturale, l'urbanesimo concentrazionario, il ruolo delle tecnologie e dell'automazione, quello dell'automobile, la società dei consumi, la repressione sessuale, l'emancipazione delle donne, la questione della violenza, ecc. L’immensità del compito critico comincerebbe con i tentativi di riconciliare Marx con Bakunin, ossia di utilizzare l’analisi marxista da posizioni antiautoritarie, formulazione troppo semplicistica, che fa facilmente finire in un marxismo libertario alla Guérin o alla Rubel. Mancavano un aggiornamento della sovversione e una nuova critica della politica, e quindi tante altre letture – nel campo della sociologia, della filosofia, dell’antropologia, della storiografia, dell’arte, ecc. – ma, soprattutto, mancava l’apprendimento a vivere l’epoca intensamente. In primo luogo, si trattava di riaffermare la lotta di classe, denunciando la funzione di polizia dei sindacati e dei partiti di fronte alle nuove forme di azione (assenteismo, scioperi selvaggi, sabotaggi, appropriazione di materiale) e di organizzazione (comitati, assemblee, picchetti, coordinazioni, consigli). In secondo luogo, ampliando il proprio raggio d’azione al terreno della vita quotidiana (lotte di quartiere, rifiuto del lavoro, della famiglia, della religione e del servizio militare, esproprio di fotocopiatrici, cibo o libri, controcultura, rock, marijuana, soggettività, avventure, squatter, comuni). Il lavoro teorico dell’Internazionale Situazionista fu la prima (e unica) critica globale moderna della società di classe, presto confermata da una serie di rivolte, vale a dire quella dei Provos olandesi, gli Zengakuren, la rivolta dei neri americani, il Maggio francese, la rivoluzione fallita degli operai e dei soldati in Portogallo e il movimento italiano del '77. Non possiamo dire che questa critica fosse completa, perché non era il risultato di tutti gli sforzi teorici precedenti e quindi non ne conteneva i principi, poiché ignorava alcuni temi fondamentali come la critica della ragione strumentale, la questione ecologica o la metropolizzazione del mondo, per non parlare della sua critica superficiale dell’anarchismo; fu, però, la critica più sviluppata e concreta. Ovunque si manifestavano lo stesso spirito antiautoritario, la stessa profonda esigenza di libertà, lo stesso progetto di appassionata ricostruzione della vita sociale che l'I.S. colse meglio di tutti. E un po’ dovunque, il capitalismo dovette impiegarsi a fondo e rinnovarsi rapidamente dalla testa ai piedi, spesso utilizzando gli argomenti e le armi dell’opposizione.

Nei paesi in cui sussistevano ancora resti di una tradizione operaia anarchica, l’anarchismo emerso come risposta spontanea e in gran parte emotiva alle nuove servitù imposte dal capitalismo, si è trovato a faccia a faccia con i muri dell’ideologia e la rabbia dei suoi difensori. Non era un conflitto generazionale, era un riflesso della nuova lotta di classe. Nelle moderne condizioni dominanti, il ghetto ideologico e i suoi vecchi costumi erano diventati parte del capitalismo come rovine innocue: era qualcosa che doveva morire affinché le nuove generazioni rivoluzionarie potessero vivere. Ciò che avvicinava il ghetto anarchico ai valori dominanti era maggiore di ciò che lo separava dai nuovi ribelli, motivo per cui esso si distingueva così poco dall’ambiente politico e vi trovava un insediamento così facile. È stato abituale rilevare spudoratamente il ruolo svolto dagli anarchici “nella difesa delle libertà” o nel consolidamento della “democrazia”. L’ironia della storia ha mostrato qualche vecchio libertario contento di marciare a lato della borghesia. In Spagna, dove la suddetta tradizione era più forte che altrove e dove la repressione della dittatura aveva mantenuto congelate le contraddizioni ideologiche, la lotta tra antichi e moderni – e tra ortodossi e revisionisti – assunse l’aspetto di una battaglia campale.

Il “rilancio” della CNT ebbe luogo nel 1976 al di fuori delle fabbriche, cioè in margine al movimento operaio. Non si trattò, quindi, di un'emanazione della rinascente lotta di classe, ma del prodotto di una serie di riunioni tra gruppi eterogenei in parte estranei alle assemblee degli scioperanti e con un denominatore comune: costruire un centro sindacale che disputasse alle Commissioni Operaie uno spazio nella rappresentazione separata della classe. La presenza di organizzazioni come Solidaridad (Rivista di un gruppo di sindacalisti riformisti dei sindacati franchisti. NdT) e l'ammissione di cincopuntistas (Frazione dei cinque punti, gruppo di militanti della CNT che collaboravano con i sindacati franchisti. NdT) e di altra spazzatura verticale indicavano chiaramente che il tipo di sindacalismo perseguito non si sarebbe discostato molto dalle altre scelte. Coerentemente con questi approcci, i rilanciatori non si preoccuparono troppo dei dilemmi cruciali del movimento assembleare dei lavoratori; impiantarono invece el chiringuito (Apparecchio burocratico auto organizzato in argot. NdT), cioè una struttura burocratica sufficiente (i comitati regionali, il comitato nazionale, la segreteria permanente, la tessera confederale, le sessioni plenarie) e ottennero l’alleanza con l’UGT e l’USO per spartirsi la torta che il CCOO cercava di tenere per sé: il controllo del mercato del lavoro. Le richieste di “libertà sindacale” e lo smantellamento della CNS, nonché il dibattito sulla sua legalizzazione, segnarono la prima fase della CNT ricostruita. La quale non solo ignorò le possibilità rivoluzionarie presenti che stavano evaporando in assenza di progressi nella chiarificazione e nell’azione, ma contribuì anche a dare gli ultimi ritocchi al movimento assembleare aderendo de jure o de facto all’appello del COS per uno sciopero generale il 12 novembre, che segnò la fine delle mobilitazioni autonome e l'inizio della controffensiva sindacale in piena regola. Tuttavia, il tracollo dell’autorganizzazione operaia – la trasformazione frustrata delle assemblee in consigli operai – attirò verso la CNT molti combattenti che non accettavano il sindacalismo burocratico e zoppicante che si stava abbattendo su di loro, con la vana speranza di trovare in essa delle strutture orizzontali di sostegno e uno spirito antiautoritario con cui continuare a lottare. L'immagine di ciò che era stata la CNT poteva superare la sua povera realtà. A essa aderirono anche molti giovani disinteressati ai conflitti di lavoro, che volevano una CNT non sindacale, ma “integrale”, cioè un’organizzazione “globale” interessata a tutte le questioni sociali e che militasse su tutti i fronti aperti contro il capitalismo. Infine, nel corso del 1977, s’inserirono tutta una serie di gruppi operaisti “autonomisti”, nati nel calore delle assemblee o parallelamente a esse, troppo confusi e incapaci per avere casa propria, inclini, quindi, a covare le loro uova in quella altrui. Essi vedevano nel sindacalismo ancora vergine della CNT il “germe” dell’“autonomia operaia”, un’ideologia cripto-leninista di origine italiana; tanto è certo che i nemici dell'autonomia proletaria ne prendono le sembianze per combatterla meglio. Tra una cosa e l’altra, la crescita della CNT dal gennaio 1977 fu inarrestabile; massiccia partecipazione ai loro raduni e conferenze; numerose le pubblicazioni a carattere libertario, ed esultante il trionfalismo dei suoi nuovi burocrati. In un anno e mezzo gli iscritti erano passati da poche migliaia a 129.000 tesserati. Avrebbero superato i 250.000 nel 1978. La preoccupazione del partito dell'ordine (i datori di lavoro, gli altri sindacati e lo Stato) era seria, poiché alla vigilia degli accordi della Moncloa, la Sessione plenaria nazionale di settembre aveva proclamato l'assemblea come unico organo sovrano e decisionale. Secondo la presentazione della questione, il sindacato avrebbe dovuto limitarsi al sostegno e alla solidarietà con gli scioperi, non alla mediazione. La CNT non avrebbe dovuto interporsi tra datori di lavoro e lavoratori, ma piuttosto diluirsi nelle assemblee. Ciononostante, i vertici dell'ordine costituito si calmarono presto, poiché il successo dei membri dell'assemblea fu una vittoria di Pirro che portò al contrattacco delle fazioni sindacaliste e ortodosse quelle attribuite alle forme dell’ideologia durante la Repubblica , mentre s’intensificava una lotta per il potere che, a cominciare dalla segreteria, coinvolse tutti i livelli, dai vari comitati ai consigli sindacali.

I Patti di Moncloa davano priorità a un tipo di sindacalismo “concertativo” che escludeva qualsiasi azione diretta e vietava qualsiasi generalizzazione delle lotte, due dei pochi punti su cui quasi tutti i membri della CNT erano d’accordo. Coerentemente con ciò, li denunciarono e boicottarono le elezioni sindacali, anche se molti membri si presentarono come “indipendenti” e furono eletti. In ogni caso l'astensione fu notevole, ma a UGT e CCOO bastò poco più del 10% dei voti perché fossero rappresentativi davanti all'associazione dei datori di lavoro e al governo. La CNT rischiava il suo destino se non avesse superato la sua emarginazione dai comitati aziendali e dalla negoziazione degli accordi attraverso le mobilitazioni. Tuttavia, a quel punto – gennaio 1978 – il movimento operaio assembleare si batteva sulla difensiva e le formule miste di comitati di rappresentanti di assemblee-sindacaliste, o di comitati sindacali approvati da assemblee, sostituivano le precedenti forme di democrazia diretta. La CNT non poteva contare sulla spinta dei lavoratori, ormai finita, con l'aggiunta che, nonostante il crescente numero di iscritti, come centrale sindacale non aveva, però, condotto alcun grande sciopero, non ancora iniziato. D’altra parte, il suo potere di convocazione non era più quello delle Giornate Libertarie; solo diecimila persone hanno partecipato alla manifestazione contro il Patto della Moncloa a Barcellona, nonostante il numero degli affiliati in quella città fosse quadruplicato. E quello stesso giorno (15 gennaio 1978) avvenne la provocazione della polizia scaligera. Alle controversie attorno all'assemblea e all'organizzazione integrale si aggiunsero nuovi conflitti, questa volta sulle elezioni sindacali, sulle azioni violente di minoranze e sulla presenza di gruppi armati che compromettevano l'Organizzazione. Le lotte per il potere tra le diverse tendenze e personaggi s’intensificarono al punto che si dovette spostare la segreteria permanente da Madrid a Barcellona (aprile 1978). Da allora sarà una costante che i segretari approfittino della loro posizione per formare una propria fazione e competere con le altre. Confermando una costante data nei periodi controrivoluzionari, le posizioni più rilevanti erano occupate dai personaggi più impresentabili. Nel frattempo, gli scioperi assembleari si affievolivano e i deputati e gli iscritti “integrali” diminuivano all’interno dell’organizzazione, mentre acquistavano nuovo vigore i sostenitori di un sindacalismo moderato e della partecipazione elettorale, in maggioranza ex “autonomi”, passati al revisionismo antianarchico con armi e bagagli. Grazie al sistema delle sessioni plenarie cui partecipavano solo i funzionari senza tener conto delle assemblee dei militanti o del numero degli affiliati rappresentati, gli ortodossi, battezzati dai loro nemici come “l’Esilio-FAI” o come “gli storici”, dominarono l’Organizzazione. Tuttavia, la rivista ufficiale di tutta la modernità, Ajoblanco, stampava in giugno 150.000 copie, segno dell'esistenza di una notoria sensibilità libertaria, seppure molto annacquata, mentre il numero degli iscritti crollava. Lo sciopero dei distributori di benzina è stato il primo e l'ultimo condotto dalla CNT, e con esso si è fatto karakiri. Né azione diretta, né sindacalismo duro; intermediazione governativa e trionfo padronale. Nel corso del 1979 si susseguirono senza interruzione le chiusure di federazioni, le espulsioni e le dissoluzioni di sindacati; le lotte tra le fazioni non potevano nascondere che la posta ruotava attorno alle elezioni e alla mediazione burocratica dichiarata. Casi come quello della FIGA (avanguardismo avventurista), quello di Askatasuna (nazional-populismo) o quello dei “paralelos(opportunismo sindacale), evidenziarono il grado di decomposizione raggiunto, soprattutto quello di questi ultimi. In un clima di riflusso, nessun sindacalismo funziona tranne la burocrazia. Per i paralelos (Tendenza sindacalista antianarchica nella CNT catalana favorevole alla partecipazione nelle elezioni sindacali e nella legislazione della centrale. NdT) – e per gli elettoralisti in generale – si trattava di aderire alla dinamica sindacale dominante e giocare al gioco dell’UGT e di CCOO, pena l’emarginazione e l’esclusione non solo dai rapporti con gli imprenditori e con il governo, ma anche dai sussidi e dagli aiuti ufficiali. Questo fu il nocciolo della questione risolta nell’autoproclamato quinto Congresso, tenuto nel dicembre 1979 da una squallida CNT che non rappresentava più di trentamila membri. L’ideologia arcaica trionfò e le minoranze riformiste si diressero, le une verso i sindacati “di maggioranza”, le altre verso la ricostruzione di una seconda CNT operaista dello stesso genere. E, col tempo, salvo i piccoli circoli fedeli all'ideologia classica che conservavano la proprietà delle sigle e tutelavano tramite queste un'attività molto limitata, la massa dei militanti si ritirò verso la sfera privata o finì nell'ovile di un sindacalismo burocratico impotente e arrendevole che presumibilmente aveva giurato di combattere.

Se in passato le avventure dell'ideologia furono tragiche, nel periodo della “Transizione” acquisirono l'aspetto di un'autentica farsa. In quest’occasione, l’anarchismo e l’anarcosindacalismo non fecero di nuovo capolino come pensiero e pratica del movimento rivoluzionario della classe operaia anteriore al franchismo, ma come una mistificazione primaria, uno spettacolo spesso comico la cui funzione ovviamente non era di far emergere gli insegnamenti di antiche lotte, ma di collaborare, passando per il lato selvaggio, alla modernizzazione capitalista. Il contrasto tra la pratica della classe operaia fino al 1977 e una teoria rivoluzionaria quasi assente, cioè una “espressione generale e nulla più del movimento storico reale” appena abbozzata, favorì lo sviluppo dell’ideologia e della burocrazia. Entrambe traevano la loro forza dall'immagine di un passato rivoluzionario con le sue contraddizioni ben nascoste quanto le condizioni alienanti di esistenza delle classi lavoratrici nel presente. In quanto rinforzo della menzogna dominante, fomentarono un sindacalismo loquace e una ridicola moda contestataria. I resti del proletariato radicale furono sconfitti per la seconda volta dove credevano di potersi rifare. La CNT ha svolto questo poco glorioso secondo ruolo concessole dalla storia, ma non ha ricevuto la paga dei traditori. Il ciclo della burocrazia operaia è finito con la sconfitta del proletariato assembleare e la fine della rappresentanza spettacolare per sensazionalisti professionisti. Gli accordi quadro e lo Statuto dei Lavoratori hanno messo al bando la solidarietà e le assemblee, eliminando anche la possibilità di un’azione semiautonoma dissimulata dietro i comitati aziendali, prima e imperfetta forma di burocrazia sindacale. In seguito non ci sarà più spazio se non per il sindacalismo neo-verticale dei “cocos(Commissioni operaie, sindacato stalinista. NdT) e dei militanti UGT. Le pochissime trasgressioni delle regole che si sono succedute non hanno modificato il deplorevole panorama della rassegnazione e della sottomissione. Come conseguenza di una così tremenda debacle, l’ideologia in tutte le sue varianti fu nuovamente messa in discussione; la memoria si è svuotata e sia la riflessione teorica sia la sua prassi hanno dovuto attraversare un ampio deserto – una sorta di secondo esilio – per riconnettersi con la realtà e la storia.

Miguel Amorós, ottobre 2008

 






Anarquismo teorico e ideologia anarquista

 

 

Si la reflexión, el sentimiento o cualquier otro aspecto que adopte la conciencia subjetiva, juzga como algo vano lo existente, va más lejos que él y trata de

conocerlo así, entonces se reencuentra en el vacío, y, puesto que sólo en

el presente hay realidad, la conciencia resulta únicamente vanidad.

Hegel, Filosofía del Derecho

 

     Las derrotas son propicias a los inventarios con sus inevitables conclusiones; el pájaro de Minerva emprende el vuelo a la medianoche, pero no es menos cierto que a causa de sus heridas no siempre se eleva lo suficiente para posarse avizor en las ramas más altas, y a menudo queda a ras de suelo, debatiéndose entre las malas hierbas. Las condiciones de los derrotados, la desmoralización profunda de la derrota, las esperanzas imposibles fomentadas por un instinto de supervivencia exasperado, contaminan la reflexión e impiden que tome la necesaria distancia con los hechos que juzga para concluir objetivamente y sugerir una nueva conducta histórica. Algo así pasó con el anarquismo español después de 1939. En el exilio y en la cárcel de los años cuarenta se debatía ante la misma encrucijada que medio siglo antes se había presentado a la socialdemocracia: reforma o revolución. Una parte –y no la menor— opinaba que el anarquismo había procedido desde siempre de forma negativa, y que había llegado el momento de preocuparse por creaciones positivas y a corto plazo, aunque fueran de poca monta, lo que de algún modo significaba un radical cambio de rumbo. La acción debía de orientarse no hacia el choque frontal contra la dominación, sino hacia la colaboración política y económica con sus instituciones, tal como se había hecho durante la guerra civil revolucionaria y se continuaba haciendo en el exilio seis años después. La acción no tenía que arrebatar su espacio a la burguesía sino penetrar y desenvolverse en su territorio. Según la alternativa reformista, el anarquismo era aceptable como idea pero no como método, bueno como “filosofía de vida”, no como praxis basada en la “aprehensión de lo presente y de lo real”: un ideal abstracto separado de la prosaica actividad cotidiana y acompañándola sólo en tanto que quimera decorativa. Como si los ideales fuesen “demasiado excelentes para gozar de realidad o también demasiado impotentes para proporcionársela” y debieran limitarse “a deber ser sólo y a no serlo efectivamente” (Hegel). Pero el problema para los revisionistas no era habérselas con “la idea”, sino habérselas con la realidad. Y si en el contexto difícil de la posguerra el anarquismo revolucionario tenía muy pocas posibilidades de ejercitarse cuando en el país sólo se pensaba en sobrevivir, tampoco el revisionismo doctrinal tenía demasiado espacio, por lo que no se materializó más que en diversos proyectos de partido y en inútiles compromisos con las instituciones inoperantes del exilio o con el pretendiente al trono, en programas políticos que perseguían, bien la constitución burguesa de 1931, bien la monarquía parlamentaria, aunque hubo quienes llevaron su lógica hasta el fin, colaborando con el régimen de Franco.

 

     En el bando contrario, se afirmaba que la colaboración institucional había sido obra de circunstancias excepcionales y había resultado un completo fracaso, contribuyendo al desastre final. Tanto mejor hubiera valido el apoliticismo aun al precio de quedar aíslado, puesto que perdidos por perdidos, se hubiera caído con honor, en defensa de sus ideas, no en defensa del Estado. Se imponía una restauración de los “principios, tácticas y finalidades” del movimiento libertario para luchar por la vuelta a “las conquistas del 19 de julio”. La fracción “purista”, tan comprometida como la otra en la política republicana, evitaba entrar en detalles sobre las verdaderas motivaciones de ese giro de ciento ochenta grados en su conducta orgánica, ni precisar cómo volverían aquellas conquistas, o cómo se restaurarían aquellos principios. Ni una palabra sobre cómo funcionarían los sindicatos únicos en la clandestinidad de un régimen totalitario, ni sobre cómo se llevarían a cabo la acción directa, la lucha antiestatal y la insurrección revolucionaria contra el franquismo. Ni la neoortodoxia se sentía dispuesta a repasar críticamente su trayectoria política y militar durante la guerra civil, ni a descender a la atroz realidad de la dictadura. Para los “puros” la acción no parecía constituir un problema, puesto que no era cuestión de salvar la vida a nadie ni de conquistar realmente nada, sino de escudarse en los principios, arsenal bien repleto de donde extraer todas las justificaciones posibles. Si los principios quedaban anonadados por la realidad, tanto peor para la realidad. Por ese camino el anarquismo solamente se concretaba en retórica, inhibición e inmovilismo, y a lo sumo, en alguna aventura insensata. Si en el revisionismo la acción se volvía más y más repelente, en el purismo se evaporaba. En uno la idea se transformaba en paisaje de la política burguesa; en el otro, ascendía al cielo de las causas perdidas. Para unos, el anarquismo formaba parte de una especie de moral privada con que afrontar de una forma u otra la ramplonería de la cotidianidad política; para los otros, constituía una fe con la que consolarse de los males de la tierra, un credo a defender de sus judas con patriotismo de campanario. En ambos casos, una ideología.

 

     El anarquismo dejaba entonces de ser la expresión intelectual del sector más avanzado del movimiento obrero en la península, un producto de la lucha de clases y una teoría de esa lucha. Y no lo era porque su contenido no era ya la realidad –en aquel momento, la realidad de la derrota, del retroceso y de la aniquilación del movimiento obrero. Ya no necesitaba comprender la realidad en su amarga involución manifiesta, para encontrar la manera de actuar en ella y así transformarla conforme a sus fines aplicando sus métodos específicos. El anarquismo desaparecía como fuerza material para volverse etiqueta, catecismo, gueto. Un ente mitad iglesia, mitad partido. Dejaba de ser pues una idea fundida con una práctica que no la contradecía sino que la desarrollaba, una crítica social enraizada en las condiciones materiales de existencia del proletariado, para devenir algo trivial, accidental, contingente, y por consiguiente, propiamente irreal. Una utopía, un sueño, una ilusión, algo que no podía servir a los intereses generales de clase.

 

     La diferencia primera entre el anarquismo teórico –entre la reflexión desde el anarquismo– y la ideología anarquista, reside en la separación entre idea y práctica, fines y medios, conciencia y acción. La ideología es a la vez el poder separado de las ideas y las ideas del poder separado. En el caso español, las ideas eran “los principios” o “las circunstancias” según se mirase, mientras que el poder separado era la Organización y sus Plenos, la rutina burocrática con mayúsculas. La segunda, yace en la confusión de la parte con el todo, del momento con el proceso, de las cuestiones tácticas con las líneas estratégicas, como demostrarían por ejemplo las ideologías municipalista, primitivista o insurreccionalista. El concepto de ideología deriva del concepto de religión, materia cuya crítica los jóvenes hegelianos hicieron “la condición primera de cualquier crítica”. La religión, como la ideología en general, es la conciencia invertida del mundo. El mundo de la ideología es un mundo visto del revés, al que hay que volver cabeza arriba para comprenderlo. La realidad, la verdad de este mundo, hay que encontrarla en la vida material concreta, en la acción humana transformadora; en concreto, en el trabajo, no fuera de él. Marx, en su juventud, llamó ideología a todo lo que no fueran fuerzas productivas, a todo lo que transcurría al margen de la economía y no reconocía un origen económico. La ideología estaba formada por fantasías con las que los seres humanos, en una sociedad insuficientemente desarrollada, explicaban sus fuerzas esenciales, su potencialidad. Nacía de la insatisfacción de una praxis limitada, debida a que el progreso tecnoeconómico todavía no había alcanzado la totalidad de los aspectos de la vida. De acuerdo con el punto de vista marxista, la ideología tendería a desaparecer con un desarrollo pleno de las fuerzas productivas, es decir, con el desarrollo de la fuerza principal, el proletariado, cuyas condiciones objetivas de vida impondrían un realismo liquidador de las fantasmagorías que alejaban a los obreros de su vida auténtica. La disolución de los prejuicios ideológicos eran para el obrero una exigencia de su realidad inmediata. Prolongando este razonamiento, algunos discípulos de Marx (Plejanov, Rosa Luxemburg, Maurín) caracterizaron al anarquismo de ideología típica de un proletariado insuficientemente desarrollado. Resulta harto fácil ver la ingenuidad que recorre tal razonamiento, pues es mas verdad que la generalización de la condición proletaria lleva emparejado un desarrollo supremo de la ideología. El mundo de la mercancía y de la técnica autónoma es el mundo completamente al revés. La experiencia del movimiento obrero bastaría para demostrar la pervivencia de la ideología, la impostura de representaciones falsas que los burócratas orgánicos elevaban con facilidad por encima de la vida proletarizada. La crítica de la ideología pudo completarse gracias al psicoanálisis, que logró relacionarla con diversas formas de degradación de la personalidad como la neurosis caracterial, la esquizofrenia y la falsa conciencia en general, explicando fenómenos ideológicos como el racismo, el autoritarismo o el militantismo. En momentos y periodos determinados, cuando eran muestras vivas de un pensamiento emancipador, una reflexión por decirlo en palabras de Proudhon que salía de la acción y volvía a la acción, en resumen, cuando eran revolucionarios, el marxismo y el anarquismo proporcionaron al proletariado un conocimiento suficiente de la sociedad y lo mantuvieron fuera de la política burguesa, permitiéndole hacer historia. Por otra parte, las creaciones revolucionarias de los trabajadores, los comités de fábrica, los sindicatos únicos o los consejos obreros, fueron lugares de encuentro entre las ideas abstractas y la práctica concreta, el espacio donde dichas teorías devenían realmente obreras y los obreros, teóricos. En otros momentos y otros periodos, cuando tanto el socialismo como el anarquismo se convirtieron en ideologías para servir a fines espurios, los propios de una burocracia parásita o de un comportamiento evasivo y sumiso, fueron responsables del oscurecimiento de su conciencia de clase y de los falsos derroteros de su conducta. Y así pues, hoy en día la crítica de la ideología, la religión secularizada, continúa siendo la condición primera de toda crítica.

 

     En el apogeo del capitalismo fordista, preguntarse por la validez de las enseñanzas de Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Reclus, Malatesta, Landauer o Berneri, tenía poco sentido. Ninguno pudo conocer hasta qué punto eran estrechas las relaciones que existían entre el desarrollo de las fuerzas productivas, la colonización de la vida cotidiana y la contrarrevolución. Los teóricos anarquistas habían de ser considerados simplemente como parte de la cohorte de precursores, fundadores y continuadores del pensamiento socialista revolucionario, igual que Marx, Engels, Rosa Luxemburg, Pannekoek, Reich, Benjamin o Fourier, por citar sólo a unos cuantos. Especialmente criticables en el viejo anarquismo serían la confianza excesiva en la espontaneidad insurreccional de las masas proletarias y campesinas, sus oscilaciones entre las tácticas ultralegalistas y la propaganda por el hecho o las expropiaciones, su incapacidad para las alianzas con otros sectores obreros, la permanente tentación política, la falta de estrategia clara, el confusionismo organizativo, etc. Cualquier tentativa de restablecer una doctrina anarquista –un sistema– con retazos de ideas descontextualizadas no sería más que una utopía reaccionaria. Si buscáramos un Lenin de la anarquía, no obtendríamos más que un Abad de Santillán o una Federica Montseny. Sin embargo, determinados elementos del anarquismo conservan su eficacia subversiva y su negatividad, pudiendo aplicarse aun cuando las condiciones sociales hayan cambiado y las circunstancias sean otras. Tal la crítica del Estado y del parlamentarismo, de los partidos y de la ciencia, sin olvidar su amor a la libertad, su igualitarismo solidario y sus aportaciones a la pedagogía, la medicina social y la sexología. Durante la Revolución española alcanzó sus mayores cotas de realización, pero la derrota transformó sus postulados teórico prácticos en ideología.

 

     En los años sesenta ningún revolucionario sincero podía abstenerse de criticar la ideología anarquista y sus representantes. La reconstrucción de un pensamiento radical y una acción revolucionaria pasaba por una ruptura con ese mundo. A eso he llamado crítica anarquista del anarquismo real, aunque hubiera sido mejor llamarlo irreal -es decir, ideológico, fruto de la sinrazón- puesto que sólo lo racional es propiamente real. Critica de entrada eminentemente negativa y que abarcaba las revoluciones del 18 y del 36. En efecto, los años sesenta conocieron el auge de un irrespetuoso anarquismo que inmediatamente entró en conflicto tanto con la izquierda tradicional como con los guardianes del templo de la anarquía. Dicha crítica debía afrontar problemas nuevos que emanaban de las condiciones de vida en un capitalismo tardío y que en vano esclarecería limitándose a los textos clásicos: las luchas anticoloniales, el maoismo, la revuelta húngara, la autogestión, la integración del arte, la cultura de masas, las armas nucleares, la polución y destrucción de los entornos naturales, el urbanismo concentracionario, el papel de las tecnologías y la automatización, el del automóvil, la sociedad de consumo, la represión sexual, la emancipación de la mujer, la cuestión de la violencia, etc. La inmensidad de la tarea crítica debutaría con los intentos de reconciliar a Marx con Bakunin, o sea, de utilizar el análisis marxista desde posiciones antiautoritarias, formulación demasiado simplista, fácil de acabar en una ideología marxista libertaria estilo Guérin o Rubel. Hacían falta una puesta al día en la subversión y una nueva crítica de la política, y por lo tanto, muchas otras lecturas, –en el campo de la sociología, la filosofía, la antropología, la historiografía, el arte, etc.– pero, por encima de todo, hacía falta aprender a vivir la época intensamente. Se trataba de reafirmar la lucha de clases, primero, denunciando la función policial de los sindicatos y partidos ante las nuevas formas de acción (absentismo, huelgas salvajes, sabotajes, sustracción de material) y de organización (comités, asambleas, piquetes, coordinadoras, consejos). Segundo, ampliando su radio de acción al terreno de la vida cotidiana (luchas de barrio, rechazo del trabajo, de la familia, de la religión y del servicio militar, expropiación de fotocopiadoras, comida o libros, contracultura, rock, maría, subjetividad, aventuras, squatters, comunas). La labor teórica de la Internacional Situacionista fue la primera (y la única) crítica global moderna de la sociedad de clases, pronto confirmada por una serie de revueltas, a saber, la de los provos holandeses, el zengakuren, la revuelta de los negros americanos, el mayo francés, la revolución abortada de los obreros y soldados en Portugal y el movimiento italiano del 77. No podemos decir que fuese completa, porque no era el resultado de todos los esfuerzos teóricos precedentes y por lo tanto no contenía los principios de todos ellos, ya que ignoraba algunos temas fundamentales como la crítica de la razón instrumental, la cuestión ecológica o la metropolitanización del mundo, por no hablar de su crítica superficial del anarquismo, pero fue la más desarrollada y concreta. En todas partes se manifestaba el mismo espíritu antiautoritario, la misma exigencia profunda de libertad, el mismo proyecto de reconstrucción apasionada de la vida social que la I.S. captó mejor que nadie. Y un poco en todas partes el capitalismo hubo de emplearse a fondo y renovarse rápidamente de pies a cabeza, a menudo utilizando los argumentos y las armas del contrario.

 

     En los países donde todavía subsistían restos de tradición obrera anarquista, el anarquismo que brotaba como respuesta espontánea y en gran parte emotiva a las nuevas servidumbres impuestas por el capitalismo, se dio de bruces con los muros de la ideología y la ira de sus defensores. No era un conflicto generacional, era un reflejo de la nueva lucha de clases. En las condiciones dominantes modernas, el gueto ideológico y sus viejas costumbres habían pasado a formar parte del capitalismo en tanto que ruinas inofensivas: era algo que tenía que morir para que las nuevas generaciones revolucionarias viviesen. Lo que aproximaba el gueto anarquista a los valores dominantes era mayor que lo que le separaba de los nuevos rebeldes, por eso se distinguía tan poco del entorno político y encontraba en él tan fácil acomodo. Ha sido común señalar desvergonzadamente el papel jugado por los anarquistas “en defensa de las libertades” o en la consolidación de “la democracia”. La ironía de la historia mostraba a unos viejos libertarios satisfechos de estrechar filas al lado de la burguesía. En España, donde la mencionada tradición fue mayor que en ninguna otra parte y donde la represión de la dictadura había mantenido congeladas las contradicciones de la ideología, la bronca entre antiguos y modernos –y entre ortodoxos y revisionistas– adquirió visos de batalla campal.

 

     El “relanzamiento” de la CNT tuvo lugar en 1976 fuera de las fábricas, es decir, al margen del movimiento obrero. No fue por consiguiente una emanación de la renaciente lucha de clases, sino el producto de una serie de reuniones entre grupos heterogéneos en parte ajenos a las asambleas de huelguistas y con un denominador común: construir una central sindical que disputase a Comisiones Obreras un espacio en la representación separada de la clase. La presencia de organizaciones como Solidaridad y la admisión de cincopuntistas y otras basuras verticales indicaba claramente que el tipo de sindicalismo perseguido no iba a diferenciarse mucho de las demás opciones. Coherentemente con esos planteamientos, los relanzadores no se preocuparon demasiado de las disyuntivas cruciales del movimiento asambleario de los trabajadores; más bien plantaron el chiringuito, o sea, una estructura burocrática suficiente (los Comités regionales, el nacional, el secretariado permanente, el carnet confederal, los plenos) y buscaron la alianza con la UGT y la USO para repartirse el pastel que CCOO trataba de guardar para sí: el control del mercado laboral. Las demandas de “libertad sindical” y desmantelamiento de la CNS, y el debate sobre su legalización, marcaron la primera etapa de la CNT reconstruida. Ésta no sólo ignoró las posibilidades revolucionarias presentes que se iban evaporando a falta de avances en la clarificación y la acción, sino que contribuyó a darle la puntilla al movimiento de las asambleas adhiriéndose de jure o de facto al llamamiento de la COS a la huelga general del 12 de noviembre, que marcó el punto final de las movilizaciones autónomas y el comienzo de la contraofensiva sindicalera a toda regla. Sin embargo, el fracaso de la autoorganización de los trabajadores –la transformación frustrada de las asambleas en consejos obreros– atrajo hacia la CNT a muchos luchadores que no aceptaban el sindicalismo burocrático y claudicante que se les venía encima, con la vana esperanza de hallar en ella unas estructuras horizontales de apoyo y un espíritu antiautoritario con que seguir combatiendo. La imagen de lo que la CNT había sido podía sobre su pobre realidad. También se acogieron a ella muchos jóvenes desinteresados en los conflictos laborales, que deseaban una CNT no sindical, sino “integral”, es decir, una organización “global” entregada a todas las cuestiones sociales y militando en todos los frentes abiertos contra el capitalismo. Finalmente, a lo largo de 1977, ingresaron toda una serie de grupúsculos obreristas “pro autonomía” nacidos al calor de las asambleas o en paralelo a las mismas, demasiado confusos e incapaces para tener casa propia, y por lo tanto, inclinados a incubar sus huevos en la ajena. Veían en el sindicalismo aún virgen de la CNT al “germen” de la “autonomía obrera”, una ideología criptoleninista de origen italiano; tan cierto es que los enemigos de la autonomía proletaria se disfrazan de ésta para mejor combatirla. Entre unas cosas y otras, el crecimiento de la CNT a partir de enero del 77 fue imparable; la asistencia a sus mitines y jornadas, multitudinaria; las publicaciones de carácter libertario, numerosas, y el triunfalismo de sus nuevos burócratas, exultante. En año y medio la afiliación había subido de unos pocos miles a 129.000 miembros con carnet. Llegarían a sobrepasar los 250.000 en 1978. La preocupación del partido del orden (la patronal, los demás sindicatos y el Estado) era seria, puesto que en vísperas de los acuerdos de la Moncloa, el Pleno Nacional de septiembre había proclamado la asamblea como único organismo soberano y decisivo. Según la ponencia sobre la cuestión, el sindicato debía limitarse al apoyo y solidaridad con las huelgas, no a la mediación. La CNT no debía interponerse entre la patronal y los obreros, sino diluirse en las asambleas. No obstante, los dirigentes del orden establecido se tranquilizarían rápidamente, ya que la victoria de los asamblearios fue pírrica, pues acarreó el contraataque de las facciones sindicalistas y de las ortodoxas –las adscritas a las formas de la ideología durante la República–, intensificándose una lucha por el poder que, empezando en el secretariado, abarcó todos los niveles, desde los diversos comités a las juntas de los sindicatos.

 

     Los Pactos de la Moncloa priorizaban un tipo de sindicalismo de “concertación” que excluía cualquier acción directa y proscribía toda generalización de las luchas, dos de los pocos puntos en los que casi todos los cenetistas estaban de acuerdo. Consecuentes con ello, los denunciaron y boicotearon las elecciones sindicales, aunque muchos afiliados se presentaron como “independientes” y salieron elegidos. De todas formas, la abstención fue considerable, pero a UGT y CCOO les bastó poco más de un 10% de los sufragios para ser representativos ante la patronal y el gobierno. La CNT se jugaba el tipo si no superaba mediante movilizaciones su marginación de los comités de empresa y de las negociaciones de los convenios. Pero a esas alturas – enero de 1978 – el movimiento obrero asambleario se batía a la defensiva y las fórmulas mixtas de comités de representantes de asamblea-sindicalistas, o comités sindicales refrendados por asambleas, substituían a las formas anteriores de democracia directa. La CNT no podía contar con el empuje de los trabajadores, ya terminado, con el añadido de que, a pesar de la creciente afiliación, como central no había encabezado todavía ninguna huelga importante, no se había estrenado. Por otra parte, su poder de convocatoria ya no era el de las Jornadas Libertarias; a la manifestación contra los Pactos de la Moncloa en Barcelona acudieron sólo diez mil personas, a pesar de multiplicar por cuatro esa cifra el número de afiliados en aquella ciudad. Y ese mismo día (el 15 de enero de 1978), ocurrió la provocación policial del Scala. A las disputas en torno al asambleismo y la organización integral se añadieron nuevas confrontaciones, esta vez acerca de las elecciones sindicales, de las acciones violentas de minorías y de la presencia de grupos armados que comprometían a la Organización. Las luchas por el poder entre las diferentes tendencias y personajes arreciaron al punto de tener que trasladarse el secretariado permanente de Madrid a Barcelona (abril de 1978). Desde entonces será una constante que los secretarios aprovechen los cargos para formar su propia fracción y competir con las demás. Confirmando una constante dada en los periodos contrarrevolucionarios, los cargos más relevantes iban siendo ocupados por los personajes más impresentables. Mientras tanto, se desvanecían las huelgas asamblearias e iban menguando dentro de la organización los asambleistas y los “integrales”, adquiriendo en cambio nuevos bríos los partidarios de un sindicalismo moderado y de la participación electoral, en su mayoría antiguos “autónomos”, pasados al revisionismo antianarquista con armas y bagajes. Gracias al sistema de plenos en los que sólo participaban los cargos sin tener en cuenta las asambleas de militantes ni el número de afiliados representados, los ortodoxos, bautizados por sus enemigos como el “Exilio-FAI” o como “los históricos”, dominaron la Organización. Todavía la revista oficial de todo la modernez, Ajoblanco, tiraba en junio 150.000 ejemplares, indicio de la existencia de una notoria sensibilidad libertaria, aunque fuera muy pasada por agua, pero la afiliación descendía en picado. La huelga de las gasolineras fue la primera y la última dirigida por la CNT, y con ella se hizo el harakiri. Ni acción directa, ni sindicalismo duro; intermediación gubernativa y triunfo patronal. Durante 1979 las desfederaciones, expulsiones y disoluciones de sindicatos se sucederían sin interrupción; las luchas de fracciones no conseguían ocultar que la apuesta giraba en torno a las elecciones y a la mediación burocrática declarada. Casos como el de la FIGA (el vanguardismo aventurero), el de Askatasuna (el nacionalpopulismo) o el de los “paralelos” (el oportunismo sindicalero), pusieron de relieve el grado de descomposición alcanzado, especialmente el de estos últimos. En un clima de reflujo no funciona más sindicalismo que el burocrático. Para los paralelos –y para electoralistas en general– se trataba de incorporarse a la dinámica sindical dominante y jugar el juego de UGT y CCOO so pena de marginarse y quedar fuera no sólo de los tratos con los empresarios y el gobierno, sino de las subvenciones y ayudas oficiales. Ese fue el quid de la cuestión que se dirimió en el autoproclamado quinto Congreso, celebrado en diciembre de 1979 por una escuálida CNT que no representaba a más de treinta mil afiliados. Triunfó la ideología arcaica y las minorías reformistas fueron encaminándose, las unas, hacia los sindicatos “mayoritarios”, y, las otras, hacia la reconstrucción de una segunda CNT obrerista del mismo pelaje. Y con el tiempo, salvando los pequeños círculos fieles a la ideología clásica que conservaron la propiedad de las siglas y ampararon bajo ellas una actividad muy limitada, la masa de militantes bien se retiró hacia lo privado, bien acabó en el redil de un sindicalismo burocrático, impotente y entreguista que supuestamente había jurado combatir.

 

   Si las aventuras de la ideología fueron trágicas en el pasado, en el periodo de la Transición adquirieron visos de auténtica farsa. En esta ocasión el anarquismo y el anarcosindicalismo no reaparecieron como pensamiento y práctica del movimiento revolucionario de la clase obrera anterior al franquismo, sino como una mistificación primaria, un chou a menudo cómico cuya función por supuesto no era traer a colación las enseñanzas de antiguos combates, sino colaborar, paseando por el wild side, en la modernización capitalista. El contraste entre la práctica de la clase obrera hasta 1977 y una teoría revolucionaria casi ausente, o sea, una expresión general y nada más del movimiento histórico real apenas esbozada, favorecía el desarrollo de la ideología y de la burocracia. Ambas extraían su fuerza de la imagen de un pasado revolucionario con sus contradicciones tan bien disimuladas como las alienantes condiciones de existencia de las clases trabajadoras en el presente. En tanto que refuerzo de la mentira dominante fomentaron un sindicalismo parlanchín y una ridícula moda contestataria. Los restos del proletariado radical fueron vencidos por segunda vez allí donde creyeron poder rehacerse. La CNT cumplió ese poco glorioso segundo papel que le concedió la historia, pero no recibió la paga de los traidores. El ciclo de la burocracia obrera terminó con la derrota del proletariado asambleario y el copo de la representación espectacular por amarillistas profesionales. Los acuerdos marco y el Estatuto de los Trabajadores proscribieron la solidaridad y las asambleas, eliminando incluso la posibilidad de una acción semiautónoma disimulada tras los comités de empresa, forma de burocracia sindical primeriza e imperfecta. En lo sucesivo no cabría espacio más que para el sindicalismo neovertical de cocos y ugetistas. Las escasísimas transgresiones de las reglas que se sucedieron no modificaron el deplorable panorama de la resignación y la sumisión. Como consecuencia de tan tremenda debacle la ideología en todas sus variantes quedó de nuevo en entredicho; la memoria se puso en blanco y tanto la reflexión teórica como su praxis hubieron de atravesar un largo desierto una especie de segundo exilio para conectar de nuevo con la realidad y la historia.

 

 Miguel Amorós, Octubre 2008