Anarchismo
teorico e ideologia anarchica
Continuando il dialogo con compagni illuminanti, ecco la mia traduzione
di un testo del 2008, ma tuttora attuale, di Miguel Amorós
sul tema dell’anarchia, in particolare nel contesto spagnolo.
Colgo parallelamente l’occasione per comunicare la prossima
uscita in libreria (18 ottobre in Italia) del mio ultimo scritto: La falsificazione del mondo – Dalla società
dello spettacolo alla tecnocrazia totalitaria, Ortica editrice, Roma 2024.
Sergio Ghirardi Sauvageon
Se la riflessione, il
sentimento o qualunque altro aspetto adottato dalla coscienza soggettiva
giudica vano l’esistente, va oltre di esso e cerca di conoscerlo in tal modo,
cosicché si ritrova nel vuoto, e, poiché solo nel presente c'è la realtà, la
coscienza risulta unicamente vanità.
Hegel, Filosofia
del diritto
Le sconfitte sono propizie agli inventari con le loro
inevitabili conclusioni; l'uccello di Minerva prende il volo a mezzanotte, ma
non è meno sicuro che a causa delle sue ferite non sempre si alzi abbastanza in
alto per posarsi vigile sui rami più alti, e resti spesso al livello del suolo,
dibattendosi tra le erbacce. Le condizioni degli sconfitti, la profonda
demoralizzazione della disfatta, le speranze impossibili alimentate da un
esasperato istinto di sopravvivenza, contaminano la riflessione e le
impediscono di prendere la necessaria distanza dai fatti che giudica per concludere
oggettivamente e suggerire una nuova condotta storica. Qualcosa di simile
accadde con l’anarchismo spagnolo dopo il 1939. Nell’esilio e la prigione degli
anni Quaranta l’anarchismo si è dibattuto davanti allo stesso bivio che mezzo
secolo prima si era presentato alla socialdemocrazia: riforma o rivoluzione.
Una parte – e non la meno importante – sosteneva che l’anarchismo si fosse
sempre mosso in modo negativo e che fosse giunto il momento di preoccuparsi
delle creazioni positive e a breve termine, anche se di poca importanza, il che
in qualche modo significava un cambiamento radicale di percorso. L'azione
doveva essere orientata non allo scontro frontale contro il dominio, ma alla collaborazione politica ed economica con le sue
istituzioni, com’era stato fatto durante la guerra civile rivoluzionaria e come
si continuava a fare in esilio da sei anni. L'azione non doveva strappare il
suo spazio alla borghesia ma piuttosto penetrare e svilupparsi nel suo
territorio. Secondo l’alternativa riformista, l’anarchismo era accettabile come
idea ma non come metodo, buono come “filosofia di vita”, non come prassi
fondata sulla “comprensione del presente e del reale”: un ideale astratto
separato dalla prosaica attività quotidiana che accompagnava solo come chimera
decorativa. Come se gli ideali fossero “troppo eccellenti per godersi la realtà,
oppure troppo impotenti per potersela offrire” e dovessero limitarsi “solo a
dover essere senza esserlo effettivamente” (Hegel). Tuttavia, il problema per i
revisionisti non era avere a che fare con “l’idea”, bensì con la realtà. E se
nel difficile contesto del dopoguerra l’anarchismo rivoluzionario aveva
pochissime possibilità di esercitarsi quando nel paese si pensava solo a
sopravvivere, neanche il revisionismo dottrinale aveva molto spazio, e per
questo si è concretizzato solo in diversi progetti di partito e in inutili
compromessi con le istituzioni inoperanti dell'esilio o con il pretendente al
trono, in programmi politici che perseguivano ora la costituzione borghese del
1931 ora la monarchia parlamentare, anche se c'era chi spingeva fino in fondo
la sua logica, collaborando con il regime franchista.
Dal lato opposto, si sosteneva che la collaborazione
istituzionale era stata frutto di circostanze eccezionali ed era stata un
completo fallimento, contribuendo al disastro finale. Sarebbe stato molto
meglio l’apoliticismo anche a costo dell’isolamento, perché, persi per persi, si
sarebbe caduti con onore, in difesa delle proprie idee, non in difesa dello
Stato. Per lottare per il ritorno alle “conquiste del 19 luglio”, si sarebbe
imposto un ripristino dei “principi, delle tattiche e degli scopi” del
movimento libertario. La frazione “purista”, compromessa quanto l’altra nella
politica repubblicana, evitava di entrare nei dettagli sulle vere motivazioni
di questa svolta a centottanta gradi nel suo comportamento organico, senza
specificare come quelle conquiste si sarebbero evolute, o come quei principi
sarebbero stati ripristinati. Non una parola sul funzionamento dei sindacati
nella clandestinità di un regime totalitario, né sulla ripresa dell’azione
diretta, sulla lotta antistatale e sull'insurrezione rivoluzionaria contro il
franchismo. La nuova ortodossia non si sentiva disposta a rivedere criticamente
la propria traiettoria politica e militare durante la guerra civile, né a calarsi
nell’atroce realtà della dittatura. Per i “puri” l'azione non sembrava
costituire un problema, poiché non si trattava di salvare la vita di qualcuno o
di conquistare davvero qualcosa, ma di trincerarsi dietro ai principi, arsenale
ben fornito da cui estrarre tutte le giustificazioni possibili. Se i principi finivano
sopraffatti dalla realtà, tanto peggio per la realtà. Su un tale cammino
l’anarchismo si attuava soltanto in retorica, inibizione e immobilità, e al
massimo in qualche avventura insensata. Se nel revisionismo l'azione diventava
sempre più repellente, nel purismo evaporava. Nell’uno l'idea si trasformava in
paesaggio della politica borghese; nell'altro, saliva al cielo delle cause
perse. Per alcuni l’anarchismo faceva parte di una sorta di morale privata con
cui affrontare in un modo o nell’altro la volgarità della quotidianità politica;
per gli altri costituiva una fede con cui consolarsi dei mali della terra, un
credo da difendere dai suoi Giuda con un patriottismo da campanile. In entrambi
i casi, un'ideologia.
L’anarchismo cessava dunque di essere l’espressione
intellettuale del settore più avanzato del movimento operaio nella penisola, un
prodotto della lotta di classe e una teoria di questa lotta. E non perché il
suo contenuto non fosse più la realtà – in quel momento, la realtà della
sconfitta, dell’arretramento e dell’annientamento del movimento operaio. Non c’era
più bisogno di comprendere la realtà nella sua manifesta amara involuzione, per
trovare il modo di agire su di essa e trasformarla conformemente ai suoi fini
applicando i suoi metodi specifici. L'anarchismo è scomparso come forza
materiale per diventare etichetta, catechismo, ghetto. Un'entità per metà chiesa
e per metà partito. Cessava di essere un'idea fusa con una pratica che non la contraddiceva,
ma anzi la sviluppava, una critica sociale radicata nelle condizioni materiali
di esistenza del proletariato, per diventare qualcosa di triviale, accidentale,
contingente e, quindi, propriamente irreale. Un’utopia, un sogno, un’illusione,
qualcosa che non poteva servire gli interessi generali di classe.
La prima differenza tra l’anarchismo teorico – tra la
riflessione concernente l’anarchismo – e l’ideologia anarchica, risiede nella
separazione tra idea e pratica, fini e mezzi, coscienza e azione. L'ideologia è
sia il potere separato delle idee sia le idee del potere separato. Nel caso
spagnolo, le idee erano “i principi” o “le circostanze” secondo come si
guardano le cose, mentre il potere separato era l’Organizzazione e le sue sedute
plenarie, la routine burocratica con le lettere maiuscole. La seconda
differenza risiede nella confusione della parte con il tutto, del momento con
il processo, delle questioni tattiche con le linee strategiche, come
dimostrano, per esempio, le ideologie municipaliste, primitiviste o
insurrezionaliste. Il concetto d’ideologia deriva dal concetto di religione,
materia la cui critica i giovani hegeliani consideravano “la prima condizione
di ogni critica”. La religione, come l'ideologia in generale, è la coscienza
invertita del mondo. Il mondo dell’ideologia è un mondo visto a rovescio, di
fronte al quale bisogna capovolgersi per capirlo. La realtà, la verità di
questo mondo, va trovata nella vita materiale concreta, nell'azione umana
trasformatrice; in concreto, nel lavoro, non al di fuori di esso. Marx, in
gioventù, chiamò ideologia tutto ciò che non era forza produttiva, tutto ciò
che accadeva in margine all’economia senza riconoscergli un’origine economica.
L'ideologia era costituita da fantasie con cui gli esseri umani, in una società
non sufficientemente sviluppata, spiegavano le loro forze essenziali, le loro
potenzialità. Essa nasceva dall'insoddisfazione di una prassi limitata, dovuta
al fatto che il progresso tecnico-economico non aveva ancora raggiunto la
totalità degli aspetti della vita. Secondo il punto di vista marxista,
l’ideologia tenderebbe a scomparire con il pieno sviluppo delle forze
produttive, cioè con lo sviluppo della forza principale, il proletariato, le
cui condizioni oggettive di vita imporrebbero un realismo liquidatore delle
fantasmagorie che allontanavano i lavoratori dalla loro vita autentica. La
dissoluzione dei pregiudizi ideologici era per il lavoratore un'esigenza della
sua realtà immediata. Estendendo questo
ragionamento, alcuni discepoli di Marx (Plekhanov, Rosa Luxemburg, Maurín)
caratterizzarono l'anarchismo come un'ideologia tipica di un proletariato non
sufficientemente sviluppato. È molto facile costatare l’ingenuità che permea
questo ragionamento, poiché è più vero che la generalizzazione della condizione
proletaria si accompagna con uno sviluppo supremo dell’ideologia. Il mondo della
merce e della tecnica autonoma è il mondo completamente a rovescio. Basterebbe
l’esperienza del movimento operaio a dimostrare la sopravvivenza
dell’ideologia, l’impostura delle false rappresentazioni che i burocrati
organici elevavano facilmente sopra la vita proletarizzata. La critica
dell'ideologia ha potuto essere completata grazie alla psicoanalisi, che è
riuscita a collegarla a varie forme di degrado della personalità come la
nevrosi caratteriale, la schizofrenia e la falsa coscienza in generale, spiegando
fenomeni ideologici come il razzismo, l'autoritarismo o il militantismo.
In
momenti e periodi dati, quando erano esempi viventi
di un pensiero emancipatore, di una riflessione, per dirlo con parole di Proudhon,
che veniva dall'azione e volgeva all'azione, in breve, quando erano momenti rivoluzionari,
il marxismo e l'anarchismo hanno fornito al proletariato una sufficiente
conoscenza della società tenendolo fuori dalla politica borghese,
permettendogli di fare la storia. D'altra parte, le creazioni rivoluzionarie dei
lavoratori, i comitati di fabbrica, i sindacati unici o i consigli operai, furono
luoghi d'incontro tra le idee astratte e la pratica concreta, lo spazio in cui
queste teorie diventavano veramente operaie e gli operai teorici. Altre volte e
in altri periodi, quando sia il socialismo sia l’anarchismo divennero ideologie
al servizio di fini spuri, quelli di una burocrazia parassitaria o di un
comportamento evasivo e sottomesso, furono responsabili dell’oscuramento della
loro coscienza di classe e dei falsi sentieri della loro condotta. E così,
oggi, la critica dell'ideologia, religione secolarizzata, continua a essere la
prima condizione di ogni critica.
Al culmine del capitalismo fordista, interrogarsi sulla validità
degli insegnamenti di Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Reclus, Malatesta, Landauer
o Berneri aveva poco senso. Nessuno poteva sapere fino a che punto fossero stretti
i rapporti che esistevano tra lo sviluppo delle
forze produttive, la colonizzazione della vita quotidiana e la controrivoluzione.
I teorici anarchici dovevano essere considerati semplicemente come parte della
coorte di precursori, fondatori e continuatori del pensiero socialista rivoluzionario,
così come Marx, Engels, Rosa Luxemburg, Pannekoek, Reich, Benjamin o Fourier,
per citarne solo alcuni. Particolarmente criticabili nel vecchio anarchismo
sarebbero l'eccessiva fiducia nella spontaneità insurrezionale delle masse
proletarie e contadine, le sue oscillazioni tra le tattiche ultralegaliste e la
propaganda attraverso il fatto o le espropriazioni, la sua incapacità di
allearsi con altri settori operai, la permanente tentazione politica, la mancanza
di una strategia chiara, il confusionismo organizzativo, ecc. Qualsiasi
tentativo di ristabilire una dottrina anarchica – un sistema – con brandelli d’idee
decontestualizzate non sarebbe altro che un’utopia reazionaria. Se cercassimo
un Lenin dell’anarchia, non troveremmo altro che un Abad de Santillán o una
Federica Montseny. Tuttavia, alcuni elementi dell’anarchismo mantengono la loro
efficacia sovversiva e la loro negatività, potendo essere applicati anche
quando le condizioni sociali siano cambiate e le circostanze siano diverse. Il
che vale per la critica dello Stato e del parlamentarismo, dei partiti e della
scienza, senza dimenticare il suo amore per la libertà, il suo egualitarismo
solidale e i suoi contributi alla pedagogia, alla medicina sociale e alla
sessuologia. Durante la Rivoluzione spagnola l’anarchismo raggiunse i suoi massimi
livelli di realizzazione, ma la sconfitta trasformò i suoi postulati teorico-pratici
in ideologia.
Negli anni Sessanta nessun rivoluzionario sincero poteva
astenersi dal criticare l'ideologia anarchica e i suoi rappresentanti. La
ricostruzione di un pensiero radicale e di un'azione rivoluzionaria comportava
una rottura con quel mondo. Ho
chiamato ciò critica anarchica dell'anarchismo reale, anche se sarebbe stato meglio chiamarlo irreale – cioè ideologico, frutto
dell'irragionevolezza – poiché solo il razionale è propriamente reale. Critica immediata
eminentemente negativa e che riguardava le rivoluzioni del '18 e del '36. In
effetti, gli anni Sessanta videro l'ascesa di un anarchismo irrispettoso entrato
subito in conflitto sia con la sinistra tradizionale che con i guardiani del
tempio dell'anarchia. Questa critica dovette affrontare nuovi problemi che
emanavano dalle condizioni di vita in un tardo capitalismo e che invano si sarebbero
chiariti limitandosi ai testi classici: le lotte anticoloniali, il maoismo, la
rivolta ungherese, l'autogestione, l'integrazione dell'arte, la cultura delle
masse, le armi nucleari, l'inquinamento e la distruzione dell'ambiente
naturale, l'urbanesimo concentrazionario, il ruolo delle tecnologie e
dell'automazione, quello dell'automobile, la società dei consumi, la
repressione sessuale, l'emancipazione delle donne, la questione della violenza,
ecc. L’immensità del compito critico comincerebbe con i tentativi di riconciliare
Marx con Bakunin, ossia di utilizzare l’analisi marxista da posizioni
antiautoritarie, formulazione troppo semplicistica, che fa facilmente finire in
un marxismo libertario alla Guérin o alla Rubel. Mancavano un aggiornamento della
sovversione e una nuova critica della politica, e quindi tante altre letture –
nel campo della sociologia, della filosofia, dell’antropologia, della
storiografia, dell’arte, ecc. – ma, soprattutto, mancava l’apprendimento a vivere
l’epoca intensamente. In primo luogo, si trattava di riaffermare la lotta di
classe, denunciando la funzione di polizia dei sindacati e dei partiti di
fronte alle nuove forme di azione (assenteismo, scioperi selvaggi, sabotaggi, appropriazione
di materiale) e di organizzazione (comitati, assemblee, picchetti, coordinazioni,
consigli). In secondo luogo, ampliando il proprio raggio d’azione al terreno
della vita quotidiana (lotte di quartiere, rifiuto del lavoro, della famiglia, della
religione e del servizio militare, esproprio di fotocopiatrici, cibo o libri,
controcultura, rock, marijuana, soggettività, avventure, squatter, comuni). Il
lavoro teorico dell’Internazionale Situazionista fu la prima (e unica) critica
globale moderna della società di classe, presto confermata da una serie di
rivolte, vale a dire quella dei Provos olandesi, gli Zengakuren, la rivolta dei
neri americani, il Maggio francese, la rivoluzione fallita degli operai e dei
soldati in Portogallo e il movimento italiano del '77. Non possiamo dire che questa
critica fosse completa, perché non era il risultato di tutti gli sforzi teorici
precedenti e quindi non ne conteneva i principi, poiché ignorava alcuni temi
fondamentali come la critica della ragione strumentale, la questione ecologica
o la metropolizzazione del mondo, per non parlare della sua critica
superficiale dell’anarchismo; fu, però, la critica più sviluppata e concreta.
Ovunque si manifestavano lo stesso spirito antiautoritario, la stessa profonda
esigenza di libertà, lo stesso progetto di appassionata ricostruzione della
vita sociale che l'I.S. colse meglio di tutti. E un po’ dovunque, il
capitalismo dovette impiegarsi a fondo e rinnovarsi rapidamente dalla testa ai
piedi, spesso utilizzando gli argomenti e le armi dell’opposizione.
Nei paesi in cui sussistevano ancora resti di una tradizione
operaia anarchica, l’anarchismo emerso come risposta spontanea e in gran parte
emotiva alle nuove servitù imposte dal capitalismo, si è trovato a faccia a
faccia con i muri dell’ideologia e la rabbia dei suoi difensori. Non era un
conflitto generazionale, era un riflesso della nuova lotta di classe. Nelle
moderne condizioni dominanti, il ghetto ideologico e i suoi vecchi costumi
erano diventati parte del capitalismo come rovine innocue: era qualcosa che
doveva morire affinché le nuove generazioni rivoluzionarie potessero vivere.
Ciò che avvicinava il ghetto anarchico ai valori dominanti era maggiore di ciò
che lo separava dai nuovi ribelli, motivo per cui esso si distingueva così poco
dall’ambiente politico e vi trovava un insediamento così facile. È stato abituale
rilevare spudoratamente il ruolo svolto dagli anarchici “nella difesa delle
libertà” o nel consolidamento della “democrazia”. L’ironia della storia ha
mostrato qualche vecchio libertario contento di marciare a lato della
borghesia. In Spagna, dove la suddetta tradizione era più forte che altrove e
dove la repressione della dittatura aveva mantenuto congelate le contraddizioni
ideologiche, la lotta tra antichi e moderni – e tra ortodossi e revisionisti –
assunse l’aspetto di una battaglia campale.
Il “rilancio” della CNT ebbe luogo nel 1976 al di fuori delle
fabbriche, cioè in margine al movimento operaio. Non si trattò, quindi, di
un'emanazione della rinascente lotta di classe, ma del prodotto di una serie di
riunioni tra gruppi eterogenei in parte estranei alle assemblee degli
scioperanti e con un denominatore comune: costruire un centro sindacale che disputasse
alle Commissioni Operaie uno spazio nella rappresentazione separata della
classe. La presenza di organizzazioni come Solidaridad
(Rivista di un
gruppo di sindacalisti riformisti dei sindacati franchisti. NdT) e l'ammissione di cincopuntistas
(Frazione dei cinque punti, gruppo di militanti della
CNT che collaboravano con i sindacati franchisti. NdT) e di altra spazzatura verticale indicavano chiaramente che il
tipo di sindacalismo perseguito non si sarebbe discostato molto dalle altre scelte.
Coerentemente con questi approcci, i rilanciatori non si preoccuparono troppo dei
dilemmi cruciali del movimento assembleare dei lavoratori; impiantarono invece el chiringuito (Apparecchio
burocratico auto organizzato in argot. NdT), cioè una struttura burocratica sufficiente (i comitati
regionali, il comitato nazionale, la segreteria permanente, la tessera
confederale, le sessioni plenarie) e ottennero l’alleanza con l’UGT e l’USO per
spartirsi la torta che il CCOO cercava di tenere per sé: il controllo del
mercato del lavoro. Le richieste di “libertà sindacale” e lo smantellamento
della CNS, nonché il dibattito sulla sua legalizzazione, segnarono la prima
fase della CNT ricostruita. La quale non solo ignorò le possibilità
rivoluzionarie presenti che stavano evaporando in assenza di progressi nella
chiarificazione e nell’azione, ma contribuì anche a dare gli ultimi ritocchi al
movimento assembleare aderendo de jure o de facto all’appello del COS per uno
sciopero generale il 12 novembre, che segnò la fine delle mobilitazioni
autonome e l'inizio della controffensiva sindacale in piena regola. Tuttavia, il tracollo dell’autorganizzazione operaia – la
trasformazione frustrata delle assemblee in consigli operai – attirò verso la
CNT molti combattenti che non accettavano il sindacalismo burocratico e zoppicante
che si stava abbattendo su di loro, con la vana speranza di trovare in essa delle
strutture orizzontali di sostegno e uno spirito antiautoritario con cui
continuare a lottare. L'immagine di ciò che era stata la CNT poteva superare la
sua povera realtà. A essa aderirono anche molti giovani disinteressati ai
conflitti di lavoro, che volevano una CNT non sindacale, ma “integrale”, cioè
un’organizzazione “globale” interessata a tutte le questioni sociali e che
militasse su tutti i fronti aperti contro il capitalismo. Infine, nel corso del
1977, s’inserirono tutta una serie di gruppi operaisti “autonomisti”, nati nel
calore delle assemblee o parallelamente a esse, troppo confusi e incapaci per
avere casa propria, inclini, quindi, a covare le loro uova in quella altrui. Essi
vedevano nel sindacalismo ancora vergine della CNT il “germe” dell’“autonomia
operaia”, un’ideologia cripto-leninista di origine italiana; tanto è certo che i
nemici dell'autonomia proletaria ne prendono le sembianze per combatterla
meglio. Tra una cosa e l’altra, la crescita della CNT dal gennaio 1977 fu
inarrestabile; massiccia partecipazione ai loro raduni e conferenze; numerose le
pubblicazioni a carattere libertario, ed esultante il trionfalismo dei suoi
nuovi burocrati. In un anno e mezzo gli iscritti erano passati da poche
migliaia a 129.000 tesserati. Avrebbero superato i 250.000 nel 1978. La
preoccupazione del partito dell'ordine (i datori di lavoro, gli altri sindacati
e lo Stato) era seria, poiché alla vigilia degli accordi della Moncloa, la
Sessione plenaria nazionale di settembre aveva proclamato l'assemblea come unico
organo sovrano e decisionale.
Secondo la presentazione della questione, il
sindacato avrebbe dovuto limitarsi al sostegno e alla solidarietà con gli
scioperi, non alla mediazione. La CNT non avrebbe dovuto interporsi tra datori
di lavoro e lavoratori, ma piuttosto diluirsi nelle assemblee. Ciononostante, i
vertici dell'ordine costituito si calmarono presto, poiché il successo dei
membri dell'assemblea fu una vittoria di Pirro che portò al contrattacco delle
fazioni sindacaliste e ortodosse – quelle attribuite alle forme dell’ideologia durante la
Repubblica –, mentre s’intensificava
una lotta per il potere che, a cominciare dalla segreteria, coinvolse tutti i
livelli, dai vari comitati ai consigli sindacali.
I Patti di Moncloa davano priorità a un tipo di sindacalismo
“concertativo” che escludeva qualsiasi azione diretta e vietava qualsiasi
generalizzazione delle lotte, due dei pochi punti su cui quasi tutti i membri
della CNT erano d’accordo. Coerentemente con ciò, li denunciarono e boicottarono
le elezioni sindacali, anche se molti membri si presentarono come
“indipendenti” e furono eletti. In ogni caso l'astensione fu notevole, ma a UGT
e CCOO bastò poco più del 10% dei voti perché fossero rappresentativi davanti
all'associazione dei datori di lavoro e al governo. La CNT rischiava il suo
destino se non avesse superato la sua emarginazione dai comitati aziendali e
dalla negoziazione degli accordi attraverso le mobilitazioni. Tuttavia, a quel
punto – gennaio 1978 – il movimento operaio assembleare si batteva sulla difensiva
e le formule miste di comitati di rappresentanti di assemblee-sindacaliste, o di
comitati sindacali approvati da assemblee, sostituivano le precedenti forme di
democrazia diretta. La CNT non poteva contare sulla spinta dei lavoratori,
ormai finita, con l'aggiunta che, nonostante il crescente numero di iscritti,
come centrale sindacale non aveva, però, condotto alcun grande sciopero, non ancora
iniziato. D’altra parte, il suo potere di convocazione non era più quello delle
Giornate Libertarie; solo diecimila persone hanno partecipato alla
manifestazione contro il Patto della Moncloa a Barcellona, nonostante il numero
degli affiliati in quella città fosse quadruplicato. E quello stesso giorno (15
gennaio 1978) avvenne la provocazione della polizia scaligera. Alle
controversie attorno all'assemblea e all'organizzazione integrale si aggiunsero
nuovi conflitti, questa volta sulle elezioni sindacali, sulle azioni violente di
minoranze e sulla presenza di gruppi armati che compromettevano
l'Organizzazione. Le lotte per il potere tra le diverse tendenze e personaggi
s’intensificarono al punto che si dovette spostare la segreteria permanente da
Madrid a Barcellona (aprile 1978). Da allora sarà una costante che i segretari
approfittino della loro posizione per formare una propria fazione e competere
con le altre. Confermando una costante data nei periodi controrivoluzionari, le
posizioni più rilevanti erano occupate dai personaggi più impresentabili. Nel
frattempo, gli scioperi assembleari si affievolivano e i deputati e gli
iscritti “integrali” diminuivano all’interno dell’organizzazione, mentre acquistavano
nuovo vigore i sostenitori di un sindacalismo moderato e della partecipazione
elettorale, in maggioranza ex “autonomi”, passati al revisionismo antianarchico
con armi e bagagli. Grazie al sistema delle sessioni plenarie cui partecipavano
solo i funzionari senza tener conto delle assemblee dei militanti o del numero
degli affiliati rappresentati, gli ortodossi, battezzati dai loro nemici come “l’Esilio-FAI”
o come “gli storici”, dominarono l’Organizzazione. Tuttavia, la rivista
ufficiale di tutta la modernità, Ajoblanco,
stampava in giugno 150.000 copie, segno dell'esistenza di una notoria
sensibilità libertaria, seppure molto annacquata, mentre il numero degli
iscritti crollava. Lo sciopero dei distributori di benzina è stato il primo e
l'ultimo condotto dalla CNT, e con esso si è fatto karakiri. Né azione diretta,
né sindacalismo duro; intermediazione governativa e trionfo padronale. Nel
corso del 1979 si susseguirono senza interruzione le chiusure di federazioni,
le espulsioni e le dissoluzioni di sindacati; le lotte tra le fazioni non potevano
nascondere che la posta ruotava attorno alle elezioni e alla mediazione
burocratica dichiarata. Casi come quello della FIGA (avanguardismo avventurista),
quello di Askatasuna (nazional-populismo) o quello dei “paralelos” (opportunismo sindacale),
evidenziarono il grado di decomposizione raggiunto, soprattutto quello di
questi ultimi. In un clima di riflusso, nessun sindacalismo funziona tranne la
burocrazia. Per i paralelos (Tendenza sindacalista antianarchica
nella CNT catalana favorevole alla partecipazione nelle elezioni sindacali e
nella legislazione della centrale. NdT) – e per gli elettoralisti in generale – si trattava di aderire
alla dinamica sindacale dominante e giocare al gioco dell’UGT e di CCOO, pena
l’emarginazione e l’esclusione non solo dai rapporti con gli imprenditori e con
il governo, ma anche dai sussidi e dagli aiuti ufficiali. Questo fu il nocciolo
della questione risolta nell’autoproclamato quinto Congresso, tenuto nel
dicembre 1979 da una squallida CNT che non rappresentava più di trentamila
membri. L’ideologia arcaica trionfò e le minoranze riformiste si diressero, le une
verso i sindacati “di maggioranza”, le altre verso la ricostruzione di una
seconda CNT operaista dello stesso genere. E, col tempo, salvo i piccoli
circoli fedeli all'ideologia classica che conservavano la proprietà delle sigle
e tutelavano tramite queste un'attività molto limitata, la massa dei militanti
si ritirò verso la sfera privata o finì nell'ovile di un sindacalismo burocratico
impotente e arrendevole che presumibilmente aveva giurato di combattere.
Se in passato le avventure dell'ideologia furono tragiche, nel
periodo della “Transizione” acquisirono l'aspetto di un'autentica farsa. In quest’occasione,
l’anarchismo e l’anarcosindacalismo non fecero di nuovo capolino come pensiero
e pratica del movimento rivoluzionario della classe operaia anteriore al
franchismo, ma come una mistificazione primaria, uno
spettacolo spesso comico la cui funzione ovviamente
non era di far emergere gli insegnamenti di antiche lotte, ma di collaborare, passando
per il lato selvaggio, alla modernizzazione capitalista. Il contrasto tra la
pratica della classe operaia fino al 1977 e una teoria rivoluzionaria quasi
assente, cioè una “espressione generale e nulla più del movimento storico
reale” appena abbozzata, favorì lo sviluppo dell’ideologia e della burocrazia.
Entrambe traevano la loro forza dall'immagine di un passato rivoluzionario con
le sue contraddizioni ben nascoste quanto le condizioni alienanti di esistenza
delle classi lavoratrici nel presente. In quanto rinforzo della menzogna
dominante, fomentarono un sindacalismo loquace e una ridicola moda
contestataria. I resti del proletariato radicale furono sconfitti per la
seconda volta dove credevano di potersi rifare. La CNT ha svolto questo poco
glorioso secondo ruolo concessole dalla storia, ma non ha ricevuto la paga dei
traditori. Il ciclo della burocrazia operaia è finito con la sconfitta del
proletariato assembleare e la fine della rappresentanza spettacolare per
sensazionalisti professionisti. Gli accordi quadro e lo Statuto dei Lavoratori
hanno messo al bando la solidarietà e le assemblee, eliminando anche la
possibilità di un’azione semiautonoma dissimulata dietro i comitati aziendali,
prima e imperfetta forma di burocrazia sindacale. In seguito non ci sarà più
spazio se non per il sindacalismo neo-verticale dei “cocos” (Commissioni operaie, sindacato stalinista. NdT) e dei militanti UGT. Le pochissime trasgressioni delle regole che
si sono succedute non hanno modificato il deplorevole panorama della
rassegnazione e della sottomissione. Come conseguenza di una così tremenda
debacle, l’ideologia in tutte le sue varianti fu nuovamente messa in
discussione; la memoria si è svuotata e sia la riflessione teorica sia la sua
prassi hanno dovuto attraversare un ampio deserto – una sorta di secondo esilio
– per riconnettersi con la realtà e la storia.
Miguel Amorós, ottobre 2008
Anarquismo
teorico e ideologia anarquista
Si la reflexión, el
sentimiento o cualquier otro aspecto que adopte la conciencia subjetiva, juzga
como algo vano lo existente, va más lejos que él y trata de
conocerlo así,
entonces se reencuentra en el vacío, y, puesto que sólo en
el presente hay
realidad, la conciencia resulta únicamente vanidad.
Hegel, Filosofía del Derecho
Las derrotas son propicias a los
inventarios con sus inevitables conclusiones; el pájaro de Minerva emprende el
vuelo a la medianoche, pero no es menos cierto que a causa de sus heridas no
siempre se eleva lo suficiente para posarse avizor en las ramas más altas, y a
menudo queda a ras de suelo, debatiéndose entre las malas hierbas. Las
condiciones de los derrotados, la desmoralización profunda de la derrota, las
esperanzas imposibles fomentadas por un instinto de supervivencia exasperado,
contaminan la reflexión e impiden que tome la necesaria distancia con los
hechos que juzga para concluir objetivamente y sugerir una nueva conducta
histórica. Algo así pasó con el anarquismo español después de 1939. En el
exilio y en la cárcel de los años cuarenta se debatía ante la misma encrucijada
que medio siglo antes se había presentado a la socialdemocracia: reforma o
revolución. Una parte –y no la menor— opinaba que el anarquismo había procedido
desde siempre de forma negativa, y que había llegado el momento de preocuparse
por creaciones positivas y a corto plazo, aunque fueran de poca monta, lo que
de algún modo significaba un radical cambio de rumbo. La acción debía de
orientarse no hacia el choque frontal contra la dominación, sino hacia la
colaboración política y económica con sus instituciones, tal como se había
hecho durante la guerra civil revolucionaria y se continuaba haciendo en el
exilio seis años después. La acción no tenía que arrebatar su espacio a la
burguesía sino penetrar y desenvolverse en su territorio. Según la alternativa
reformista, el anarquismo era aceptable como idea pero no como método, bueno
como “filosofía de vida”, no como praxis basada en la “aprehensión de lo
presente y de lo real”: un ideal abstracto separado de la prosaica actividad
cotidiana y acompañándola sólo en tanto que quimera decorativa. Como si los
ideales fuesen “demasiado excelentes para gozar de realidad o también demasiado
impotentes para proporcionársela” y debieran limitarse “a deber ser sólo y a no
serlo efectivamente” (Hegel). Pero el problema para los revisionistas no era
habérselas con “la idea”, sino habérselas con la realidad. Y si en el contexto
difícil de la posguerra el anarquismo revolucionario tenía muy pocas
posibilidades de ejercitarse cuando en el país sólo se pensaba en sobrevivir,
tampoco el revisionismo doctrinal tenía demasiado espacio, por lo que no se
materializó más que en diversos proyectos de partido y en inútiles compromisos
con las instituciones inoperantes del exilio o con el pretendiente al trono, en
programas políticos que perseguían, bien la constitución burguesa de 1931, bien
la monarquía parlamentaria, aunque hubo quienes llevaron su lógica hasta el
fin, colaborando con el régimen de Franco.
En el bando contrario, se
afirmaba que la colaboración institucional había sido obra de circunstancias
excepcionales y había resultado un completo fracaso, contribuyendo al desastre
final. Tanto mejor hubiera valido el apoliticismo aun al precio de quedar
aíslado, puesto que perdidos por perdidos, se hubiera caído con honor, en
defensa de sus ideas, no en defensa del Estado. Se imponía una restauración de
los “principios, tácticas y finalidades” del movimiento libertario para luchar
por la vuelta a “las conquistas del 19 de julio”. La fracción “purista”, tan
comprometida como la otra en la política republicana, evitaba entrar en
detalles sobre las verdaderas motivaciones de ese giro de ciento ochenta grados
en su conducta orgánica, ni precisar cómo volverían aquellas conquistas, o cómo
se restaurarían aquellos principios. Ni una palabra sobre cómo funcionarían los
sindicatos únicos en la clandestinidad de un régimen totalitario, ni sobre cómo
se llevarían a cabo la acción directa, la lucha antiestatal y la insurrección
revolucionaria contra el franquismo. Ni la neoortodoxia se sentía dispuesta a
repasar críticamente su trayectoria política y militar durante la guerra civil,
ni a descender a la atroz realidad de la dictadura. Para los “puros” la acción
no parecía constituir un problema, puesto que no era cuestión de salvar la vida
a nadie ni de conquistar realmente nada, sino de escudarse en los principios,
arsenal bien repleto de donde extraer todas las justificaciones posibles. Si
los principios quedaban anonadados por la realidad, tanto peor para la
realidad. Por ese camino el anarquismo solamente se concretaba en retórica,
inhibición e inmovilismo, y a lo sumo, en alguna aventura insensata. Si en el
revisionismo la acción se volvía más y más repelente, en el purismo se
evaporaba. En uno la idea se transformaba en paisaje de la política burguesa;
en el otro, ascendía al cielo de las causas perdidas. Para unos, el anarquismo
formaba parte de una especie de moral privada con que afrontar de una forma u otra
la ramplonería de la cotidianidad política; para los otros, constituía una fe
con la que consolarse de los males de la tierra, un credo a defender de sus
judas con patriotismo de campanario. En ambos casos, una ideología.
El anarquismo dejaba entonces de
ser la expresión intelectual del sector más avanzado del movimiento obrero en
la península, un producto de la lucha de clases y una teoría de esa lucha. Y no
lo era porque su contenido no era ya la realidad –en aquel momento, la realidad
de la derrota, del retroceso y de la aniquilación del movimiento obrero. Ya no
necesitaba comprender la realidad en su amarga involución manifiesta, para
encontrar la manera de actuar en ella y así transformarla conforme a sus fines
aplicando sus métodos específicos. El anarquismo desaparecía como fuerza
material para volverse etiqueta, catecismo, gueto. Un ente mitad iglesia, mitad
partido. Dejaba de ser pues una idea fundida con una práctica que no la
contradecía sino que la desarrollaba, una crítica social enraizada en las
condiciones materiales de existencia del proletariado, para devenir algo
trivial, accidental, contingente, y por consiguiente, propiamente irreal. Una
utopía, un sueño, una ilusión, algo que no podía servir a los intereses
generales de clase.
La diferencia primera entre el
anarquismo teórico –entre la reflexión desde el anarquismo– y la ideología
anarquista, reside en la separación entre idea y práctica, fines y medios,
conciencia y acción. La ideología es a la vez el poder separado de las ideas y
las ideas del poder separado. En el caso español, las ideas eran “los
principios” o “las circunstancias” según se mirase, mientras que el poder
separado era la Organización y sus Plenos, la rutina burocrática con
mayúsculas. La segunda, yace en la confusión de la parte con el todo, del
momento con el proceso, de las cuestiones tácticas con las líneas estratégicas,
como demostrarían por ejemplo las ideologías municipalista, primitivista o
insurreccionalista. El concepto de ideología deriva del concepto de religión,
materia cuya crítica los jóvenes hegelianos hicieron “la condición primera de
cualquier crítica”. La religión, como la ideología en general, es la conciencia
invertida del mundo. El mundo de la ideología es un mundo visto del revés, al
que hay que volver cabeza arriba para comprenderlo. La realidad, la verdad de
este mundo, hay que encontrarla en la vida material concreta, en la acción
humana transformadora; en concreto, en el trabajo, no fuera de él. Marx, en su
juventud, llamó ideología a todo lo que no fueran fuerzas productivas, a todo
lo que transcurría al margen de la economía y no reconocía un origen económico.
La ideología estaba formada por fantasías con las que los seres humanos, en una
sociedad insuficientemente desarrollada, explicaban sus fuerzas esenciales, su
potencialidad. Nacía de la insatisfacción de una praxis limitada, debida a que
el progreso tecnoeconómico todavía no había alcanzado la totalidad de los
aspectos de la vida. De acuerdo con el punto de vista marxista, la ideología
tendería a desaparecer con un desarrollo pleno de las fuerzas productivas, es
decir, con el desarrollo de la fuerza principal, el proletariado, cuyas
condiciones objetivas de vida impondrían un realismo liquidador de las
fantasmagorías que alejaban a los obreros de su vida auténtica. La disolución
de los prejuicios ideológicos eran para el obrero una exigencia de su realidad
inmediata. Prolongando este razonamiento, algunos discípulos de Marx (Plejanov,
Rosa Luxemburg, Maurín) caracterizaron al anarquismo de ideología típica de un
proletariado insuficientemente desarrollado. Resulta harto fácil ver la
ingenuidad que recorre tal razonamiento, pues es mas verdad que la
generalización de la condición proletaria lleva emparejado un desarrollo
supremo de la ideología. El mundo de la mercancía y de la técnica autónoma es
el mundo completamente al revés. La experiencia del movimiento obrero bastaría
para demostrar la pervivencia de la ideología, la impostura de representaciones
falsas que los burócratas orgánicos elevaban con facilidad por encima de la
vida proletarizada. La crítica de la ideología pudo completarse gracias al
psicoanálisis, que logró relacionarla con diversas formas de degradación de la
personalidad como la neurosis caracterial, la esquizofrenia y la falsa
conciencia en general, explicando fenómenos ideológicos como el racismo, el
autoritarismo o el militantismo. En momentos y periodos determinados, cuando eran muestras vivas de un pensamiento emancipador,
una reflexión por decirlo en palabras de Proudhon que salía de la acción y
volvía a la acción, en resumen, cuando eran revolucionarios, el marxismo y el
anarquismo proporcionaron al proletariado un conocimiento suficiente de la
sociedad y lo mantuvieron fuera de la política burguesa, permitiéndole hacer
historia. Por otra parte, las creaciones revolucionarias de los trabajadores,
los comités de fábrica, los sindicatos únicos o los consejos obreros, fueron
lugares de encuentro entre las ideas abstractas y la práctica concreta, el
espacio donde dichas teorías devenían realmente obreras y los obreros,
teóricos. En otros momentos y otros periodos, cuando tanto el socialismo como
el anarquismo se convirtieron en ideologías para servir a fines espurios, los
propios de una burocracia parásita o de un comportamiento evasivo y sumiso,
fueron responsables del oscurecimiento de su conciencia de clase y de los
falsos derroteros de su conducta. Y así pues, hoy en día la crítica de la
ideología, la religión secularizada, continúa siendo la condición primera de
toda crítica.
En el apogeo del capitalismo
fordista, preguntarse por la validez de las enseñanzas de Proudhon, Bakunin,
Kropotkin, Reclus, Malatesta, Landauer o Berneri, tenía poco sentido. Ninguno pudo conocer hasta qué punto eran
estrechas las relaciones que existían entre el desarrollo de las fuerzas
productivas, la colonización de la vida cotidiana y la contrarrevolución. Los
teóricos anarquistas habían de ser considerados simplemente como parte de la
cohorte de precursores, fundadores y continuadores del pensamiento socialista
revolucionario, igual que Marx, Engels, Rosa Luxemburg, Pannekoek, Reich,
Benjamin o Fourier, por citar sólo a unos cuantos. Especialmente criticables en
el viejo anarquismo serían la confianza excesiva en la espontaneidad
insurreccional de las masas proletarias y campesinas, sus oscilaciones entre
las tácticas ultralegalistas y la propaganda por el hecho o las expropiaciones,
su incapacidad para las alianzas con otros sectores obreros, la permanente
tentación política, la falta de estrategia clara, el confusionismo
organizativo, etc. Cualquier tentativa de restablecer una doctrina anarquista
–un sistema– con retazos de ideas descontextualizadas no sería más que una
utopía reaccionaria. Si buscáramos un Lenin de la anarquía, no obtendríamos más
que un Abad de Santillán o una Federica Montseny. Sin embargo, determinados
elementos del anarquismo conservan su eficacia subversiva y su negatividad,
pudiendo aplicarse aun cuando las condiciones sociales hayan cambiado y las
circunstancias sean otras. Tal la crítica del Estado y del parlamentarismo, de
los partidos y de la ciencia, sin olvidar su amor a la libertad, su
igualitarismo solidario y sus aportaciones a la pedagogía, la medicina social y
la sexología. Durante la Revolución española alcanzó sus mayores cotas de
realización, pero la derrota transformó sus postulados teórico prácticos en
ideología.
En los años sesenta ningún
revolucionario sincero podía abstenerse de criticar la ideología anarquista y
sus representantes. La reconstrucción de un pensamiento radical y una acción
revolucionaria pasaba por una ruptura con ese mundo. A eso he llamado crítica
anarquista del anarquismo real, aunque hubiera sido
mejor llamarlo irreal -es decir, ideológico, fruto de la sinrazón- puesto que
sólo lo racional es propiamente real. Critica de entrada eminentemente negativa
y que abarcaba las revoluciones del 18 y del 36. En efecto, los años sesenta
conocieron el auge de un irrespetuoso anarquismo que inmediatamente entró en
conflicto tanto con la izquierda tradicional como con los guardianes del templo
de la anarquía. Dicha crítica debía afrontar problemas nuevos que emanaban de
las condiciones de vida en un capitalismo tardío y que en vano esclarecería
limitándose a los textos clásicos: las luchas anticoloniales, el maoismo, la
revuelta húngara, la autogestión, la integración del arte, la cultura de masas,
las armas nucleares, la polución y destrucción de los entornos naturales, el
urbanismo concentracionario, el papel de las tecnologías y la automatización, el del automóvil, la sociedad de
consumo, la represión sexual, la emancipación de la mujer, la cuestión de la
violencia, etc. La inmensidad de la tarea crítica debutaría con los intentos de
reconciliar a Marx con Bakunin, o sea, de utilizar el análisis marxista desde
posiciones antiautoritarias, formulación demasiado simplista, fácil de acabar
en una ideología marxista libertaria estilo Guérin o Rubel. Hacían falta una
puesta al día en la subversión y una nueva crítica de la política, y por lo
tanto, muchas otras lecturas, –en el campo de la sociología, la filosofía, la
antropología, la historiografía, el arte, etc.– pero, por encima de todo, hacía
falta aprender a vivir la época intensamente. Se trataba de reafirmar la lucha
de clases, primero, denunciando la función policial de los sindicatos y
partidos ante las nuevas formas de acción (absentismo, huelgas salvajes,
sabotajes, sustracción de material) y de organización (comités, asambleas,
piquetes, coordinadoras, consejos). Segundo, ampliando su radio de acción al
terreno de la vida cotidiana (luchas de barrio, rechazo del trabajo, de la
familia, de la religión y del servicio militar, expropiación de fotocopiadoras,
comida o libros, contracultura, rock, maría, subjetividad, aventuras,
squatters, comunas). La labor teórica de la Internacional Situacionista fue la
primera (y la única) crítica global moderna de la sociedad de clases, pronto
confirmada por una serie de revueltas, a saber, la de los provos holandeses, el
zengakuren, la revuelta de los negros americanos, el mayo francés, la
revolución abortada de los obreros y soldados en Portugal y el movimiento italiano
del 77. No podemos decir que fuese completa, porque no era el resultado de
todos los esfuerzos teóricos precedentes y por lo tanto no contenía los
principios de todos ellos, ya que ignoraba algunos temas fundamentales como la
crítica de la razón instrumental, la cuestión ecológica o la
metropolitanización del mundo, por no hablar de su crítica superficial del
anarquismo, pero fue la más desarrollada y concreta. En todas partes se
manifestaba el mismo espíritu antiautoritario, la misma exigencia profunda de
libertad, el mismo proyecto de reconstrucción apasionada de la vida social que
la I.S. captó mejor que nadie. Y un poco en todas partes el capitalismo hubo de
emplearse a fondo y renovarse rápidamente de pies a cabeza, a menudo utilizando
los argumentos y las armas del contrario.
En los países donde todavía
subsistían restos de tradición obrera anarquista, el anarquismo que brotaba
como respuesta espontánea y en gran parte emotiva a las nuevas servidumbres
impuestas por el capitalismo, se dio de bruces con los muros de la ideología y
la ira de sus defensores. No era un conflicto generacional, era un reflejo de
la nueva lucha de clases. En las condiciones dominantes modernas, el gueto
ideológico y sus viejas costumbres habían pasado a formar parte del capitalismo
en tanto que ruinas inofensivas: era algo que tenía que morir para que las
nuevas generaciones revolucionarias viviesen. Lo que aproximaba el gueto
anarquista a los valores dominantes era mayor que lo que le separaba de los
nuevos rebeldes, por eso se distinguía tan poco del entorno político y
encontraba en él tan fácil acomodo. Ha sido común señalar desvergonzadamente el
papel jugado por los anarquistas “en defensa de las libertades” o en la
consolidación de “la democracia”. La ironía de la historia mostraba a unos viejos
libertarios satisfechos de estrechar filas al lado de la burguesía. En España,
donde la mencionada tradición fue mayor que en ninguna otra parte y donde la
represión de la dictadura había mantenido congeladas las contradicciones de la
ideología, la bronca entre antiguos y modernos –y entre ortodoxos y
revisionistas– adquirió visos de batalla campal.
El “relanzamiento” de la CNT
tuvo lugar en 1976 fuera de las fábricas, es decir, al margen del movimiento
obrero. No fue por consiguiente una emanación de la renaciente lucha de clases,
sino el producto de una serie de reuniones entre grupos heterogéneos en parte
ajenos a las asambleas de huelguistas y con un denominador común: construir una
central sindical que disputase a Comisiones Obreras un espacio en la
representación separada de la clase. La presencia de organizaciones como
Solidaridad y la admisión de cincopuntistas y otras basuras verticales indicaba
claramente que el tipo de sindicalismo perseguido no iba a diferenciarse mucho
de las demás opciones. Coherentemente con esos planteamientos, los relanzadores
no se
preocuparon demasiado de las disyuntivas cruciales del movimiento asambleario de los trabajadores; más bien plantaron el chiringuito, o
sea, una estructura burocrática suficiente (los Comités regionales, el
nacional, el secretariado permanente, el carnet confederal, los plenos) y
buscaron la alianza con la UGT y la USO para repartirse el pastel que CCOO
trataba de guardar para sí: el control del mercado laboral. Las demandas de
“libertad sindical” y desmantelamiento de la CNS, y el debate sobre su
legalización, marcaron la primera etapa de la CNT reconstruida. Ésta no sólo
ignoró las posibilidades revolucionarias presentes que se iban evaporando a
falta de avances en la clarificación y la acción, sino que contribuyó a darle
la puntilla al movimiento de las asambleas adhiriéndose de jure o de facto al
llamamiento de la COS a la huelga general del 12 de noviembre, que marcó el
punto final de las movilizaciones autónomas y el comienzo de la contraofensiva
sindicalera a toda regla. Sin embargo, el fracaso de la autoorganización de los
trabajadores –la transformación frustrada de las asambleas en consejos obreros–
atrajo hacia la CNT a muchos luchadores que no aceptaban el sindicalismo
burocrático y claudicante que se les venía encima, con la vana esperanza de
hallar en ella unas estructuras horizontales de apoyo y un espíritu
antiautoritario con que seguir combatiendo. La imagen de lo que la CNT había
sido podía sobre su pobre realidad. También se acogieron a ella muchos jóvenes
desinteresados en los conflictos laborales, que deseaban una CNT no sindical,
sino “integral”, es decir, una organización “global” entregada a todas las
cuestiones sociales y militando en todos los frentes abiertos contra el
capitalismo. Finalmente, a lo largo de 1977, ingresaron toda una serie de
grupúsculos obreristas “pro autonomía” nacidos al calor de las asambleas o en
paralelo a las mismas, demasiado confusos e incapaces para tener casa propia, y
por lo tanto, inclinados a incubar sus huevos en la ajena. Veían en el
sindicalismo aún virgen de la CNT al “germen” de la “autonomía obrera”, una
ideología criptoleninista de origen italiano; tan cierto es que los enemigos de
la autonomía proletaria se disfrazan de ésta para mejor combatirla. Entre unas
cosas y otras, el crecimiento de la CNT a partir de enero del 77 fue imparable;
la asistencia a sus mitines y jornadas, multitudinaria; las publicaciones de
carácter libertario, numerosas, y el triunfalismo de sus nuevos burócratas,
exultante. En año y medio la afiliación había subido de unos pocos miles a
129.000 miembros con carnet. Llegarían a sobrepasar los 250.000 en 1978. La
preocupación del partido del orden (la patronal, los demás sindicatos y el
Estado) era seria, puesto que en vísperas de los acuerdos de la Moncloa, el
Pleno Nacional de septiembre había proclamado la asamblea como único organismo
soberano y decisivo. Según la ponencia sobre la cuestión, el sindicato debía limitarse al apoyo y solidaridad con las
huelgas, no a la mediación. La CNT no debía interponerse entre la patronal y
los obreros, sino diluirse en las asambleas. No obstante, los dirigentes del
orden establecido se tranquilizarían rápidamente, ya que la victoria de los
asamblearios fue pírrica, pues acarreó el contraataque de las facciones
sindicalistas y de las ortodoxas –las adscritas a las formas de la ideología
durante la República–, intensificándose una lucha por el poder que, empezando
en el secretariado, abarcó todos los niveles, desde los diversos comités a las
juntas de los sindicatos.
Los Pactos de la Moncloa
priorizaban un tipo de sindicalismo de “concertación” que excluía cualquier
acción directa y proscribía toda generalización de las luchas, dos de los pocos
puntos en los que casi todos los cenetistas estaban de acuerdo. Consecuentes
con ello, los denunciaron y boicotearon las elecciones sindicales, aunque
muchos afiliados se presentaron como “independientes” y salieron elegidos. De
todas formas, la abstención fue considerable, pero a UGT y CCOO les bastó poco
más de un 10% de los sufragios para ser representativos ante la patronal y el
gobierno. La CNT se jugaba el tipo si no superaba mediante movilizaciones su
marginación de los comités de empresa y de las negociaciones de los convenios.
Pero a esas alturas – enero de 1978 – el movimiento obrero asambleario se batía
a la defensiva y las fórmulas mixtas de comités de representantes de
asamblea-sindicalistas, o comités sindicales refrendados por asambleas,
substituían a las formas anteriores de democracia directa. La CNT no podía
contar con el empuje de los trabajadores, ya terminado, con el añadido de que,
a pesar de la creciente afiliación, como central no había encabezado todavía
ninguna huelga importante, no se había estrenado. Por otra parte, su poder de
convocatoria ya no era el de las Jornadas Libertarias; a la manifestación
contra los Pactos de la Moncloa en Barcelona acudieron sólo diez mil personas,
a pesar de multiplicar por cuatro esa cifra el número de afiliados en aquella
ciudad. Y ese mismo día (el 15 de enero de 1978), ocurrió la provocación
policial del Scala. A las disputas en torno al asambleismo y la organización
integral se añadieron nuevas confrontaciones, esta vez acerca de las elecciones
sindicales, de las acciones violentas de minorías y de la presencia de grupos
armados que comprometían a la Organización. Las luchas por el poder entre las
diferentes tendencias y personajes arreciaron al punto de tener que trasladarse
el secretariado permanente de Madrid a Barcelona (abril de 1978). Desde
entonces será una constante que los secretarios aprovechen los cargos para
formar su propia fracción y competir con las demás. Confirmando una constante
dada en los periodos contrarrevolucionarios, los cargos más relevantes iban
siendo ocupados por los personajes más impresentables. Mientras tanto, se
desvanecían las huelgas asamblearias e iban menguando dentro de la organización
los asambleistas y los “integrales”, adquiriendo en cambio nuevos bríos los
partidarios de un sindicalismo moderado y de la participación electoral, en su
mayoría antiguos “autónomos”, pasados al revisionismo antianarquista con armas
y bagajes. Gracias al sistema de plenos en los que sólo participaban los cargos
sin tener en cuenta las asambleas de militantes ni el número de afiliados
representados, los ortodoxos, bautizados por sus enemigos como el “Exilio-FAI”
o como “los históricos”, dominaron la Organización. Todavía la revista oficial
de todo la modernez, Ajoblanco, tiraba en junio 150.000 ejemplares, indicio de
la existencia de una notoria sensibilidad libertaria, aunque fuera muy pasada
por agua, pero la afiliación descendía en picado. La huelga de las gasolineras
fue la primera y la última dirigida por la CNT, y con ella se hizo el harakiri.
Ni acción directa, ni sindicalismo duro; intermediación gubernativa y triunfo
patronal. Durante 1979 las desfederaciones, expulsiones y disoluciones de
sindicatos se sucederían sin interrupción; las luchas de fracciones no
conseguían ocultar que la apuesta giraba en torno a las elecciones y a la
mediación burocrática declarada. Casos como el de la FIGA (el vanguardismo
aventurero), el de Askatasuna (el nacionalpopulismo) o el de los “paralelos”
(el oportunismo sindicalero), pusieron de relieve el grado de descomposición
alcanzado, especialmente el de estos últimos. En un clima de reflujo no
funciona más sindicalismo que el burocrático. Para los paralelos –y para
electoralistas en general– se trataba de incorporarse a la dinámica sindical
dominante y jugar el juego de UGT y CCOO so pena de marginarse y quedar fuera
no sólo de los tratos con los empresarios y el gobierno, sino de las
subvenciones y ayudas oficiales. Ese fue el quid de la cuestión que se dirimió
en el autoproclamado quinto Congreso, celebrado en diciembre de 1979 por una
escuálida CNT que no representaba a más de treinta mil afiliados. Triunfó la
ideología arcaica y las minorías reformistas fueron encaminándose, las unas,
hacia los sindicatos “mayoritarios”, y, las otras, hacia la reconstrucción de
una segunda CNT obrerista del mismo pelaje. Y con el tiempo, salvando los
pequeños círculos fieles a la ideología clásica que conservaron la propiedad de
las siglas y ampararon bajo ellas una actividad muy limitada, la masa de
militantes bien se retiró hacia lo privado, bien acabó en el redil de un sindicalismo
burocrático, impotente y entreguista que supuestamente había jurado combatir.
Si las aventuras de la ideología
fueron trágicas en el pasado, en el periodo
de la “Transición”
adquirieron visos de auténtica
farsa. En esta ocasión el anarquismo y el
anarcosindicalismo no reaparecieron como pensamiento y práctica del movimiento revolucionario de la
clase obrera anterior al franquismo, sino como una mistificación primaria, un chou a menudo cómico cuya función
por supuesto no era traer a colación
las enseñanzas
de antiguos combates, sino colaborar, paseando por el wild side, en la modernización capitalista. El contraste entre la práctica de la clase obrera hasta 1977 y una
teoría revolucionaria casi ausente, o
sea, una “expresión general y nada más
del movimiento histórico real” apenas esbozada, favorecía el desarrollo de la ideología y de la burocracia. Ambas extraían su fuerza de la imagen de un pasado revolucionario con
sus contradicciones tan bien disimuladas como las alienantes condiciones de
existencia de las clases trabajadoras en el presente. En tanto que refuerzo de
la mentira dominante fomentaron un sindicalismo parlanchín y una ridícula moda contestataria. Los restos del proletariado
radical fueron vencidos por segunda vez allí donde creyeron poder rehacerse. La CNT cumplió ese poco glorioso segundo papel que le
concedió la historia, pero no recibió la paga de los traidores. El ciclo de la
burocracia obrera terminó con la
derrota del proletariado asambleario y el copo de la representación espectacular por amarillistas
profesionales. Los acuerdos marco y el Estatuto de los Trabajadores
proscribieron la solidaridad y las asambleas, eliminando incluso la posibilidad
de una acción semiautónoma disimulada tras los comités de empresa, forma de burocracia sindical primeriza e
imperfecta. En lo sucesivo no cabría
espacio más que para el sindicalismo
neovertical de “cocos” y ugetistas. Las escasísimas transgresiones de las reglas que se sucedieron no
modificaron el deplorable panorama de la resignación y la sumisión. Como
consecuencia de tan tremenda debacle la ideología en todas sus variantes quedó de nuevo en entredicho; la memoria se puso en blanco y
tanto la reflexión teórica como su praxis hubieron de atravesar un largo desierto
–una especie de segundo exilio– para conectar de nuevo con la realidad y
la historia.
Miguel Amorós, Octubre 2008