sabato 17 ottobre 2020

UNA MONTAGNA IN ALTO MARE

 


Comunicato del Comitato clandestino rivoluzionario indigeno

Comando generale dell’esercito zapatista di 

liberazione nazionale

Messico 5 ottobre 2020

Al Congresso nazionale indigeno-Consiglio indigeno di governo, alla sesta nazionale e internazionale, alle reti di resistenza e di ribellione, alle persone oneste che resistono in tutti gli angoli del pianeta,

Noi, popoli originari di radice maya e zapatista, vi salutiamo e vi diciamo quel che è venuto fuori dal nostro pensiero comune, in accordo con quel che vediamo, intendiamo e sentiamo.

Primo. – Noi vediamo e ascoltiamo un mondo malato nella sua vita sociale, frammentato in milioni di persone straniere le une alle altre, attaccate alla loro sopravvivenza individuale, ma unite sotto l’oppressione di un sistema pronto a tutto per soddisfare la sua sete di profitto quando è chiaro che il suo cammino va contro l’esistenza del pianeta Terra.

L’aberrazione del sistema e la sua stupida difesa del “progresso” e della “modernità” si urtano a una realtà criminale: i femminicidi. L’omicidio di donne non ha colore né nazionalità, è mondiale. Se è assurdo e insensato che qualcuno sia perseguito, rapito, assassinato per il colore della pelle, l’etnia, la cultura, le credenze, non si può credere che il fatto di essere donna equivalga a una sentenza di marginalizzazione e di morte.

In questa escalation prevedibile (le vessazioni, la violenza fisica, le mutilazioni e l’omicidio), e con l’avallo di un’impunità strutturale (“se lo meritava”, “aveva dei tatuaggi”, “ che cosa faceva in quel posto a quell’ora?”, “ Con quella tenuta c’era da aspettarselo”), gli omicidi di donne non hanno altra logica criminale che quella del sistema. Di diversi strati sociali, di diverse etnie, dall’età infantile alla vecchiaia e in situazioni geografiche lontanissime tra loro, la sola costante è il genere. E il sistema è incapace di spiegare perché ciò vada di pari passo con il suo “sviluppo” e con il suo “progresso”. Nella rivoltante statistica dei decessi, più una società è sviluppata più è elevato il numero di vittime in quest’autentica guerra di generi.

La “civiltà” sembra dire a noi, popoli autoctoni: “La prova del vostro sottosviluppo sta nel vostro basso tasso di femminicidio. Abbiate i vostri megaprogetti, le vostre centrali termoelettriche, le vostre miniere, le vostre dighe, i vostri centri commerciali, i vostri negozi di elettrodomestici – con un canale televisivo incluso – e imparate a consumare. Siate come noi. Per pagare il debito di quest’aiuto progressista, le vostre terre, la vostra acqua, le vostre culture, le vostre dignità non bastano. Bisogna aggiungervi la vita delle donne.

Secondo. – Noi vediamo e sentiamo la natura ferita a morte che, nella sua agonia, avverte l’umanità che il peggio deve ancora venire. Ogni catastrofe “naturale” annuncia la seguente e dimentica, guarda caso, che è l’azione di un sistema umano che ne è la causa.

La morte e la distruzione non sono più, ormai, una cosa lontana, limitata da frontiere, rispettosa delle dogane e delle convenzioni internazionali. La distruzione, in qualunque angolo del mondo, ha ripercussioni su tutto il pianeta.

Terzo. – Vediamo e ascoltiamo i potenti battere in ritirata e nascondersi dietro i sedicenti Stati-nazione e i loro muri. In questo impossibile balzo all’indietro, ravvivano dei nazionalismi fascisti, degli sciovinismi ridicoli e dei discorsi assordanti. Di fronte a ciò, attiriamo l’attenzione sulle possibili guerre future: quelle che si nutrono di storie false, vuote e menzognere e che convertono nazionalità ed etnie in supremazie imposte con la morte e la distruzione. Nei diversi paesi, il conflitto si gioca tra i capisquadra e quanti aspirano a prenderne il posto, occultando che il padrone, il signore, il capetto resta lo stesso e non ha altra nazionalità che quella del denaro. Nel frattempo gli organismi internazionali deperiscono e si riducono a semplici sigle, come pezzi da museo o neppure quelli.

In mezzo all’oscurità e alla confusione che precedono queste guerre, ascoltiamo e osserviamo come ogni bagliore di creatività, d’intelligenza e di razionalità sia attaccato, assediato, perseguitato. Di fronte al pensiero critico, i potenti richiedono, esigono e impongono i loro fanatismi. La morte che piantano, coltivano e raccolgono non è soltanto la morte fisica, comprende anche l’estinzione dell’universalità propria all’umanità – l’intelligenza – , le sue avanzate e le sue realizzazioni. Nuove correnti esoteriche, laiche o no, rinascono o sono create, travestite da mode intellettuali o pseudoscienze, mentre si pretende d’infeudare le arti e le scienze a dei militantismi politici.

Quarto. – La pandemia di Covid 19 ha mostrato non solo le vulnerabilità dell’essere umano, ma anche l’avidità e la stupidità dei diversi governi nazionali e delle loro sedicenti opposizioni.

Le misure del più elementare buon senso sono state disprezzate, scommettendo sempre che la pandemia fosse di corta durata. Quando l’avanzare della malattia ha preso proporzioni sempre più importanti, le cifre hanno cominciato a sostituirsi alle tragedie. La morte è stata così convertita in una cifra affogata quotidianamente in mezzo a scandali e dichiarazioni. Un paragone morboso tra nazionalismi ridicoli. La media dei gol e dei dribbling per determinare quale sia la peggiore o la migliore squadra, la nazione migliore.

Come lo precisa uno dei testi precedenti, in seno allo zapatismo abbiamo scelto la prevenzione e l’applicazione di misure sanitarie che erano state prese allora in seguito alla consultazione di scienziati che ci hanno guidato e ci hanno offerto il loro aiuto, senza alcuna esitazione. Noi, popoli zapatisti, siamo loro riconoscenti e abbiamo voluto dimostrarlo così. Dopo sei mesi di applicazione di queste misure (maschere o equivalenti per coprirsi la bocca, distanziamento tra le persone, cessazione dei contatti personali diretti con le zone urbane, quarantena di quindici giorni per le persone venute in contatto con individui contagiati, lavaggio frequente all’acqua e sapone), lamentiamo il decesso di tre compagni che presentavano due o più sintomi associati al Covid 19 e che avevano avuto un contatto diretto con persone contagiate.

Otto altri compagni e una compagna, morti in questo periodo, presentavano uno dei sintomi. Siccome non siamo in grado di realizzare dei test assumiamo che in totale dodici compañer@s sono morti a causa del Coronavirus (degli scienziati ci hanno consigliato di decidere che ogni difficoltà respiratoria sarebbe dovuta al Covid 19). Queste dodici dipartite sono imputabili alla nostra responsabilità. Non è colpa della 4T [nota: “Quarta Trasformazione”, nome dato dalla propaganda di Lopez Obrador al suo mandato presidenziale] né dell’opposizione, né dei neoliberali né dei neoconservatori, né delle cospirazioni, né di complotti. Noi pensiamo piuttosto che avremmo dovuto prendere precauzioni ancora maggiori.

Adesso, con la scomparsa di questi dodici compañer@s sulle spalle, stiamo migliorando in tutte le comunità le misure di prevenzione, con il sostegno attuale di organizzazioni non governative e di scienziati che, a titolo individuale o collettivo, ci guidano sulla maniera per prepararci meglio ad affrontare una possibile risorgenza. Decine di migliaia di maschere (concepite espressamente in modo che un potenziale portatore non possa infettare altre persone, a basso prezzo, riutilizzabili e adattate alle circostanze) sono state distribuite in tutte le comunità. Altre decine di migliaia sono fabbricate negli atelier di ricamo nei villaggi degli insorti e delle insorte. L’impiego massivo di maschere, la quarantena di due settimane per quanti potrebbero contrattare l’infezione, la distanza e il lavaggio ricorrente di mani e volto con acqua e sapone, come anche il fatto di evitare per quanto possibile di andare nelle città, sono misure ugualmente raccomandate ai fratelli e sorelle membri dei partiti politici, al fine di contenere la diffusione dei contagi e di permettere il sussistere della vita comunitaria.

Il dettaglio preciso della nostra strategia passata e attuale potrà essere consultato al momento venuto. Per ora noi diciamo, con il soffio di vita che percorre il nostro corpo, che, secondo il nostro bilancio (sul quale possiamo probabilmente sbagliare), il fatto di affrontare la minaccia in quanto comunità e non come un problema individuale, cosi come il fatto di dirigere il nostro sforzo principale in direzione della prevenzione, ci permettono di dire, in quanto popoli zapatisti: ci siamo, resistiamo, viviamo e lottiamo.

Oggi, nel mondo intero, il grande capitale pretende di far ritornare la gente in strada per fare assumere loro la condizione di consumatori e consumatrici. Perché i problemi che li preoccupano sono quelli del Mercato: la letargia nel consumo di merci.

Bisogna ritornare in strada, sì, ma per lottare. Perché come l’abbiamo detto in precedenza, la vita, la lotta per la vita, non è un problema individuale, ma collettivo. E ora ci si rende conto che non è più un problema di nazionalità, è un problema mondiale.

Ci sono sacchi di cose di quest’ordine che osserviamo e ascoltiamo. E un sacco di cose sulle quali riflettiamo. Ma non solo...

Quinto. – Ascoltiamo e osserviamo ugualmente le resistenze e le ribellioni che, benché taciute e dimenticate, non restano per questo meno essenziali nel tracciare delle piste per un’umanità che si rifiuta di seguire il sistema nella sua marcia forzata verso il crollo: il treno mortale del progresso che avanza, orgoglioso e impeccabile, in direzione del precipizio, mentre il macchinista dimentica che non è altro che un impiegato in più mentre crede ingenuamente di essere colui che decide il cammino allorché non fa che seguire, rinchiuso, i binari che lo portano all’abisso.

Resistenze e ribellioni che senza dimenticare le lacrime per le persone scomparse, s’intestano a lottare – chi l’avrebbe detto – per la cosa più sovversiva che ci sia in questi mondi divisi tra neoliberali e neoconservatori: la vita.

Resistenze e ribellioni che capiscono, ognuna a suo modo, con il suo ritmo e secondo la sua geografia, che le soluzioni non riposano sulla fede nei governi nazionali e che non le si può concepire protette da frontiere, né bardate di bandiere e di lingue diverse.

Resistenze e ribellioni che insegnano a tutti noi zapatisti che le soluzioni potrebbero trovarsi in basso, negli scantinati e nelle nicchie del mondo. Non nei palazzi di governo. Non negli uffici delle grandi imprese.

Resistenze e ribellioni che ci mostrano che se quelli in alto tagliano i ponti e fermano le frontiere, noi possiamo sempre navigare lungo i fiumi e i mari per incontrarci. Che la guarigione, se esiste, è mondiale; che porta il colore della terra, del lavoro che vive e che muore nelle strade e nei quartieri, nei mari e nel cielo, nelle montagne e nelle loro viscere. Che tutto, come il mais originario è fornito di numerosi colori, tonalità e sonorità.

Tutto ciò e ancora di più è quel che osserviamo e ascoltiamo. E ci vediamo e ci ascoltiamo per quello che siamo: un numero che non conta. Perché la vita non conta, non vende, non finisce in prima pagina, non entra nelle statistiche, non compete nei sondaggi, non trova apprezzamento sui social, non provoca, non rappresenta nessun capitale politico, nessuno stendardo di partito, nessuno scandalo alla moda. Chi si preoccupa che un piccolo, minuscolo gruppo di originari, d’indigeni, viva, vale a dire lotti?

Perché il fatto è che noi viviamo. Che nonostante i paramilitari, le pandemie, i megaprogetti, le menzogne, le calunnie e gli oblii, noi viviamo. Vale a dire che noi lottiamo.

E su questo noi riflettiamo: in che cosa continuiamo a lottare. Vale a dire in che cosa continuiamo a vivere. E pensiamo che durante tutti questi anni, abbiamo ricevuto l’abbraccio fraterno di persone del nostro paese e del resto del mondo. E pensiamo che se qui la vita resiste e che malgrado le difficoltà arriva a fiorire, è grazie a queste persone che hanno sfidato le distanze, le procedure, le frontiere, le differenze culturali e linguistiche. Grazie a tutti ma soprattutto alle donne, i calendari e le geografie sono stati sfidati e vinti.

Nelle montagne del Sud est messicano, tutti i mondi del mondo hanno incontrato e incontrano sempre un ascolto nei nostri cuori. La loro parola e la loro azione hanno alimentato la resistenza e la ribellione che non sono che la continuazione di quelle di nostri predecessori.

Delle persone con le scienze e le arti nel mirino hanno trovato il modo di abbracciarci e incoraggiarci, anche a distanza. Dei giornalisti, alternativi o no, che hanno precedentemente testimoniato della miseria e della morte, e sempre della dignità e della vita. Delle persone di tutte le professioni e di tutti i corpi di mestiere che, benché per noi sia molto ma per loro forse poca cosa, sono stati presenti e continuano a esserlo.

Noi pensiamo a tutto ciò nel nostro cuore collettivo ed è arrivato al nostro pensiero che sia ormai il momento per noi zapatisti di restituire la stessa attenzione all’ascolto, alla parola e alla presenza di questi mondi, vicini o lontani geograficamente.

Sesto. – Noi abbiamo dunque deciso questo:

Che è tempo di nuovo che danzino i cuori e che né la loro musica, né i loro passi siano quelli dei lamenti e della rassegnazione.

Che diverse delegazioni zapatiste, uomini, donne e altriE del colore della nostra terra, usciranno per percorrere il mondo. Che noi prenderemo la strada o che navigheremo fino alle terre, ai mari e ai cieli lontani, alla ricerca non della differenza, né della superiorità, né dello scontro, ma ancor meno del perdono e del rimpianto.

Partiremo alla ricerca di quel che ci rende uguali.

Non soltanto l’umanità che anima le nostre diverse pelli, le nostre diverse maniere, le nostre lingue e i nostri colori diversi. Anche e soprattutto, però, il sogno comune che condividiamo come specie da quando in quell’Africa che ci sembra così lontana, abbiamo cominciato a fare il nostro cammino, cullati in braccio alla prima donna: la ricerca della libertà che ha animato questo primo passo ... e che continua da allora il suo cammino.

Che la prima destinazione di questo viaggio planetario sarà il continente europeo.

Che navigheremo fino alle terre europee. Che lasceremo le terre messicane e leveremo l’ancora durante il mese di aprile del 2021.

Che dopo aver percorso diversi angoli dell’Europa a partire dal basso a sinistra arriveremo a Madrid, la capitale spagnola, il 13 agosto 2021 – 500 anni dopo la cosiddetta conquista di quello che è oggi il Messico. E che immediatamente dopo riprenderemo la strada.

Che parleremo al popolo spagnolo. Non per minacciarlo, non per rimproverarlo, insultarlo o reclamargli qualcosa. Non per esigere che ci chieda perdono. Non per servirlo né per servirci.

Diremo al popolo di Spagna due cose semplici:

1) Che non siamo stati conquistati. Che siamo sempre in resistenza e in ribellione.

2) Che non hanno motivo di domandare che perdoniamo loro niente. Basta giocare con il passato lontano per giustificare, con demagogia e ipocrisia, i crimini attuali e sempre in corso: l’assassinio di militanti, come i fratelli Samir Flores Soberanes; i genocidi camuffati dietro megaprogetti concepiti e realizzati per la soddisfazione del potente – lo stesso che flagella tutti gli angoli del pianeta –; il sostegno finanziario e l’impunità accordata ai paramilitari; la compera delle coscienze e delle dignità in cambio di qualche centesimo.

Noi zapatisti e zapatiste non vogliamo tornare a questo passato, né soli, né ancor meno guidati da quelli che cercano di seminare il rancore razziale, che pretendono alimentare il loro nazionalismo desueto con il sedicente splendore di un impero, l’impero azteco costruito con il sangue dei propri simili, e che pretendono di convincerci che con la caduta di questo impero, noi, popoli originari, siamo stati sconfitti.

Né lo Stato spagnolo né la Chiesa cattolica devono domandarci perdono di nulla. Noi non faremo l’eco ai furfanti che si ergono sul nostro sangue cercando così di nascondere che ne sono sporchi.

Di che cosa la Spagna potrebbe domandarci perdono? Di aver dato i natali a Cervantes? José Espronceda ? León Felipe ? Federico García Lorca ? Manuel Vázquez Montalbán ? Miguel Hernández ? Pedro Salinas ? Antonio Machado ? Lope de Vega ? Bécquer ? Almudena Grandes ? Panchito Varona, Ana Belén, Sabina, Serrat, Ibáñez, Llach, Amparanoia, Miguel Ríos, Paco de Lucía, Víctor Manuel, Luis Eduardo Aute per sempre? Buñuel, Almodóvar e Agrado, Saura, Fernán Gómez, Fernando León, Bardem ? Dalí, Mirò, Goya, Picasso, el Greco e Velázquez ? Di una parte del miglior pensiero critico mondiale segnato dalla"A" libertaria? Della Repubblica? Dell’esilio? Del fratello maya Gonzalo Guerrero?

Di che cosa la Chiesa cattolica potrebbe domandarci perdono? Del passaggio di Bartolomeo de las Casas? Di Don Samuel Ruiz García? Di Arturo Lona? Di Sergio Méndez Arceo? Della sorella Chapis? Di quei preti, sorelle religiose e secolari che hanno camminato insieme agli autoctoni senza dirigerli né soppiantarli? Di quelle persone che rischiano la loro libertà e la loro vita per difendere i diritti umani?

L’anno 2021 sarà quello dei venti anni della Marcia del colore della Terra che abbiamo realizzato, insieme ai popoli fratelli del Congresso nazionale indigeno, per reclamare un posto in questa nazione che oggi crolla.

Venti anni dopo, navigheremo e cammineremo per dire al pianeta che nel mondo che noi percepiamo nel nostro cuore collettivo, c’è posto per tutte e per tutti gli altri. Molto semplicemente perché questo mondo è possibile soltanto se tutti quanti insieme, nessuno escluso, lottiamo per metterlo in piedi.

Le delegazioni zapatiste saranno formate in maggioranza da donne. Non solo perché in questo modo esse vogliono rendere l’abbraccio che hanno ricevuto durante gli incontri internazionali anteriori. Anche e soprattutto perché noi uomini zapatisti facciamo chiaramente sapere che siamo quel che siamo e non siamo quel che non siamo grazie a loro, le donne, per loro e con loro.

Noi invitiamo il Congresso nazionale indigeno – Consiglio indigeno di governo a formare una delegazione per accompagnarci e che sia così più ricca la nostra parola per l’altro che lotta lontano. Invitiamo particolarmente una delegazione di popoli che ricordano il nome, l’immagine e il sangue del fratello Samir Flores Soberanes, affinché il suo dolore, la sua rabbia, la sua lotta e la sua resistenza arrivino più lontano.

Invitiamo le persone che hanno per vocazione, impegno e orizzonte le arti e le scienze, ad accompagnare a distanza le nostre navigazioni e i nostri passi. Che in questo modo ci aiutino a diffondere che nelle scienze e nelle arti riposa la possibilità, non solo della sopravvivenza dell’umanità, ma anche di un mondo nuovo.

In sintesi: noi partiamo per l’Europa nell’aprile 2021. La data e l’ora? Non le sappiamo ancora.

 

 

Compañeras, compañeros, compañer@s; sœurs, frères, et frœurs,

Questa é la nostra volontà:

Di fronte alla potenza dei treni, le nostre canoe.

Di fronte alle centrali termoelettriche, i lumicini che le donne zapatiste hanno affidato alle donne in lotta nel mondo intero.

Di fronte ai muri e alle frontiere, la nostra navigazione collettiva.

Di fronte al grande capitale, un campo in comune.

Di fronte alla distruzione del pianeta, una montagna che naviga all’alba.

Noi zapatisti siamo portatrici e portatori del virus della resistenza e della ribellione. In conseguenza andremo sui cinque continenti. Es todo par ahora. Per ora è tutto.

Dalle montagne del Sud est messicano. In nome delle donne, degli uomini e degli altri/e zapatisti.

Sottocomandante insorto Moises. Messico, ottobre 2020

P. S. – Sì, è la sesta parte e, come il viaggio, si svolgerà a rovescio. Vale a dire che seguirà la quinta parte, poi la quarta, la terza, seguita dalla seconda prima di terminare con la prima.

http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2020/10/09/sixieme-partie-une-montagne-en-haute-mer/

 

Une montagne en haute mer






Communiqué du Comité clandestin révolutionnaire indigène

Commandement général de l'Armée zapatiste de libération nationale.

Mexique, 5 octobre 2020

 

Au Congrès national indigène-Conseil indigène de gouvernement, à la Sexta nationale et internationale, aux Réseaux de résistance et de rébellion, aux personnes honnêtes qui résistent dans tous les coins de la planète,

Nous, peuples originaires de racine maya et zapatistes, nous vous saluons et vous disons ce qui est venu à notre pensée commune, en accord avec ce que nous voyons, entendons et ressentons.

Premièrement. - Nous voyons et écoutons un monde malade dans sa vie sociale, fragmenté en des millions de personnes étrangères les unes aux autres , accrochées à leur survie individuelle, mais unies sous l'oppression d'un système prêt à tout pour assouvir sa soif de profit, même lorsqu'il est clair que sa voie va à l'encontre de l'existence de la planète Terre.

L'aberration du système et sa stupide défense du "progrès" et de la "modernité" se heurtent à une réalité criminelle: les féminicides. L'assassinat de femmes n'a ni couleur ni nationalité, il est mondial. S'il est absurde et insensé que quelqu'un soit poursuivi, enlevé, assassiné en raison de la couleur de sa peau, de sa race, de sa culture, de ses croyances, on ne peut pas croire que le fait d'être une femme équivaille à une sentence de marginalisation et de mort.

Dans cette escalade prévisible (harcèlement, violence physique, mutilation et meurtre), et avec laval d'une impunité structurelle ("elle le méritait", "elle avait des tatouages", "que faisait-elle dans ce endroit-là à ce moment-là?", "dans cette tenue, il fallait s'y attendre"), les meurtres de femmes n'ont pas d'autre logique criminelle que celle du système. De différentes couches sociales, de différentes races, d'âges allant de la petite enfance à la vieillesse, et dans des géographies très éloignées les unes des autres, la seule constante est le genre. Et le système est incapable d'expliquer pourquoi cela va de pair avec son "développement" et son "progrès". Dans la révoltante statistique des décès, plus une société est "développée", plus le nombre de victimes est élevé dans cette authentique guerre de genres.

Et la "civilisation" semble nous dire, à nous les peuples autochtones : "La preuve de votre sous-développement réside dans votre faible taux de féminicide. Ayez vos mégaprojets, vos trains, vos centrales thermoélectriques, vos mines, vos barrages, vos centres commerciaux, vos magasins d'électroménager - avec une chaîne de télévision incluse – et apprenez à consommer. Soyez comme nous. Pour payer la dette de cette aide progressiste, vos terres, vos eaux, vos cultures, vos dignités ne suffisent pas. Il faut y ajouter la vie des femmes.

Deuxièmement.- Nous voyons et écoutons la nature blessée à mort qui, dans son agonie, avertit l'humanité que le pire est encore à venir. Chaque catastrophe "naturelle" annonce la suivante et oublie comme par hasard que c'est l'action d'un système humain qui en est la cause.

La mort et la destruction ne sont plus désormais une chose lointaine, limitée par des frontières, respectant les douanes et les conventions internationales. La destruction, dans n'importe quel coin du monde, a des répercussions sur toute la planète.

Troisièmement.- Nous voyons et écoutons les puissants battre en retraite et se cacher derrière les soi-disant Etats-Nation et leurs murs. Et, dans cet impossible bond en arrière, ils ravivent des nationalismes fascistes, des chauvinismes ridicules et des discours assourdissants. Face à cela, nous attirons l'attention sur les possibles guerres à venir : celles qui se nourrissent d'histoires fausses, creuses et mensongères, et qui convertissent nationalités et races en suprématies imposées par le biais de la mort et de la destruction. Dans les différents pays, le conflit se joue entre les contremaîtres et ceux qui aspirent à leur succéder, masquant le fait que le patron, le maître, le petit chef reste le même, et qu'il n'a pas d'autre nationalité que celle de l'argent. Pendant ce temps, les organismes internationaux dépérissent et se réduisent à de simples sigles, tels des pièces de musée - voire même pas cela.

Au milieu de l'obscurité et de la confusion qui précèdent ces guerres, nous écoutons et observons comment toute lueur de créativité, d'intelligence et de rationalité est attaquée, assiégée et persécutée. Face à la pensée critique, les puissants requièrent, exigent et imposent leurs fanatismes. La mort qu'ils plantent, cultivent et récoltent n'est pas seulement la mort physique ; elle comprend également l'extinction de l'universalité propre à l'humanité - l'intelligence -, ses avancées et ses réalisations. De nouveaux courants ésotériques renaissent ou sont créés, laïques ou non, déguisés en modes intellectuelles ou en pseudosciences ; et on prétend inféoder les arts et les sciences à des militantismes politiques.

Quatrièmement.- La pandémie de COVID 19 a montré non seulement les vulnérabilités de l'être humain, mais aussi l'avidité et la stupidité des différents gouvernements nationaux et de leurs soi-disant oppositions.

Les mesures du plus élémentaire bon sens ont été méprisées, en pariant toujours que la pandémie serait de courte durée. Lorsque l'avancée de la maladie a pris des proportions toujours plus importantes, les chiffres ont commencé à se substituer aux tragédies. La mort a ainsi été convertie en un chiffre noyé quotidiennement au milieu des scandales et des déclarations. Un comparatif morbide entre des nationalismes ridicules. La moyenne des buts et des reprises de dribbles, pour déterminer quelle est la pire ou la meilleure équipe, la meilleure nation.

Comme le précise l'un des textes précédents, au sein du zapatisme nous avons opté pour la prévention et l'application de mesures sanitaires qui avaient alors été prises suite à la consultation de scientifiques qui nous ont guidés et nous ont offert leur aide, sans aucune hésitation. Nous, les peuples zapatistes, leur en sommes reconnaissants et nous avons voulu le démontrer ainsi. Après 6 mois d'application de ces mesures (masques ou équivalents pour se couvrir la bouche, distance entre les personnes, cessation des contacts personnels directs avec les zones urbaines, quarantaine de 15 jours pour les personnes ayant pu avoir été en contact avec des personnes infectées, lavage fréquent à l'eau et au savon), nous regrettons le décès de 3 camarades qui présentaient deux ou plusieurs symptômes associés au Covid 19 et qui avaient eu un contact direct avec des personnes infectées.

Huit autres compañeros et une compañera, morts pendant cette période, présentaient un des symptômes. Comme nous ne sommes pas en mesure de réaliser des tests, nous assumons qu'un total de 12 compañer@s sont morts à cause du Corona virus (des scientifiques nous ont conseillé d'assumer le fait que toute difficulté respiratoire serait due au Covid 19). Ces 12 disparitions relèvent de notre responsabilité. Ce n'est pas la faute de la 4T |note: "Quatrième Transformation", nom donné par la propagande de Lopez Obrador à son mandat] ni de l'opposition, ni des néolibéraux ni des néoconservateurs, ni des conspirations ni de complots. Nous pensons plutôt que nous aurions dû prendre encore davantage de précautions.

Actuellement, avec la disparition de ces 12 compañer@s sur les épaules, nous améliorons dans toutes les communautés les mesures de prévention, avec le soutien à présent d'organisations non gouvernementales et de scientifiques qui, à titre individuel ou collectif, nous guident quant à la manière de mieux nous préparer pour affronter une possible résurgence. Des dizaines de milliers de masques (conçus spécialement afin qu'un probable porteur de virus ne puisse pas contaminer d'autres personnes, à bas prix, réutilisables et adaptés aux circonstances) ont été distribués dans toutes les communautés. D'autres dizaines de milliers sont fabriqués dans les ateliers de broderie et de couture des insurgé.e.s et dans les villages. L'emploi massif des masques, les quarantaines de deux semaines pour celleux qui pourraient être infecté.e.s, la distance et le lavage récurrent des mains et du visage avec de l'eau et du savon, ainsi que le fait d'éviter dans la mesure du possible d'aller dans les villes sont des mesures recommandées également aux frères et sœurs membres des partis politiques, afin de contenir la diffusion des contagions et de permettre le maintien de la vie communautaire.

Le détail précis de notre stratégie passée et actuelle pourra être consulté au moment venu. Pour le moment nous disons, avec le souffle de vie parcourant nos corps, que, selon notre bilan (sur lequel nous pouvons probablement nous tromper), le fait d'affronter la menace en tant que communauté et non comme un problème individuel, ainsi que le fait de diriger notre effort principal en direction de la prévention nous permettent de dire, en tant que peuples zapatistes: nous sommes là; nous résistons, nous vivons, nous luttons.

Et aujourd'hui, dans le monde entier, le grand capital prétend faire retourner les gens dans les rues pour leur faire réassumer leur condition de consommateurs et de consommatrices. Parce que les problèmes qui les préoccupent, ce sont ceux du Marché: la léthargie dans la consommation de marchandises.

Il faut retourner dans les rues, oui, mais pour lutter. Parce que, comme nous l'avons dit précédemment, la vie, la lutte pour la vie, ce n'est pas un problème individuel, mais collectif. Et maintenant on se rend compte que ce n'est pas non plus un problème de nationalités, c'est un problème mondial.

Il y a plein de choses de cet ordre que nous observons et que nous écoutons. Et plein sur lesquelles nous réfléchissons. Mais pas seulement...

Cinquièmement.- Nous écoutons et observons également les résistances et les rébellions qui, bien qu'elles soient tues et oubliées, n'en demeurent pas moins essentielles, traçant des pistes pour une humanité qui se refuse à suivre le système dans sa marche forcée vers l'effondrement : le train mortel du progrès qui avance, orgueilleux et impeccable en direction du précipice, tandis que le machiniste oublie qu'il n'est qu'un employé de plus et croit naïvement que c'est lui qui décide du chemin, alors qu'il ne fait que suivre, enfermé, les rails qui le mènent à l'abysse.

Des résistances et des rébellions qui, sans oublier les pleurs pour les personnes disparues, s'acharnent à lutter pour - qui le dirait -, la chose la plus subversive qu'il y ait en ces mondes divisés entre néolibéraux et néoconservateurs : la vie.

Des résistances et des rébellions qui comprennent, chacune à leur manière, à leur rythme et selon leur géographie, que les solutions ne reposent pas sur la foi dans les gouvernements nationaux, et que ce n'est pas protégées par des frontières ni vêtues de drapeaux et de langues différentes qu'elles se conçoivent.

Des résistances et des rébellions qui nous apprennent à nous, tous et toutes, zapatistes, que les solutions pourraient se trouver en bas, dans les soubassements et les recoins du monde. Pas dans les palais gouvernementaux. Pas dans les bureaux des grandes entreprises.

Des résistances et des rébellions qui nous montrent que, si ceux d'en haut coupent les ponts et ferment les frontières, nous pouvons toujours naviguer le long des rivières et des mers pour nous rencontrer. Que la guérison, si elle existe, est mondiale ; qu'elle porte la couleur de la terre, du travail qui vit et qui meurt dans les rues et les quartiers, dans les mers et dans le ciel, dans les montagnes et dans leurs entrailles. Que, tout comme le maïs originaire, nombreuses sont ses couleurs, ses tonalités et ses sonorités.

Tout cela, et plus encore, c'est ce que nous observons et ce que nous écoutons. Et nous nous voyons et nous nous écoutons comme ce que nous sommes : un nombre qui ne compte pas. Parce que la vie ne compte pas, elle ne vend pas, elle ne fait pas la une des journaux, elle n'entre pas dans les statistiques, elle n'entre pas en compétition dans les sondages, elle n'a pas d'appréciation sur les réseaux sociaux, elle ne provoque pas, elle ne représente aucun capital politique, aucun drapeau de parti, aucun scandale à la mode. Qui se soucie qu'un petit, minuscule groupe d'originaires, d'indigènes vive, c'est-à-dire lutte?

Parce qu'il se trouve que nous vivons. Que malgré les paramilitaires, les pandémies, les mégaprojets, les mensonges, les calomnies et les oublis, nous vivons. C'est-à-dire que nous luttons.

Et là dessus nous réfléchissons: en quoi continuons-nous à lutter. C'est-à-dire en quoi continuons-nous à vivre. Et nous pensons que durant toutes ces années, nous avons reçu l'embrassade fraternelle de personnes de notre pays et du reste du monde. Et nous pensons que si la vie résiste ici et que malgré les difficultés elle arrive à fleurir, c'est grâce à ces personnes qui ont défié les distances, les démarches, les frontières et les différences culturelles et linguistiques. Grâce à elles, à eux, à elleux - mais surtout grâce à elles -, les calendriers et les géographies ont été défiés et mis en échec.

Dans les montagnes du Sud-est mexicain, tous les mondes du monde ont rencontré et rencontrent toujours une écoute dans nos cœurs. Leur parole et leur action ont alimenté la résistance et la rébellion, qui ne sont que la continuation de celles de nos prédécesseurs.

Des personnes avec les sciences et les arts pour chemin ont trouvé la manière de nous embrasser et de nous encourager, même à distance. Des journalistes, bobos ou non, qui auparavant ont témoigné de la misère et de la mort, et toujours de la dignité et de la vie. Des personnes de toutes les professions et de tous les corps de métier qui, bien que ce soit beaucoup pour nous et peut-être pas grand-chose pour elles et pour eux, ont été là, et continuent à l'être.

Et nous pensons à tout cela dans notre cœur collectif, et il est arrivé à notre pensée que c'est le moment désormais pour que nous, zapatistes, nous rendions la pareille à l'écoute, à la parole et à la présence de ces mondes, proches ou lointains par la géographie.

Sixièmement.- Et nous avons décidé cela:

Qu'il est temps de nouveau que dansent les cœurs, et que ni leur musique, ni leurs pas ne soient ceux des lamentations et de la résignation.

Que différentes délégations zapatistes, hommes, femmes et autrEs de la couleur de notre terre, nous allons sortir pour parcourir le monde. Que nous prendrons la route ou que nous naviguerons jusqu'aux terres, aux mers et aux ciels lointains, à la recherche non pas de la différence, ni de la supériorité, ni de l'affrontement, et encore moins du pardon et du regret.

Nous partirons à la recherche de ce qui nous rend égaux.

Non seulement l'humanité qui anime nos différentes peaux, nos différentes manières, nos langues et nos couleurs diverses. Mais aussi, et surtout, le rêve commun que nous partageons en tant qu'espèce, depuis que dans cette Afrique qui nous parait lointaine, nous avons commencé à faire notre chemin, bercés sur les genoux de la première femme : la recherche de la liberté, qui a animé ce premier pas... et qui continue depuis à faire son chemin.

Que la première destination de ce voyage planétaire sera le continent européen.

Que nous naviguerons jusqu'aux terres européennes. Que nous quitterons les terres mexicaines et lèverons l'ancre durant le mois d'avril de l'an 2021.

Que, après avoir parcouru différents recoins de l'Europe d'en bas à gauche, nous arriverons à Madrid, la capitale espagnole, le 13 août 2021 - 500 ans après la soi-disant conquête de ce qui est aujourd'hui le Mexique. Et que, immédiatement après, nous reprendrons la route.

Que nous parlerons au peuple espagnol. Pas pour le menacer, ni pour lui faire des reproches, l'insulter ou exiger de lui quelque chose. Pas pour lui exiger qu'il nous demande pardon. Pas pour le servir, ni pour nous servir.

Nous irons dire au peuple d'Espagne deux choses simples:

Un: Que nous n'avons pas été conquis. Que nous sommes toujours en résistance et en rébellion.

Deux: Qu'ils n'ont pas de raison de demander qu'on leur pardonne quoi que ce soit. Il y en a marre que l'on joue avec le passé lointain pour justifier, avec démagogie et hypocrisie, les crimes actuels et toujours en cours : l'assassinat de militants, comme le frère Samir Flores Soberanes ; les génocides camouflés derrière des mégaprojets, conçus et réalisés pour la satisfaction du puissant - celui-là même qui flagelle tous les recoins de la planète - ; le soutien financier et l'impunité accordée aux paramilitaires ; l'achat des consciences et des dignités avec quelques centimes.

Nous autrEs, les zapatistes, nous NE voulons PAS retourner à ce passé, ni seuls, ni encore moins guidés par ceux qui cherchent à semer la rancœur raciale, qui prétendent alimenter leur nationalisme désuet avec la soi-disant splendeur d'un empire, l'empire aztèque, construit sur le sang de ses semblables, et qui prétendent nous convaincre qu'avec la chute de cet empire, nous, les peuples originaires, avons été vaincus.

Ni l'État espagnol ni l'Église catholique n'ont à nous demander pardon de quoi que ce soit. Nous ne nous ferons pas l'écho des marioles qui se dressent sur notre sang et qui cherchent ainsi à cacher que leurs mains en sont souillées.

De quoi l'Espagne va-t-elle nous demander pardon ? D'avoir enfanté Cervantès ? José Espronceda ? León Felipe ? Federico García Lorca ? Manuel Vázquez Montalbán ? Miguel Hernández ? Pedro Salinas ? Antonio Machado ? Lope de Vega ? Bécquer ? Almudena Grandes ? Panchito Varona, Ana Belén, Sabina, Serrat, Ibáñez, Llach, Amparanoia, Miguel Ríos, Paco de Lucía, Víctor Manuel, Luis Eduardo Aute pour toujours ? Buñuel, Almodóvar et Agrado, Saura, Fernán Gómez, Fernando León, Bardem ? Dalí, Miró, Goya, Picasso, el Greco et Velázquez ? D'une partie du meilleur de la pensée critique mondiale, estampillée du "A" libertaire? De la République? De l'exil? Du frère maya Gonzalo Guerrero?

De quoi l'Église catholique va-t-elle nous demander pardon ? Du passage de Bartolomé de las Casas ? De Don Samuel Ruiz García ? D'Arturo Lona? De Sergio Méndez Arceo ? De la sœur Chapis ? De celui des prêtres, des sœurs religieuses et des séculiers qui ont cheminé aux côtés des autochtones, sans les diriger ni les supplanter ? De celui des personnes qui risquent leur liberté et leur vie pour défendre les droits humains ?

L'année 2021 sera celle des 20 ans de la Marche de la couleur de la Terre, que nous avons réalisée, aux côtés des peuples frères du Congrès national indigène, afin de réclamer une place dans cette nation qui s'écroule aujourd'hui.

Vingt ans après, nous naviguerons et nous cheminerons pour dire à la planète que, dans le monde que nous percevons dans notre cœur collectif, il y a de la place pour toutes, tous, touTEs. Tout simplement parce que ce monde n'est possible que si toutes, tous, touTEs, nous luttons pour le mettre debout.

Les délégations zapatistes seront formées majoritairement par des femmes. Pas seulement parce que de cette manière elles veulent rendre l'embrassade qu'elles ont reçue durant les rencontres internationales antérieures. Aussi, et surtout, pour que les hommes zapatistes, nous faisions clairement savoir que nous sommes ce que nous sommes, et nous ne sommes pas ce que nous ne sommes pas, grâce à elles, pour elles, et avec elles.

Nous invitons le Congrès national indigène - Conseil indigène de gouvernement à former une délégation pour nous accompagner et que soit ainsi plus riche notre parole pour l'autre qui lutte au loin. Nous invitons tout spécialement une délégation des peuples qui lèvent le nom, l'image et le sang du frère Samir Flores Soberanes, pour que sa douleur, sa rage, sa lutte et sa résistance arrivent plus loin.

Nous invitons les personnes qui ont pour vocation, engagement et horizon les arts et les sciences, à accompagner à distance nos navigations et nos pas. Et qu'ainsi elles nous aident à diffuser que c'est dans les sciences et les arts que repose la possibilité, non seulement de la survie de l'humanité, mais aussi d'un monde nouveau.

En résumé: nous partons pour l'Europe en avril de l'an 2021. La date et l'heure? On ne la connait pas... encore.

Compañeras, compañeros, compañer@s; sœurs, frères, et frœurs,

Ceci est notre volonté:

Face à la puissance des trains, nos canoës.

Face aux centrales thermoélectriques, les petites lueurs que les femmes zapatistes ont confié aux femmes en lutte dans le monde entier.

Face aux murs et aux frontières, notre navigation collective.

Face au grand capital, un champ en commun.

Face à la destruction de la planète, une montagne naviguant au petit matin.

Nous sommes zapatistes, porteur.E.s du virus de la résistance et de la rébellion. En conséquence, nous irons sur les 5 continents. Es todo por ahora. C'est tout... pour l'instant.

Depuis les montagnes du Sud-est mexicain. Au nom des femmes, des hommes et des autrEs zapatistes. Sous-commandant insurgé Moisés. Mexique, octobre 2020.

P.D.- Oui, c'est la sixième partie et, comme le voyage, ça se déroulera en sens inverse. C'est-à-dire que suivra la cinquième partie, ensuite la quatrième, puis la troisième, suivie de la seconde avant de terminer par la première.

http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2020/10/09/sixieme-partie-une-montagne-en-haute-mer/

venerdì 16 ottobre 2020

A proposito della preistoria contemporanea

 

 

In seguito alla circolazione del testo di Graeber e Wengrow (su questo sito dal 12 settembre) ho apportato le mie considerazioni che seguono su questo tema cruciale e ho poi scambiato un breve dialogo interessante con Daniel Kesselring anch'esso proposto alla lettura di tutti alla ricerca di una verità comune troppo a lungo oscurata dalla cultura dominante. Ho infine ricevuto il breve scritto di Raoul Vaneigem che apporta la sua luce particolare sulla questione. Grazie a Graeber e a Barravento di aver stimolato tutte queste riflessioni.

 

Sergio Ghirardi

 

 

 

Non si può cambiare il corso della storia già accaduta,

ma si può smettere di farle dire quello che non dice.

 

Il discorso detto e scritto, ormai ripetuto incessantemente dalla macchina mediatica – onnipresente cattedrale virtuale della religione mercantile –, tutela senza ritegno l’uso della forza che si dice legittima e del sopruso che si pretende legale, esercitati materialmente dal dominio gerarchico dei signori sugli schiavi.

Le ideologie religiose e politiche sono uno strumento che il Leviatano produttivista, in particolare, ha costantemente usato per eliminare gli ostacoli al suo dominio e per devitalizzare le resistenze al suo imperialismo strutturale. Per manipolare la realtà ci si è sempre serviti del passato e del futuro. Il futuro è stato addobbato di paradisi immaginari e d’ipotetici domani meravigliosi che drogano di speranze illusorie la parte insopportabile del presente.

Ruminando in mille maniere diverse e spesso contraddittorie sull’idea di una liberazione a venire – al di qua o aldilà della morte ineluttabile, ma pur sempre lontano dal presente – si è tolta alle rivolte spontanee dei molti sfruttati per l’arricchimento di pochi, la forza necessaria per tradursi in emancipazione reale. Insieme al futuro, però, anche il passato è stato costantemente manipolato per fargli dire quel che i sottomessi dovevano credere per restare confinati nella loro sopravvivenza miserabile. Voltandosi indietro, la menzogna dominante mostra un’altra faccia della stessa medaglia: quella del potere esercitato da alcuni sui molti con la forza delle ideologie e della violenza sociale.

Masse di esseri umani privati di libertà sono state destinate per millenni a cambiare spesso nome (schiavi, servi, lavoratori) ma mai di ruolo; perché se, col tempo, l’esercizio del dominio ha perso un po’ della sua violenza materiale, non è affatto diminuita la sua intensità nel passaggio dal giogo schiavista al servaggio, per arrivare, infine, al lavoro salariato. Si può notare, in proposito, che la schiavitù informale del “libero” lavoratore moderno non é per nulla riconosciuta come una cattività: si arriva persino a ringraziare i padroni generosi che donano del lavoro! Il dominio è semplicemente diventato più intimo, interiorizzato, sostituendo in parte l’alienazione alla sofferenza fisica e la servitù volontaria all’imprigionamento coatto, con l’obbligo subdolo di consumare abbondantemente pur restando qualitativamente indigenti, inquinati, insoddisfatti, sfruttati.

Dalle origini del produttivismo, la cultura dominante appartiene inevitabilmente a quanti esercitano il dominio. La storia è stata scritta dai vincitori non perché i vinti non avessero una loro opinione, ma perché questa era in catene quanto e forse più degli stessi soggetti asserviti. Persino le date della storia sono state stabilite dalle gerarchie che si sono impadronite delle società umane, promuovendovi progressivamente quel produttivismo che, di volta in volta, l’homo economicus ha imposto in modi vari e con dinamiche diverse, in sostanza dappertutto, colonizzando il pianeta.

Così, fino all’instaurarsi dell’economia politica capitalista come una teologia universale del dominio gerarchico, i cristiani hanno inventato un loro calendario specifico datato dalla presunta nascita del loro supposto figlio di Dio; i musulmani usano un altro calendario a partire dalle loro profezie medievali e persino i rivoluzionari borghesi del 1789 hanno sentito il bisogno ideologico di inventarsi un loro modo particolare di datare la storia.

A ogni nuova rivoluzione ideologica, il potere religioso e politico non può fare a meno, per imporsi, di occupare un vissuto sociale che si sogna libero mentre si presenta coatto, impadronendosi dello spazio-tempo dell’epoca con tutti i mezzi a sua disposizione: le armi, la violenza, lo stupro, l’umiliazione e la paura, ma anche il mito, la seduzione, la corruzione e le credenze che l’ideologia giustifica; tutto ciò corrobora l’importanza di una sindrome di Stoccolma forse anche più vecchia del produttivismo perché radicata nel lato servile e gregario dell’umanità sofferente.

Così la storia riconosciuta come tale è soltanto quella del produttivismo. Il resto è preistoria. Con la scusa plausibile ma inaccettabile dell’assenza di documenti scritti che permettano di leggere gli avvenimenti più antichi, la storia è stata datata dall’invenzione della scrittura. La quale, prima di diventare effettivamente anche uno strumento di libertà e di poesia, di cultura e di comunicazione, è stata la traccia indelebile dell’ossessione produttivista nell’accumulare derrate, beni, merci; perché è dal loro stoccaggio e dalla loro contabilità scrupolosamente registrata che è nata la ricchezza opprimente del commercio e dell’accumulazione economica.

Due rivoluzioni bio-sociali dalla radicalità molto diversa hanno marchiato a fuoco – è il caso di dirlo, visto che il primo di questi sconvolgimenti fu la scoperta del fuoco – l’evoluzione dell’umanità. La scoperta del fuoco è stata una prima rivoluzione bio-sociale condivisa da alcune specie di ominidi più antiche di Neanderthal e di Sapiens, almeno un mezzo milione di anni fa[1]. Si è trattato in realtà di un addomesticamento, perché evidentemente il fuoco esisteva in natura già ben prima che una specie composita di mammiferi simili – dei primati in via di umanizzazione – imparasse a domarlo e ad accedere, dunque, a una rivoluzione biologica e sociale grandiosa, capace di dare vita alle società umane organiche[2].

Grazie all’uso del fuoco, infatti, la maniera di nutrirsi della scimmia umanoide è mutata radicalmente, creando i presupposti della specie umana. La cottura è diventata un’arte maggiore della specie in fieri e la cucina si è aggiunta all’alcova come momento cruciale del senso della vita, oltre una sopravvivenza che qualunque essere vivente difende istintivamente con le unghie e con i denti. Ancora oggi, nonostante la sessuofobia diffusa e l’alienazione sacrificale che si eccita soltanto dinanzi alle merci, dall’automobile al dildo, dal telefono portatile alla nutella, l’arte di cucinare e di fare l’amore restano le due arti maggiori della specie umana. Nell’intimo in parte rimosso da un superio sempre più reificato, esse fanno di tutte le altre arti una splendida sublimazione secondaria non strutturalmente necessaria ma molto importante qualitativamente, degna di rispetto, di apprezzamento e di quanta libera passione creativa si voglia.

Per farla breve senza dimenticare niente, tralascio dunque le rivoluzioni transitorie[3] che hanno apportato una crescente capacità di produzione di beni utili alle società umane per passare direttamente, dalla rivoluzione del fuoco alla rivoluzione agraria che ha introdotto il germe del produttivismo e con esso degli effetti profondamente biosociali che, nei tempi lunghi, hanno cambiato radicalmente la fisionomia psicogeografica dell’umano in gestazione.

Se, infatti, il Sapiens (apparso all’incirca duecentomila anni fa) è l’ultima specie sopravvissuta delle varie genie di ominidi che hanno apportato ai primati un processo umanizzante durato milioni di anni e ancor oggi incompiuto, le sue collettività organiche hanno subito, qualche millennio fa, uno sconvolgimento strutturale – bio-sociale, appunto – che ha prodotto dei mutamenti decisivi nella loro progressiva capacità di trasformazione della natura e con essa della natura umana. Se il fuoco ha dunque enormemente contribuito alla nascita delle società organiche, la rivoluzione agraria produttivista ha dato loro un colpo destinato col tempo a diventare mortale.

Senza pretendere di rifare la storia, ma molto desideroso di ampliarne il campo dei possibili con l’ausilio e il controllo di tutti, mi sono dunque focalizzato sulla rivoluzione agraria perché essa ha finito per essere una controrivoluzione che ha corrotto il processo di evoluzione organica della specie umana, artificializzandolo pericolosamente. Ed è proprio questo passaggio che, la storia dei vincitori ha particolarmente mitologizzato, falsato e nascosto, restituendo un racconto selettivo e forzato dei fatti al fine di giustificare e far passare questa mutazione distruttrice come la nascita della civiltà umana.

Se condivido, dunque, l’esigenza del compianto compagno Graeber e del suo collega Wengrow[4] di rompere con la favola di un comunismo primitivo, originario e generalizzato, che gli ideologi comunisti hanno immaginato come cauzione delle loro rivoluzioni burocratiche a venire, non mi trovo per niente d’accordo con loro nel negare la consistenza storica di una rivoluzione agraria. Un tale diniego impedisce di cogliere le ragioni profonde della tragica situazione attuale mentre l’affermazione dell’importanza di quest’avvenimento ci dà una chiave di lettura essenziale per comprendere la realtà. Il che non significa identificare l’agricoltura con il produttivismo che l’ha monopolizzata, perché il punto dolens della “civiltà” non è stato il passaggio dalla raccolta spontanea dei primi gruppi ominidi alla scoperta e all’uso organico dell’agricoltura, ma la successiva appropriazione privativa di questa tecnica da parte di oligarchie mercantili e guerriere pronte a tutto per riuscire l’affare che le avrebbe rese ricche e potenti.

Certo, si tratta di essere chiari su quel che s’intende: in effetti, la pratica dell’agricoltura di cui l’archeologia data la comparsa attorno ai dieci, undici millenni prima della nostra era (e forse anche prima in alcuni luoghi dell’estremo oriente), non è stata di per sé più destabilizzante di altri mutamenti e scoperte importanti della cosiddetta preistoria e del neolitico in particolare. I popoli raccoglitori che dipendevano dalla terra, dalle mutazioni climatiche e dai movimenti delle altre specie viventi per garantirsi la sopravvivenza alimentare, hanno aggiunto la loro nuova capacità di coltivare la terra come un savoir-faire in più da applicare alla natura per produrre i beni necessari alla sopravvivenza e all’addolcimento progressivo della vita. Questo era, infatti, e resta, il vero progresso, la vera civiltà, l’obiettivo primario d’individui e società umane: intervenire sulla natura per umanizzarne gli effetti senza alterare gli equilibri delicati di quella che il linguaggio scientifico moderno definisce la biosfera e che per gli antichi era semplicemente la natura di cui l’umano fa parte.

Come non rilevare che l’umanità ha resistito alla deriva mortifera del produttivismo almeno per quattro millenni? Durante questo lungo periodo, le comunità agricole matricentriche si sono guardate dall’alterare gli equilibri organici del rapporto degli esseri umani con la natura, mentre le tribù patriarcali si occupavano marginalmente di praticare la predazione e la guerra di conquista per alimentare il loro sistema bellicoso e parassitario. Tutti i dati in nostro possesso ci dicono che dall’incrocio tra il parassitismo patriarcale e la logica produttivista è nata quella rivoluzione agraria che ha trasformato la vita nel mondo.

Come non porsi oggi la questione di come uscire dalla trappola che ha trasformato la produzione di beni utili per vivere meglio e di più, nella produzione economicista di beni sempre più superflui e inquinanti, sotto la tirannia del valore di scambio (perché questo è il produttivismo, non l’attività di produrre dei beni utili!)? Una volta dato inizio alla coltivazione schiavistica dei cereali che ha introdotto l’accumulazione primitiva produttivista, l’umanità è diventata schiava dell’ossessione di fare del grano, rimuovendo, di epoca in epoca, di progresso in progresso, di moneta in moneta, la questione dell’indebolimento letale delle società organiche che mette oggi in pericolo la sopravvivenza stessa della specie e di molte altre forme di vita sul pianeta.

D’accordo con Graeber, in questo: non facciamo dire nulla alla preistoria come un ventriloquo al suo pupazzetto, evitiamo di affermare qualunque semplice ipotesi come una verità accertata. Pur se cominciano ad abbondare i dati empirici che la preistoria restituisce ai suoi ricercatori appassionati, nessuno può affermare con certezza delle verità assolute su quei tempi cosi lontani e poco documentabili. Limitiamoci ai fatti che l’archeologia ci offre e, partendo da essi, esploriamo quell’archeomitologia consapevole dei propri limiti e dunque umilmente circospetta, che analizza e interpreta le scoperte senza perseguire l’obiettivo di farne delle ideologie[5].

L’umanità ha probabilmente sempre tentato tutti i mezzi a sua disposizione per migliorare le proprie condizioni di vita, dai più egoisti e cinici ai più collettivi e affettuosi, dai più ottusi ai più lungimiranti. Solo parzialmente cosciente dei suoi pregi e difetti, delle sue contraddizioni, l’essere umano ha esplorato tutte le forme possibili di “progresso”. Resta che se il comunismo primitivo è un mito ideologico, la tendenza alla solidarietà, all’aiuto reciproco e a rapporti pacifici in un ambiente naturale è un dato oggettivo che riguarda la specie umana quanto altri mammiferi, altrettanto se non di più che la tendenza predatrice. Quest’ultima attraversa la natura come un automatismo animale che solo la coscienza di specie di un’umanità ritrovata potrà superare opponendo ai guasti provocati dalla civiltà produttivista una ricostituzione del progetto umano autentico senza sognare un impossibile ritorno alle società organiche del passato, ma usando organicamente, tra le tecniche acquisite nei secoli, quelle utili a realizzare la felicità degli esseri, smettendo di perseguire una ricchezza di averi accumulati che ha ridotto a cose anche gli esseri viventi.

Tramite questa nuova coscienza di specie nascente, tutto è ancora possibile se ce ne resterà il tempo, perché l’essere umano non è né buono né cattivo di per sé, ma sa comportarsi da amico o da nemico e anche meglio o peggio pur di godere della vita. In realtà, è capace di tutto e la scelta del bene che l’etica, scivolando in morale, esorta a preferire, non è che un espediente ideologico, un dover essere intellettuale. Ignorando Epicuro, ci si è dimenticati che la gioia e il godimento di vivere danno un’altra interpretazione possibile alla scelta del “bene” anziché del “male”. È, infatti, scientificamente provato che attraverso la condivisione, la pace, la solidarietà e il godimento sereno si vive meglio e di più. Il predatore ha in natura vita molto più breve dell’animale pacifico.

Una dinamica orgastica[6] che favorisca l’organizzazione sociale degli istinti solidali e del sentimento amoroso spontaneo nei confronti della vita, dei propri simili e, molto spesso, dell’altro genere in particolare, è dunque concretamente possibile. Si tratta di una scelta non moralista ma tutt’altro che immorale, che – tanto dal punto di vista pragmatico che emozionale – rifiuta come cattiva soluzione la predazione, comportamento diffuso ma niente affatto la norma tra i mammiferi di cui l’essere umano fa parte.

È piuttosto probabile che, così come scimpanzé e bonobo condividono con noi una quasi totalità del patrimonio genetico, pur essendo assolutamente diversi se non opposti tra loro nel funzionamento sociale, anche tra gli umani si siano sviluppate spontaneamente, ab origine, in maniera concomitante e diversamente conflittuale, le organizzazioni sociali matricentriche, acratiche e libertarie ma anche le comunità patriarcali gerarchiche e autoritarie. Se queste due scelte opposte hanno potuto facilmente convivere quando la specie era una presenza quantitativamente limitata sul pianeta e ogni gruppo poteva quindi facilmente esistere in relativa indipendenza e sottoposto a conflittualità assai rare, con i mutamenti dovuti a ragioni climatiche e all’aumento demografico della popolazione, i conflitti e gli scontri si sono inevitabilmente moltiplicati.

Denunciare, come fa Graeber, l’ideologia idilliaca del buon selvaggio e del comunismo primitivo è dunque certamente giusto, ma non significa che la rivoluzione agraria non sia esistita come una svolta finalmente negativa per gli esseri umani. Essa ha, infatti, modificato profondamente l’evoluzione della specie che è passata dal rapporto organico, con e nella natura, a una volontà pretenziosa di dominio (l’hybris tanto aspramente denunciata nella Grecia antica) che il patriarcato produttivista ha esteso alla donna, agli schiavi di entrambi i generi e di qualunque età e alla natura, con un’attitudine becera, sadica e predatrice. La rivoluzione agraria produttivista ha introdotto nella vita degli esseri umani il lavoro. Il labor, tortura che il produttivismo ha reso necessaria e che aggiunge alla cattività forzata lo sfruttamento della forza-lavoro altrui, ha spinto alla moltiplicazione delle guerre per procurarsi schiavi per i campi, per la casa e per il letto.

Trovo difficile stabilire se la schiavitù fosse già praticata puntualmente ai primordi organici della specie – è possibile, direi, ma non più del cannibalismo e di una sessualità rozza e approssimativa perché povera della poesia orgastica che illumina il vivente quando la bestia partorisce finalmente l’essere umano. Prima di ciò si era ancora agli albori animali di mammiferi onnivori e non carnivori, capaci di gerarchie feroci e patriarcali ma anche di centralità femminili acratiche, affettuose e conviviali. Quel che è certo, invece, è che lo schiavismo – insieme alla gerarchia di genere, riguardante anch’essa altrettanto il lavoro che la sessualità – ha segnato millenni di vicende umane della società produttivista con uno sfruttamento sistemico dei più deboli, facendo della storia riconosciuta come tale una lotta di classe permanente.

Mi ripeto in sintesi sull’essenziale: la rivoluzione agraria produttivista è il mutamento disgraziato cui l’umanità ha resistito per millenni (all’incirca dal decimo al quinto prima della nostra era, quando sono apparse numerose città-stato nella pianura mesopotamica – forse esse stesse successive a un processo analogo ancora da approfondire che potrebbe averle anticipate qui e là in altre parti del mondo). Una volta concretizzato il sopravvento patriarcale e produttivista di cui la mitologia greca ci dà una ricca narrazione, questo sconvolgimento fondamentale ha segnato il lento ma inarrestabile passaggio dalle società organiche di raccoglitori, diventati nel frattempo anche agricoltori di sostentamento, a società produttiviste che hanno introdotto l’appropriazione privativa, l’accumulazione di beni e lo scambio economico come meccanismi di base del loro funzionamento. Strettamente legato, al suo inizio, alla produzione agricola intensiva di cereali accumulabili e stoccabili nei tempi lunghi, a differenza di frutti e altri prodotti della natura consumabili, ma rapidamente deteriorabili , questo passaggio, assolutamente rivoluzionario da un punto di vista sociale, era destinato a diventarlo anche dal punto di vista biologico.

Con la modernità, da quest’accumulazione agraria dipendente dal dominio sui territori oltre che sul lavoro umano (ricordiamoci che i primi economisti fisiocratici consideravano la terra e la potenza di produzione agricola la sola vera fonte di ricchezza) si è passati all’industrializzazione che l’economia politica celebra da secoli come il progresso assoluto. In realtà, la tecnologia industriale produttivista (applicata del resto tanto alle fabbriche che all’agricoltura) è giunta ormai a produrre, come conclusione finale della rivoluzione agraria, il crollo degli equilibri biologici ed ecologici necessari alla vita.

 

                       *                             *                          *                        *                           *

 

Così la fine programmata delle società organiche ha visto trionfare quell’homo economicus che è la radice arcaica dell’homo trans umano ormai fantasticato dagli alienati di ultima generazione.

Il precipuo della verità è di mutare parzialmente nello spazio e nel tempo, pur restando sempre coerente nella sua totalità. La verità di ieri può diventare la menzogna di oggi. Relativamente, però, perché la verità verificabile dura nel tempo finché sussistono le condizioni che l’hanno prodotta. Si tratta, dunque, di imparare da tutti senza diventare discepoli di nessuno, mescolando i dubbi alle convinzioni per renderle stabili e farle vivere anziché adorarne il cadavere. Solo così si vive da liberi esploratori del reale, vale a dire da esseri umani in simbiosi armonica con la natura di cui fanno parte.

Su questo punto cruciale s’innesta la coscienza di specie che ho ripetutamente citato e che rompe con l’artificializzazione della vita cominciata con la rivoluzione agraria ed esplosa con l’industrializzazione produttivista. Essa appare come la realizzazione e il superamento di quella coscienza di classe[7] che è stata l’ultima forma di coscienza alienata prodotta dal produttivismo. Necessaria alla lotta dei disagiati, sfruttati e alienati durante il processo di artificializzazione della vita chiamato progresso, in realtà la coscienza di classe ha contribuito, in nome degli sfruttati, all’hybris produttivista. Come sarebbe potuto venire in mente, altrimenti, ai teorici del proletariato, di rivendicare la sua dittatura, fosse pur transitoria?

Ecco due postulati che alimentano una coscienza di specie sempre più diffusa nella società umana:

1) Lo Stato si abroga, non deperisce mai, magicamente, da solo incompatibile con la democrazia diretta, anche quando non è più niente, continua a esercitare imperterrito i suoi privilegi che tocca a noi di abolire;

2) La dittatura si combatte da qualunque parte essa venga perché non è mai di per sé transitoria nel migliore dei casi, essa crolla sotto le rovine di un muro che non abbiamo mai finito di demolire.

L’ideologia comunista autoritaria che ha monopolizzato la coscienza di classe di un’intera epoca, mescolava la giusta rivendicazione proletaria dell’emancipazione con la difesa del progetto artificiale alla radice dello sfruttamento dell’essere umano: il produttivismo. Il peggior limite del marxismo è pretendere di abolire il capitalismo senza rompere con il produttivismo, finendo ineluttabilmente per partorire un capitalismo di Stato.

Bisogna imparare da Marx, come da parecchi altri esseri umani dal pensiero ricco, generoso e talvolta sublime, senza diventare discepoli di nessuno. Non ha senso scegliere tra Marx e Proudhon, tra Marx e Bakunin, tra l’uno o l’altro degli stendardi che la religione politica porta a passeggio in ogni via crucis dell’ideologia rivoluzionaria. Si tratta di scegliere sempre modestamente se stessi in quanto individui sociali autonomi e solidali nella Comune-mondo che la coscienza di specie progetta dal locale al planetario; bisogna essere costruttivi ma attentamente autocritici, perché in ognuno sonnecchia il virus potenziale di un prete pestilenziale che propone le sue convinzioni come una verità dogmatica. Ricordiamo, con gli zapatisti del Chiapas, che non ci sono modelli da seguire, solo esempi da studiare, sostenere solidalmente e in totale autonomia per affinare la radicalità della propria Comune da costruire.

La credenza, ogni credenza, è il brodo di coltura della servitù volontaria che ha fatto della scimmia diventata umana un essere artificiale che non è neppure più scimmia, ma zombi etero diretto da un’ideologia. Questo processo alienante è il segnale inequivocabile della terribile controrivoluzione sociale e finalmente biologica che l’essere umano si è autoimposto con l’introduzione del produttivismo nella sua evoluzione. Trasformando il mezzo necessario di produrre dei beni per vivere sempre meglio nel fine unico e ultimo della società, l’homo economicus ha sfidato la natura come un nemico da combattere e dominare, e con essa la donna, gli altri esseri umani e le altre specie animali. Il rapporto tra l’essere e l’avere si è rovesciato e la predazione, elemento ambivalente da superare attraverso l’umanizzazione, è diventata il modus vivendi di tutte le società patriarcali e gerarchiche.

Questo ciclo terribile ma affascinante perché investe negandola tutta l’umanità degli esseri umani, è cominciato precisamente con quella rivoluzione agraria che ha trasformato l’umano incompiuto in bestia da soma e poi in macchina computerizzata, valorizzatrice di un feticcio religioso che comprende tutte le credenze passate: il feticismo della merce. La merce è il dio reificato di un misticismo totalitario di cui l’economia politica è la teologia che ha imposto il dominio del commercio e della sua civiltà sulle società organiche sottomesse a un’artificialità invadente.

Stato e Mercato hanno imposto lo scambio redditizio come valore principale dell’attività umana, poi come l’unico possibile nell’attuale mondo finanziarizzato in cui solo il denaro circola liberamente e gli esseri umani sono confinati con scuse sempre meno plausibili. Una volta reso accessorio il valore d’uso dei beni, il denaro materiale tende a sparire diventando virtuale e trasformando il condizionamento imposto alla società dalle leggi economiche in addomesticamento assoluto, sotto il controllo totalitario del Grande fratello economicista.

Per la civiltà produttivista di cui il capitalismo è il figlio e l’erede finale, tutto è buono per incatenare gli oppressi. Dal terrorismo politico a quello virale, questi mostri che oscillano dal mitologico al reale, vengono qualche volta creati, spesso aiutati e mitizzati ma sempre ufficialmente esecrati. Questa strategia riguarda tanto il terrorismo islamista che il coronavirus, passando per la polvere di perlimpinpin della violenza estremista ultraminoritaria che parassita le prime manifestazioni pubbliche della coscienza di specie nascente, con o senza gilet jaune. Ovunque l’umanità si risveglia, i resti di una rabbia cieca e bloccata, in cerca inconscia di un palazzo d’inverno che non esiste più o di una marcia su Roma che la storia umana ha già fucilato nel 1945, è machiavellicamente agevolata, a dosi omeopatiche, dai governi produttivisti che adorano i cattivi “casseurs” per criminalizzare, di fronte all’opinione pubblica spaventata di una democrazia spettacolare, l’insurrezione della vita quotidiana – unico nemico di cui hanno davvero paura.

Da tempo, l’obiettivo del sistema globale è quello di confinare definitivamente gli esseri umani nei loro ghetti produttivisti. Il suo progetto totalitario consiste nel fare di ogni pecora il proprio cane che autogestisca l’universo carcerale della sopravvivenza dei cittadini produttori-consumatori. Per questo il coronavirus è un vero e proprio “dono di dio” che i preti produttivisti esibiscono sugli altari delle loro messe mediatiche, alternando paura e cinismo. La trappola è innescata, a noi di evitare ogni misticismo virale: che tu sia disponibile o no, che tu serva molto o poco, sono pronto a usarti per precauzione, non a fare di te un velo mistico produttivista per o contro il quale battersi. Né ti adoro né ti aborro. Ti uso e soprattutto ti getto. TI CONOSCO MASCHERINA!

La realtà non può essere questa, il loro carnevale macabro non può essere il nostro. Eppure, di fronte a quest’ultima manipolazione che approfitta della pandemia per spostare il cursore dell’alienazione a un livello mai raggiunto prima, certuni sono ancora bisognosi di un millenarismo arcaico per opporre ai diktat della religione ufficiale un’eresia equivalente. Mentre il sistema usa il coronavirus facendone un diavolo utile per sacralizzare di nuovo il dio produttivista in perdizione, una troupe di “miscredenti da social”, vittima della reificazione generalizzata, nega la pericolosità del virus come i creazionisti negano l’evoluzione, spingendo le intelligenze sensibili atee e agnostiche verso l’assurda logica binaria di un misticismo che svilisce la spiritualità naturale dell’essere umano in cerca di totalità vivente[8].

Il misticismo è, infatti, l’errata interpretazione delle situazioni psicogeografiche in cui si sviluppa organicamente la complessità del vivente e, come ogni virus della peste emozionale, può valersi di qualunque pozione ideologica. Nutrito da rumori che si presentano come verità scientifiche, il misticismo è una paranoia dell’intelligenza sensibile che nega la parte di realtà che incute paura per mezzo di una lucidità allucinata in cerca del diavolo. Questa emotività patologica, defraudata dell’intelligenza sensibile da secoli di alienazione, si accontenta di negare quel che il potere afferma approfittando delle sue innumerevoli menzogne. Si rischia cosi di spingere una parte degli avversari del discorso ufficiale verso un manicheismo suicida che trasforma la paura rimossa della morte in gregarismo fideistico. La lotta per la vita si rovescia cosi in un ultimo grottesco e involontario “Viva la muerte!”.

Liberandosi dell’ipnosi della logica binaria, l’umanità deve interrompere il processo letale che l’ha separata dalla natura e ne prepara la rovina definitiva. Tutti i segnali sono là per ricordarcelo e spingerci a far presto. Nessun ambientalismo gregario dell’economia salverà la specie. La salute e la felicità che essa sottende non permettono più compromessi. Solo un progetto di ecologia radicale per abolire il capitalismo e restaurare la vita organica contro la peste emozionale che l’economia politica secerne, potrà incarnare la rivoluzione di una coscienza di specie che, come tutti noi che ne siamo i portatori, non ha alcuna certezza di farcela, ma non ha altra scelta.

Fino a ieri la critica ha denunciato l’intollerabile, l’assurdo, il riprovevole, l’alienato senza mai sovvertirne il potere. Oggi si tratta di abolirlo. Domani rischia di essere troppo tardi.

 

 

Sergio Ghirardi, 10 ottobre 2020

 



 

Scambio di mail con Daniel Kesselring:

 

 

Salut Sergio,

va come può andare, il mondo è marcio ma la vita è bella!

Ho letto il tuo testo e sono d’accordo con la maggior parte delle idee.

Giovedì faremo una serata in omaggio a Graeber e rileggerò gli ultimi capitoli di “5000 anni del debito”, “La democrazia ai margini” e “Come se fossimo già liberi”.

Non ho forse letto il testo cui fai riferimento, ma nel momento in cui si può tentare di fare un bilancio del contributo di Graeber non solo al pensiero critico contemporaneo ma anche all’elaborazione pratica de “l’occupazione della vita” (Occupy Wall Street), poi all’elaborazione teorica che ne consegue, con lo studio approfondito degli aspetti tattici e strategici, il fatto che abbia sottovalutato l’importanza della rivoluzione neolitica non mi pare molto importante.

Opporre Scott (autore di Zomia e di Homo domesticus, NdT) a Graeber non mi pare giudizioso nella misura in cui Graeber ha preparato il terreno e reso possibili i lavori di Scott. Come Clastres prima di lui. (E Mauss che è anche l’ispiratore di “5000 anni del debito” di Graeber).

La principale critica che ti faccio è che ho l’impressione che ti rifugi in una sorta di primitivismo economico.

Avrei adorato vivere nel mesolitico, ma il produttivismo è principalmente consistito nel produrre pletore di esseri umani e questa sovrapproduzione riduce sempre più la gamma dei modi di vita possibili.

La transizione verso un avvenire non apocalittico non può fare l’impasse sull’esigenza di decorticare tutte le fumisterie schiavistiche che si rivestono della parola prigioniera di Economia.

La transizione dovrà appoggiarsi su una fissazione del valore, condizione necessaria per il superamento dell’economia.

Non ho il tempo per sviluppare un’affermazione che ti sembrerà perlomeno perentoria!

Ti auguro una bella estate indiana e ti abbraccio affettuosamente.

Baci da Alessandra

 

 

 

Caro Daniel,

Grazie, innanzitutto per lo scambio che arricchisce.

Sono d’accordo con la maggior parte delle cose che tu rilevi, ciò che accentua un po’ di più l’importanza di qualche disaccordo puntuale e certamente superabile dal dialogo:

1) Non oppongo nessuno a nessuno. Ho scritto chiaramente nel mio testo che non scelgo “tra Marx e Proudhon” eccetera.

2) Graeber è per me un camarade compianto di cui apprezzo la qualità e condivido lo spirito di fondo e le molte intuizioni importanti (ho aggiunto io la versione in francese del testo in questione di Graeber e Wengrow che puoi leggere su Barravento del 12 settembre) ma la sua sottovalutazione della rivoluzione agraria è per me un errore grave da cancellare. Ecco tutto.

Tanto più che Graeber ha lavorato con Sahlins e ha ben integrato, secondo me, il meglio di Bookchin senza cadere nelle derive bookchiniste, aggiungendo, come tu ricordi, la sua prossimità con Mauss.

Condivido meglio che posso tutto ciò. Si può essere in disaccordo con la mia critica puntuale, ma bisogna allora spiegare il perché. Io non amerei vivere nel passato, ma in un futuro che impari dal passato quel che è stato tragicamente cancellato o dimenticato sul cammino drammatico (anche da un punto di vista demografico, certo) del nostro presente.

Hai certamente altro da fare di più importante, ma se mi leggi con attenzione, io non esprimo alcuna nostalgia primitivista. Al contrario: bisogna superare RADICALMENTE l’economia politica, mai il termine superamento fu più urgente!

Si potrà, spero, sviluppare meglio bevendo insieme in questo presente che prosegue in eterno sempre più claustrofobico; in cui la vita è bella, certo, ma ti confesso che ho sempre maggiori difficoltà a incontrarla nel quotidiano.

Augurandoti il meglio, ti abbraccio con tutta la mia amicizia e con te i tuoi cari, sergio

 



 




L’arte della confusione succede al cinismo della menzogna

Arrivando ai suoi limiti e alla sua fine, la civiltà agro-mercantile mette in luce contemporaneamente il fenomeno che ha presidiato la sua apparizione e la confusione scientemente coltivata sulle sue origini.

La vita, lo sappiamo, sperimenta in permanenza delle nuove forme di esistenza. Esse nascono, si sviluppano, si consolidano, si atrofizzano, spariscono per ragioni che non abbiamo preso troppo la pena o il piacere di esplorare. Ne è testimonianza la creazione dal caos delle specie minerali, vegetali, animali e umane tra cui i dinosauri, gli ominidi, l’Uomo di Neanderthal, l’Uomo di Flores, l’Uomo di Denisova. Tuttavia, l’ombra del grande Orologiaio continua a occultare le coscienze e il favore preferito delle culture mercantili va al peggiore avatar dell’ominide, l’homo economicus.

Partigiani e detrattori del sistema dominante si affrontano in un’arena in cui i combattimenti sono truccati. Mentre milioni di esseri muoiono lottando per vivere, storici, archeologi, sociologi e altri esperti si sforzano di recitare un ruolo nello spettacolo culturale le cui poste sono principalmente polemiche e si riducono a battibecchi di prestigio. Tuttavia, sotto il ridicolo di chi “piscia più lontano” è il territorio, cosi innaffiato e delimitato da ognuno, che diventa rivelatore. È là che gli interessi mostrano fino a che punto siano manipolati dai vecchi pregiudizi.

Il conservatorismo dispone del peso delle idee tradizionalmente preconcette. Non ci si stupirà oltremisura che gli specialisti s’interessino piuttosto dell’oggetto dei loro studi che della loro soggettività di osservatori, tanto ordinariamente inficiata da pregiudizi sessisti, patriarcali, elitisti, vuoi razzisti.

Nel campo avverso, il progressismo ha buon gioco nel denunciare le tare di quelli che Rimbaud chiama I Seduti[9]. Con la soddisfazione della rivincita, il femminismo si diletta ad assestare una dura correzione agli ultimi sapienti apertamente o ipocritamente misogini.

Con maggiore giustezza e pertinenza, l’etologia devasta la fortezza in cui si conserva ancora, per quanto indebolito sia, il dogma di una civiltà prodotta dal genio di quell’Uomo la cui lettera maiuscola vuol fare dimenticare che si tratta solo di un aborto dell’ominide: l’homo economicus.

L’apporto degli etologi rimette in discussione le nostre conoscenze stratificate – del resto succede lo stesso per l’insieme delle scienze che il soffio dell’aria nuova rivivifica. Ha mostrato che gli ominidi e le loro civiltà (per non citare sommariamente che l’Europa: Aurignaziano, Gravettiano Solutreano, Magdaleniano, Aziliano) evolvono affinando e sforzandosi di superare – vale a dire negare e conservare – il comportamento animale in cui predazione e aiuto reciproco si alternano e si coniugano.

Ebbene, una stessa aberrazione, una stessa ignoranza voluta equipara conservatori e progressisti. Entrambi hanno sotto gli occhi un’evidenza che occultano deliberatamente. Si può convenire che il concetto di Rivoluzione agraria non renda esattamente conto di uno sconvolgimento dei comportamenti, delle pratiche, delle mentalità, delle sensazioni che mette due o tre millenni a compiersi. Resta che esiste uno scarto considerevole tra due stadi della nostra evoluzione.

Al periodo che abbraccia la fine del paleolitico superiore e l’inizio del neolitico é seguita l’instaurazione di una civiltà fondata sulla schiavitù e sullo sfruttamento della natura a fini di profitto. È una degenerazione brutale dell’evoluzione in corso, una battuta d’arresto inflitta all’umanizzazione dell’ominide. L’importanza accordata dai Bonobo all’aiuto reciproco, alla preoccupazione di calmare i conflitti, al sostegno dei più deboli, non lascerebbe forse augurare per l’umanità nascente delle forme di società solidali che raccolgano e affinino la manna terrestre restando in simbiosi con la natura, la cui fecondità riconosceva analogicamente alla donna una preminenza acratica? Perché la vera specificità umana è la creazione di sé e del mondo, non la loro miserabile trasformazione in merce.

Questa stasi involutiva segna lo snaturamento di un’evoluzione naturale. Essa é prodotta dall’emergenza di un sistema economico fondato sull’appropriazione del suolo, attraverso il saccheggio delle risorse naturali. Essa segna l’atto di nascita di una società disumana il cui grottesco crollo minaccia oggi di coinvolgere nella sua morte programmata una specie che non ha mai smesso di devitalizzare.

Si capisce che il conservatorismo che considera la civiltà mercantile la Civiltà per eccellenza, dileggi le civiltà della raccolta e preferisca il Logos scambista e il potere gerarchico al modo di vita delle società preagrarie studiate da Marshall Sahlins in L'economia dell'età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive. Tuttavia è assai sorprendente che un eminente etologo come Frans de Wall non prenda molto in conto un fenomeno storico tanto catastrofico per l’uomo che per la bestia.

Più sorprendente ancora è la tiepidità critica che assimila al mito del buon selvaggio in voga nel diciottesimo secolo le ipotesi azzardate sul comportamento della donna e dell’uomo nelle civiltà anteriori alla civiltà produttivista e mercantile. Si direbbe che gli ultimi intellettuali soffrano nello stesso tempo di sentirsi svalutati nel loro statuto di funzionari dello spirito e di essere contaminati dallo stupefacente degrado mentale che testimoniano i loro signori e mentori, aberranti deiezioni di un sistema che li governa e che non governano più.

Nessuno pretende che il mito dell’Età dell’oro rimandi a una società idilliaca né alla finzione che è il comunismo primitivo, ma è forse una ragione per ignorare o trattare con condiscendenza le ipotesi di Gimbutas e delle sue discepole e discepoli che evocano l’irruzione di una popolazione proveniente dal nord della Siberia di allevatori di cavalli e di costruttori di tombe dette “kurgan”?

Non c’è forse uno stratagemma nel servirsi del mito del buon selvaggio per attaccare gli ultimi vagoni delle civiltà preagrarie alla locomotiva della civiltà mercantile? Bella falsificazione intellettuale, del resto, privilegiare l’ideologia (incontestabile) a spese della volontà iniziale e altrettanto incontestabile di un Diderot e di un Rousseau, preoccupati di riabilitare la natura riabilitando l’essere umano che ne fu escluso? Quel che fa la ricchezza dei Rabelais, Montaigne, La Boétie e degli intellettuali illuministi, è lo slancio di generosità che imprimono alle mentalità e ai costumi. La loro volontà di stimolare il senso umano predomina sul pensiero che con successi diversi si sforza di renderne conto.

Progressista o reazionario, l’intellettuale porta in sé la tara di una disumanità inerente alla sua funzione gerarchica dominante. A causa di questa separazione tra il suo pensiero e la vita quotidiana che provoca il suo malessere, ricorre al rituale esorcistico dell’eccesso di critica per calmarne il prurito. Orbene, non c’è per l’intellettuale e il manuale che tutti siamo, altro sbocco se non il superamento che solo renderà possibile l’eradicazione dell’alienazione economica.

A difetto di questa lotta che ognuno combatte con se stesso, c’è da temere che un buon numero di pensatori specializzati finiscano per assomigliare a quegli esperti della scienza archeologica che accusarono gli scopritori delle pitture rupestri di Altamira di averle dipinte.

 

 

Raoul Vaneigem, 13 ottobre 2020

 



[1] La recente scoperta di un focolare nella grotta africana di Wonderwerk, potrebbe spostare la datazione della scoperta del fuoco a un milione di anni fa.

[2] «L’idea che il destino dell’uomo sia di dominare la natura non è affatto un tratto universale della cultura umana. [...] Quanto più procediamo a ritroso verso le comunità senza classi economiche e senza Stato politico – società che possono essere definite organiche per la loro forte solidarietà interna e con il mondo naturale – tanto maggiori prove troviamo di una visione della vita che si rappresenta le persone, le cose e le relazioni in termini di unicità anziché in base a una loro “superiorità” o “inferiorità”. [...] Nelle varie società organiche in cui prevale ancora questa concezione, concetti come “uguaglianza” e “libertà” restano indefinibili». Murray Bookchin, L’ecologia della libertà, Eleuthera, Milano 1986.

[3] Mi riferisco all’età della pietra e a quelle del bronzo e del ferro, queste ultime successive all’irruzione dell’agricoltura produttivista e, guarda caso, particolarmente dedite al perfezionamento delle armi da guerra.

[5] Onore a Marija Gimbutas che ci parla dell’evidenza di una centralità femminile in un’Europa antica da Lei profondamente studiata e scavata, rifiutando di farne un’ideologia femminista e preferendo parlare – appunto, archeomitologicamente – di una sociètà gilanica in cui la libertà e la centralità acratica della donna erano fatti accertati. Molto importanti anche i suoi studi sulle invasioni Kurgan, popolazioni patriarcali preproduttiviste che hanno oggettivamente preparato il terreno alla rivoluzione agraria di cui è qui questione.

[6] L’aggettivo orgastico è tributario delle ricerche di Wilhelm Reich sulla funzione dell’orgasmo che questo scienziato appassionato colloca al centro del funzionamento vitale.

[7] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1967.

[8] Lebendige totalität, diceva Lukács sempre in Storia e coscienza di classe.

[9] Les assis é un poema di Rimbaud del settembre 1871, subito dopo la fine tragica della Comune (NdT).




A propos de la préhistoire contemporaine

 

Suite à la circulation du texte de Graeber et Wengrow (sur ce site depuis le 12 septembre), j’ai apporté les observations qui suivent à propos de ce thème crucial et j’ai ensuite échangé un bref dialogue intéressant avec Daniel Kesselring que je propose aussi à la lecture de tous en cherche d’une vérité commune trop longtemps obscurcie par la culture dominante. J’ai enfin reçu le bref écrit de Raoul Vaneigem qui apporte sa lumière particulière à la question. Merci à Graeber et à Barravento pour avoir stimulé toutes ces réflexions.

 

Sergio Ghirardi

 

 

 

On ne peut pas changer le cours de l'histoire passée,

mais on peut arrêter de lui faire dire ce qu’elle ne dit pas

 

 

 

Le discours dit et écrit, désormais répété incessamment par la machine médiatique – omniprésente cathédrale virtuelle de la religion marchande –, cautionne sans retenue l’utilisation de la force qui se dit légitime et de l’injustice qui se prétend légal, exercées matériellement par la domination hiérarchique des seigneurs sur les esclaves.

Les idéologies religieuses et politiques sont un instrument que le Léviathan productiviste, en particulier, a constamment utilisé pour éliminer les obstacles à sa domination et pour dévitaliser les résistances à son impérialisme structurel. Pour manipuler la réalité, on s’est toujours servis du passé et du futur. Le futur a été adoubé de paradis imaginaires et d’hypothétiques lendemains qui chantent pour droguer d’espoirs illusoires la partie insupportable du présent.

 En ruminant de milles façons differentes et souvent contradictoires l’idée d’une liberation à venir – en deçà ou au-delà de la mort inéluctable, mais toujours bien loin du présent – on a enlevé aux révoltes spontanées du grand nombre exploité pour l’enrichissement d’une petite minorité, la force nécessaire pour se traduire en émancipation réelle. Avec le futur, toutefois, le passé aussi a été constamment manipulé pour lui faire dire ce que les soumis devaient croire pour rester confinés dans leur survie misérable. En se tournant en arrière, le mensonge dominant affiche une autre face de la même médaille : celle du pouvoir exercé par quelques-uns sur un grand nombre par la force des idéologies et de la violence sociale.

Des masses d’êtres humains dépourvus de liberté ont été destinées, pendant des millénaires, à changer souvent leur nom (esclaves, serfs, travailleurs) mais jamais leur rôle ; car si, avec le temps, l’exercice de la domination a perdu un peu de sa violence matérielle, son intensité n’a surtout pas diminuée dans le passage des chaines esclavagistes au servage, puis au travail salarié. On peut remarquer, à ce propos, que l’esclavage informel du « libre » travailleur moderne n’est pas du tout reconnu comme une captivité : on arrive même à remercier les patrons généreux qui donnent du travail ! La domination est simplement devenue plus intime, intériorisée, en substituant en partie l’aliénation à la souffrance physique et la servitude volontaire à l’emprisonnement forcé, avec l’obligation sournoise de consommer abondamment, tout en restant qualitativement des indigents, des pollués, des insatisfaits, des exploités.

Dès origines du productivisme, la culture dominante appartient inéluctablement à ceux qui exercent la domination. L’histoire a été écrite par les vainqueurs non pas parce que les vaincus n’avaient pas une opinion, mais parce que celle-ci était enchainée autant que ces mêmes sujets asservis. Même les dates de l’histoire ont été établies par les hiérarchies qui se sont emparés des sociétés humaines en y instaurant progressivement ce productivisme qu’au fur et à mesure l’homo economicus a imposé de façons variées et par dynamiques differentes, pratiquement partout, en colonisant la planète.

Ainsi, jusqu’à l’instauration de l’économie politique capitaliste comme une théologie universelle de la domination hiérarchique, les chrétiens ont inventé leur propre calendrier spécifique daté à partir de la naissance présumée de leur fils de dieu supposé ; les musulmans utilisent un autre calendrier à partir de leurs prophéties médiévales et même les révolutionnaires bourgeois de 1789 ont ressenti le besoin idéologique de s’inventer leur mode particulier de dater l’histoire.

A chaque nouvelle révolution idéologique, le pouvoir religieux et politique  ne peut pas s’empêcher, pour s’imposer, d’occuper un vécu qui se rêve libre mais qu’il s’affiche captif, en s’emparant de l’espace-temps de l’époque par tous les moyens disponibles : les armes, la violence, le viol, l’humiliation et la peur, mais aussi le mythe, la séduction, la corruption et les croyances que l’idéologie justifie ; tout cela corrobore l’importance d’un syndrome de Stockholm peut-être plus ancien encore que le productivisme car enraciné dans le côté servile et grégaire de l’humanité souffrante.

Ainsi l’histoire reconnue comme telle est uniquement celle du productivisme. Le reste est préhistoire. Grace à l’excuse plausible mais inacceptable de l’absence de documents écrits pour en lire les événements les plus anciens, l’histoire a été datée depuis l’invention de l’écriture. Laquelle, avant de devenir, effectivement, aussi un instrument de liberté et de poésie, de culture et de communication, a été la trace indélébile de l’obsession productiviste dans l’accumulation des denrées, des biens, des marchandises ; car c’est par leur stockage et par leur comptabilité scrupuleusement enregistrée qu’est née la richesse opprimante du commerce et de l’accumulation économique.

Deux révolutions bio-sociales à la radicalité très différente ont marqué au fer rouge (c’est le cas de le dire, puisque le premier en date de ces bouleversements fut la découverte du feu) le développement de l’humanité. La découverte du feu a été une première révolution bio-sociale partagée par un certain nombre d’hominides plus anciens que Neandertal et Sapiens, il y a au moins un demi-million d’années[1]. En fait, il fut question d’une domestication car, évidemment, le feu existait en nature bien avant qu’une espèce composite de mammifères similaires – des primates en voie d’humanisation – apprenne à le dompter et à accéder ainsi à une révolution biologique et sociale grandiose, capable de donner vie aux sociétés humaines organiques[2].

Car grâce à l’utilisation du feu, la manière de se nourrir du singe humanoïde a changé radicalement, en créant les conditions de l’espèce humaine. La cuisson est devenue un art majeur de l’espèce en devenir et la cuisine s’est ajoutée à l’alcôve en tant que moment crucial du sens de la vie, au-delà d’une survie que tout animal vivant protège instinctivement avec acharnement. Aujourd’hui encore, malgré la sexophobie répandue et l’aliénation sacrificielle qui s’excite uniquement face aux marchandises, de la voiture au godemichet, du telephone à la Nutella, l’art de cuisiner et de faire l’amour restent les deux arts majeurs de l’espèce humaine. Dans l’intimité en partie refoulée par un surmoi toujours plus réifié, elles font de tous les autres arts une splendide sublimation secondaire pas structurellement nécessaire et pourtant très importante qualitativement, digne de respect, d’appréciation et d’autant qu’on veut de passion créative.

Pour faire bref sans rien oublier, je laisse donc de côté les révolutions transitoires[3] qui ont apporté une croissante capacité de production de biens utiles aux sociétés humaines pour passer directement de la révolution du feu à la révolution agraire qui a introduit le germe du productivisme et avec lui des effets profondément bio-sociaux qui, à long terme, ont changé radicalement la physionomie psychogeographique de l’humain en gestation.

Si, en fait, le Sapiens (apparu il y a environs 200.000 années) est la dernière espèce rescapée parmi les differentes génies d’hominides qui ont apporté aux primates un processus d’humanisation duré des millions d’années et aujourd’hui encore inachevé, ses collectivités organiques ont subi, il y a quelques millénaires, un bouleversement structurel – bio-social, justement – qui, a produit des mutations déterminantes dans leur progressive capacité de transformation de la nature et avec elle de la nature humaine. Si le feu a donc énormément contribué à la naissance des sociétés organiques, la révolution agraire productiviste leur a donné un coup destiné, dans le temps, à devenir mortel.

Sans la prétention de refaire l’histoire, mais souhaitant fermement amplifier son champ des possibles avec l’aide et le contrôle de tous, je me suis donc focalisé sur la révolution agraire car elle a fini par être une contrerévolution qui a corrompu le processus d’évolution organique de l’espèce humaine en le rendant dangereusement artificiel. Et c’est justement ce passage que l’histoire des vainqueurs a particulièrement mythologisé, faussé et caché, en restituant un récit sélectif et forcé des faits, dans le but de justifier et interpréter cette mutation destructrice comme la naissance de la civilisation humaine.

Si je partage, donc, l’exigence du regretté camarade Graeber et de son collègue Wengrow[4] d’en finir avec la fable d’un communisme primitif, originaire et généralisé, que les idéologues communistes ont imaginé comme une caution pour leurs révolutions bureaucratiques à venir, je ne suis pas du tout d’accord avec eux quand ils nient la consistance historique d’une révolution agraire. Un tel déni empêche de saisir les raisons profondes de la tragique situation actuelle, alors que l’affirmation de l’importance de cet événement nous donne une clé de lecture essentielle pour comprendre la réalité. Ce qui ne signifie pas identifier l’agriculture avec le productivisme qui l’a monopolisée, car le point dolens de la « civilisation » n’a pas été le passage de la cueillette spontanée des premiers hominides à la découverte et à l’utilisation organique de l’agriculture, mais la subséquente appropriation privative de cette technique par des oligarchies marchandes et guerrières prêtes à tout pour réaliser l’affaire qui allait les rendre riches et puissantes.

Certes, il faut être clairs sur ce qu’on entend : en effet la pratique de l’agriculture dont l’archéologie date l’apparition autour de dix mille, onze mille années avant notre ère (et peut-être même avant, dans certains lieux de l’extrème orient), ne fut pas en soi plus déstabilisante que d’autres mutations et découvertes importantes de la soi-disant préhistoire et du néolithique en particulier. Les peuples de la cueillette qui dépendaient de la terre, des mutations climatiques et des mouvements des autres espèces vivantes pour se garantir la survie alimentaire, ont ajouté leur nouvelle capacité de cultiver la terre comme un savoir-faire en plus à appliquer à la nature pour produire les biens nécessaires à la survie et à l’adoucissement progressif de la vie. Car cela était, et il est encore, le véritable progrès, la véritable civilisation, le but primaire des individus et des sociétés humaines : intervenir dans la nature pour humaniser ses effets sans altérer les équilibres délicats de ce que le langage scientifique moderne appelle la biosphère et qui était pour les anciens simplement la nature dont l’humain fait partie.

Comment ne pas remarquer que l’humanité a résisté à la dérive mortifère du productivisme pendant quatre millénaires au moins ? Pendant cette longue période les communautés agricoles matri centrique ont refusé d’altérer les équilibres organiques de la relation entre les humains et la nature, alors que les tribus patriarcales s’occupaient marginalement de pratiquer la prédation et la guerre de conquête pour alimenter leur système belliqueux et parasitaire. Toutes les données en notre possession nous disent que du croisement entre le parasitisme patriarcal et la logique productiviste, est née cette révolution agraire qui a transformé la vie dans le monde.

Comment ne pas se poser la question de comment sortir du piège qui a transformé la production de biens utiles pour vivre mieux et plus, dans la production économiste de biens de plus en plus superflus et polluants sous la tyrannie de la valeur d’échange (car ceci est le productivisme et non pas l’activité de produire des biens utiles !) ? Une fois démarrée la culture esclavagiste des céréales qui a introduit l’accumulation primitive productiviste, l’humanité est devenue esclave de l’obsession de faire du blé, refoulant, d’époque en époque, de progrès en progrès, de monnaie en monnaie, la question de l’affaiblissement létale des sociétés organiques qui met aujourd’hui en danger la survie même de l’espèce et de beaucoup d’autres formes de vie sur la planète.

D’accord avec Graeber, en cela : ne faisons rien dire à la préhistoire comme un ventriloque à son pantin, évitons d’affirmer aucune simple hypothèse comme une vérité certaine. Même si les données empiriques que la préhistoire restitue à ses chercheurs passionnés sont désormais abondantes, personne ne peut affirmer avec certitude des vérités absolues à propos de ces temps lointains, dépourvus de documentation. Limitons-nous aux faits que l’archéologie nous donne et, à partir d’eux, explorons-nous cette archéomythologie consciente de ses limites, donc humblement circonspecte, qui analyse et interprète les découvertes sans poursuivre le but d’en faire des idéologies[5].

L’humanité a probablement toujours essayé tous les moyens à sa disposition pour améliorer ses conditions de vie, des plus égoïstes et cyniques aux plus collectifs et affectueux, des plus bornés aux plus clairvoyants. Conscient uniquement en partie de ses qualités et de ses défauts, de ses contradictions, l’être humain a exploré toutes les formes possibles de « progrès ». Reste que, si le communisme primitif est un mythe idéologique, la tendance à la solidarité, à l’aide réciproque et aux relations pacifiques dans un environnement naturel est une donnée objective concernant l’espèce humaine comme d’autres mammifères, autant sinon plus que la tendance prédatrice. Celle-ci traverse la nature comme un automatisme animal que seule la conscience d’espèce d’une humanité retrouvée pourra dépasser en opposant aux dégats provoqués par la civilisation productiviste une recomposition du projet humain authentique sans rêver d’un impossible retour aux sociétés organiques du passé, mais utilisant organiquement, parmi les techniques acquises pendant des siècles, celles utiles à réaliser le bonheur des êtres, arrêtant de poursuivre une richesse d’avoirs accumulés qui a réduit à des choses même les êtres vivants.

Par cette nouvelle conscience d’espèce naissante tout est encore possible, si nous aurons le temps, car l’être humain n’est ni bon ni mauvais en soi, mais il sait se comporter en ami ou en ennemi et aussi mieux et pire que ça pour jouir de la vie. En fait, il est capable de tout et le choix du bien que l’éthique, glissant vers la morale, invite à préférer, n’est qu’un escamotage idéologique, un devoir être intellectuel. En ignorant Epicure, on a oublié que la joie et la jouissance de la vie donnent une autre interprétation possible au choix du « bien » plutôt que du « mal ». Car c’est scientifiquement prouvé que par le partage, la paix, la solidarité et la jouissance sereine on vit mieux et plus longtemps. Dans la nature, le prédateur a une vie beaucoup plus brève que l’animal pacifique.

Une dynamique orgastique[6] qui privilégie l’organisation sociale des instincts solidaires et d’un spontané sentiment amoureux pour la vie, pour ses semblables et, très souvent, pour l’autre genre en particulier, est donc concrètement possible. Il est question d’un choix non moraliste mais surtout pas immorale, qui – autant d’un point de vue pragmatique qu’émotionnel – refuse comme une mauvaise solution la prédation, attitude répandue mais loin d’être la norme parmi les mammifères dont l’être humain fait partie.

C’est assez probable que, ainsi que les chimpanzés et les bonobos partagent avec nous presque la totalité du patrimoine génétique, tout en étant absolument differents sinon opposés entre eux par le fonctionnement social, chez les humains aussi se soient développées spontanément, ab origine, de façon concomitante et différemment conflictuelle, les organisations sociales matri centriques, acratiques et libertaires, mais aussi les communautés patriarcales hiérarchiques et autoritaires. Si ces deux options opposées ont pu facilement cohabiter quand l’espèce était une présence quantitativement réduite sur la planète et chaque groupe pouvait donc exister facilement en relative indépendance et soumis à des assez rares conflictualités, avec les mutations dues à des raisons climatiques et à la croissance démographique de la population, les conflits et les confrontations se sont inévitablement multipliés.

Dénoncer, comme fait Graeber, l’idéologie idyllique du bon sauvage et du communisme primitif, est donc certainement correct, mais ceci ne signifie pas que la révolution agraire n’ait pas existé comme un tournant finalement négatif pour les êtres humains. Car elle a modifié profondément l’évolution de l’espèce qui est passée d’une relation organique, dans et avec la nature, à une volonté prétentieuse de domination (l’hubris si âprement dénoncée dans la Grèce ancienne) que le patriarcat productiviste a étendu à la femme, aux esclaves des deux genres et de toute âge et à la nature, avec une attitude rustre, sadique et prédatrice. La révolution agraire productiviste a introduit dans la vie des êtres humains le travail. Le labour, torture que le productivisme agraire a rendue nécessaire et qui ajoute à la captivité forcée l’exploitation de la force de travail d’autrui, a poussé à la multiplication des guerres afin de se procurer des esclaves pour les champs, pour la maison et pour le lit.

Je trouve difficile établir si l’esclavage ait déjà été pratiqué ponctuellement aux débuts organiques de l’espèce – c’est possible, je dirais, mais pas plus que le cannibalisme et une sexualité brute et approximative parce que pauvre de la poésie orgastique qu’illumine le vivant quand la bête accouche enfin de l’être humain. Avant cela on était encore aux prémices animales de mammifères omnivores et non pas carnivores, capables de hiérarchies féroces et patriarcales mais aussi de centralités féminines acratiques, tendres et conviviales. C’est certain, en revanche, que l’esclavage – avec la hiérarchie de genre concernant elle aussi autant le travail que la sexualité – a marqué des millénaires de péripéties humaines dans la société productiviste par une exploitation systémique des plus faibles, en faisant de l’histoire reconnue en tant que telle une lutte de classes permanente.

Je me répète en synthèse sur l’essentiel : la révolution agraire productiviste est la mutation malheureuse à laquelle l’humanité a résisté pendant des millénaires (environs du dixième au cinquième avant notre ère, quand sont apparues nombreuses cités-état dans la plaine mésopotamienne – celles-ci mêmes, peut-être, successives à un processus analogue qui pourrait les avoir anticipées ici ou là dans le monde). Une fois concrétisée la suprématie patriarcale et productiviste dont la mythologie grecque nous donne une riche narration, ce bouleversement fondamental a marqué le lent mais inarrêtable passage des sociétés organiques de cueilleurs, devenus entretemps aussi agriculteurs de subsistance, aux sociétés productivistes qui ont introduit l’appropriation privative, l’accumulation des biens et l’échange économique comme des mécanismes de base de leur fonctionnement. Etroitement lié, à ses débuts, à la production agricole intensive des céréales qu’on peut accumuler et stocker dans le long terme à la différence des fruits et d’autres produits de la nature, consommables mais rapidement périssables , ce passage absolument révolutionnaire d’un point de vue social, était destiné à le devenir aussi du point de vue biologique.

Avec la modernité, de cette accumulation agraire dépendant de la domination sur les territoires autant que sur le travail humain (rappelons-nous que les premiers économistes physiocrates considéraient la terre et la puissance de production agricole l’unique véritable source de richesse) on est passés à l’industrialisation que l’économie politique célèbre, depuis des siècles, comme le progrès absolu. En fait, la technologie industrielle productiviste (appliquée, d’ailleurs, autant aux usines qu’à l’agriculture) est arrivée aujourd’hui à produire, comme conclusion finale de la révolution agraire, l’écroulement des équilibres biologiques et écologiques nécessaires à la vie.

 

                         *                          *                            *                           *                     *

 

Ainsi la fin programmée des sociétés organiques a vu le triomphe de cet homo economicus qui est la racine archaïque de l’homo trans humain désormais fantasmé par les aliénés de la dernière génération.

Le principal de la vérité est de muter partiellement dans l’espace et le temps tout en restant toujours cohérente dans sa totalité. La verité de hier peut devenir le mensonge d’aujourd’hui. Relativement, toutefois, car la verité vérifiable dure dans le temps jusqu’à quand se prolongent les conditions qui l’ont produite. Il faut donc apprendre par tous sans devenir les disciples de personne, en mêlant les doutes aux convictions pour les rendre stables et les faire vivre et ne pas adorer leur cadavre. C’est ainsi qu’on vit en libres explorateurs du réel, c'est-à-dire des êtres humains en symbiose harmonique avec la nature dont ils font partie.

Sur ce point crucial s’enclenche la conscience d’espèce que j’ai déjà mise en exergue et qui rompt avec l’artificialisation de la vie commencée avec la révolution agraire et éclatée avec l’industrialisation productiviste. Elle apparaît comme la réalisation et le dépassement de cette conscience de classe[7] qui fut la dernière forme de conscience aliénée produite par le productivisme. Nécessaire à la lutte des défavorisés, des exploités et des aliénés pendant le processus d’artificialisation de la vie appelé progrès, la conscience de classe a contribué, au nom des exploités, à l’hubris productiviste. Comment, autrement, il serait pu venir à l’esprit des théoriciens du prolétariat, de revendiquer sa dictature, fusse-t-elle transitoire ?

Voilà deux postulats qui alimentent une conscience d’espèce qui se répand de plus en plus dans la société humaine :

1) L’Etat s’abroge, il ne dépérit jamais, magiquement tout seul – incompatible avec la démocratie directe, même quand il n’est plus rien, il continue d’exercer, imperturbable, ses privilèges que c’est à nous d’abolir ;

2) La dictature, il faut la combattre d’où qu’elle vienne, car elle n’est jamais transitoire en soi dans le meilleur des cas, elle s’écroule sous les ruines d’un mur qu’on n’a jamais fini de démolir.

L’idéologie communiste autoritaire qui a monopolisé la conscience de classe d’une époque entière, mélangeait la juste revendication prolétaire de l’émancipation avec la défense du projet artificiel à la racine de l’exploitation de l’homme par l’homme : le productivisme. La pire limite du marxisme est de vouloir abolir le capitalisme sans rompre avec le productivisme, en finissant inéluctablement par accoucher d’un capitalisme d’Etat.

Il faut apprendre par Marx, comme par plusieurs autres êtres humains dont la pensée est riche, généreuse et parfois sublime, sans devenir le disciple de personne. Choisir entre Marx et Proudhon, Marx et Bakunin, entre l’un ou l’autre des étendards que la religion politique promène dans chaque via crucis de l’idéologie révolutionnaire, n’a pas de sens. Il faut toujours choisir humblement soi même en tant qu’individus sociaux autonomes et solidaires dans la Commune-monde que la conscience d’espèce échafaude, du local au planétaire ; il faut être constructifs mais attentivement autocritiques car en chacun sommeille le virus potentiel d’un prêtre pestilentiel qui propose ses convictions comme une verité dogmatique. Rappelons-nous, avec les zapatistes du Chiapas, qu’il n’y a pas de modèles à suivre ; que des exemples à étudier, à soutenir solidairement et en totale autonomie pour affiner la radicalité de sa propre Commune à bâtir.

La croyance, toute croyance, est le bouillon de culture de la servitude volontaire qui a fait du singe devenu humain un être artificiel qui n’est même plus un singe, mais un zombi hétéro direct par une idéologie. Ce processus aliénant est le signe clair de la redoutable contrerévolution sociale et finalement biologique que l’être humain s’est auto imposé par l’introduction du productivisme dans son évolution. En transformant le moyen nécessaire de produire des biens pour vivre toujours mieux dans le fin unique et ultime de la société, l’homo economicus a défié la nature comme un ennemi à combattre et dominer, et avec elle la femme, les autres êtres humains et les autres espèces animales. La relation entre l’être et l’avoir s’est renversée et la prédation, élément ambivalent à dépasser par l’humanisation, est devenue le modus vivendi de toutes les sociétés patriarcales et hiérarchiques.

Ce cycle terrible mais fascinant parce qu’il concerne – en la niant – toute l’humanité des êtres humains, a commencé précisément avec la révolution agraire qui a transformé l’humain inachevé en bête de somme puis en machine computerisée valorisant un fétiche religieux inclusif de toutes les croyances passées : le fétichisme de la marchandise. La marchandise est le dieu réifié d’un mysticisme totalitaire dont l’économie politique est la théologie qui a imposé la domination du commerce et de sa civilisation sur les sociétés organiques soumises à une artificialité envahissante.

Etat et Marche ont imposé l’échange rentable comme la valeur principale de l’activité humaine, puis comme l’unique possible dans l’actuel monde financiarisé où seul l’argent circule librement et les êtres humains sont confinés par des excuses de moins en moins plausibles. Une fois rendue accessoire la valeur d’utilisation des biens, l’argent matériel tend à disparaître en devenant virtuel et transformant le conditionnement imposé à la société par les lois économiques en une domestication absolue sous le contrôle du Big Brother économiste.

Pour la civilisation productiviste dont le capitalisme est le fils et l’héritier final, tout est bon pour enchainer les opprimés. Du terrorisme politique au terrorisme viral, ces monstres qui balancent du mythologique au réel sont parfois inventés, souvent aidés et mythifiés mais toujours officiellement exécrés. Cette stratégie concerne autant le terrorisme islamiste que le coronavirus, en passant par la poudre de perlimpinpin de la violence extrémiste ultra minoritaire qui parasite les premières manifestations publiques de la conscience d’espèce naissante, avec ou sans gilet jaune. Partout où l’humanité se réveille, les restes d’une rage aveugle et bloquée, en quête inconsciente d’un palais d’hiver qui n’existe plus ou d’une marche sur Rome que l’histoire humaine a déjà fusillé en 1945, est machiavéliquement facilitée, à doses homéopathiques, par les gouvernements productivistes qui adorent les méchants casseurs afin de criminaliser, face à l’opinion publique apeurée d’une démocratie spectaculaire, l’insurrection de la vie quotidienne – le seul ennemi qu’ils craignent vraiment.

Le but du système global est, depuis longtemps, celui de confiner définitivement les êtres humains dans leurs ghettos productivistes. Son projet totalitaire a pour but de faire de chaque brebis son propre chien qui autogère l’univers carcéral de la survie des citoyens producteurs-consommateurs. Pour cela le coronavirus est un véritable « cadeau de dieu » que les prêtres productivistes exhibent sur les autels de leurs messes médiatiques, entre peur et cynisme. Le piège est déclenché, à nous d’éviter tout mysticisme viral : que tu soit disponible ou pas, que tu soit très utile ou très peu, je suis prêt à t’utiliser par précaution, pas à faire de toi un voile mystique productiviste pour ou contre lequel se battre. Je ne t’adore pas ni je te déteste. Je t’utilise et surtout je te jette. TI CONOSCO MASCHERINA! (Je vois bien qui se cache sous le masque!).

La réalité ne peut pas se réduire à ça. Leur carnaval macabre ne peut pas être le notre. Et pourtant, face à cette dernière manipulation qui profite de la pandémie pour déplacer le curseur de l’aliénation à un niveau jamais atteint auparavant, certains sont encore besogneux d’un millénarisme archaïque pour opposer aux diktats de la religion officielle une hérésie équivalente. Alors que le système utilise le virus en faisant de lui un diable utile pour sacraliser à nouveau le dieu productiviste en perdition, une troupe de « mécréants de réseaux sociaux », victime de la réification généralisée, nie la dangerosité du virus comme les créationnistes nient l’évolution, poussant les intelligences sensibles athées et agnostiques vers l’absurde logique binaire d’un mysticisme qui avilit la spiritualité naturelle de l’être humain en quête de totalité vivante[8].

Car le mysticisme est l’interprétation erronée des situations psychogéographiques où se développe organiquement la complexité du vivant et, comme un virus de la peste émotionnelle, il peut se nourrir de n’importe quelle potion idéologique. Nourri par des rumeurs qui se présentent comme des vérités scientifiques, le mysticisme est une paranoïa de l’intelligence sensible qui nie la partie de la réalité qui fait peur par une lucidité hallucinée en quête du diable. Cette émotivité pathologique, spoliée de l’intelligence sensible par des siècles d’aliénation, se contente de nier ce que le pouvoir affirme, en profitant de ses innombrables mensonges. On risque ainsi de pousser une partie des adversaires du discours officiel vers un manichéisme suicidaire qui transmue la peur refoulée de la mort en grégarisme fidéiste. La lutte pour la vie se renverse ainsi en un dernier grotesque et involontaire « ¡Viva la muerte ! ».

En se libérant de l’hypnose de la logique binaire, l’humanité doit interrompre le processus létal qui l’a séparée de la nature en préparant sa ruine définitive. Tous les signes sont là pour nous le rappeler et nous pousser à faire vite. Aucun environnementalisme grégaire de l’économie ne sauvera l’espèce. Ni la santé ni le bonheur qu’elle implique ne permettent plus de compromis. Seul un projet d’écologie radicale pour abolir le capitalisme et restaurer la vie organique contre la peste émotionnelle que l’économie politique sécrète, pourra incarner la révolution d’une conscience d’espèce qui, comme nous tous qui en sommes les porteurs, n’a aucune certitude d’y arriver, mais il n’y a pas le choix.

Jusqu’à hier la critique a dénoncé l’intolérable, l’absurde, le répréhensible, l’aliéné sans balayer son pouvoir. Aujourd’hui il est question de l’abolir. Demain risque d’être trop tard.

 

 

Sergio Ghirardi, 10 octobre 2020

 



 

Echange de mails avec Daniel Kesselring :

 

Salut Sergio,

 

ça va comme ça peut aller, le monde est pourri mais la vie est belle!

J'ai lu ton texte et je suis en accord avec la plupart des idées.

Jeudi soir nous faisons une soirée hommage à Graeber et je relis les derniers chapitres de "La Dette", "La Démocratie aux marges" et "Comme si nous étions déjà libres".

Je n'ai peut-être pas lu le texte auquel tu fais référence, mais à l'heure où l'on peut s'essayer à faire un bilan de l'apport de Graeber non seulement dans la pensée critique contemporaine mais aussi dans l'élaboration pratique de l'"occupation de la vie" (Occupy Wall Street), puis dans l'élaboration théorique en découlant, avec l'étude approfondie des aspects tactiques et stratégiques, qu'il ait sous-estimé l'importance de la révolution néolithique me parait pas très important.

Jouer Scott contre Graeber ne me parait pas judicieux dans la mesure où Graeber a préparé le terrain et rendu possible les travaux de Scott. Comme Clastres avant lui. (Et Mauss qui est aussi l'inspirateur de "La Dette" de Graeber.

La principale critique que je te fais c'est que j'ai l'impression que tu te cantonne dans une sorte de primitivisme économique.

J'aurai adoré vivre au mésolithique, mais le productivisme a principalement consisté à produire des pléthores d'êtres humains et cette surproduction réduit de plus en plus la palette des modes de vie possibles.

La transition vers un avenir non apocalyptique ne peut faire l'impasse de décortiquer tous les enfumages esclavagistes que l'on affuble du mot-captif d'Economie.

La transition devra s'appuyer sur une fixation de la valeur, condition nécessaire pour le dépassement de l'économie.

Je n'ai pas le temps de développer une affirmation qui te paraitra pour le moins péremptoire!

 

Je te souhaite un bel été indien et je t'embrasse affectueusement.

 

bisous d'Alexandra

 

 

 

Cher Daniel,

Merci, avant tout, pour l’échange enrichissant.

Je suis d’accord avec la majorité des choses que tu remarque ce qui accentue un peu plus l’importance des quelques désaccords ponctuels et certainement dépassables par le dialogue :

 

1) Je ne joue personne contre personne. J’ai écris clairement dans mon texte que je ne choisis pas « entre Marx et Proudhon » etcetera.

2) Graeber est pour moi un camarade regretté dont j’apprécie la qualité et je partage l’esprit de fond avec plusieurs intuitions importantes (c’est moi qui a ajouté la version en français du texte de Graeber et Wengrow en question que tu peux lire sur Barravento du 12 septembre), mais sa sous-évaluation de la révolution agraire est pour moi une erreur grave à effacer. C’est tout.

Surtout que Graeber a travaillé avec Sahlins et qu’il a bien intégré, selon moi, le mieux de Bookchin sans tomber dans des dérives bookchinistes, en ajoutant, comme tu le rappelle, qu’il est proche de Mauss.

Je partage, mieux que je peux, tout cela. On peut ne pas être d’accord avec ma critique ponctuelle, mais alors il faut expliquer pourquoi. Moi je n’aimerais pas vivre dans le passé, mais dans un futur qui apprend du passé ce qu’on a tragiquement effacé ou oublié sur la route dramatique (démographiquement aussi, bien-sur) de notre présent.

Tu a certainement autre chose à faire de plus important, mais si tu me relis bien je n’exprime aucune nostalgie primitiviste. Bien au contraire: il faut dépasser RADICALEMENT l'économie politique, jamais le mot dépassement fut plus urgent!

On pourra, je l’espère, mieux développer en buvant ensemble dans ce présent qui s'éternise de plus en plus claustrophobe; où la vie est belle, certes, mais moi –je t’avoue– j’ai de plus en plus de mal à la rencontrer dans mon quotidien.

 

En te souhaitant le mieux, je t’embrasse de toute mon amitié  et avec toi les tiens        sergio

 







L’ART DE LA CONFUSION SUCCEDE AU CYNISME DU MENSONGE

 

 

En atteignant ses limites et sa fin, la civilisation agro-marchande met en lumière tout à la fois le phénomène qui a présidé à son apparition et la confusion sciemment entretenue sur ses origines.

La vie, on le sait, expérimente en permanence des formes d’existences nouvelles. Elles naissent, se développent, s’affermissent, s’atrophient, disparaissent, pour des raisons que nous ne nous n’avons guère pris la peine ou le plaisir d’explorer. En témoignent la création ex chao des espèces minérales, végétales, animales et humaines parmi lesquelles les dinosaures, l’hominien, l’Homme de Neandertal, l’Homme de Flores, l’Homme de Denisova. Mais l’ombre du Grand Horloger continue d’occulter les consciences et la faveur élective des cultures marchandes va au pire avatar de l’hominien, l’homo economicus.

Partisans et détracteurs du système dominant s’affrontent dans une arène où les combats sont biaisés. Tandis que des millions d’êtres meurent en combattant pour vivre, historiens, archéologues, sociologues et autres experts s’efforcent de tenir un rôle dans un spectacle culturel où les enjeux sont principalement polémiques et se réduisent à des querelles de prestige. Cependant, sous le ridicule de qui «pisse le plus loin», c’est le territoire, ainsi arrosé et délimité par chacun, qui devient révélateur. C’est là que les intérêts montrent à quel point ils sont manipulés par les vieux préjugés.

Le conservatisme dispose du poids des idées traditionnellement reçues. On ne s’étonnera pas outre mesure que la plupart des spécialistes se penchent davantage sur l’objet de leurs études que sur leur subjectivité d’observateur, si ordinairement percluse de présupposés sexistes, patriarcaux, élitistes, voire racistes.

Dans le camp adverse, le progressisme a beau jeu de dénoncer les tares de ceux que Rimbaud appelle les Assis. Avec les délectations de la revanche, le féminisme se satisfait d’asséner une volée de bois vert aux derniers savants ouvertement ou hypocritement misogynes.

Avec plus de justesse et de pertinence, l’éthologie dévaste la forteresse où se conserve encore, si étiolé qu’il soit, le dogme d’une civilisation produite par le génie de cet Homme dont la majuscule veut faire oublier qu’il ne s’agit que d’un avorton de l’hominien, l’homo economicus.

L’apport des éthologues remet en cause nos connaissances stratifiées – au reste, il en va de même pour l’ensemble des sciences que le souffle de l’air nouveau revivifie. Il montre que les hominiens et leurs civilisations (pour ne citer sommairement que l’Europe : Aurignacien, Gravettien, Solutréen, Magdalénien, Azilien) évoluent en affinant et en s’efforçant de dépasser – c’est à dire de nier et de conserver – le comportement des animaux, où prédation et entraide alternent et se conjuguent.

Or une même aberration, une même ignorance délibérée renvoie dos à dos conservateurs et progressistes. Les uns et les autres ont sous les yeux une évidence qu’ils occultent délibérément. Que l’appellation de Révolution agraire ne rende pas exactement compte d’un bouleversement des comportements, des pratiques, des mentalités, des sensations qui prend deux ou trois millénaires pour s’accomplir, on peut en convenir. Il n’en reste pas moins qu’il existe un écart considérable entre deux stades de notre évolution.

A la période embrassant la fin du paléolithique supérieur et le début du néolithique a succédé l’instauration d’une civilisation fondée sur l’esclavage et sur l’exploitation de la nature à des fins de profit. C’est un dévoiement abrupt de l’évolution en cours, un coup d’arrêt porté à l’humanisation de l’hominien. L’importance accordée par les Bonobos à l’entraide, au souci d’apaiser les conflits, au soutien des plus faibles, ne laissait-elle pas augurer pour l’humanité naissante des formes de sociétés solidaires, recueillant et affinant la manne terrestre en demeurant en symbiose avec la nature, dont la fécondité attribue analogiquement à la femme une prééminence acratique ? Car la véritable spécificité humaine c’est la création de soi et du monde, ce n’est pas la misérable transformation de l’être vivant en marchandise.

Cette stase involutive marque la dénaturation et la dérive d’une évolution naturelle. Elle est produite par l’émergence d’un système économique fondé sur l’appropriation du sol, par le pillage des ressources naturelles. Elle signe l’acte de naissance d’une société inhumaine dont l’effondrement grotesque menace aujourd’hui d’entraîner dans sa mort programmée une espèce qu’elle n’a jamais cessé de dévitaliser.

On comprend que le conservatisme, qui tient la civilisation marchande pour la Civilisation par excellence, se moque des civilisations de la cueillette et préfère le

Logos échangiste et le pouvoir hiérarchique au mode de vie des sociétés pré-agraires étudiée par Marshall Sahlins dans Age de pierre, âge d’abondance. Mais qu’un éminent éthologue comme Frans de Waal ne prenne guère en compte un phénomène historique aussi catastrophique pour l’homme que pour la bête est assez surprenant.

Plus surprenante encore est la frilosité critique qui assimile au mythe du bon sauvage en vogue au XVIIIe siècle les hypothèses hasardées sur le comportement de la femme et de l’homme dans civilisations antérieures à la civilisation productiviste et marchande. On dirait que les derniers intellectuels souffrent à la fois de se sentir dévalorisés par leur statut de fonctionnaire de l’esprit et d’être contaminés par l’effarante dégradation mentale dont témoignent leurs maîtres et mentors, aberrantes déjections d’un système qui les gouverne et qu’ils ne gouvernent plus.

Nul ne prétend que le mythe de l’Age d’or renvoie à une société idyllique ni à la fiction qu’est le communisme primitif, mais est-ce une raison pour ignorer ou pour traiter avec condescendance les hypothèses de Gimbutas et de ses disciples évoquant l’intrusion d’une peuplade d’éleveurs de chevaux et de constructeurs de tombes ou « kurgan », issus du nord de la Sibérie ?

N’y a-t-il pas quelque entourloupe à se servir du mythe du bon sauvage pour accrocher les derniers wagons des civilisations pré-agraires à la locomotive de la civilisation marchande ? Belle falsification intellectuelle par ailleurs que de privilégier l’idéologie (incontestable) aux dépens de la volonté initiale et tout aussi incontestable d’un Diderot et d'un Rousseau, soucieux de réhabiliter la nature en réhabilitant l’être humain qui en fut exclu ? Ce qui fait la richesse des Rabelais, des Montaigne, les La Boétie, des intellectuels des Lumières tient à l’élan de générosité qu’ils impulsent aux mentalités et aux mœurs. Leur volonté de stimuler le sens humain prime sur la pensée, qui avec des succès divers, s’efforce d’en rendre compte.

Progressiste ou réactionnaire, l’intellectuel porte en lui la tare d’une inhumanité inhérente à sa fonction hiérarchique dominante. Cette séparation entre sa pensée et sa vie quotidienne, cause de son malaise, il recourt à ce rituel d’exorcisme qu’est la surenchère critique pour en apaiser le prurit. Or, il n’y a pas pour l’intellectuel et pour le manuel, que nous sommes tous, d’autre issue que le dépassement, que seul rendra possible l’éradication de l’aliénation économique.

A défaut de ce combat que chacun livre avec lui-même, il est à craindre que nombre de penseurs spécialisés finissent par ressembler à ces experts de la science archéologique qui accusèrent le découvreur des peintures rupestres d’Altamira de les avoir peintes.

 

 

Raoul Vaneigem, 13 octobre 2020

 

 

 


 



[1] La découverte récente d’un foyer dans la grotte africaine de Wonderwerk pourrait rétrocéder la datation de la découverte du feu à il y a un million d’années.

[2] « L’idée que le destin de l’homme soit de dominer la nature n’est pas du tout un trait universel de la culture humaine. […] Plus on recule vers les communautés sans classes économiques et sans Etat politique – sociétés qu’on peut définir organiques par leur forte solidarité interne et avec le monde naturel – plus on trouve les preuves d’une vision de la vie qui se représente les personnes, les choses et les relations en termes d’unicité et non pas de supériorité ou infériorité. […] Dans plusieurs sociétés organiques où cette conception l’emporte encore, des concepts comme egalité et liberté restent indéfinissables ». Murray Bookchin, The Ecology of Freedom, Cheshire Books, Palo Alto 1982.

[3] Je me réfère à l’age de la pierre et à celles du bronze et du fer qui ont suivi l’irruption de l’agriculture productiviste et qui furent, comme par hasard, particulièrement dédiées à l’amélioration des armes de guerre.

[5] Honneur à Marija Gimbutas qui nous parle de l’évidence d’une centralité féminine dans une Europe ancienne qu’elle a profondément étudiée et fouillée, refusant d’en faire une idéologie féministe et préférant parler – justement archéomytologiquement – d’une societé gylanique où la liberté et la centralité acratique de la femme étaient des faits vérifiés. Très importants aussi ses études sur les invasions Kurgan, peuplades patriarcales préproductivistes qui ont objectivement préparé le terrain à la révolution agraire dont il est ici question.

[6] L’adjectif orgastique est tributaire des recherches de Wilhelm Reich sur la fonction de l’orgasme que ce scientifique passionné place au centre du fonctionnement vital.

[7] G. Lukács, Histoire et conscience de classe, Editions de Minuit, Paris1960.

[8] Lebendige totalität, disait Lukács toujours dans Histoire et conscience de classe.