venerdì 31 gennaio 2020

Di qualche parola prigioniera, dell’origine del potere gerarchico e del poco tempo che ci resta


File:Hans Rottenhammer 001.jpg


Come spesso, mi sveglio alle cinque del mattino con un sacco d’idee in testa. Più ho ben dormito tutto solo qualche ora, più penso e di conseguenza scrivo. Così, una quindicina di anni fa era scaturito dalla mia modesta profondità l’insieme di riflessioni che hanno prodotto Non abbiamo paura delle rovine, mio omaggio sincero, indipendente e critico della poesia situazionista.
Pensare liberamente – il più liberamente possibile – è come respirare, mangiare, far l’amore: ciò nutre il corpo vivente di una dinamica orgastica complessa che chiamiamo vita.
La spiritualità naturale è l’insieme dei segni di una coscienza animale che l’uomo ha spinto fino alla coscienza della sua mortalità nella durata sempre effimera del vivente. Realizzare e accettare di essere mortali è – volenti o nolenti – la sorgente alla quale si abbeverano tutte le visioni poetiche, tutte le sensibilità, tutti i fervori, tutti gli erotismi, tutte le dottrine politiche, tutte le filosofie.
Tuttavia, le parole sono dei veicoli altrettanto ambigui che necessari. Molte di esse sono passate sotto le forche Caudine della cattività loro imposta dalla cultura dominante; quella che, ormai da secoli, sappiamo essere ineluttabilmente la cultura della classe dominante.
Questo fenomeno è vecchio come il potere gerarchico; rimonta alle radici del produttivismo, dunque del patriarcato; è all’origine dei primi capi, re, patriarchi. Appunto, una delle prime parole prigioniere fu, forse, monarchia, nella quale si è consegnato a un unico privilegiato – il monarca – il potere assoluto che i maschi si erano già accaparrati col patriarcato. Da lì, da questo unico (mono) che s’impone a tutti gli altri mitizzando il suo statuto arcaico, ma che è sostenuto, in verità, da una corte e da un esercito che ne materializzano il temibile potere, nasce la casta degli sciamani religiosi che hanno trasformato la spiritualità naturale in credenza religiosa: la madre – o piuttosto il padre – di tutte le ideologie.
Il recupero della spiritualità naturale per un uso ideologico da parte delle religioni è al cuore del crescente potere dell’uomo sull’uomo, sulla donna e sul bambino. Da esso derivano la gerontocrazia, il patriarcato e la lotta di classe.
L’ideologia, infatti, in tutte le sue variazioni possibili, dal politico allo psicologico, passando per l’erotico e il mistico, non è che la multiforme versione opportunista della teoria. Essa utilizza a vantaggio delle dominazioni diverse, la riflessione umana prodotta dalla sua intelligenza sensibile, piegandola al buon volere interessato dei dominanti attraverso la manipolazione dell’ignoranza e delle paure, ma soprattutto della paura naturale della morte.
A partire da questa paura ancestrale, da questo timore di un’alienazione naturale che viene a chiudere ineluttabilmente il viaggio di ogni vita, l’ideologia coltiva la servitù volontaria che rode tra le paure umane come una sindrome di Stoccolma. L’ideologia religiosa è il ricatto della paura trasudante di un amore perverso che trasforma la stretta orgastica, amorosa, solidale e spontanea tra diversi diseguali (ma simili e dunque uguali in diritti e liberi desideri reciproci) in perversioni sadomaso punitive incluse la genuflessione, la prostrazione, la colpevolezza e l’autoflagellazione. Questa liturgia parzialmente autogestita, ma sempre diretta dall'alto di una gerarchia autoproclamata, è la madre – o piuttosto il padre – di tutte le umiliazioni, di tutti gli accecamenti di cui le figure sacralizzate del potere, i suoi preti, i suoi domestici politici, i suoi missionari, i suoi generali e i suoi esperti in comunicazione si servono da sempre per addomesticare i dominati allo sfruttamento, alla sottomissione, alla schiavitù.
Monarchia, democrazia, anarchia, aristocrazia... tutte parole prigioniere, ideologiche fra mille altre.
Archè e kratos sono una manifestazione arcaica esemplare dell’uso ideologico delle parole prigioniere:
ἀρχή, arkhê, parola femminile: principio, fondamento, origine, punto di partenza. Il termine matricentrico evoca la benevolenza, l’orizzontalità, la reciprocità.
κράτος, krátos, parola neutra: forza, dominio, potere, padronanza, sovranità. Il termine neutro ha una connotazione gerarchizzante, aggressiva, bellicosa.
A partire da queste etimologie e significati, io sono chiaramente e decisamente acratico e non mi sento particolarmente attirato dall’anarchia, anche se so bene che i compagni anarchici sono prima di tutto e soprattutto (ma non sempre, non tutte e non tutti) acratici. A questo proposito ripenso alla frase di Elisée Reclus che definiva l’anarchia la più alta forma dell’ordine. Sarebbe forse meglio passare dalla critica del femminile archè a quella del neutro patriarcale kratos, preferendo radicalmente l’acrazia all’anarchia.
Laddove il monarca e il patriarca si dicono e si pretendono benevoli, l’origine della parola democrazia è al contrario caricata di una volontà aggressiva. In Atene furono i loro nemici a definire democratici quelli del popolo che rifiutavano il dominio dell’oligarchia (ancora una parola prigioniera) al potere. Come sempre, in seguito, nella cultura borghese dei tempi moderni fino allo spettacolo mediatico odierno, il popolo (demos) che rivendica l’emancipazione è descritto come una folla riottosa, una masnada di violenti e di selvaggi incivili in cerca di prevaricazione. Così il colonialismo all’origine del capitalismo ha chiamato indistintamente selvaggi tutti i popoli sottomessi, sfruttati e genocidizzati. Così, ancora oggi, sono svalutati tutti quelli che si battono per l’autogestione generalizzata della vita quotidiana contro una “democrazia” che non è tale.
Siamo a un tornante unico della storia fatta e soprattutto da fare. Non c’è più continuità possibile né transizione pacifica ipotizzabile tra il vecchio mondo predatore e un altro mondo acratico da costruire. Ancora una volta non sono i selvaggi, gli incivili, i rivoltosi a innescare il motore della violenza ma i detentori del potere e i loro eserciti, i loro mass media e i loro apparati giuridici che violentano quanti domandano un’emancipazione per tutti: libertà, uguaglianza, sororità.
Il conflitto di classe e di genere dura da un sacco di tempo, ma c’è una novità portata a questo quadro dalla natura in movimento: con l’Antropocene siamo arrivati oggi a un punto di rottura biologico, ecologico e sociale che corrisponde materialmente (e pure magicamente, se ci si riferisce a quella magia naturale della vita che non ha niente di miracoloso) agli ideali politici di emancipazione sostenuti durante secoli, in forme ancora arcaiche ma già lucide, da minoranze radicali.
È la fine dei sogni utopici e il risveglio alla necessità d’inventare un luogo reale dove realizzare lo slancio emancipatore che solo ormai può salvarci la pelle, liberandoci allo stesso tempo. Non è, infatti, più questione di socialismo o barbarie, ma di società umana acratica e solidale o di sparizione prossima dell’umanità.
Certo il potere suicida del capitalismo punterà fino all’ultimo sulla carta putrida ma redditizia dello scetticismo ottimista opposto stupidamente a un pessimismo paranoico, oppure sulle sue messe ambientaliste e climatiche come alibi patetici della sua volontà di continuare a destabilizzare gli equilibri delicati della biosfera; tuttavia, il realismo della natura marcherà la pedagogia inevitabile di un crollo programmato che a ogni nuova catastrofe educherà un po’ di più i sopravvissuti alla loro umanità residua.
Quanti miliardi di esseri umani dovranno scomparire prima che la rivolta dei viventi vinca, se non è già troppo tardi?
Niente è sicuro, se non che non ci sono altre questioni plausibili al riguardo. Rispondervi positivamente, con una coscienza che di classe sta trasformandosi in specifica, è la sola scelta che ci resta per evitare quel che è già evidente e che lo diventerà sempre di più: in linea di mira della società produttivista, nella fase terminale capitalista del suo tumore tecno industriale, c’è solo la morte degli individui e della specie, alla fine di una sopravvivenza sempre più invivibile.
In un tale contesto, continuare a consumare, lavorare, subire senza fiatare, magari votando ogni tanto qualche pagliaccio politico di ogni bordo e di ogni ideologia, rileva ormai, a seconda dell’età, di una demenza precoce immortalata su selfie o di un delirio senile.
Siamo alla fine di una civiltà plurimillenaria mentre si avvertono le scosse del parto di un nuovo mondo possibile. L’aiuteremo o no, ma non dimentichiamoci che questa nascita è la nostra.


Sergio Ghirardi, 30 gennaio 2020


Risultato immagini per amore e psiche"


De quelques mots captifs,
 de l’origine du pouvoir hiérarchique
et du peu de temps qui nous reste



Comme souvent, je me réveille à cinq heures du matin avec plein d’idées en tête. Mieux j’ai dormi tout seul quelques heures, plus je pense et par conséquence j’écris. Ainsi, il y a une quinzaine d’années, avait jailli de ma modeste profondeur l’ensemble de réflexions qui ont produit Nous n’avons pas peur des ruines, mon hommage sincère, indépendant et critique à la poésie situationniste.
Penser librement – le plus librement possible – c’est comme respirer, manger et faire l’amour : cela nourrit le corps vivant d’une dynamique orgastique complexe qu’on appelle la vie.
La spiritualité naturelle est l’ensemble des signes d’une conscience animale que l’homme a poussé jusqu’à la conscience de sa mortalité dans la durée toujours éphémère du vivant. Réaliser et accepter d’être mortels est – qu’on le veuille ou non – la source à laquelle s’abreuvent toutes les visions poétiques, toutes les sensibilités, toutes les ferveurs, tous les érotismes, toutes les doctrines politiques, toutes les philosophies.
Néanmoins, les mots sont des véhicules aussi ambigus que nécessaires. Un bon nombre d’eux sont passés par les fourches caudines de la captivité qui est leurs imposée par la culture dominante ; celle que, depuis des siècles, nous savons être inéluctablement la culture de la classe dominante.
Ce phénomène est vieux comme le pouvoir hiérarchique ; il remonte aux racines du productivisme, donc du patriarcat ; il est à l’origine des premiers chefs, rois, patriarches. Justement, un des premiers mots captifs fut, peut-être, monarchie où on a consigné à un seul privilégié – le monarque – le pouvoir absolu que les mâles s’étaient déjà accaparé par le patriarcat. De là, de cet unique (mono) qui s’impose à tous les autres en mythifiant son statut archaïque, alors qu’en fait il est soutenu par une cour et par une armée qui en matérialisent le pouvoir redoutable, nait la caste des chamanes religieux qui ont transformé la spiritualité naturelle en croyance religieuse : la mère – ou plutôt le père – de toutes les idéologies.
La récupération de la spiritualité naturelle pour une utilisation idéologique par les religions est au cœur du pouvoir croissant de l’homme sur l’homme, sur la femme et sur l’enfant. D’elle découlent la gérontocratie, le patriarcat et la lutte des classes.
Car l’idéologie, dans toutes ses variations possibles, du politique au psychologique, en passant par l’érotique et le mystique, n’est que la version multiforme et opportuniste de la théorie. Elle utilise à l’avantage des dominations diverses la réflexion humaine produite par son intelligence sensible en la pliant aux bons vouloirs intéressés des dominants par la manipulation de l’ignorance et des peurs, mais surtout de la peur naturelle de la mort.
A partir de cette peur ancestrale, de cette crainte d’une aliénation naturelle qui vient inéluctablement clore le voyage de chaque vie, l’idéologie cultive la servitude volontaire qui rôde entre les peurs des humains comme un syndrome de Stockholm. L’idéologie religieuse est le chantage à la peur dégoulinant d’un amour pervers qui transforme l’étreinte orgastique, amoureuse, solidaire et spontanée, entre divers inégaux (mais semblables et donc égaux en droit et en libres désirs réciproques) en perversions sadomasos punitives incluant génuflexion, prostration, culpabilité et auto flagellation. Cette liturgie partiellement autogérée, mais toujours dirigée par le haut d’une hiérarchie autoproclamée, est la mère – ou plutôt le père – de toutes les humiliations, de tous les aveuglements dont les figures sacralisées du pouvoir, ses prêtres, ses galopins politiques, ses missionnaires, ses généraux et ses experts en communication, se servent depuis toujours pour domestiquer les dominés à l’exploitation, à la soumission, à l’esclavage.
Monarchie, démocratie, anarchie, aristocratie….que des mots captifs, idéologiques entre milliers d’autres.
Arkhê et krátos sont une manifestation archaïque exemplaire de l’utilisation idéologique des mots captifs :
ἀρχή, arkhê, mot féminin : principe, fondement, origine, point de départ. Le terme matri centrique évoque la bienveillance, l’horizontalité, la réciprocité.
κράτος, krátos, mot neutre : force, domination, pouvoir, maîtrise, souveraineté. Le terme neutre a une connotation hiérarchisant, agressive, belliqueuse.

A partir de ces étymologies et significations, je suis clairement et résolument acratique alors que je ne suis pas particulièrement attiré par l’anarchie, même si je sais bien que les camarades anarchistes sont avant tout et surtout (mais pas toujours, pas toutes ni tous) acratiques. Je repense, à ce propos, à la phrase d’Elisée Reclus qui définissait l’anarchie la plus haute forme de l’ordre. Peut-être qu’on ferait mieux de passer de la critique du féminin arkhê à celle du neutre patriarcal krátos en préférant radicalement l’acratie à l’anarchie.
Là où le monarque et le patriarche se disent et se prétendent bienveillants, l’origine du mot démocratie est au contraire chargé d’une volonté agressive. A Athènes ce furent leurs ennemis à définir démocrates ceux du peuple qui refusaient la domination de l’oligarchie (encore un mot captif) au pouvoir. Comme toujours depuis, dans la culture bourgeoise des temps modernes jusqu’au spectacle médiatique actuel, le peuple (demos) qui revendique l’émancipation est décrit comme une populace, un troupeau de violents et des sauvages non civilisés en cherche de prévarication. Ainsi le colonialisme à l’origine du capitalisme a appelé indistinctement sauvages tous les peuples soumis, exploités et génocidés. Ainsi, aujourd’hui encore, sont déconsidérés tous ceux qui se battent pour l’autogestion généralisée de la vie quotidienne contre une « démocratie » qui non n’est pas une.
Nous sommes à un  tournant unique de l’histoire faite et surtout à faire. Il n’y a plus de continuité possible ni de transition pacifique envisageable entre le vieux monde prédateur et un autre monde acratique à construire. Encore une fois, ce ne sont pas les sauvages, les non civilisés, les révoltés à mettre en marche le moteur de la violence mais les détenteurs du pouvoir et leurs armées, leurs medias et leurs apparats judiciaires qui violentent tous ceux qui demandent une émancipation pour tous. Liberté, égalité, sororité.
Le conflit de classe et de genre dure depuis belle lurette, mais il y a une nouveauté portée à ce tableau par la nature en mouvement : avec l’Anthropocène, nous sommes arrivés aujourd’hui à un point de rupture biologique, écologique et sociale qui correspond matériellement (et magiquement aussi, si on se réfère à cette magie naturelle de la vie qui n’a rien de miraculeux) aux idéaux politiques d’émancipation soutenus, en formes encore archaïques mais déjà lucides, par des minorités radicales pendant des siècles.
C’est la fin des rêves utopiques et le réveil à la nécessité d’inventer un lieu réel où réaliser l’élan émancipateur que seul peut désormais nous sauver la peau, tout en nous libérant. Car il n’est plus question de socialisme ou barbarie, mais de societé humaine acratique et solidaire ou de disparition prochaine de l’humanité.
Certes, le pouvoir suicidaire du capitalisme jouera jusqu’au bout la carte pourrie mais rentable du scepticisme optimiste opposé bêtement à un pessimisme paranoïaque, ou celle de ses messes environnementalistes et climatiques, alibis pathétiques de sa volonté de continuer à déstabiliser les équilibres délicats de la biosphère ; toutefois, le réalisme de la nature marquera de sa pédagogie incontournable un effondrement programmé. Chaque nouvelle catastrophe éduquera un peu plus les survivants à leur humanité résiduelle.
Combien de milliards d’humains devront passer à la trappe avant que la révolte des vivants gagne, si ce n’est pas déjà trop tard ?
Rien n’est sûr, sinon qu’il n’y a pas d’autres questions plausibles à cet égard. Il faut y répondre positivement par une conscience de classe en train de devenir une conscience d’espèce. Cette mutation est le seul choix qui nous reste pour éviter ce qui est déjà évident, et qui va de plus en plus le devenir : l’écroulement de la société productiviste qui, dans sa phase terminale capitaliste, malade de son cancer techno industriel, s’achèvera par la mort des individus et de l’espèce après une survie de plus en plus invivable.
Dans un tel contexte, continuer à consommer, travailler, subir sans rien dire, voter, peut-être, parfois, pour des clowns politiciens de tout bord et de toute idéologie, relève désormais, selon l’age, d’une démence précoce immortalisée par selfie ou d’un délire grabataire.
Nous sommes à la fin d’une civilisation plurimillénaire où on entend les secousses d’accouchement d’un nouveau monde possible. On l’aidera ou pas, mais sachons que cette naissance est la nôtre.

Sergio Ghirardi, 30 janvier 2020

lunedì 20 gennaio 2020

Tutto comincia qui e ora - Tout commence ici et maintenant







Considero un mio privilegio ricevere, di volta in volta, qualche perla di un’intelligenza sensibile che illumina i giorni bui di una società in perdizione. M’incarico, dunque, della piacevole funzione di far circolare nelle lingue transalpine più diffuse degli elementi di coscienza individuale e sociale che condivido in tutta libertà. A chi legge, decidere dell’eventuale uso di questi consigli per smettere di fare acquisti compulsivi e cominciare a vivere.
Il mondo sta voltando pagina, anche se chi si trova dentro il libro del vissuto non necessariamente riesce a capire quel che sarà scritto nella pagina seguente. Eppure, oltre il crollo ormai visibile del vecchio mondo, qualche idea e qualche sentimento comune circolano tra rabbia e rivolta, abbozzando un progetto in via di affinamento. Ognuno può apportare la sua pietra, ora per lanciarla contro l’ingiustizia e l’alienazione, ora per edificare una nuova casa comune.
Il testo che segue è un contributo alla discussione per l’incontro avvenuto in questi giorni a Commercy, in Francia, a riguardo della Comune delle Comuni identificata come il logico seguito delle precedenti assemblee delle assemblee dei Gilets Jaunes.
Penso che la potenza poetica di queste riflessioni possa essere utile per rompere l’accerchiamento che la società dello spettacolo impone ai suoi spettatori imprigionati in un quotidiano totalitario, ma desiderosi di una grande evasione verso una società finalmente acratica.
Sergio Ghirardi


Finora il capitalismo ha vacillato unicamente a causa delle sue crisi di sviluppo interno, dei suoi flussi di crescita e di decrescita. Ha progredito di fallimento in fallimento. Non siamo mai riusciti a farlo cadere se non per il tempo di brevissime occasioni in cui il popolo ha preso in mano il proprio destino.
Non è un’affermazione profetica dire che siamo entrati in un’epoca in cui la congiuntura storica è favorevole allo sviluppo del divenire umano, alla rinascita di una vita ebbra di libertà.
Basta con i muri del pianto! Troppi inni funebri minano in sordina il discorso anticapitalista caricandolo di un retrogusto di sconfitta.
Non nego l’utilità di qualche osservatorio del disastro. L’assortimento delle lotte s’iscrive nella volontà di rompere con la mondializzazione finanziaria e d’instaurare un’internazionale del genere umano. Desidero soltanto che si aggiungano a essa i progressi sperimentali, i progetti di vita, gli apporti scientifici la cui poesia individuale e collettiva marca troppo discretamente i territori.
Rivendicare il diritto della soggettività è un atto solitario e solidale. Nulla è più esaltante che vedere gli individui liberarsi del loro individualismo come l’essere si libera dell’avere. Ci vorrà tempo? Senz’altro, ma imparare a vivere vuol dire apprendere a spezzare le linee del tempo e cancellare dal presente il ritorno al passato, laddove si scavano gli abissi del futuro.
Un divenire mantenuto allo stadio fetale da diecimila anni risorge come un oggetto del passato che rimonti dalle profondità della terra. È un ciuffo di paglia nel carro di fieno dell’oscurantismo universale. Un’infima scintilla ha acceso l’incendio. Il mondo intero s’infiamma.
Vedere l’affermarsi in questa insurrezione plebea di una radicalità di cui non ho mai smesso di affinare la coscienza, basta al mio giubilo. Ne va della mia stessa vita di aggiungere qualche goccia d’acqua all’oceano di solidarietà festiva che echeggia sotto le mie finestre. Perché il popolo non è più una folla cieca, è un insieme d’individui risoluti a sottrarsi al rimbecillimento individualista, è un gruppo di anonimi preservati dalla reificazione dalla loro qualità di soggetti. Hanno revocato il loro statuto di oggetti, hanno disertato il gregge quantitativamente manipolabile dai tribuni di destra e di sinistra.
Un giorno ho scritto: “La vita è un’onda, il suo riflusso non è la morte, è la ripresa del suo slancio, il soffio del suo amplificarsi”. Manifestavo così il mio rifiuto dell’impresa mortifera alla quale ci sottomettiamo tanto servilmente. Invito dunque a riflettere sulle implicazioni che questo proposito riveste nelle pratiche di autodifesa impiegate dalla potenza poetica crescente delle insurrezioni mondiali.
La terra è il nostro territorio. Questo territorio ha le dimensioni della nostra esistenza personale. È locale e globale poiché non passa un solo istante senza che cerchiamo di districare, in noi e nel mondo, le felicità che ci sfuggono e le disgrazie che ci colpiscono. Noi evolviamo costantemente tra quel che ci fa vivere e quel che ci uccide.
Soltanto nell’individualista (questo cretino convertito da soggetto in oggetto) la preoccupazione di sé diventa fissazione egocentrica, il calcolo egoista predomina sulla generosità solidale, una libertà fittizia recluta nelle schiere della servitù volontaria e della rassegnazione rissosa.
Occupare il territorio della nostra esistenza vuol dire imparare a vivere, non a sopravvivere. Ne deriva la questione: come vivere senza spezzare il giogo delle multinazionali della morte?

Prendersi la libertà dell’insurrezione permanente. Il tempo della vita non è quello dell’economia. Il capitalismo è caduto nella trappola della redditività a tempi brevi. La nostra determinazione vitale gioca, invece, nei tempi lunghi.
Resistere, infliggere alla finanza dei colpi ripetuti, moltiplicare le zone di gratuità, tutto ciò rileva di una guerriglia di molestia a bassa intensità che richiede più ingegnosità che violenza (come illustrano la soppressione dei pedaggi autostradali, il libero passaggio alle casse dei supermercati, il blocco dell’economia).
Lo Stato fuorilegge. Il capitalismo e il suo gendarme statale non ci faranno regali. Combatteranno l’emergenza di zone liberate dall'oppressione statale e dalla reificazione mercantile. Sanno che noi ne siamo a conoscenza e credono di farci strisciare impauriti sotto la minaccia dei loro grossi battaglioni.
Tuttavia, la loro arroganza li acceca. Quel che ci trasmettono è davvero un regalo. Ci danno nientemeno che una ragione che annulla la ragione di Stato. A forza di riformare, di rimodellare la democrazia a colpi di manganello e di menzogne, il governo vira alla dittatura. Fa allora giocare contro di sé il diritto imprescrittibile alla dignità umana. Giustifica la disobbedienza civile come ricorso riconosciuto contro la disumanità.
Sì, il nostro diritto di vivere garantisce ormai la legittimità del popolo insorto.
Questo diritto mette fuori legge lo Stato che se ne fa beffe.
L’autodifesa partecipa all’autorganizzazione. Essa ci pone di fronte a un’alternativa: lasciarla disarmata è un atto suicida, militarizzarla la uccide. La nostra sola risorsa è l’innovazione, il superamento della dualità dei contrari e dell’opposizione tra pacifismo e guerriglia. L'esperimento è in corso, è appena iniziato.

L’Esercito zapatista di liberazione nazionale (EZLN) possiede, come ogni esercito, una struttura verticale. Tuttavia, la sua funzione ha lo scopo di garantire la libertà e l’orizzontalità delle assemblee in cui gli individui prendono collettivamente le decisioni giudicate migliori per tutte e per tutti. Le donne hanno ottenuto, con un voto democratico, la garanzia che l’EZLN intervenga unicamente a titolo difensivo, mai con un obiettivo offensivo. La sola presenza di una forza armata è bastata fino a oggi a dissuadere il governo dallo schiacciare gli zapatisti ricorrendo all’esercito e ai paramilitari. Niente è acquisito, tutto è permanentemente in gioco.
La situazione in Rojava è diversa. La guerra condotta dall'internazionale del profitto ha condannato la resistenza popolare a rispondere sul terreno del nemico, con le sue armi tradizionali. Si è trattato di uno stato d’urgenza. Tuttavia, il ruolo preponderante delle donne, la volontà di fondare delle comunità libere dal comunitarismo, il rigetto della politica affarista e il predominio accordato all’umano, lasciano augurare un rinnovamento radicale dei modi di lotta. Evidentemente questi esempi non sono per noi un modello, ma possiamo trarre utili insegnamenti dal loro carattere sperimentale.

Federare le lotte. Quel che manca più crudelmente alle insurrezioni che occupano poco a poco la nostra terra minacciata da ogni parte, è una coordinazione internazionale. Se la nascita del movimento zapatista non è stata subito soffocata, è a causa di una mobilitazione immediata delle coscienze. Un’onda di choc ha scosso l’apatia generale.
Benché il movimento dei Gilets Jaunes abbia affrancato l’intelligenza popolare da una lunga letargia, la grettezza mediatica, il martellamento del linguaggio “politichese”, della novlingua che rovescia il senso delle parole, hanno ripreso il sopravvento e hanno aumentato sensibilmente l’efficacia della macchina per rincretinire. Si sarebbe potuto supporre che un’ondata d’indignazione e di protesta mondiale – un “J’accuse” universale – liberasse Julien Assange e proteggesse le sentinelle dell’informazione. Il pesante silenzio ha dimostrato che l’era degli assassini s’installa a passi felpati. Il cimitero è il modello sociale programmato. Lo tollereremo?
Né trionfalismo né disfattismo! La vita ha lanciato un grido che non si spegnerà. Ci basti propagarne la coscienza ai quattro angoli del mondo. Deteniamo una potenza creatrice inesauribile che ha il potere di soppiantare con i ritmi della vita ritrovata la noiosa danza macabra in cui il vivente marcisce.
Spogliandoci dei nostri mezzi di esistenza, lo Stato non ci protegge più contro il crimine, è il crimine. La nostra legittimità è di abbatterlo. La difesa della vita, della natura, del senso umano lo implica. Abbatterlo? No. Concepito così il progetto si macchia di una connotazione militare e fanfarona di cui gli esempi passati invitano a diffidare. Non conviene piuttosto svuotarlo dall'’interno, raccogliere e prendere in carico quel bene pubblico le cui conquiste lo Stato era incaricato di garantire mentre le ha vendute agli interessi privati? Non è forse questo la Comune?
A ciascuna e a ciascuno la libertà di analizzare minuziosamente dall’alto lo Stato e il sistema mafioso di cui è il braccio oppressivo. Sotto lo scalpello della precisione analitica, si sono viste numerose rivelazioni e denunce moltiplicarsi e spogliare il re fino alla carcassa della sua disumanità trans umanista. Esse puntavano il dito sulle azioni poco pulite ordite nei retroscena dorati del teatro dell’Eliseo. Mostravano come la realtà forgiata dagli sfruttatori, a causa dell’enormità della loro menzogna, tende a sostituirsi alla realtà vissuta dagli sfruttati; come siamo arruolati forzatamente in un mondo a rovescio dove siamo solo pedine manipolate da mentecatti. Si tratta di requisitorie implacabili contro lo Stato, ma quest’ultimo le respingerà a pedate finché non ne avremo tranciato il piede.
Il governo legifera disprezzando le sofferenze del popolo così come gli aficionados della corrida eclissano la sofferenza animale dal loro spettacolo. Da parte mia non posso insorgere che di fronte all’innocenza oppressa. Ho sempre scelto di sradicare la miseria del vissuto – a cominciare dalla mia – per abolire, attaccandolo dal basso, il sistema che dall'alto ne è la causa.
Ridiscendiamo sulla nostra terra! Lo scandalo non è lassù dove i sociologi e gli economisti atterriti esaminano l’ammucchiarsi delle immondizie. È qui, alla base della piramide, nel fatto che abbandoniamo nelle mani d’incompetenti e di truffatori dei settori che ci riguardano da vicino: l’educazione, la salute, il clima, l’ambiente, la sicurezza, le finanze, i trasporti, l’angoscia dei diseredati e dei migranti.
Il nostro impoverimento paga il prezzo delle guerre per il petrolio, dei raid di predazione del bronzo, del tungsteno, delle terre rare, delle piante catturate dai brevetti farmaceutici. Continueremo, dunque, a finanziare, con le tasse e le imposte, il furto delle nostre risorse e il divieto di gestirne l’uso?

I fatturati e i loro manager si fanno beffe delle scuole come dei letti e delle cure di cui l’ospedale ha bisogno. Restiamo a bocca aperta di fronte all’abietta disumanità che i governanti abbigliano col cilicio felpato della loro arroganza. Che cosa c’importano i loro discorsi contro la violenza, lo stupro, la pedofilia quando la predazione, base dell’economia, è promossa dappertutto e insegnata ai bambini con la sferza della concorrenza e della competizione?
A che ignobile grado di schiavitù consentita deve cadere un popolo per accettare che i ricchi manager della sua miseria lo spoglino di un’esistenza, di una famiglia e di un ambiente che è in grado di gestire esso stesso? Il fallimento dello Stato è la vittoria di Pirro delle multinazionali del “profitto in pura perdita”. Tocca a noi giocare, ma giocare in favore della vita significa lasciarla vincere.
Che cosa possiamo farcene dei loro ministeri e delle loro burocrazie che hanno per missione di dimostrare che l’arricchimento dei ricchi migliora la condizione dei poveri, che il progresso sociale consiste nel diminuire le pensioni, i sussidi di disoccupazione, le stazioni ferroviarie, i treni, le scuole, gli ospedali, la qualità dell’alimentazione?
Quando ci decideremo a riappropriarci di quel che appartiene all’umanità ed è alla nostra portata? In effetti, questo bene pubblico è quel che ci riguarda più da vicino e fa parte della nostra esistenza, della nostra famiglia, del nostro ambiente.
Al contrario delle istituzioni che pretendono di dirigerci, noi ci proponiamo come esigenza assoluta che la libertà umana revochi la libertà del profitto, che la vita importi più che l’economia, che l’oggetto manipolato ceda il posto al soggetto, che il lavoratore, prodotto e produttore della disgrazia, impari a diventare il creatore del mondo creando il proprio destino.
Gli inquinatori e gli incendiari del pianeta usano l’ecologia come un detergente per lavare il denaro sporco. Nel frattempo, al bar della menzogna quotidiana, i consumatori brindano alle misure in favore del clima mentre a dieci metri di distanza da loro si combatte la battaglia contro i pesticidi, contro le industrie-Seveso, contro le nocività del profitto. Come non vedere in ciò la prova che le nostre lotte sono locali e internazionali?
Il villaggio, il quartiere, la regione non hanno bisogno di un ministero per promulgare il divieto di imprese tossiche dal momento che lo fondano su pratiche e sperimentazioni nuove come la permacultura, la reinvenzione di prodotti utili, piacevoli e di qualità.
Promuovere trasporti gratuiti è una risposta plausibile alla privatizzazione delle ferrovie e della rete autostradale messa in atto dalla truffa governativa. L’autocostruzione è in grado di demolire la speculazione immobiliare: stimolare la ricerca di energie non inquinanti (Centrali solari?) può essere in grado di  sbarazzarci del petrolio, del nucleare, del gas di scisto. Per quel che riguarda il ministero dell’educazione concentrazionaria, essa non resisterà alle scuole di vita che le iniziative individuali e familiari propagano dappertutto.
Lasciamo che l’affarismo esca o no dall'euro, non è un problema nostro. La vera questione è prevedere la sparizione del denaro e la concezione di cooperative che favoriscano lo scambio di beni e di servizi ricorrendo o no a una moneta non cumulabile. Che queste soluzioni, praticabili in piccole entità siano in seguito federate regionalmente e in campo internazionale, marcherà un tornante decisivo nel corso dell’organizzazione tradizionale delle cose.
Fino a oggi la quantità è stata privilegiata. Si è ragionato solo in termini di grandi strutture. Il regno del numero, delle cifre, delle statistiche imponeva alle folle gregarie un disordine in cui l’ordine repressivo sembrava in maniera illusoria un fattore di equilibrio.
Vivere la Comune. La comune autogestita è il potere del popolo per il popolo. Così come la struttura patriarcale familiare fu la base dello Stato, sacro o profano, la Comune e le sue assemblee autogestite faranno battere il cuore della generosità individuale. Come la religione è stata, un tempo, il cuore fittizio di un mondo senza cuore, la vita umana imprime ormai il suo ritmo al mondo nuovo. Essa abbandona la faticosa tachicardia delle speculazioni borsistiche.
L’insurrezione pacifica è una guerriglia demilitarizzata. Essa deve avere come base e come obiettivo l’autorganizzazione di comuni autonome. Il nostro nemico più pericoloso è la rassegnazione degli schiavi piuttosto che l’autorità del signore. L’abolizione dello Stato in quanto organo di repressione passa per lo sviluppo crescente della disobbedienza civile. La resistenza, la testardaggine e l’ingegnosità dei Gilets jaunes mi hanno suggerito di chiamare “pacifismo insurrezionale” o “insurrezione pacifica” la determinazione ad affrontare la violenza della repressione statale e di tener duro senza finire nel gauchismo paramilitare, nel retro bolscevismo e altre palinodie guevariste.
Evitare il faccia a faccia con la potenza repressiva del nemico implica nuove angolazioni nel trattamento dei conflitti. Finora quel che ha dato prova della più grande efficacia è la risoluzione, nello stesso tempo ferma e fluttuante, dei Gilets Jaunes. È il loro modo d’intervenire là dove non li si attende, di colpire, disturbare, apparire, allontanarsi ed essere onnipresenti. Un’insolita e sorprendente vitalità ha la funzione di un “coltello senza manico la cui lama è sparita”. Come l’ha espresso politicamente un insorto: “ Noi non tiriamo con un’arma, noi tiriamo con la nostra anima”.
Raoul Vaneigem, 12 gennaio 2020





À celles et ceux de Commercy

Dans le désir d’apporter ma contribution personnelle au débat crucial sur la Commune et le communalisme, je prends la liberté de vous communiquer quelques réflexions. Faites-en l’usage qui vous plaira. Mon nom est de peu d’importance, seule l’efflorescence des idées est indispensable à la conscience d’un mouvement insurrectionnel qui peu à peu gagne le monde entier.
Tout ce que je vous demande, c’est de ne pas altérer le sens de mes propos (mais cela va de soi) et de m’envoyer un simple accusé de bonne réception.
Merci. Bons débats.
¡Viva la revolución !

TOUT COMMENCE ICI ET MAINTENANT

            Jusqu'à présent le capitalisme n'a vacillé qu'en raison de ses crises de développement interne, de ses flux de croissance et de décroissance. Il a progressé de faillite en faillite. Jamais nous n'avons réussi à le faire tomber, si ce n'est en de très brèves occasions où le peuple a pris en main sa propre destinée.

            Ce n'est pas jouer les prophètes que de l'affirmer : nous sommes entrés dans une ère où la conjoncture historique est favorable à l'essor du devenir humain, à la renaissance d'une vie ivre de liberté.
            C'en est assez des murs de lamentations ! Trop d'hymnes funèbres minent en sourdine le discours anticapitaliste et lui donnent un arrière-fond de défaite.

            Je ne nie pas l’intérêt d'observatoires du désastre. Le répertoire des luttes s'inscrit dans la volonté de briser la mondialisation financière et d'instaurer une internationale du genre humain. Je souhaite seulement que viennent s'y ajouter les avancées expérimentales, les projets de vie, les apports scientifiques dont la poésie individuelle et collective jalonne trop discrètement ses territoires.

            Revendiquer les droits de la subjectivité est un acte solitaire et solidaire. Rien n'est plus exaltant que de voir les individus se libérer de leur individualisme comme l'être se libère de l'avoir. Il y faudra du temps ? Sans doute mais apprendre à vivre c'est apprendre à briser la ligne du temps et bannir du présent le retour au passé, où se creusent les abîmes du futur.
            Un devenir maintenu au stade fœtal pendant dix mille ans resurgit comme on voit un objet du passé remonter des tréfonds de la terre. C'est un brin de paille dans la charrette de foin de l'obscurantisme universel. Une étincelle infime y a mis le feu. Le monde entier s'embrase.

             

            Voir s'affirmer dans cette insurrection plébéienne une radicalité, dont je n'ai cessé d'affiner la conscience, suffit à ma jubilation. Il en va de ma propre vie d'ajouter quelques gouttes d'eau à l'océan de solidarité festive qui bat sous mes fenêtres. Car le peuple n'est plus une foule aveugle, c'est un ensemble d'individus résolus d'échapper au décervelage individualiste, c'est un nombre d'anonymes que leur qualité de sujet prémunit contre la réification. Ils ont révoqué leur statut d'objet, ils ont déserté le troupeau quantitativement manipulable par les tribuns de droite et de gauche.

            J'ai écrit un jour : «  La vie est une vague, son reflux n'est pas la mort, c'est la reprise de son élan, le souffle de son essor. » Je manifestais par là mon refus de l'emprise mortifère à laquelle nous acquiesçons si servilement. J'invite ici à réfléchir sur les implications que le propos revêt dans les pratiques d'autodéfense que met en œuvre la puissance poétique croissante des insurrections mondiales.

            La terre est notre territoire. Ce territoire a les dimensions de notre existence personnelle. Il est local et il est global, car il ne s'écoule pas un seul instant sans que nous tentions de démêler, en nous et dans le monde, les bonheurs qui nous échoient et les malheurs qui nous accablent. Nous évoluons en permanence entre ce qui nous fait vivre et ce qui nous tue.



            Il n'y a que chez l'individualiste (ce crétin converti de sujet en objet) que la préoccupation de soi devient nombriliste, que le calcul égoïste l'emporte sur la générosité solidaire, qu'une liberté fictive enrôle dans les cohortes de la servitude volontaire et de la résignation hargneuse.

            Occuper le territoire de notre existence, c'est y apprendre à vivre, non à survivre. D'où la question : comment vivre sans briser le joug des multinationales de la mort ?

            Prendre le loisir de l'insurrection permanente. Le temps de la vie n'est pas celui de l'économie. Le capitalisme s'est pris au piège de la rentabilité à court terme. Notre détermination vitale joue, elle, sur le long terme.

            Tenir bon, frapper la finance à coups répétés, multiplier les zones de gratuité relèvent d'une guérilla de harcèlement qui réclame plus d'ingéniosité que de violence (ainsi que l'illustrent la levée des péage autoroutiers, le libre passage aux caisses de supermarché, le blocage de l'économie)

            L’État hors la loi. Le capitalisme et son gendarme étatique ne nous feront pas de cadeau. Ils combattront l'émergence de zones d'où seront bannis oppression étatique et réification marchande. Ils savent que nous le savons et croient nous faire ramper chétivement sous la menace de leurs gros bataillons.

            Leur jactance cependant les aveugle. Ce qu'ils nous délivrent est bel et bien un cadeau. Ils ne nous lèguent rien de moins qu'une raison qui annule la raison d’État. A réformer, à remodeler la démocratie à coups de matraques et de mensonges, le gouvernement tourne à la dictature. Il fait dès lors jouer contre lui le droit imprescriptible à la dignité humaine. Il justifie la désobéissance civile en recours attitré contre l'inhumanité.



            Oui, notre droit de vivre garantit désormais la légitimité du peuple insurgé.
            Ce droit met hors la loi l’État qui le bafoue.

            L'autodéfense participe de l'auto-organisation. Elle nous place devant une alternative : la laisser sans armes est un acte suicidaire, la militariser la tue. Notre seule ressource est d'innover, de dépasser la dualité des contraires, l'opposition entre le pacifisme et la guérilla. L'expérience est en cours, elle ne fait que commencer.

            L'armée zapatiste de libération nationale (EZLN) possède, comme toute armée, une structure verticale. Cependant sa fonction a pour but de garantir la liberté et l'horizontalité des assemblées où les individus prennent collectivement les décisions jugées les meilleures pour toutes et pour tous. Les femmes ont obtenu, par vote démocratique, la garantie que l'EZLN interviendrait uniquement à titre défensif, jamais dans un but offensif. La seule présence d'une force armée a suffi jusqu'à ce jour à dissuader le gouvernement d'écraser les zapatistes en recourant à l'armée et aux paramilitaires. Rien n'est joué, tout se joue en permanence.

            La situation au Rojava est différente. La guerre menée par l'internationale du profit a condamné la résistance populaire à répondre sur le terrain de l'ennemi, avec ses armes traditionnelles. C'était un état d'urgence. Pourtant, la place prépondérante des femmes, la volonté de fonder des communes libérées du communautarisme, le rejet de la politique affairiste et la primauté accordée à l'humain laissent augurer un renouvellement radical des modes de lutte. Évidemment, ces exemples ne sont pas un modèle pour nous, mais de leur caractère expérimental, nous pouvons tirer des leçons.

            
Fédérer les luttes. Ce qui manque le plus cruellement aux insurrections qui gagnent peu à peu notre terre menacée de toutes parts, c'est une coordination internationale. Si la naissance du mouvement zapatiste n'a pas été étouffée sur le champ, c'est en raison d'une mobilisation immédiate des consciences. Une onde de choc a secoué l'apathie générale.

            Bien que le mouvement des gilets jaunes ait arraché l'intelligence populaire à une longue léthargie, la veulerie médiatique, le martèlement de la langue de bois, de la novlangue qui inverse le sens des mots ont repris le dessus et ont accru considérablement l'efficacité de la machine à crétiniser. On aurait pu supposer qu'une vague d'indignation et de protestations mondiales – un « J'accuse » universel – libère Julien Assange et protège les lanceurs d'alerte. L'épaisseur du silence a démontré que l'ère des assassins s'installe à pas feutrés. Le cimetière est le modèle social programmé. Allons-nous le tolérer ?

            Ni triomphalisme ni défaitisme ! La vie a poussé un cri qui ne s'éteindra pas. Qu'il nous suffise d'en propager la conscience aux quatre coins du monde. Nous détenons une puissance créatrice inépuisable. Elle a le pouvoir de supplanter par les rythmes de la vie retrouvée l'ennuyeuse danse macabre où le vivant pourrit.

            En nous dépouillant de nos moyens d'existence, l’État ne nous protège plus contre le crime, il est le crime. Notre légitimité, c'est de l'abattre. La défense de la vie, de la nature, du sens humain l'implique. L'abattre ? Non. Ainsi conçu, le projet s'entache d'une connotation militaire et fanfaronne dont les exemples du passé incitent à se méfier. Ne convient-il pas plutôt de le vider par l'intérieur, de recueillir et de prendre en charge ce bien public dont il était censé garantir les acquis et qu'il a vendu aux intérêts privés ? C'est cela la Commune. Non ?

            Libre à chacune et à chacun de décortiquer par le haut l’État et le système mafieux dont il est le bras oppressif. On a vu se multiplier sous le scalpel de la précision analytique nombre de dévoilements et de dénonciations dénudant le roi jusqu'à la carcasse de son inhumanité transhumaniste. Ils pointaient du doigt les basses œuvres ourdies dans les coulisses dorées du théâtre élyséen. Ils montraient comment la réalité forgée par les exploiteurs tend par l'énormité de leur mensonge à se substituer à la réalité que vivent les exploités. Comment nous sommes enrôlés de force dans un monde à l'envers où nous ne sommes que des pions manipulés par des débiles. Ce sont d'implacables réquisitoires contre l’État mais l’État les repoussera du pied, tant que, ce pied, nous ne l'aurons pas tranché.



            Le gouvernement légifère au mépris des souffrances du peuple de la même façon que les aficionados de la corrida en éclipsent la douleur animale. Pour ma part, je ne puis m'insurger que devant l'innocence opprimée. J'ai toujours choisi d'éradiquer la misère du vécu à commencer par la mienne afin d'abolir, en l'attaquant par le bas, le système du haut qui en est cause.

            Redescendons sur notre terre ! Le scandale n'est pas là-haut, où les sociologues et les économistes atterrés examinent l'amoncellement d'immondices, il est ici, au bas de la pyramide, il est dans le fait que nous abandonnons entre les mains d'incompétents et d'escrocs des domaines qui nous touchent de près : l'éducation, la santé, le climat, l'environnement, la sécurité, les finances, les transports, la détresse des déshérités et des migrants.

            Notre paupérisation paie le prix des guerres pétrolières, des raids de prédation sur le cuivre, le tungstène, les terres rares, les plantes capturées par les brevets pharmaceutiques. Allons-nous continuer de financer de nos taxes et de nos impôts l'arrachement de nos ressources et l'interdiction d'en gérer l'usage ?

            Les chiffres d'affaires et leurs gestionnaires se moquent des écoles comme des lits et des soins dont l'hôpital a besoin. Nous sommes là à béer devant la crapuleuse inhumanité que les gouvernants drapent dans le cilice ouaté de leur arrogance. Qu'avons-nous à faire de leurs discours contre la violence, le viol, la pédophilie alors que la prédation, base de l'économie, est prônée partout et assénée aux enfants avec la férule de la concurrence et de la compétition ?

            A quel ignoble degré d'esclavage consenti un peuple doit-il descendre pour accepter que les riches gestionnaires de sa misère le dépouillent de cette existence, de cette famille, de cet environnement qu'il est capable de gérer lui-même ? La faillite de l’État est la victoire à la Pyrrhus des multinationales du « profit en pure perte. »  C'est à nous de jouer, et jouer en faveur de la vie, c'est la laisser gagner.

            Qu'avons-nous à faire de leurs ministères et de leurs bureaucraties qui ont pour mission de démontrer que l'enrichissement des riches améliore la condition des pauvres ; que le progrès social consiste à diminuer les retraites, les allocations de chômage, les gares, les trains, les écoles, les hôpitaux, la qualité de l'alimentation.

            Quand allons nous nous réapproprier ce qui appartient à l'humanité et est là à notre portée ? Car ce bien public est ce qui nous touche de plus près, il fait partie de notre existence, de notre famille, de notre environnement.

            A l'encontre des institutions prétendument dirigeantes, nous érigeons en exigence absolue que la liberté humaine révoque les libertés du profit, que la vie importe plus que l'économie, que l'objet manipulé cède le pas au sujet, que le travailleur, produit et producteur de l'infortune, apprenne à devenir le créateur du monde en créant sa propre destinée.

            Les pollueurs et les incendiaires de la planète usent de l'écologie comme d'un détergent pour laver l'argent sale. Pendant ce temps, au bar du mensonge quotidien, les consommateurs trinquent aux mesures en faveur du climat alors qu'à dix mètres de chez eux se livre le combat contre les pesticides, contre les industries-Seveso, contre les nuisances du profit. Comment n'y voir pas la preuve que nos luttes sont locales et internationales ?

            Le village, le quartier, la région n'ont pas besoin d'un ministère pour promulguer l'interdiction des entreprises toxiques dès l'instant qu'ils la fondent sur des pratiques et des expérimentations nouvelles, telles que la permaculture, la réinvention de produits utiles, agréables et de qualité.

            Promouvoir des transports gratuits est une réponse plausible à la privatisation des chemins de fer et des réseaux autoroutiers par le biais de l'escroquerie gouvernementale. L'auto construction est en mesure de battre en brèche la spéculation immobilière. Stimuler la recherche d'énergies non polluantes (centrale solaire?) est de nature à nous débarrasser du pétrole, du nucléaire, du gaz de schiste. Quant au ministère de l'éducation concentrationnaire, il ne résistera pas aux écoles de la vie que les initiatives individuelles et familiales propagent partout.


            Laissons l'affairisme sortir ou non de l'euro, ce n'est pas notre problème. La vraie question est de prévoir la disparition de l'argent et de concevoir des coopératives favorisant l'échange de biens et de services, par le recours, ou non, à une monnaie non cumulable. Que ces solutions, praticables dans des petites entités, soient ensuite fédérées régionalement et internationalement, marquera d'un tournant décisif le cours de l'organisation traditionnelle des choses.



            Jusqu'à nos jours, la quantité a été privilégiée. On ne raisonnait qu'en terme de grands ensembles. Le règne du nombre, du chiffre, des statistiques imposait aux foules grégaires un désordre où l'ordre répressif apparaissait illusoirement comme un facteur d'équilibre.

            Vivre la Commune. La commune autogérée est le pouvoir du peuple par le peuple. De même que la structure patriarcale familiale fut la base de l’État, sacré ou profane, la Commune et ses assemblées autogérées feront battre le cœur de la générosité individuelle. De même que la religion avait jadis été le cœur factice d'un monde sans cœur, la vie humaine imprime désormais son rythme au monde nouveau. Elle abandonne l'ancien à l'épuisante tachycardie des spéculations boursières.

            L'insurrection pacifique est une guérilla démilitarisée. Elle doit avoir  pour base et pour but l'auto-organisation des communes autonomes. Notre ennemi le plus redoutable est moins l'autorité du maître que la résignation des esclaves. L'abolition de l’État, en tant qu'organe de répression, passe par le développement croissant  de la désobéissance civile. La résistance, l'opiniâtreté et l'ingéniosité des Gilets jaunes m'a suggéré d'appeler « pacifisme insurrectionnel » ou « insurrection pacifique » la détermination d'affronter la violence de la répression étatique et de tenir bon sans verser dans le gauchisme paramilitaire, le rétro bolchévisme et autres palinodies guévaristes. 

            Eviter le face à face avec la puissance répressive de l'ennemi implique de nouveaux angles d'approche dans le traitement des conflits. Jusqu'à présent ce qui a fait preuve de la plus grande efficacité, c'est la résolution, à la fois ferme et fluctuante, des Gilets jaunes. C'est leur façon d'intervenir là où on ne les attend pas, de frapper, de harceler, d'apparaître, de s'éloigner et d'être omniprésents. Ce qui leur tient lieu de « couteau sans manche dont la lame a disparu », c'est une insolite et surprenante inventivité. Ainsi que l'exprimait poétiquement un insurgé : « Nous ne tirons pas avec une arme, nous tirons avec notre âme. » 

R. Vaneigem, 12 janvier 2020