domenica 25 settembre 2011

lo stato non siamo noi... lo stato sono loro!


In Italia abbiamo fatto ricorso a questa illusione del funzionamento della magistratura per la disperazione di avere una collezione unica al mondo di lestofanti addirittura al governo e nelle istituzioni.
Però la realtà è che la Magistratura fa parte della vergogna sostanziale proprio perché esiste per applicare la legge e la legge è la gabbia con cui il sistema ci tiene prigionieri, a spese nostre.
Inoltre non si è mai visto uno stato davvero democratico o una legge davvero giusta e questo a causa della loro stessa origine e missione di fondo: obbligare gli "ultimi" a servire i pochi che si arrogano ogni diritto e ogni privilegio, facendosi innanzi a requisire tutto per se stessi a cominciare dalla Natura che è là da sempre al servizio di tutti i viventi ma a suon di legge è stata frantumata per poter essere iscritta nei registri della proprietà.
E per tenere a bada i poveri che pretendono di mangiare ogni giorno anche se non hanno un quattrino occorreva la legge! E lo stato per imporla!
L'acqua è un bene comune, certo... ma la terra lo sarebbe di meno?

Quindi mi dispiace darvi la ferale notizia: lo stato non siamo noi... lo stato sono loro! Quelli che ci sfruttano e ci ingannano e ci puniscono proprio brandendo la Legge, e in prima fila ci sono anche i magistrati che, come i poliziotti, o come i guardiani, per l'effetto della "banalità del male" compiono i propri misfatti convinti (?) di fare " solo il proprio dovere"
Chiunque abbia subito una carcerazione o anche solo una perquisizione o una carica di polizia lo sa.
Senza un vero cambio di prospettiva, se non ci riprendiamo OGNI possibile giudizio e responsabilità sulla realtà in prima persona, questo non avrà mai fine, anzi potrà solo peggiorare.
Lo stato non è più niente, noi possiamo essere tutto!

sabato 24 settembre 2011

il governo di nessuno





"Oggi, e cioè dopo l'invenzione della bomba atomica, dietro i pregiudizi della politica si celano la paura che l'umanità possa autoeliminarsi mediante la politica e gli strumenti di violenza di cui dispone, e, in stretta connessione con tale paura, la speranza che l'umanità si ravveda e anziché se stessa, tolga di mezzo la politica, ricorrendo a  un governo universale che dissolva lo stato in una macchina amministrativa, risolva i conflitti politici per via burocratica e sostituisca gli eserciti con schiere di poliziotti. Certo tale speranza è del tutto utopica se per politica si intende, come normalmente avviene, una relazione tra governanti e governati. In questa ottica, invece di un'abolizione del politico otterremmo una forma dispotica di governo di dimensioni mostruose, in cui lo iato tra governanti e governati assumerebbe proporzioni così gigantesche da impedire qualunque ribellione, e tanto più qualunque forma di controllo dei governanti da parte dei governati. Tale carattere dispotico non cambierebbe neppure qualora in quel regime mondiale non si potesse più individuare una persona, un despota; infatti il dominio burocratico, il dominio mediante l'anonimità degli uffici, non è meno dispotico perchè "nessuno" lo esercita; al contrario: forse è ancora più terribile, poiché nessuno può parlare o presentare reclamo a quel Nessuno. Se però per politico si intende una sfera del mondo dove gli uomini si presentano primariamente come soggetti attivi, e dove conferiscono alla umane faccende una stabilità che altrimenti non le riguarderebbe, la speranza appare tutt'altro che utopica. L'eliminazione degli uomini in quanto soggetti attivi è riuscita spesso nella storia, sebbene non a livello mondiale: sia sotto forma di quella tirannide che oggi ci sembra antiquata, dove la volontà di un uomo pretendeva totale libertà di azione, sia sotto forma del moderno totalitarismo, dove si vorrebbe liberare la presunta superiorità dei processi e delle " energie storiche" impersonali e sottomettervi gli uomini. ...............

Ma quello che oggi è il momento cruciale del corrente pregiudizio nei confronti della politica, e cioè la fuga nell'impotenza, il disperato desiderio di essere esentati dalla facoltà di agire, all'epoca era ancora pregiudizio e privilegio di un ceto ristretto, convinto, come Lord Acton, che il potere corrompa e il possesso del potere assoluto corrompa in modo assoluto. Nessuno meglio di Nietzsche, nel suo tentativo di riabilitare il potere, si è reso chiaramente conto che tale condanna del potere doveva corrispondere in pieno ai desideri ancora inarticolati delle masse; per quanto anche lui, fedele allo spirito del tempo, confondesse o meglio identificasse il potere, che un singolo non può mai avere poiché nasce solo dal comune agire di molti, con la violenza, di cui il singolo può senz'altro impossessarsi."

Hannah Arendt

martedì 20 settembre 2011

Undici tesi sulla società dello spettacolo





1

La critica è per ogni teoria l’unica verifica storica della sua qualità e mi chiedo se l’autore de La Società dello spettacolo non fosse più debordista di quanto sia stato marxista Marx quando affermava di non esserlo.
Probabilmente un po’ di più, suvvia, poiché il narcisismo assai poco autoironico del Panegirico con cui Guy Debord ha scritto la parola fine sulla sua generosa avventura di vita non conferma in maniera eclatante il trionfo dell’intelligenza sensibile sulla volontà di potenza. Ciononostante, quelli che hanno passato una vita a mangiare del Debord per sputarlo poi con una foga ben più passionale che appassionante, sono mal piazzati per declamare al mondo la vacuità dell’ex-maestro situazionista da loro reietto e la sua assoluta incompetenza.
Che coraggio, del resto, nel trattare ossessivamente da alcolizzato un morto che da vivo si stupiva del fatto che i suoi molteplici nemici non denunciassero con maggior risonanza il tasso alcolico delle sue pratiche!

2

Lo spettacolo non è che l’involucro del redditizio, ma un involucro necessario alla gestione del potere sociale del feticismo della merce durante la fase del dominio reale del Capitale sul lavoro astratto e sui lavoratori concreti (disoccupati, spettatori e turisti inclusi beninteso).
Lo spettacolo è la religione profana di una materialità asservita al mercantilismo. Si presenta come una propaganda dell’esistente, ma la realtà non è tutta spettacolo e tutto lo spettacolo non è soltanto propaganda. Esso si deposita nella struttura caratteriale dei soggetti come una voluttà artificiale avvolta nel cellofan della sopravvivenza. Inquinando la creatività e i desideri reali dei soggetti, esso è capace di trasformare ogni potenzialità umana incompiuta in una disumanità riuscita.

3

Unificando il coacervo dei desideri di godimento in un godimento fittizio, monomaniaco e redditizio, lo spettacolo svia la parte di perversione spontanea, giocosa e naturale trasmutandola in perversione guidata e coatta. Per il suo tramite si compie l’invasione intima e sociale del feticismo della merce.
Lo spettacolo è il rapporto sociale concreto risultante da un metodo scientifico di propaganda politica derivata per mimetismo dalla pubblicità della merce. Esso è la forma precisa della passività prodotta dalla propaganda del potere dominante all’epoca della materializzazione dell’ideologia.

4

Quella servitù volontaria che La Boétie denunciava già qualche secolo fa come una manifestazione spontanea della stupidità superstiziosa di molti dei suoi contemporanei, aggredisce ormai tutti gli odierni sopravvissuti grazie a una pedagogia che lo spettacolo diffonde avvalendosi di mezzi tecnici praticamente illimitati.
Lo spettacolo è la propaganda dell’esistente in quanto volontà servile inculcata negli schiavi attraverso la rappresentazione di una felicità miserabile infiltrata per effrazione, essenzialmente mass-mediatica, nel loro universo immaginario. Una tale rappresentazione è la messa in scena ripetuta del superamento magico e illusorio della noia di sopravvivenza travestita da «dépense» edonista e manifestazione di potenza.
Il concetto di spettacolo risulta essenziale per capire la fase terminale del capitalismo, anche se quest’ultimo non ha certo atteso lo spettacolo per mettere in scena il suo grado radicale di sfruttamento e di alienazione.

5

Il pensiero profano, descritto e definito come amore della conoscenza, è nato nel solco di una società mercantile alla quale la filosofia ha sempre dovuto mostrare un rispetto più o meno cosciente.
Ci si avvicina qui alla preistoria dello spettacolo, poiché la filosofia, ancilla theologiae, non si è mai interamente sottratta all’infiltrazione del pensiero religioso, universo dogmatico classico in cui affondano le radici dello spettacolo.

6

Essendosi affermato attraverso la laicizzazione ideologica delle società mercantili, il capitalismo ha dovuto attendere la società dello spettacolo per osare presentare la sua essenza - la valorizzazione economica - come il dio grottesco di un’ultima religione.
La separazione del corpo e dello spirito che le religioni hanno sempre promesso di superare (re-ligo = riunisco quel che è separato) per meglio conservare, in realtà, il potere temporale derivato da questa separazione, domina il mondo da quando è apparso il lavoro, da quando il produttivismo è nato insieme alla proprietà privata e l’economia si è tramutata in economia politica.

7

In seguito alla rivoluzione industriale e borghese, sotto la spinta di diritti dell’uomo che nascondevano assai maldestramente i diritti trionfanti della merce, il pensiero moderno osò attaccare l’arcaismo dell’alienazione religiosa senza preoccuparsi dell’inquietante conseguenza che si finiva in tal modo per favorire lo sviluppo dell’alienazione economica.
Il pensiero dialettico aprì una breccia importante nella continuità storica del potere dell’alienazione sociale, tuttavia, essendo il capitalismo assolutamente onnivoro, né Hegel né Marx hanno potuto sfuggire totalmente ai recuperi e ai danni provocati da questo modo di produzione cannibale.
Tutto quel che è reale è razionale, ma tutto quel che è razionale non è, invece, sempre reale. Questo è il limite insuperabile di ogni idealismo. Questo è anche lo zoccolo duro che unisce tutti coloro che s’impegnano per rimettere l’uomo sui propri piedi affinché possa finalmente godere di essere al mondo come desidera e merita.
Purtroppo il materialismo non ha mai saputo essere abbastanza storico e sufficientemente dialettico per non produrre anch’esso una struttura caratteriale autoritaria e fascista.
Una tale corazza orgasticamente ingorgata ha educato i cittadini di un popolo spettacolarmente sovrano alla rimozione sistematica, contribuendo all’avvento della società dello spettacolo, fase terminale dell’alienazione di un’epoca marcata dal trionfo degradante di un modo di produzione autonomizzatosi dall’uomo che l’ha creato.

8

In nome del comunismo, lo spettacolo ha fatto irruzione - in modo concentrato - nell’immaginario confiscato dei militanti stakanovisti di un capitalismo di Stato falsamente opposto alla società mercantile, a sua volta in via di spettacolarizzazione diffusa.
L’opposizione d’ideologie fasciste nere, brune o rosse, conflittuali e becere ma omogenee e funzionali alla società produttivista, ha costituito il brodo di coltura da cui è scaturita la società dello spettacolo. Questa si è presentata come un progresso collettivo e come l’incarnazione di una speranza umanitaria oltre e contro tutti gli orrori vissuti. Questa speranza spettacolare si è fatta carico di tutta la volontà di emancipazione riducendola a un meccanismo redditizio in un momento in cui la materialità dei bisogni accumulati rendeva i desideri particolarmente ottusi e primari. Cancellando la complessità creativa di esseri veramente liberi e facendo leva sul trauma di uomini appena restituiti a un minimo vitale di sopravvivenza, la società dello spettacolo ha fatto di una libertà da schiavi la sua insegna pubblicitaria. Non è certo un caso se la nuova Costituzione di un paese che stava appunto uscendo dall’incubo fascista, come l’Italia del 1946, ha scelto come suo fondamento rivendicato e consensualmente proclamato : “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. Un anno prima, gli internati di Auschwitz erano ancora accolti al loro arrivo dall’orribile spot pubblicitario inneggiante al lavoro che rende liberi!

9

La società dello spettacolo secerne senza sosta e senza scrupoli tra i fattori ideologici quelli che privilegiano sempre la redditività e l’addomesticamento che la favorisce. Essa non include certamente tutto il mondo reale, ma rappresenta la materialità virtuale di un dominio reale del Capitale sugli esseri umani della nostra epoca infelice.
Da quando lo spettacolo ha realizzato l’amalgama delle sue due forme originarie (spettacolo concentrato e spettacolo diffuso) nella sintesi planetaria di un unico spettacolo integrato, i computers e altre diavolerie nanotecnologiche non hanno fatto altro che registrare questa integrazione, regolando a posteriori una virtualità dell’umano (la sua obsolescenza) intrinseca alla società dei consumi sorta come una weltanschauung (o come uno spot pubblicitario, se si preferisce) dalle rovine divenute radioattive della seconda guerra mondiale.

10

La colonizzazione dell’immaginario da parte dello spettacolo è oggi lo stadio finale dell’imperialismo della merce e della diffusione capillare del suo feticismo. Il territorio psicogeografico dell’individuo sociale è l’ultima terra incognita in via di colonizzazione da parte del capitalismo planetario. La realizzazione di quest’ultima colonizzazione redditizia si mostra come il compito specifico dello spettacolo.
Su questo territorio si giocano e si giocheranno le battaglie decisive per l’emancipazione dell’uomo o per la sua definitiva sparizione in quanto essere umano.
La produzione di falsa coscienza delegata da mezzo secolo ai pedagoghi spettacolari (ognuno nel suo ruolo mercenario, filosofi, giornalisti, sociologi, psicologi, spin doctors, militari, burocrati, gendarmi, giudici, guru, stars del show-business, sportivi e terroristi veri o presunti, sono tutti invischiati nel reality show quotidiano patetico e perverso dove imperversano quei mendicanti del potere che sono gli uomini politici, sinistre alternative incluse) ha per obiettivo di cortocircuitare ogni autonomia di giudizio e d’azione degli individui sociali all’interno di un mondo reale in cui la coscienza soggettiva è manipolata e filtrata senza interruzione.

11

Ci stiamo avvicinando sempre più all’inondazione o all’ineluttabile «incidente» nucleare che spazzerà via la vita al suo passaggio, come uno tsunami. E come uno tsunami della coscienza, la realtà non spettacolare, orgastica e solidale degli esseri umani rischia di riapparire in una lotta finale per rovesciare la prospettiva del mondo.
Non è che una scommessa, magari folle, del resto, agli occhi di coloro che, innumerevoli e maggioritari, hanno come unica rigida follia la normalità contemplativa e il consumo vampiresco della propria vita assente. Una scommessa vitale, però, perché non abbiamo più la scelta né il tempo per dei compromessi opportunistici o per riformismi redditizi, ora che anche la natura si è messa a scandire degli ultimatum indiscutibili.
Le maggioranze silenziose sono destinate a urlare di dolore e di rabbia sotto la frusta dei loro guardiani, mentre una democrazia ancora tutta da inventare passerà attraverso l’azione di minoranze coscienti della fine di una civiltà.
L’emancipazione dei lavoratori del proletariato assoluto che sopravvive nell’universo concentrazionario della società spettacolare mercantile non può più farsi illusioni. L’umanità incompiuta dell’uomo non ha che da perdere le proprie catene spettacolari per reinventare un mondo di godimenti diversi e soprattutto poetici perché materiali e spirituali nello stesso tempo. Una tale costruzione sarà l’opera dei lavoratori stessi, sbarazzati di ogni coscienza portata dall’esterno, di ogni avanguardia parassitaria e di ogni illusione di perfezione e di eternità; oppure non sarà e lo spettacolo scriverà la parola fine su un campo di rovine. Non abbiamo più scelta: ci siamo finora ridotti a spettatori del crollo di un mondo. Per sopravvivergli dobbiamo ormai diventare gli attori dell’abrogazione del mondo dello spettacolo e di tutti i suoi cortigiani.


Sergio Ghirardi, 20 settembre 2011


martedì 6 settembre 2011

INDIGNATI ANCORA UNO SFORZO… (3)




Questa storia non l’ho pensata io ma mi sarebbe piaciuto, quindi ve l’ho tradotta. 
Sergio ghirardi


LA CRISI DEGLI ASINI


Un uomo in cravatta arrivò un giorno in un villaggio.
Salito su una cassa, si mise a urlare a chi lo ascoltava che avrebbe comprato in contanti tutti gli asini disponibili a 100 euro l’uno. I contadini lo travarono piuttosto strano ma il suo prezzo era assai interessante e quelli che ci stavano ripartivano col portafoglio gonfio e la faccia sorridente.  Ritornato l’indomani, offrì stavolta 150 euro per asino e di nuovo gli abitanti gli vendettero in gran numero le loro bestie. Il giorno seguente offrì 300 euro e quelli che non l’avevano ancora fatto gli vendettero gli ultimi asini rimasti.  Preso atto che non ce n’erano più, fece sapere che sarebbe tornato uina settimana dopo per comprarli a 500 euro l’uno e se ne andò dal villaggio.
Il giorno seguente affidò al suo socio il branco appena comprato e lo spedi in quello stesso villaggio con l’ordine di rivendere le bestie a 400 euro ciascuna.
Di fronte alla possibilità di guadagnare 100 euro la settimana seguente tutti gli abitanti del villaggio ricomprarono il loro asino a un prezzo quattro volte più caro di quanto lo avevano venduto e per poterci riuscire tutti fecero dei prestiti.
Com’era da aspettarselo i due uomini d’affari partirono allora per delle vacanze ben meritate in un paradiso fiscale e tutti gli abitanti del villaggio si ritrovarono con degli asini senza valore, indebitati fino al collo e rovinati.
I poveretti cercarono inutilmente di rivendere gli asini per rimborsare il prestito. Il valore stimato dell’asino era crollato. Gli animali furono confiscati, poi affittati ai loro precedenti proprietari dal banchiere. Il quale, tuttavia se ne andò a piagnucolare dal sindaco, spiegando che se non rientrava nei suoi investimenti, sarebbe andato in rovina anche lui e avrebbe dovuto esigere il rimborso immediato di tutti i prestiti accordati al Comune.
Per evitare un tale disastro, il sindaco, anziché dare del denaro agli abitanti del villaggio affinché saldassero il loro debito, li dette al banchiere che guarda caso era suo amico intimo e vicesindaco. Ordunque, appena riportata in equilibrio la sua tesoreria, quest’ultimo non cancellò affatto i debiti dei cittadini e del Comune, cosicché si ritrovarono tutti prossimi alla bancarotta.
Vedendo i suoi conti sul punto di esplodere e preso alla gola dai tassi d’interesse,  il Comune chiese l’aiuto dei Comuni limitrofi che gli risposero di non poterlo affatto aiutare visto che avevano conosciuto la stessa disgrazia.



Su consiglio avvisato e disinteressato del banchiere, tutti i Comuni optarono naturalmente per ridurre le spese: meno denaro per le scuole, per i programmi sociali, per la manutenzione stradale, per la polizia municipale… Si procrastinò la data dell’età pensionabile, si soppressero dei posti di lavoro comunali, si abbassarono i salari aumentando al contempo le tasse. Si disse che ciò era inevitabile, ma si promise di moralizzare quel commercio scandaloso degli asini.

Questa tristissima storia acquista tutto il suo senso se si aggiunge che il banchiere e i due truffatori sono fratelli e vivono insieme su un’isola della Bermuda, comprata col sudore della fronte. Sono chiamati i fratelli Mercato.
Molto generosamente hanno promesso di finanziare la campagna elettorale dei sindaci uscenti.
Finora, tuttavia, questa storia non ha una fine perché si ignora ancora che cosa fecero gli abitanti del villaggio. Che avreste fatto VOI al loro posto? Che cosa fareste VOI ?

Per ritrovarci tutti sulla piazza del villaggio

Sabato 15 ottobre 2011
GIORNATA INTERNAZIONALE DEGLI INDIGNATI






La crise des ânes

Un homme portant cravate se présenta un jour dans un village.
Monté sur une caisse, il cria à qui voulait l’entendre qu’il achèterait cash 100 euros l’unité tous les ânes qu’on lui proposerait. Les paysans le trouvaient bien peu étrange mais son prix était très intéressant et ceux qui topaient avec lui repartaient le portefeuille rebondi, la mine réjouie. Il revint le lendemain et offrit cette fois 150 € par tête, et là encore une grande partie des habitants lui vendirent leurs bêtes. Les jours suivants, il offrit 300 € et ceux qui ne l’avaient pas encore fait vendirent les derniers ânes existants. Constatant qu’il n’en restait plus un seul, il fit savoir qu’il reviendrait les acheter 500 € dans huit jours et il quitta le village.
Le lendemain, il confia à son associé le troupeau qu’il venait d’acheter et l’envoya dans ce même village avec ordre de revendre les bêtes 400 € l’unité. Face à la possibilité de faire un bénéfice de 100 € dès la semaine suivante, tous les villageois rachetèrent leur âne quatre fois le prix qu’ils l’avaient vendu et pour ce faire, tous empruntèrent
Comme il fallait s’y attendre, les deux hommes d’affaire s’en allèrent prendre des vacances méritées dans un paradis fiscal et tous les villageois se retrouvèrent avec des ânes sans valeur, endettés jusqu’au cou, ruinés.
Les malheureux tentèrent vainement de les revendre pour rembourser leur emprunt. Le cours de l’âne s’effondra. Les animaux furent saisis puis loués à leurs précédents propriétaires par le banquier. Celui-ci pourtant s’en alla pleurer auprès du maire en expliquant que s’il ne rentrait pas dans ses fonds, il serait ruiné lui aussi et devrait exiger le remboursement immédiat de tous les prêts accordés à la commune.
Pour éviter ce désastre, le Maire, au lieu de donner de l’argent aux habitants du village pour qu’ils paient leurs dettes, le donna au banquier, ami intime et premier adjoint, soit dit en passant. Or celui-ci, après avoir rétabli sa trésorerie, ne fit pas pour autant un trait sur les dettes des villageois ni sur celles de la commune et tous se trouvèrent proches du surendettement.
Voyant sa note en passe d’être dégradée et pris à la gorge par les taux d’intérêts, la commune demanda l’aide des communes voisines, mais ces dernières lui répondirent qu’elles ne pouvaient en aucun cas l’aider car elles avaient connu les mêmes infortunes.
Sur les conseils avisés et désintéressés du banquier, toutes décidèrent de réduire leurs dépenses : moins d’argent pour les écoles, pour les programmes sociaux, la voirie, la police municipale... On repoussa l’âge de départ à la retraite, on supprima des postes d’employés communaux, on baissa les salaires et parallèlement on augmenta les impôts. C’était, disait-on, inévitable mais on promit de moraliser ce scandaleux commerce des ânes.
Cette bien triste histoire prend tout son sel, quand on sait que le banquier et les deux escrocs sont frères et vivent ensemble sur une île des Bermudes, achetée à la sueur de leur front. On les appelle les frères Marchés.
Très généreusement, ils ont promis de subventionner la campagne électorale des maires sortants.
Cette histoire n’est toutefois pas finie car on ignore ce que firent les villageois. Et vous, qu’auriez-vous fait à leur place ? Que ferez-vous ?
Pour nous retrouver tous sur la place du village :

Samedi 15 octobre 2011
(Journée internationale des indignés)



venerdì 2 settembre 2011

Repetita iuvant : Indignati ancora uno sforzo per diventare rivoluzionari!





Il New York Times e Der Spiegel spiegano agli imprenditori che investire in Italia non conviene a causa della burocraziaInternazionale (santi subito!) ha ripubblicato questi due articoli che sono molto istruttivi. Raccontano cose che ogni italiano sa bene. Ad esempio, che una pratica elementare come quella relativa alla tassa sui rifiuti può diventare un incubo burocratico che dura anni.
Il ragionamento di questi giornalisti è semplice: perché investire in un Paese dove comandano le clientele? Un posto dove per incassare un credito devi affrontare un procedimento legale che dura almeno 9 anni? Una strana nazione dove funzionari pubblici e politici possono mettersi di traverso, attaccarsi a cavilli e bloccare qualunque attività, grazie a regolamenti capziosi, nebbiosi, disposizioni applicative ondivaghe che si sovrappongono, si annullano, si nascondono nelle pieghe delle disposizioni transitorie, degli allegati in specifica, delle informative interpretative…
È ora che noi italiani ci si renda conto che il resto del mondo ci guarda stupito! La descrizione che gli stranieri fanno della nostra burocrazia e del nostro sistema di leggi, regolamenti e processi è farsesca e ridicola in modo umiliante per il mio spirito di patria!
Ed è ora che la sinistra metta al primo posto la battaglia contro la burocrazia. Lo so che ci sono tante altre battaglie molto importanti, forse strategicamente più importanti della lotta contro la burocrazia. Ma in questo momento di crisi allucinante la burocrazia è un costo che non possiamo sostenere. E’ la falla che affonda la nave.
Non possiamo usare come moneta l’Euro e stare dentro l’Unione Europea e contemporaneamente rinunciare ai vantaggi maggiori che l’Unione Europea ci offre. Facciamo parte di un mercato unico ma restiamo fuori dagli investimenti degli imprenditori europei. E, grazie all’inefficienza figlia della burocrazia, mentre continuiamo a pagare le nostre tasse all’Ue perdiamo miliardi di finanziamenti europei perché siamo incapaci di gestirli in modo sensato e buona parte dei finanziamenti che riceviamo li buttiamo al cesso perché vanno a ingrassare disonesti, incapaci e corrotti.
E oltretutto il nostro Paese sta sempre più guadagnando la fama di repubblica delle banane (in tutti i sensi bananeschi) e questo nuoce al marchio Italia, erode la credibilità dei nostri prodotti, danneggia il turismo…
Non possiamo più permettercelo. Non possiamo continuare a pagare tutti l’enorme tassa dell’inefficienza dell’amministrazione pubblica, della giustizia e il delirio iperburocratico. Semplicemente perché costa troppo e i soldi sono finiti.
Inoltre, la riforma incentrata sulla razionalizzazione della burocrazia in favore dell’efficienza è a costo zero. Si tratta di semplificare le procedure e si ottiene addirittura un taglio immediato dei costi.
Da anni il senatore D’Ambrosio (ex pool Mani Pulite) ha presentato un pacchetto di leggi in Parlamento che semplicemente snellendo le procedure processuali abbrevierebbero del 15% i tempi della giustizia e renderebbero immediatamente disponibili per le casse dello stato le ricchezze sequestrate alla mafia. Il tutto tagliando pure i costi attuali di gestione dei processi e del sequestro di beni. Risparmi e guadagni di più!




Commento di Sergio Ghirardi:

Se c'è una cosa che la cosiddetta sinistra non può fare è lottare contro la burocrazia perché essa stessa è una burocrazia.
La socialdemocrazia e il bolscevismo, quando non hanno fucilato o contribuito a far fuori in tutti i modi i rivoluzionari (Gli spartakisti,, la Machnovcina, le comunità spagnole del ’36 ecc.) hanno comunque incarnato da sempre la burocrazia del capitalismo etico. Quel capitalismo ipocritamente moralista che critica gli eccessi finanziari in nome dello sviluppo sostenibile, la corruzione in nome della gestione burocratica dei privilegi. Dopo l'89 della rivoluzione borghese (non quella antica, francese ma quella più recente, russa) invece di buttare burocrazia imbelle e autoritarismo feroce per realizzare finalmente l'utopia libertaria che il bolscevismo aveva strangolato sul nascere, i burocrati della sinistra - cioè del capitalismo di stato - hanno buttato a mare ogni resto di sensibilità utopica per conservare invece la logica burocratica e i privilegi che l'accompagnano. Insieme all'ignoranza sensibile del cattolicesimo becero e liberale, questa lumpen borghesia miserabile è il brodo di coltura ideale per le mafie e per la corruzione dilagante a livello planetario. Le quali mafie multinazionali se ne fotton di destra e sinistra perchè il business è da sempre ambidestro.
In sintesi basta con le sinistre alternative che escono a singhiozzo dal cappello dei prestigiatori sociali. Oltre l'indignazione, l'utopia concreta che si staglia all'orizzonte di una società in decomposizione e di una civiltà senza futuro né presente, chiede urgentemente un'alternativa alla sinistra. L’emancipazione dei lavoratori dello spettacolo sarà l’opera di questi stessi lavoratori e del loro rifiuto dello spettacolo sociale o non sarà che l’ennesima messa senza conseguenze reali.
Indignati ancora uno sforzo per diventare rivoluzionari!



A Lézan una microWoodstock radicale



  
Per quanti non c’erano, e gli italiani erano davvero pochi, eccovi la mia traduzione del documento conclusivo dell’incontro di Lézan, sud della Francia, dove alla fine di Agosto 15.000 individui, sconosciuti, amici e compagni, hanno partecipato in piena campagna alla costruzione, al funzionamento e al godimento di un villaggio effimero ma concreto come il loro desiderio di cambiare la civiltà che opprime la vita nel mondo.
Tende, chapiteaux, ristoranti e bar autocostruiti, prodotti locali e idee planetarie, proposte energetiche sperimentali, discussioni, forum, musica e contatti vari hanno permesso a molteplici intelligenze sensibili, più o meno indignate e più o meno radicali, di collegarsi tra loro dal particolare al generale, dall’intimo al sociale, dalla convivialità alla riflessione, dal discorso allo scritto, malgrado una dose inevitabile, ma sopportabile e controllabile, di preti della politica, di avanguardisti politicanti recuperatori, di confusionisti e burocrati, di mistici e di guru. Un grande successo che ne prepara altri più duraturi.
La Commune n’est pas morte!

Sergio Ghirardi

* In fondo il testo originale in francese





Convergence citoyenne pour une transition énergétique
Déclaration de Lézan – Gard, le 28 août 2011


---Preambolo

La nostra convergenza di cittadinanza per una transizione energetica è il frutto di una presa di coscienza nata dalla mobilitazione contro l’estrazione dei gas d’olio di scisti.
Abbiamo elaborato questa dichiarazione il 26, 27. 28 agosto, convalidandola in assemblea generale il 28 agosto.

Per assicurare l’avvenire delle generazioni future, la Convergenza afferma come necessità :

* la ripresa in mano da parte dei cittadini delle decisioni che li riguardano;
* il rifiuto della mercantilizzazione della natura e delle sue risorse, con la denuncia particolare del capitalismo verde;
* la definizione della terra, dell’acqua, dell’aria, dell’energia e del vivente come beni comuni inalienabili e accessibili a tutti.


* ---Rimettendo in discussione il sistema economico e produttivista dominante, la Convergenza si  dà una serie di direttive indicative:

1. Instaurare il controllo cittadino sulle istanze politiche sottomesse alla logica delle multinazionali significa instaurare:

* una democrazia diretta per mezzo di spazi cittadini di scambi, d’informazione, di confronto e di decisione;
* un’assemblea cittadina di verifica plurale e trasparente che escluda ogni conflitto d’interesse;
* la separazione drastica tra poteri finanziari e mass media;
* un lavoro di convergenza sulle questioni di società con il movimento sociale e le sue organizzazioni.

2. Impegnarsi senza attesa per la transizione energetica presuppone di:

* ridurre drasticamente le emissioni di gas a effetto serra al livello delle esigenze espresse dall’accordo dei popoli di Cochabamba, accordo adottato dalla Convergenza di Lezan e allegato in annesso alla presente dichiarazione;
* liberarsi di un sovraconsumo che costa di più ai poveri che ai ricchi;
* orientarsi verso la sobrietà e l’efficacia energetica;
* fermare la corsa alle energie fossili;
* abbandonare ogni sperimentazione, esplorazione e sfruttamento di idrocarburi presenti nella roccia madre e off-shore;
* Fermare il nucleare civile e militare;
* interrompere la produzione e l’utilizzo industriale degli agrocarburanti;
* dare la priorità al finanziamento pubblico della ricerca e delle sperimentazioni cittadine sulle energie rinnovabili;
* liberare i brevetti in possesso delle multinazionali;
* organizzare la rilocalizzazione tramite la riappropriazione pubblica e territoriale dei mezzi di produzione e di distribuzione dell’energia (gestioni comunali, cooperative, società d’interesse collettivo, ecc.) includendo sistematicamente il controllo cittadino;
* riorientare le politiche pubbliche dei settori energivori come l’agricoltura intensiva, i trasporti, l’alloggio e l’urbanistica, l’industria e la grande distribuzione;
* esigere la riconversione dei settori interessati in accordo con i lavoratori e i consumatori.

3. Organizzare immediatamente la convergenza delle lotte ci impegna a :

* articolare le mobilitazioni contro il gas di scisti, il nucleare, gli OGM, gli inceneritori, gli agrocarburanti e tutte le lotte sociali e ambientali;
* far convergere le lotte, le mobilitazioni, le alternative e le sperimentazioni associando la lotta ecologica alle lotte sociali;
* operare per far emergere un nuovo progetto di civiltà indispensabile di fronte alle sfide climatiche, all’esaurimento delle risorse naturali e più generalmente al caos cui ci porta il capitalismo ;
* continuare regolarmente la Convergenza cittadina nata a Lézan connettendosi con le mobilitazioni dal locale al mondiale;
* iscrivere le nostre mobilitazioni in un calendario internazionale contro il G20, dal 1 al 4 novembre 2011, in relazione al summit sul clima dell’ONU a Durban, all’inizio di dicembre 2011, al momento del Forum Alternativo Mondiale dell’Acqua dal 10 al 12 marzo 2012 e al summit di Rio +20 all’inizio di giugno 2012.

La Convergenza di cittadinanza per una transizione eneregetica si associa alla petizione portata da “Los indignados” alla Commissione Europea per l’uscita dal nucleare, contro l’esplorazione e lo sfruttamento degli idrocarburi inclusi nella roccia madre, contro la coltivazione e il commercio degli OGM e a favore di un audit sul debito degli Stati europei.

Globalizziamo le lotte, globalizziamo la speranza!

Questa dichiarazione è condivisa dai partecipanti della Convergenza di cittadinanza per una transizione energetica e da quanti vogliano aderirvi per sostenerla.








Convergence citoyenne pour une transition énergétique
Déclaration de Lézan – Gard, le 28 août 2011

----Préambule

Notre Convergence citoyenne pour une transition énergétique est le fruit d'une prise de conscience née de la mobilisation contre l'extraction des gaz et huiles de schiste.
Nous avons élaboré cette déclaration les 26, 27 et 28 août, et validée en assemblée plénière le 28 août.
Pour assurer l’avenir des générations futures, la Convergence, affirme comme nécessité :
• la  reprise en main par les citoyens des décisions qui les concernent ;
• le refus de la marchandisation de la nature et de ses ressources, notamment en dénonçant les pièges du capitalisme vert ;
• la définition de la terre, de l'eau, de l’air, de l'énergie, et du vivant comme biens communs inaliénables et accessibles à tous.
----Remettant en cause le système économique et productiviste dominant, la Convergence se donne une feuille de route.

1.  Instaurer le contrôle citoyen des instances politiques soumises à la logique des multinationales revient à instaurer :
• Une démocratie directe grâce à des espaces citoyens d'échanges, d'information, de confrontation et de décisions ;
• Une assemblée citoyenne d’expertise plurielle et transparente qui exclue tout conflit d’intérêt ;
• La séparation entre les pouvoirs financiers et les médias ;
• Un travail de convergence sur les questions de société avec le mouvement social et ses organisations.

2.  S'engager sans délai pour la transition énergétique suppose de :
• Réduire drastiquement les émissions de gaz à effet de serre à la hauteur des exigences exprimées par l'accord des peuples de Cochabamba, accord adopté par la Convergence de Lézan et joint en annexe de la présente déclaration ;
• Se libérer d’une surconsommation qui coûte plus aux pauvres qu’aux riches ;
• S’orienter vers une sobriété et une efficacité énergétique ;
• Arrêter la course aux énergies fossiles ;
• Abandonner toute expérimentation, exploration et exploitation d'hydrocarbures compris dans la roche mère et off-shore ;
• Arrêter le nucléaire civil et militaire ;
• Arrêter la production et l’utilisation industrielles des agro carburants ;
• Mettre la priorité sur le financement public de la recherche et des expérimentations citoyennes sur les énergies renouvelables ;
• Libérer les brevets captés par les multinationales ;
• Organiser la relocalisation avec la réappropriation publique et territoriale des moyens de production et de distribution de l'énergie (régies communales, coopératives, sociétés d'intérêt collectif, etc.) incluant systématiquement le contrôle citoyen ;
• Réorienter les politiques publiques des secteurs énergétivores tels que l’agriculture intensive, les transports, le logement et l’urbanisme, l’industrie et la grande distribution ;
• Exiger la reconversion des filières concernées en accord avec les travailleurs et les usagers.

3. Organiser dès à présent la convergence des luttes nous engage à :
• Articuler les mobilisations contre les gaz et huile de schiste, le nucléaire, les OGM, les incinérateurs, les agro carburants et toutes les luttes sociales et environnementales ;
• Faire converger les luttes, les mobilisations, les alternatives et les expérimentations en associant le combat écologique aux luttes sociales ;
• Œuvrer pour l'émergence d'un nouveau projet de civilisation indispensable face aux enjeux climatiques, à l'épuisement des ressources naturelles et plus généralement au chaos dans lequel nous mène le capitalisme ;
• Poursuivre régulièrement la Convergence citoyenne initiée à Lézan, en se connectant avec les mobilisations du local au mondial ;
• Inscrire nos mobilisations dans un calendrier international contre le G20, du 1er au 4 novembre 2011, lors du sommet sur le climat de l’ONU à Durban début décembre 2011, lors du Forum Alternatif Mondial de l’Eau du 10 au 18 mars 2012, lors du Sommet Rio + 20 début juin 2012.
La Convergence citoyenne pour une transition énergétique s'associe à la pétition portée par «Los Indignados » auprès de la Commission européenne pour la sortie du nucléaire, contre l'exploration et l'exploitation des hydrocarbures compris dans la roche mère, contre la culture et la commercialisation des OGM et pour un audit des dettes des Etats européens.
Globalisons la lutte, globalisons l’espérance !

Cette déclaration est partagée par les partenaires de la « Convergence citoyenne pour une transition énergétique » et ceux qui veulent s’y joindre pour la soutenir.

giovedì 1 settembre 2011

IL MILITANTISMO, STADIO SUPREMO DELL'ALIENAZIONE



Les Mauvais Jours Finiront



ORGANISATION DES JEUNES TRAVAILLEURS RÉVOLUTIONNAIRES(1)
(1972)

Sull'onda del movimento delle occupazioni del Maggio '68, si è sviluppata a sinistra del Partito Comunista e della CGT (2)  una congerie di piccole organizzazioni che si richiamano al trotzkismo, al maoismo e all'anarchismo. Malgrado la scarsa percentuale di lavoratori che hanno raggiunto i loro ranghi, queste organizzazioni pretendono di contendere a quelle tradizionali il controllo della classe operaia, di cui si proclamano l'avanguardia. L'ingenuità di simili pretese può far sorridere. Ma sorridere non basta. Occorre andare oltre, e comprendere per quale ragione il mondo moderno produce questi burocrati estremisti: strappare il velo della loro ideologia, per scoprirne l'autentico ruolo storico. I rivoluzionari devono smarcarsi quanto più possibile dalle organizzazioni gauchistes (3), e mostrare come, lungi dal minacciare l'ordine del vecchio mondo, la loro azione possa soltanto, nel migliore dei casi, determinarne un ricondizionamento. Cominciare a criticare queste organizzazioni, significa preparare il terreno al movimento rivoluzionario che dovrà liquidarle, pena l'esserne liquidato. La prima tentazione è quella di demistificare le ideologie di cui fanno sfoggio questi gruppi, svelandone l'arcaismo o l'esotismo (da Lenin a Mao), e di mettere in evidenza il disprezzo per le masse che si cela dietro la loro demagogia. Ma un simile approccio risulterebbe ben presto noioso, considerata la moltitudine di organizzazioni e di tendenze esistenti, ciascuna delle quali rivendica una propria originalità ideologica. D'altronde, ciò equivarrebbe a collocarsi sul loro stesso terreno. Più che le idee, conviene criticare il tipo di attività che queste organizzazioni dispiegano «al servizio delle proprie idee»: il militantismo. Se critichiamo in termini generali il militantismo, ciò non significa che misconosciamo le differenze esistenti tra l'attività delle diverse organizzazioni. Tuttavia crediamo che malgrado o proprio a causa della loro importanza, queste differenze non possano essere spiegate se non cogliendo alla radice il significato dell'attività militante. I diversi modi di militare sono soltanto risposte divergenti a una medesima contraddizione fondamentale, della quale nessuno detiene la soluzione. Decidendo di fondare la nostra critica sull'attività militante, non sottostimiamo il ruolo che le idee ricoprono nel fenomeno del militantismo. Semplicemente, nella misura in cui queste idee vengono propugnate senza essere collegate all'attività, diventa importante sapere che cosa esse dissimulano. Mostreremo lo iato che esiste tra questi due momenti, metteremo in connessione le idee con l'attività e sveleremo l'impatto che quest'ultima ha sulle idee: cercare dietro la menzogna la realtà di chi mente, per comprendere la realtà della menzogna. Se è vero che la critica del militantismo è un compito fondamentale della teoria rivoluzionaria, essa non può essere esplicata che dal «punto di vista» della rivoluzione. Gli ideologi borghesi possono tacciare i militanti di essere canaglie pericolose, idealisti manipolati, consigliare loro di impiegare meglio il proprio tempo andando a lavorare o in vacanza al Club Méditerranée. Ma non possono attaccare il militantismo alla radice, in quanto ciò equivarrebbe a mettere in luce la miseria di qualsivoglia attività permessa nel quadro dell'attuale società. La critica del militantismo è inseparabile dalla costruzione delle organizzazioni rivoluzionarie; non solo in quanto le organizzazioni militanti dovranno essere combattute senza tregua, ma anche perché la lotta contro la tendenza al militantismo dovrà essere condotta nel seno delle organizzazioni rivoluzionarie stesse. Questo senza dubbio a causa del fatto che queste organizzazioni, almeno all'inizio, rischiano di essere composte in buona parte da ex-militanti «pentiti»; ma anche perché il militantismo si basa essenzialmente sull'alienazione in cui noi tutti siamo implicati. L'alienazione non può essere eliminata con un colpo di bacchetta magica: il militantismo è la particolare trappola che il vecchio mondo tende ai rivoluzionari. Ciò che diciamo dei militanti è drastico e senza appello. Noi non siamo effettivamente disposti ad accettare alcun compromesso con costoro. Non si tratta di rivoluzionari che sbagliano o di rivoluzionari «a metà», ma di individui che rimangono «al di qua» della rivoluzione. Questo, tuttavia, non significa in alcun modo che: 1) poniamo noi stessi fuori dall'oggetto della nostra critica: se teniamo a essere chiari e netti, è innanzitutto riguardo a noi stessi; 2) condanniamo i militanti in quanto individui e facciamo di questa condanna una questione morale. Non si tratta di ricadere in una separazione tra «buoni» e «cattivi». Non sottovalutiamo la tentazione del: «più sbraito contro i militanti, più dimostro di non essere tale e mi pongo al riparo dalla critica!» 

IL MASOCHISMO

Facciamo lo sforzo di andare oltre la noia che emana naturalmente da ogni militante. Non accontentiamoci, tuttavia, di decifrare la fraseologia dei volantini e dei discorsi. Interroghiamolo, piuttosto, sulle ragioni che lo hanno spinto – proprio lui, personalmente – alla militanza. Non c'è domanda che possa imbarazzare maggiormente un militante. Nel peggiore dei casi, egli si perderà in chiacchiere interminabili sull'orrore del capitalismo, la miseria dei bambini del Terzo Mondo, le bombe a frammentazione, il carovita, la repressione etc. Nel migliore, spiegherà che avendo preso coscienza – il militante tiene molto a questa famosa «presa di coscienza» – della vera natura del capitalismo, ha deciso di lottare per un mondo migliore, per il socialismo (quello vero, non l'altro!). Entusiasmato da questa prospettiva esaltante, non ha resistito alla tentazione di gettarsi sulla manovella del ciclostile più vicino. Cerchiamo di analizzare la questione più da presso e spostiamo il nostro sguardo non più su ciò che il militante dice, ma su ciò che effettivamente vive. Esiste una contraddizione palese tra ciò che egli afferma di desiderare e la miseria e l'inefficacia di ciò che fa. Lo sforzo al quale si sottopone e la dose di noia che è capace di sopportare non lasciano dubbi: il militante è innanzitutto un masochista. Non soltanto osservando la sua attività è difficile credere che possa sinceramente aspirare a una vita migliore, ma il suo masochismo non presenta alcun tratto di originalità. Se è vero che alcuni «perversi» dispongono di un'immaginazione capace di ignorare la miseria delle regole del vecchio mondo, non è certo questo il caso del militante! Egli accetta, in seno alla sua organizzazione, l'esistenza della gerarchia e dei leaders dei quali vorrebbe sbarazzare la società. E l'energia che spende si plasma spontaneamente sul modello del lavoro – poiché il militante fa parte di quella categoria di persone per le quali otto o nove ore di abbrutimento quotidiano non bastano. Allorché il militante tenta di giustificarsi, rivela soltanto la povertà della sua immaginazione. Non è in grado di concepire una forma di attività diversa da quella dominante. Per costui, la separazione tra serietà e divertimento, tra mezzi e fini, non è legata a un'epoca storica determinata. Queste categorie diventano eterne e immutabili: si potrà essere felici in futuro, soltanto sacrificandosi nel presente. Il sacrificio senza ricompensa di milioni di militanti operai appartenenti alle generazioni dell'epoca staliniana, non solleva in lui il minimo dubbio. Non vede come i mezzi determinino i fini e che, accettando di sacrificarsi oggi, non si fa che preparare i sacrifici di domani. Non si può non rimanere colpiti dalle innumerevoli somiglianze che avvicinano il militantismo all'attività religiosa. Vi si ritrovano le medesime attitudini psicologiche: spirito di sacrificio, ma anche intransigenza, volontà di convertire il prossimo, spirito di sottomissione. Queste somiglianze si estendono al dominio dei riti e delle cerimonie: prediche sulla disoccupazione, processioni per il Vietnam, riferimenti ai testi sacri del marxismo-leninismo, culto dei simboli (bandiere rosse). Le chiese politiche hanno anch'esse i loro profeti, i loro grandi sacerdoti, i loro convertiti, le loro eresie, i loro scismi, i loro praticanti (militanti) e non-praticanti (simpatizzanti). Ma il militantismo «rivoluzionario» è soltanto una parodia della religione. La ricchezza, la follia, la dismisura dei progetti religiosi gli sfuggono. Esso aspira alla serietà, vuole essere ragionevole, crede di potersi conquistare il Paradiso in terra. Ma nemmeno questo gli è concesso: Gesù Cristo resuscita e ascende al cielo, Lenin marcisce sulla Piazza Rossa... Se il militante può essere assimilato al credente per ciò che concerne il candore delle sue illusioni, conviene considerarlo sotto tutt'altro punto di vista per quel che riguarda la sua reale attitudine. Il sacrificio della carmelitana che si rinchiude in un convento a pregare per la salvezza delle anime, ha delle ripercussioni estremamente limitate sulla realtà sociale. Viceversa, il sacrificio del militante rischia di avere delle conseguenze esiziali.

IL DESIDERIO DI PROMOZIONE

Il militante parla molto di «masse», la sua azione è incentrata su di esse: si tratta di convincerle, di far loro «prendere coscienza». E nondimeno egli è separato dalle masse, dalle loro potenzialità di rivolta. E questo perché è separato dai suoi stessi desideri. Il militante avverte l'assurdità dell'esistenza che ci viene imposta. «Decidendo» di militare, egli tenta di riempire lo scarto esistente tra i propri desideri e ciò cheeffettivamente ha la possibilità di sperimentare. È una reazione contro la miseria della sua vita. Ma egli si inoltra su una strada senza uscita. Seppure insoddisfatto, il militante è incapace di riconoscere e di far fronte ai propri desideri. Se ne vergogna! Questo lo conduce a rimpiazzare la promozione dei propri desideri con il desiderio della propria promozione. Tuttavia i sensi di colpa che nutre sono tali da non poter prendere in considerazione una promozione gerarchica all'interno del sistema. O piuttosto, egli è pronto a lottare per elevare la propria posizione, soltanto se si convince che ciò non ha nulla a che fare con il suo tornaconto personale. Il militantismo gli consente di elevarsi, di mettersi su un piedistallo, senza che questa promozione appaia agli altri, e a lui stesso, per ciò che realmente è. (Dopotutto anche il Papa non è che il servitore dei servitori di Dio!) Mettersi al servizio dei propri desideri non significa rinchiudersi nel guscio del privato, non ha nulla a che vedere con l'individualismo piccolo borghese; al contrario, non può passare che attraverso la distruzione della corazza egoistica nella quale ci imprigiona la società borghese, e lo sviluppo di un'autentica solidarietà di classe. Il militante che pretende di mettersi al servizio del proletariato («gli operai sono i nostri padroni», dice Geismar) (4)  non fa che porsi al servizio dell'idea che egli possiede degli interessi del proletariato. Così, con un un paradosso che è soltanto apparente, mettendosi autenticamente al servizio di se stessi, si possono aiutare davvero gli altri – e questo su una base di classe. Viceversa, quando ci si mette al servizio degli altri, non si fa che difendere una posizione gerarchica personale. «Militare» non significa dedicarsi alla trasformazione della propria vita quotidiana, rivoltarsi direttamente contro ciò che ci opprime. Al contrario, significa abbandonare questo terreno, l'unico a essere davvero rivoluzionario (a patto che si sia consapevoli che la nostra vita quotidiana è colonizzata dal capitale e retta dalle leggi della produzione mercantile). Il militante si politicizza nella misura in cui è alla ricerca di un ruolo che lo ponga al di sopra delle masse. Che questa attitudine prenda, volta a volta, le sembianze dell'«avanguardismo» o dell'«educazionismo», non cambia la sostanza della faccenda. Non si tratta più del proletario che non ha da perdere che le proprie illusioni: il militante ha un ruolo da difendere! In periodo rivoluzionario, allorché tutti i ruoli si sgretolano sotto la spinta del desiderio di vivere senza limitazioni, il ruolo del «rivoluzionario cosciente» è quello che meglio si adatta a sopravvivere. Attraverso la militanza, il «rivoluzionario cosciente» dà un spessore alla propria esistenza, la sua vita ritrova un significato. Ma questo significato egli non lo esperisce in sé stesso, nella realtà della propria soggettività, bensì nella subordinazione a necessità che gli sono esteriori. Allo stesso modo che nel lavoro, egli è sottomesso a un fine e a regole che gli sfuggono; militando obbedisce alle «necessità della storia». Evidentemente, non si possono porre tutti i militanti su uno stesso piano. Vi sono tra essi anche molti ingenui che, non sapendo come impiegare il proprio tempo libero, spinti dalla solitudine e ingannati dalla fraseologia rivoluzionaria, si sono smarriti. Costoro coglieranno il primo pretesto per allontanarsi. L'acquisto di una televisione, l'incontro dell'anima gemella, la necessità di fare straordinari al lavoro per comprare l'automobile, decimano i ranghi dell'armata dei militanti! Le ragioni che spingono a militare non sono caratteristiche solo della nostra epoca. E a grandi linee sono le stesse per i militanti sindacali, cattolici e rivoluzionari. Il riapparire di un militantismo «rivoluzionario» di massa è legato alla crisi attuale delle società mercantili e al ritorno della vecchia talpa rivoluzionaria. La possibilità di una rivoluzione sociale è sufficientemente seria, affinché i militanti se ne possano occupare. Il tutto è rafforzato dal crollo delle credenze religiose. Il capitalismo non necessita più di sistemi di compensazione religiosi. Pervenuto alla sua maturità, esso non ha più bisogno di offrire un supplemento di felicità nell'aldilà, ma deve offrire tutta la felicità qui, sulla terra, nel consumo delle sue merci materiali, culturali e spirituali (l'angoscia metafisica fa vendere!). Superate dalla storia le religioni, i fedeli non hanno più da passare che all'azione sociale o al... maoismo. Il militantismo gauchiste coinvolge essenzialmente individui appartenenti a categorie sociali in via di proletarizzazione accelerata (liceali, studenti, personale socio-educativo etc.), che non hanno la possibilità di lottare concretamente per dei vantaggi a breve termine, e per i quali diventare davvero rivoluzionari implicherebbe mettersi in discussione, da un punto di vista personale, in modo radicale. L'operaio è molto meno complice, rispetto al proprio ruolo sociale, dello studente o dell'educatore. Militare, per questi ultimi, è una soluzione di compromesso che permette loro di puntellare un ruolo sociale vacillante. Essi ritrovano nel militantismo l'importanza personale perduta a causa del deterioramento del loro status sociale. Dicendosi «rivoluzionari», occupandosi della trasformazione dell'insieme della società, evitano di occuparsi della trasformazione della propria condizione e delle proprie illusioni personali. Nell'ambito della classe operaia, il sindacalismo detiene di fatto il monopolio del militantismo, e assicura al militante soddisfazioni immediate e posizioni i cui privilegi si possono misurare concretamente. L'operaio che si lascia tentare dal militantismo, si volgerà con maggiore probabilità verso di esso. Del resto, anche i comitati di lotta anti-sindacali hanno la tendenza a trasformarsi in una sorta di neo- sindacalismo. L'attività politica è per i militanti operai soltanto il prolungamento dell'attività sindacale. Il militantismo affascina poco gli operai, e in modo particolare le giovani leve, che sono costituite dai proletari più disincantati riguardo al proprio lavoro e alla propria vita in generale. Poco tentati nell'insieme dal sindacalismo, lo sono ancor meno da un gauchisme che propone loro soltanto benefici fumosi. Detto questo, quando nella tormenta rivoluzionaria il regno della merce e del consumo si sgretoleranno, il sindacalismo, la cui credibilità si basa sulla rivendicazione, sarà pronto pur di sopravvivere a trasformarsi in militantismo «rivoluzionario». Esso riprenderà le parole d'ordine più estremiste e sarà allora molto più pericoloso degli attuali gruppi gauchistes. Già vediamo la CFDT (5), sull'onda del Maggio '68, mescolare la parola d'ordine dell'autogestione al suo incomprensibile linguaggio neo-burocratico!

IL LAVORO POLITICO

Il militante consacra il «tempo libero» che gli obblighi professionali e scolastici gli concedono, a ciò che egli stesso definisce «il lavoro politico»: occorre stampare e distribuire volantini, comporre e attaccare manifesti, partecipare alle riunioni, prendere contatti, preparare incontri etc. Tuttavia non sono queste azioni, considerate isolatamente, a caratterizzare il lavoro del militante. Il semplice fatto di redigere un volantino al fine di stamparlo e distribuirlo, non può essere considerato in se stesso un atto militante. Se esso diviene tale, è perché si inscrive nel contesto di un'attività che possiede una logica peculiare. È nella misura in cui non rappresenta un prolungamento dei suoi desideri, bensì obbedisce a una logica che gli è estranea, che l'attività del militante si avvicina al lavoro. Come il lavoratore non lavora per sé, il militante non milita per sé: il risultato della sua azione non può essere misurato con il piacere che egli ne trae. Lo sarà dunque attraverso il numero di ore dedicate all'attività politica, il numero di volantini  distribuiti etc. La ripetizione, la routine dominano l'attività del militante. La separazione tra esecuzione e decisione rafforzano l'aspetto «funzionariale» di questa attività. Ma se il militantismo assomiglia al lavoro, non vi può essere assimilato. Il lavoro è l'attività sulla quale si fonda il vecchio mondo: esso produce e riproduce il capitale e i rapporti di produzione capitalistici. Il militantismo non è che un'attività secondaria. Se è vero che il risultato del lavoro e la sua efficacia, per definizione, non sono commisurati alla soddisfazione del lavoratore, hanno però il vantaggio di essere misurabili in termini economici. La produzione mercantile, per mezzo del denaro e del profitto, crea i suoi campioni e i suoi strumenti di misura. Essa possiede una logica e una razionalità, che impone al produttore e al consumatore. Viceversa, l'efficacia del militantismo, «l'avanzare della rivoluzione», non hanno ancora trovato criteri di misura. La loro verifica sfugge ai militanti e ai loro dirigenti (nell'ipotesi, ovviamente, che questi ultimi si preoccupino ancora della rivoluzione!). Ci si riduce dunque a contabilizzare il materiale prodotto e distribuito, il reclutamento, le azioni portate a termine; tutte cose che evidentemente non servono a dare la misura di ciò che si vorrebbe misurare. In modo del tutto naturale, si giunge a considerare ciò che è misurabile come un fine in sé. Immaginate un capitalista che non trovando mezzi per determinare il valore della sua produzione, decidesse di ripiegare sulla misurazione della quantità di olio consumata da alcune macchine. Coscienziosamente, gli operai verserebbero olio nelle tubature per fare progredire... la produzione. Incapace di perseguire il fine che proclama, il militantismo non può che santificare il lavoro. Applicandosi con scrupolo a emulare il lavoro, i militanti non si trovano nella posizione di comprendere le prospettive aperte, da un lato, dal disprezzo sempre più diffuso per tutte le costrizioni sociali e, dall'altro, dal progresso della conoscenza e della tecnica. I più intelligenti tra loro si uniscono al coro degli ideologi della borghesia modernista, nel chiedere la riduzione degli orari di lavoro o l'umanizzazione della ripugnante attività. Che parlino in nome del capitale o della rivoluzione, costoro si dimostrano incapaci di andare oltre la separazione tra tempo di lavoro e tempo libero, tra attività dedicata alla produzione e attività consacrata al consumo. Se siamo costretti a lavorare, la causa non è naturale, bensì sociale. Lavoro e società di classe sono inscindibili. Il padrone vuole che lo schiavo produca, poiché soltanto ciò che viene prodotto può essere appropriato. La gioia, il piacere che si possono trovare in una qualsiasi attività, non possono essere capitalizzati, trasformati in denaro dal capitalista. Quando lavoriamo siamo totalmente sottomessi a un'autorità, a una legge esteriore, e la nostra unica ragion d'essere è ciò che produciamo. Ogni fabbrica è un racket, dove si succhiano il nostro sudore e la nostra vita, affinché possano trasformarsi in merci. Il tempo di lavoro è quel tempo in cui dobbiamo non già soddisfare direttamente i nostri desideri, bensì sottometterci, in attesa della compensazione ulteriore rappresentata dal salario. È esattamente il contrario del gioco, dove lo svolgimento e il ritmo di ciò che si fa sono dettati dal piacere che si trova nell'attività. Il proletariato, emancipandosi, abolirà il lavoro. La produzione delle derrate necessarie alla nostra sopravvivenza biologica, non sarà più allora che il pretesto per la liberazione delle nostre passioni.

IL REGNO DELLA RIUNIONE

Uno dei tratti caratteristici del militantismo è la quantità di tempo dedicata alle riunioni. Sorvoliamo sui dibattiti riguardanti le «grandi questioni strategiche»: dove sono presenti nostri compagni in Bolivia? A quando la prossima crisi mondiale? La costruzione del partito rivoluzionario sta avanzando? Limitiamoci a rivolgere la nostra attenzione alle riunioni concernenti il «lavoroquotidiano». È forse qui che la miseria del militantismo fa più che altrove sfoggio di sé. Fatta eccezione per qualche caso disperato, sono i militanti stessi a lamentarsi del numero di queste «riunioni che non fanno fare un passo avanti». Sebbene i militanti amino riscaldarsi tra loro, non possono non soffrire della contraddizione evidente tra la loro volontà di agire, da una parte, e il tempo sprecato in vane discussioni, in dibattiti senza via d'uscita, dall'altra. Essi sono condannati all'impasse nella misura in cui criticano il «riunionismo», senza rendersi conto che a essere in questione è l'attività militante nella sua totalità. Il solo modo di eliminare il «riunionismo» diventa allora la fuga in un attivismo sempre meno a contatto con la realtà. Che fare? Come organizzarsi? Sono queste le problematiche che sottendono e sono all'origine delle riunioni. Ora, tali questioni non possono in nessun caso essere risolte nella misura in cui, laddove i militanti se le pongono, lo fanno separandole dalla propria vita. La risposta non può essere cercata in una riunione, poiché il problema non viene posto da chi ne detiene la soluzione concreta. Ci si può riunire e discutere per ore, spremersi le meningi, ma tutto ciò non basterà a far nascere il supporto pratico che manca alle idee. Laddove tali questioni per il proletariato rivoluzionario rappresentano una banalità, poiché per esso i problemi dell'azione e dell'organizzazione si pongono concretamente, sono parte della sua stessa lotta quotidiana, per i militanti diventano il problema. Il «riunionismo» è il complemento necessario dell'attivismo. In effetti, il problema che viene posto è sempre lo stesso: come fondersi con il movimento delle masse, pur restando separati da esso. La possibile soluzione del dilemma consiste: o nel fondersi realmente con le masse ritrovando la realtà dei propri desideri e la possibilità della loro realizzazione, oppure nel rafforzare il proprio potere in quanto militanti, e nello schierarsi dalla parte del vecchio mondo contro il proletariato. Gli scioperi selvaggi dimostrano che questo rischio esiste! Nel rapporto con le masse, il militantismo riproduce le sue tare interne, e in particolare la tendenza al «riunionismo». Si radunano e si contano delle persone. Per alcuni, come l'AJS (6), farsi vedere e contarsi diventa l'apogeo dell'azione! I problemi dell'azione e dell'organizzazione, separati dal movimento reale, si trovano meccanicamente a essere separati anche gli uni dagli altri. Le diverse  organizzazioni gauchistes incarnano questa separazione. Troviamo, da un lato, presso i maoisti e l'ex-GP (7), il polo dell'azione, e dall'altro, presso i trotzkisti e la Ligue Communiste, quello dell'organizzazione. Si feticizzano ora l'una ora l'altra, per uscire dall'impasse in cui il militantismo si trova a causa della sua separazione dalle masse. E ciascuno difende la sua particolare idiozia, facendosi beffe dell'orientamento dei gruppi concorrenti.

LA BUROCRAZIA

Le organizzazioni militanti hanno invariabilmente un carattere gerarchico. Alcune di esse non soltanto non lo nascondono, ma hanno piuttosto la tendenza a farne un vanto. Altre si accontentano di parlarne il meno possibile. Infine, vi sono alcuni piccoli gruppi che cercano di negare questa evidenza. Proprio come riproducono, o meglio scimmiottano il lavoro, le organizzazioni militanti hanno bisogno di «padroni». Non potendo costruire un'unione a partire dai problemi concreti che li riguardano, i militanti sono naturalmente portati a credere che l'unificazione delle decisioni non possa derivare se non dall'esistenza di una direzione. Non immaginano che una verità condivisa possa sgorgare da una molteplicità di volontà particolari di uscire dalla merda; tale verità deve perciò essere mediata e imposta dall'alto. Essi si rappresentano dunque la rivoluzione come lo scontro tra due apparati statuali gerarchizzati, l'uno borghese, l'altro proletario. Non sanno nulla della burocrazia, della sua autonomia e della maniera in cui risolve le proprie contraddizioni interne. Il militante di base crede ingenuamente che i conflitti tra i dirigenti si riducano a conflitti di idee, e che là dove gli si dice che c'è unità ci sia effettivamente unità. Il suo orgoglio è quello di aver saputo scegliere l'organizzazione o la tendenza che possiede la direzione migliore. Aderendo a questa o quella chiesa, egli adotta un sistema di idee così come si indossa un abito. Non avendone in nessun modo verificate le basi, egli sarà pronto a difenderne tutte le conseguenze e a rispondere a ogni obiezione con un incredibile dogmatismo. In un'epoca in cui persino i preti sono dilaniati da crisi spirituali, il militante conserva la sua fede. Alcune organizzazioni tradizionali cercano di attuare delle forme organizzative parallele più o meno permanenti. Esse sperano, appellandosi all'«autonomia proletaria», di recuperare, o quanto meno influenzare, persone che altrimenti si sarebbero loro sottratte. Si possono citare il Secours Rouge (8), l'OJTR (9) e le Assemblee operai-contadini del PSU. Ma anche certi giornali indipendenti o legati a organizzazioni che pretendono di esprimere soltanto il punto di vista delle masse rivoluzionarie o di gruppi autonomi di base. Citiamo qui i «Cahiers de Mai», «Le technique en lutte», «L’outil des travailleurs». Là dove si rifiuta di porre tanto le questioni dell'organizzazione quanto quelle teoriche, col pretesto che il momento della costruzione del partito rivoluzionario non è ancora maturo o in nome di uno spontaneismo paccottiglia («noi non siamo un'organizzazione, ma un'aggregazione di bravi compagni, una comunità» etc.), si può essere sicuri della presenza della burocrazia e spesso anche di un'ideologia maoista. Il vantaggio del trotzkismo è che il suo feticismo dell'organizzazione lo costringe a mettere da subito in chiaro le proprie intenzioni: esso recupera dichiarandosi. Il vantaggio del maoismo (non parliamo qui del maoismo puro e archeo-stalinista, del tipo Humanité Rouge (10) è che crea le condizioni del suo proprio superamento: a forza di giocare il ruolo degli equilibristi del recupero, i maoisti finiranno per cadere.

OGGETTIVITÀ E SOGGETTIVITÀ


I sistemi di idee adottati dai militanti variano a seconda dell'organizzazione, ma sono tutti minati dalla necessità di mistificare la natura dell'attività che si nasconde dietro di essi e la separazione dalle masse. Allo stesso modo, si trova invariabilmente, al cuore delle ideologie militanti, la separazione tra oggettività e soggettività, concepita in termini meccanici e astorici. Il militante che si mette al servizio del popolo, benché non neghi che la sua attività possiede delle motivazioni soggettive, rifiuta di accordare loro importanza. Ad ogni modo, ciò che è soggettivo deve essere eliminato in favore di ciò che è oggettivo. Il militante, rifiutando di essere mosso dai propri desideri, è costretto a invocare la necessità storica considerata come alcunché di esteriore al mondo dei desideri. Grazie al «socialismo scientifico», forma cristallizzata di un marxismo degenerato, crede di poter scoprire il senso della storia e di adattarvisi. Egli si ubriaca di concetti il cui significato gli sfugge: forze produttive, rapporti di produzione, legge del valore, dittatura del proletariato etc. Tutto questo gli permette di rassicurare se stesso sulla serietà della propria attività. Ponendosi fuori dalla critica del mondo, si condanna a non capire nulla del suo funzionamento. La passione che non riesce a esprimere nella sua vita quotidiana, la trasferisce nella partecipazione immaginaria allo «spettacolo rivoluzionario mondiale». Il mondo è ridotto al rango di un teatro di Pulcinella dove si affrontano buoni e malvagi, imperialisti e anti- imperialisti. Egli compensa la mediocrità della sua esistenza identificandosi con le stars di questo circo mondiale. Il culmine del ridicolo è stato certo raggiunto con il culto del «Che». Economista delirante, pietoso stratega, ma in compenso bel ragazzo, Guevara avrà avuto almeno la consolazione di vedere ricompensato il suo talento hollywoodiano con un record nella vendita di poster. Che cos'è la soggettività se non ciò che residua dell'oggettività, ciò che una società fondata sulla produzione mercantile non può integrare? La soggettività dell'artista si oggettiva nell'opera d'arte. Per il lavoratore separato dai mezzi e dall'organizzazione della produzione, la soggettività è ridotta al rango di manie, a puro fantasma: ciò che   si oggettiva lo fa per mezzo del capitale, e diviene esso stesso capitale. L'attività rivoluzionaria, tanto quanto il mondo che prefigura, supera la separazione tra oggettività e soggettività. Essa oggettiva la soggettività e investe soggettivamente il mondo oggettivo. La rivoluzione proletaria rappresenta l'irruzione della soggettività! Non si tratta di ricadere nel mito della «vera natura umana», dell'«eterna essenza» dell'uomo che, repressa dalla Società, cercherebbe di riemergere. Ma se la forma e la natura dei nostri desideri cambiano, essi non si riducono al bisogno di consumare questo o quel prodotto. Determinata storicamente dall'evoluzione della produzione mercantile, la soggettività non si piega in alcun modo alle necessità del consumo e della produzione. Per recuperare i desideri dei consumatori, la produzione mercantile vi si deve continuamente adattare; ma essa è incapace di soddisfare la volontà di vivere, realizzando totalmente e direttamente i nostri desideri. Avanguardia della provocazione mercantile, le vetrine sono sempre più spesso sottoposte alla critica del pavé! Coloro che rifiutano di considerare la realtà dei propri desideri in nome del «pensiero materialista», rischiano di non accorgersi della potenza dei nostri desideri che li travolgerà. I militanti e i loro ideologi sono sempre meno in grado di capire la loro epoca e aderire alla storia. Incapaci di distillare un pensiero che sia almeno un po' moderno, si riducono a frugare nelle pattumiere della storia per recuperare ideologie che già da tempo hanno dato prova del loro fallimento: anarchismo, leninismo, trotzkismo etc. Per rendere il tutto più digeribile, lo condiscono con un po' di maoismo o di castrismo mal compresi. Essi si richiamano al movimento operaio, ma confondono la sua storia con la costruzione del capitalismo di Stato in Russia o con l'epopea burocratico- contadina della «Lunga Marcia» in Cina. Si pretendono marxisti, ma non comprendono che il progetto marxiano dell'abolizione del lavoro salariato, della produzione mercantile e dello Stato, è indissociabile dalla presa del potere da parte del proletariato. I pensatori «marxisti» sono vieppiù incapaci di riprendere l'analisi delle contraddizioni fondamentali del capitalismo inaugurata da Marx, e rimangono invischiati sul terreno dell'economia politica borghese, rimasticando insulsaggini sulla legge del valore-lavoro, la diminuzione tendenziale del saggio di profitto, la realizzazione del plusvalore. Malgrado le loro pretese, non capiscono nulla del movimento del capitalismo moderno. Sentendosi obbligati a utilizzare un vocabolario marxista, di cui non conoscono le modalità d'uso, si privano di quelle poche possibilità di analisi che restano all'economia politica. Le loro «ricerche» non valgono quelle di un qualunque discepolo di Keynes.

MILITANTI E CONSIGLI OPERAI

Le organizzazioni militanti si autonomizzano rispetto alle masse che pretendono di rappresentare. Esse sono conseguentemente portate a pensare che non sia la classe operaia a fare la rivoluzione, bensì «le organizzazioni della classe operaia». Si tratta dunque di rafforzare queste ultime. Il proletariato diventa al limite una sorta di materia bruta, il concime sul quale può sbocciare la rosa rossa del Partito Rivoluzionario. Le necessità del recupero esigono che non si parli troppo di questo aspetto pubblicamente; ed è qui che nasce la demagogia. L'autonomia dei fini delle organizzazioni militanti deve essere dissimulata (a questo serve l'ideologia). Si proclama a gran voce di essere al servizio del popolo, che non si agisce in vista del proprio interesse, e che se per un breve momento si è costretti a prendere e gestire il potere, non se ne abuserà. Una volta che la classe operaia sarà stata ben educata, ci si affretterà a rimetterlo nelle sue mani. La storia dei consigli operai dimostra che le cosiddette organizzazioni operaie hanno sistematicamente cercato di fare il proprio gioco e di togliere le castagne dal fuoco. Questo, naturalmente, con le migliori intenzioni. Per salvaguardare il proprio potere, esse hanno cercato di circoscrivere, recuperare e distruggere le forme autonome di organizzazione che il proletariato di volta in volta si dava: soviet territoriali, comitati di fabbrica etc. I soviet russi sono stati manipolati, e successivamente liquidati, dal partito e dallo Stato bolscevico. Nel 1905, Lenin non accorda loro alcuna importanza. Nel 1917, viceversa, egli proclama: «tutto il potere ai soviet!». Nel 1921, dopo avere fornito il trampolino per prendere il potere, i soviet sono diventati un peso: gli operai e i marinai di Kronstadt, che chiedono soviet liberi, sono schiacciati dall'Armata Rossa. In Germania, il governo socialdemocratico dei «commissari del popolo» si incarica di liquidare i consigli in nome della rivoluzione. In Spagna, sono ancora i «comunisti» che si incaricano della distruzione delle forme di potere popolare. Questo avrebbe dovuto permettere di condurre con maggiore efficacia la lotta contro il fascismo! Ogni esperienza storica ha confermato l'antagonismo che oppone il proletariato rivoluzionario alle organizzazioni militanti. L'ideologia più estremista può dissimulare la posizione più controrivoluzionaria. Se alcune organizzazioni, come la Lega di Spartaco e la CNT-FAI anarco-sindacalista, si sono potute battere al fianco del proletariato rivoluzionario fino alla disfatta comune, nulla prova che queste stesse organizzazioni non avrebbero cominciato a lottare per imporre il proprio potere, una volta sconfitto l'avversario (11) .
I militanti, pur essendosi ritirati nel chiostro della politica, restano individui sociali, e in quanto tali sono sottoposti all'influenza del loro ambiente. Quando quest'ultimo si surriscalda, molti possono passare nel campo della rivoluzione. Si sono persino visti delegati sindacali prendere la testa di un sequestro! Ma la diserzione di massa dei militanti sarà tanto più probabile, quanto più i consigli e i rivoluzionari consiliari saranno forti. Il movimento può essere aiutato nei suoi successi dai rinforzi provenienti dalle file delle organizzazioni militanti. Ma in caso di errori o di sbandamenti, l'ago della bilancia potrebbe tornare a pendere dalla parte di queste ultime: le organizzazioni militanti saranno rafforzate dall'apporto di proletari in cerca  di rassicurazione. La liquidazione dei consigli operai è stata resa possibile dalla loro debolezza, dalla loro incapacità di applicare al proprio interno le regole della democrazia diretta e di prendere effettivamente nelle proprie mani tutto il potere, schiacciando gli altri poteri che sopravvivevano al di fuori di essi (12). Le organizzazioni militanti non sono che la debolezza del proletariato esteriorizzata, che si rivolta contro il proletariato stesso. I lavoratori commetteranno ancora degli errori. Non troveranno subito la forma adeguata del loro potere. Ma meno le masse si faranno illusioni sul militantismo, più il potere dei consigli avrà possibilità di svilupparsi. Screditare e ridicolizzare i militanti: ecco il compito che spetta fin d'ora ai rivoluzionari. Questo compito sarà portato a termine dalla critica in atto rappresentata dalla nascita delle organizzazioni consiliari. Queste organizzazioni sapranno senz'altro fare a meno di una direzione e di un apparato burocratico. Prodotto della solidarietà dei lavoratori combattivi, esse saranno delle libere associazioni di individui autonomi. E mostreranno per mezzo delle loro idee, ma soprattutto attraverso il loro comportamento nel corso delle lotte, che non rischiano in nessun caso di perseguire interessi distinti da quelli del proletariato nel suo complesso. Lo sviluppo del capitalismo moderno, che si traduce nell'occupazione dell'intero spazio sociale da parte della merce, nella generalizzazione del lavoro salariato, ma anche nel deterioramento dei valori morali e nel disprezzo del lavoro e delle ideologie, porterà a un'intensificazione della violenza dello scontro. I proletari andranno molto più lontano, e lo faranno molto più rapidamente rispetto al passato. Se alcune organizzazioni militanti hanno potuto un tempo svolgere un ruolo rivoluzionario, oggi questo non è più possibile. Nel corso delle imminenti grandi battaglie della lotta rivoluzionaria, queste organizzazioni sono destinate a diventare rapidamente sempre più controrivoluzionarie.

grazie a : 
http://mondosenzagalere.blogspot.com/2011/08/il-militantismo-stadio-supremo.html


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Note:

(1) L'OJTR, costituitasi nel 1970, non era inizialmente che una sorta di organizzazione di base del Parti Socialiste Unifié (PSU). Ben presto, tuttavia, fu attratta dalle tesi dell’Internazionale Situazionista e, dopo meno di un anno dalla sua fondazione, ruppe con il PSU e con il tradizionale stile di intervento delle minoranze rivoluzionarie [cfr. il volantino A Bas Le Proletariat/Vive Le Communisme]. Nel 1972, pubblicò l’opuscolo Le Militantisme, stade suprême de l’aliénation. Claude Guillon, sul suo sito, riferisce che dopo la pubblicazione, gli esponenti dell’OJTR furono fatti oggetto di vere e proprie persecuzioni. Non solo da parte del PSU, che imbastì contro di loro un autentico processo politico, ma anche dei gruppi maoisti e trotzkisti, che giunsero a fare ricorso alla violenza fisica pur di impedire la diffusione dell'opuscolo. 
(2) Confédération Générale du Travail, sindacato francese tradizionalmente legato al PCF (Parti Communiste Français).
(3) Il termine gauchiste indica originariamente le tendenze che negli anni '20 e '30 criticarono la Terza Internazionale, pur non rompendo radicalmente con essa (ad esempio i trotzkisti). Negli anni '60 e '70 il suo significato viene esteso sino a includere l'intera galassia dei gruppi extraparlamentari, nella fattispecie maoisti, trotzkisti e «operaisti».
(4) Alain Geismar, leader della Gauche Proletariènne (GP), organizzazione di matrice maoista nata nel 1969. L'organizzazione fu sostenuta da intellettuali del calibro di Jean-Paul Sartre, Louis Althusser e Michel Foucault. Si sciolse nel 1973.

(5) Confédération Française Démocratique du Travail. Sindacato d’ispirazione cristiana, fiancheggiava il Partito socialista. «Radicalizzò» strumentalmente le proprie posizioni in seguito alle lotte del '68, anche in virtù dell'afflusso di militanti gauchistes.
(6) Alliances des Jeunes pour le Socialisme. Organizzazione giovanile dei trotzkisti «lambertisti» dell'epoca.
(7) Cfr. Nota 5.
(8) Organizzazione contro la repressione fondata nel 1970, sulla base di un appello lanciato da Jean-Paul Sartre, in seguito alla dure condanne subite da alcuni esponenti della Gauche Proletariènne.
(9) Cfr. Nota (1)
(10) Organizzazione maoista, strettamente allineata alle posizioni del governo cinese, nucleo del futuro Parti Communiste Marxiste-Léniniste (PCML).
(11) Per una critica del ruolo opportunistico, quando non apertamente controrivoluzionario, svolto in realtà da queste due organizzazioni, si vedano: DENIS AUTHIER, JEAN BARROT, La sinistra comunista in Germania (1918-1921), La Salamandra, Milano, 1981 e GILLES DAUVÉ, Quand meurent les insurrections.

(12) Per una critica da un punto di vista radicale dell'ideologia consiliare, democratica e autogestionaria cfr., ad esempio, GILLES DAUVÉ, Le Roman de nos origines. Alle origini della critica radicale, Quaderni di Pagine Marxiste, Milano, 2010.