giovedì 2 novembre 2023

Vanina - L’ inganno postmoderno contro la realtà sociale delle donne

 


Le donne rappresentano attualmente la maggioranza delle classi sociali più disagiate su scala planetaria. Rimangono sotto la minaccia della violenza legata alla dominazione maschile. I diritti che hanno conquistato, come l’accesso all’aborto, sono fragili. E ora la “teoria queer” vuole ridurli a un’apparenza di femminilità, la pratica della maternità surrogata a una pancia in affitto …
Negli anni ’70 in Francia, il MLF (Movimento di liberazione delle donne) ha attaccato con forza il ruolo sociale imposto alle donne dal patriarcato e dal capitalismo sulla base del loro sesso biologico. Tuttavia, questo ruolo, ribattezzato “genere”, è da allora diventato una “identità” basata esclusivamente sul “sentire” delle persone: basterebbe dichiararsi donna per esserlo.
Un po’ dovunque nel mondo, le femministe insorgono contro una tale definizione di donna perché fa perdere di vista l’origine della sua oppressione – i suoi organi sessuali, con la loro capacità procreativa – e il vissuto delle donne in generale, vale a dire una giornata doppia di lavoro per garantire la riproduzione sociale e gran parte della produzione economica. Ciononostante questa definizione sta progredendo ovunque, sostenuta da correnti femministe “intersezionali” e propagata sia da élite politiche e intellettuali che da vari gruppi militanti. Chiunque prenda il rischio di contestarla può essere insultato o minacciato dai “trans attivisti”, o perseguito per “trans fobia” in tribunale.
È urgente, però, superare le tesi sul genere derivanti dal postmodernismo – corrente di pensiero che ha contribuito a forgiare, con il “neoliberismo”, negli anni ’80, un’ideologia che valorizzava le “classi medie” e il loro stile di vita al fine di consolidare l’ordine stabilito.
Questo libro mira quindi – attraverso la critica della “teoria queer” e delle analisi intersezionali che essa propone – a ricollocare la lotta femminista in una prospettiva chiaramente antipatriarcale e anticapitalista.


Vanina

Les Leurres postmodernes contre la réalité sociale des femmes

Les femmes représentent de nos jours à l’échelle de la planete, la majorité des classes sociales les plus démunies. Elles demeurent sous la menace de violences liées à la domination masculine. Les droits qu’elles ont arrachés, comme l’accès à l’IVG, sont fragiles. Et voilà que « la théorie queer » veut les réduire à une apparence de la féminité, la pratique de la GPA à un ventre à louer…

Dans les années 1970 en France, le MLF a attaqué avec force le rôle social imposé aux femmes par le patriarcat et le capitalisme sur la base de leur sexe biologique. Mais ce rôle, rebaptisé « genre », est devenu depuis une « identité » reposant sur le seul « ressenti » des personnes : il suffirait de se déclarer femme pour en être une.

Un peu partout dans le monde, des féministes s’insurgent contre pareille définition d’une femme parce qu’elle fait perdre de vue l’origine de son oppression – ses organes sexuels, avec leur capacité procréative – et le vécu des femmes en général, à savoir une double journée de travail pour assurer la reproduction sociale et une large part de la production économique. Elle progresse néanmoins partout, soutenue par des courants féministes « intersectionnels », et propagée à la fois par des élites politiques et intellectuelles et par divers milieux militants. Quiconque se risque à la contester peut être insulté ou menacé par des « transactivistes », ou poursuivi pour « transphobie » devant les tribunaux.

Il est pourtant urgent de dépasser les thèses sur le genre issues du postmodernisme – ce courant de pensée qui a contribué à forger avec le « néolibéralisme », dans les années 1980, une idéologie valorisant les « classes moyennes » et leur style de vie afin de conforter l’ordre établi.

Ce livre a donc par objet – par la critique de la « théorie queer » et des analyses intersectionnelles qu’il propose – de resituer la lutte féministe dans une perspective clairement anti patriarcale et anticapitaliste.

Edité par l’association Acratie, La Bussière, septembre 2023


mercoledì 1 novembre 2023

AUTONOMIA E DIPENDENZA











Guy Michel

In un capitolo finale del suo libro L’industria della cospirazione Mathieu Amiech scrive: “Tornerò in questo capitolo sulla storia del capitalismo come approfondimento della dipendenza”. Questo è ciò di cui parleremo.
E aggiunge: “Tutta la fine del Medioevo, tutto il Rinascimento e il secolo dei Lumi sono segnati da questo stallo tra le abitudini di autonomia materiale (e talvolta politica) degli strati popolari e la volontà espropriatrice dei potenti”.
Questa è una parte integrante della lotta di classe di cui parla Marx. Ma è necessario precisare alcune modalità per vedere come le cose sono andate e stanno accadendo.
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Nel libro di Amiech si trovano esempi che analizzeremo:
 
1 - pagina 186, scritta nel 1890 da un senatore americano della Farmer’s Alliance.
Cinquanta o cento anni fa, gli agricoltori erano in larga misura artigiani e producevano da soli gran parte di ciò di cui avevano bisogno nella vita quotidiana. Ogni contadino aveva una collezione di attrezzi con cui realizzava utensili in legno come forconi, pale, manici di pala e di aratri, mozzi di vetture e una miriade di altri utensili. Inoltre, il contadino produceva canapa e lino, lana di pecora e cotone. Queste fibre si lavoravano nella stessa fattoria, erano filate e tessute. Allo stesso modo, erano confezionati in casa abiti e biancheria, il tutto destinato al consumo domestico. In ogni fattoria c’era una piccola officina destinata alla travatura, alla falegnameria e alla meccanica. Nella casa stessa c'era un telaio per cardare e tessere … in inverno, il grano, la farina e il mais erano portati al mercato a volte a 100 o 200 miglia di distanza. Lì erano acquistati per tutto l'anno successivo generi alimentari, alcuni tessuti e altre merci simili.
Attualmente assistiamo a un cambiamento quasi universale. Il contadino vende il suo bestiame e compra carne fresca o lardo, vende i suoi maiali e compra prosciutto o carne di maiale, vende i suoi legumi e la sua frutta e li riacquista sottoforma di conserva... compra oggi quasi tutto quello che produceva in passato e per questo ha bisogno di soldi.
Si dimostra come l'economia domestica (si produce ciò che si consuma) si sia trasformata nell'arco di cinquant'anni in un'economia monetaria da diciannovesimo secolo negli Stati Uniti.
2 - pagina 188, l'impero degli zar e i russi, Anatole Leroy-Beaulieu, 1897. “I membri del comitato di redazione della legge del 1861 [che emancipò i servi della gleba in Russia], nemmeno quelli più favorevoli ai contadini, non avevano affatto l'idea di dare loro abbastanza terra in modo che non ci fosse più bisogno di lavorare fuori dal proprio campo. In questo caso, che ne sarebbe stato delle proprietà lasciate alla nobiltà, e da quale mano sarebbero state coltivate? Dove il commercio e l’industria, come la grande proprietà, avrebbero trovato le braccia di cui avevano bisogno?
Emancipare i servi? Sì, ma a condizione che fossero utilizzati come manodopera, non perché fossero autonomi (come nei villaggi liberi [chiamati Mir] della Russia, per esempio).
3 - pagina 190. Gazzetta ufficiale della Repubblica francese, 1898. “Nessun giardino; le verdure vengono vendute a prezzi esorbitanti; niente alberi da frutto. E per trovare i famosi manghi di Caienna ora bisogna andare in Martinica. Il mare, i fiumi, hanno una grande quantità di pesci ma è molto tranquillo e noi mangiamo il merluzzo che viene da Terranova. La Guyana ha immense savane, dove il bestiame potrebbe prosperare. Ma non è così, per rifornire la città di Caienna di carne da macello, siamo costretti a andare a caro prezzo a cercare buoi nell'Orinoco e nel Parà. Nove decimi della Guyana sono ricoperti da immense foreste e, per gli edifici ivi costruiti, il legno di abete è importato via nave dal Nord America. La colonia compra dall'esterno tutto ciò di cui ha bisogno per il suo cibo e la farina con cui fa il pane e la carne che mangia e il vino che beve. In cambio vende una sola merce, il metallo giallo, sotto forma di polvere o di lingotti”. Gli schiavi della Guyana furono “emancipati” allo stesso modo dei russi, senza che avessero i mezzi per vivere in modo autonomo. A differenza degli agricoltori americani. Comprendiamo il potere di attrazione dell'America (soprattutto per gli emigranti dall'Europa dell'Est appena usciti dalla servitù).
4 - pag. 190 191. Più vicino a noi nello spazio ma non nel tempo, nel Medioevo: “Costringendo i contadini e i mezzadri a utilizzare i grandi mulini ad acqua che avevano costruito sulle rive dei fiumi e imponendo una tassa sui loro uso, i signori lavorarono per la perdita di autonomia dei “villani” e la nascita di un’economia più monetizzata. Spingevano (o costringevano) i contadini ad abbandonare i propri attrezzi e a vendere parte della loro produzione per poter pagare l’affitto del mulino signorile”. Impedire alle persone di usare i loro strumenti per far loro pagare l'uso degli strumenti dei signori. Un vero e proprio racket per impedire l’autonomia e costringere le persone a entrare in una “economia monetizzata”, cioè negli scambi tramite il denaro.
5_ pagina 196. Ecco un esempio contemporaneo:
La ripetizione fino alla nausea della pubblicità adescatrice, l’autorità della scienza e le proposte generose dei servizi sociali hanno spinto i cittadini dei paesi industrializzati a delegare un numero sempre maggiore di compiti quotidiani. I rapporti mercantili e la burocrazia pubblica hanno poco a poco eroso la sfera familiare e personale; è diventato desiderabile e assolutamente normale comprare tutto e fare ogni cosa nella vita secondo i consigli degli specialisti. È l’era del supermercato ... negli Stati Uniti sono ormai decenni che quasi nessuno cucina più. Gli americani consumano principalmente pasti preparati da altri e questo è positivo per le cifre della crescita”.
L'era moderna e postmoderna, l'espropriazione soft: con le innovazioni tecnologiche, pubblicità, scienza, servizi sociali, comodità ... tutto converge affinché ognuno compri ciò di cui ha bisogno e non produca più granché da solo.
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Marx, che concepisce la storia come storia della lotta di classe, sapeva bene che l’accumulazione delle tecniche e l’organizzazione a essa necessaria aumentavano “la dipendenza degli individui dalla macchina sociale”: lo scrive nel Capitale (1) e altrove. La sua teoria, tuttavia, lo spinge a esprimere che la storia passa attraverso determinate fasi. Dopo la società aristocratica dell’Ancien Régime, viene la società capitalista borghese e poi – possibilmente – il comunismo che può scaturire solo da questa società capitalista perché crea la classe operaia che lavorerà per la distruzione del capitalismo e l’avvento della società comunista.
Cosicché i socialisti che l’hanno preceduto, secondo lui, sono “utopisti” perché non sono consapevoli di questa necessaria “maturità” della società capitalista che consente la transizione al comunismo. Dirà, ad esempio, dei luddisti (2) che è vano rompere le macchine, che la meccanizzazione della produzione è necessaria perché, grazie a essa, arriverà l'emancipazione – solo nel momento in cui i proletari si approprieranno dei mezzi di produzione elaborati durante il periodo capitalistico. È quindi impossibile cortocircuitare questa fase capitalista liberale.
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Per i liberali, il mondo deve andare verso una produzione sempre maggiore di merci, con una modifica dell’ambiente naturale che implica dunque uno spossessamento sempre più completo. Ciò si realizza con l’ipertrofia di un mondo pieno di macchine e gestito con l’aiuto di un’organizzazione sempre più vasta e restrittiva che priva gli esseri umani delle capacità d’iniziativa sulla propria vita e sul mondo.
Tuttavia, se l'obiettivo di Marx di realizzare un mondo senza classi è lodevole, c'è un'opposizione tra lui e teorici come Polanyi (un esempio tra gli altri). Quest’ultimo ammette che la lotta dei poveri contro i ricchi sotto l’Ancien Régime si svolgeva tra coloro che volevano conservare le libertà di cui disponevano (i poveri) e coloro che volevano cambiare il mondo – a proprio vantaggio, ovviamente! (i ricchi). Quindi l’opposizione tra ricchi e poveri si basa su questa constatazione: i ricchi sono stati – e sono tuttora – coloro che vogliono cambiare il mondo e i poveri, coloro che vogliono mantenere i vantaggi che hanno (… conquistato) e che la tradizione (o le leggi) concede loro. La differenza è così indicata in un editto reale del 1607 in Inghilterra: “il povero sarà soddisfatto nel suo obiettivo: l'abitazione; il gentiluomo non sarà ostacolato nel suo desiderio: il miglioramento”. Il termine abitazione si riferiva alla stabilità dell'ambiente, sia naturale che sociale, al quale i poveri erano attaccati” [“povero” inteso ovviamente come relativo ad altri; e soprattutto, a quel tempo, si trattava di contadini che vivevano dentro e grazie alla loro terra]. “Era la natura nutrice e i costumi, i regolamenti, le tradizioni”. (Najib Abdelkader 3). Tuttavia “quest’abitazione non si riferisce ovviamente a un periodo idilliaco – i rapporti di potere sono sempre esistiti […]”
Come Marx aveva chiaramente stabilito, ed è fondamentale, l'unica classe rivoluzionaria nella Storia è stata, fino ad oggi, la borghesia, quella che vuole cambiare il mondo... costantemente! Per questa classe si tratta di un’esigenza urgente e imprescindibile. Questa è la novità del sistema capitalista in cui tutto è sempre in movimento. Spinti dalla voglia di … progredire! Migliorare. Si vive meglio, dicono, con l'auto, poi con l'aereo, poi con lo smartphone e così via all'infinito! Invece, notavano Orwell ma anche Lenin, gli operai, ancor meno i contadini, non vogliono – salvo in una situazione storica particolare (rivoluzionaria, per esempio) – cambiare il mondo; vogliono, per contro, talvolta, migliorare la loro condizione.
Veniamo dunque al punto centrale che ci permette di comprendere la differenza tra i due punti di vista: se Marx vede l'emancipazione nella forma di una società altamente industrializzata e amministrata dal proletariato vittorioso (fase comunista) che si sarà impadronito del potere politico ed economico, nella critica anti industriale (L’Encyclopédie des Nuisances, M. Amoros, J. Semprun, PMO, M. Amiech, ecc. ma anche i precursori: G. Orwell, L. Mumford, J. Ellul, B. Charbonneau, ecc.), questo orizzonte di industrializzazione perpetua è considerato il peggiore possibile. Lì lo spossessamento è totale.
In un certo senso, l’industrializzazione è la strada seguita dal capitalismo, ovviamente, così come dai regimi ispirati al marxismo ortodosso. Lenin disse chiaramente: “il socialismo sono i soviet [cioè i consigli operai] PIÙ l’elettrificazione!” e la più grande potenza capitalista attuale (nel 2023) è infatti un paese governato da un partito unico: il Partito Comunista Cinese.
La questione oggi non è quindi quella di conquistare il potere per sostituire i padroni con commissari politici (eletti o non eletti) ma di sciogliere le pesanti catene che ci impediscono di avere il controllo della nostra esistenza: lo Stato, le grandi aziende globalizzate, le organizzazioni nazionali e sovranazionali di ogni tipo che, con il pretesto dell'organizzazione tecnica o tecnologica, della scienza (ricordiamo il covid), di necessità commerciale o altre, ci costringono a subire le loro logiche mortifere.
Conclusione
M. Amiech, per tornare al suo libro, scrive: “[gli] autori della casa editrice La Roue (il signor Amoros, il signor Gomez) [dicono] che le lotte territoriali costituiscono un rinnovamento della lotta di classe nel ventunesimo secolo. Certe lotte essenziali del futuro potrebbero quindi somigliare alle lotte preindustriali, quando gli abitanti dei villaggi e gli altri contadini d’Europa difendevano i loro habitat, i loro campi comuni, i loro corsi d’acqua, contro i progetti del Signore e dell’imprenditore che implicavano la distruzione di questo nutritivo ambiente di vita."
Si può pensare alla lotta contro l'aeroporto di Notre Dame des Landes, che ha occupato per anni i titoli dei giornali. Va ricordato incidentalmente che le posizioni degli ecologisti e della sinistra non sono mai state nettamente contrarie a questa costruzione che distruggeva parte della campagna di Nantes. Che gli eletti verdi locali (come F. De Rugy, EELV), volendo canalizzare il movimento a loro vantaggio, hanno avuto problemi con gli occupanti della ZAD, che periodicamente scaricavano rifiuti davanti all'ufficio dell'eletto ecologista.
A Testet (diga di Sivens) gli oppositori si battevano contro un progetto di ritenzione idrica destinato a rifornire l'agricoltura industriale locale che ha bisogno di grandi quantità di acqua per le varietà di mais coltivate.
Più recentemente, i mega bacini della Vandea. In tutti questi casi si tratta di riconquistare un ambiente di vita a scapito dell’industria (anche agricola).
La grande differenza tra queste lotte e quelle dei contadini medievali è che questi ultimi erano contadini locali in lotta per il loro territorio mentre i moderni combattenti per i territori sopra menzionati erano principalmente persone provenienti da ogni parte con un radicalismo politico ... acquisito altrove, quindi con profili molto diversi e sempre più in contraddizione con le consuetudini locali (come gli ecologisti-woke completamente dissociati dalla cultura locale negli ultimi anni).
Se queste lotte sono importanti, dobbiamo anche rilevare le lotte contro la pseudoscienza e le tecnologie che intendono regolare la vita delle persone attraverso i pass sanitari, i divieti di circolazione per alcuni tipi di automobili e presto i pass climatici. Senza dimenticare la riproduzione artificiale degli esseri umani attraverso la Riproduzione Medicalmente Assistita (MAP) e presto la Gravidanza per Altri (GPA). Oggi la percentuale di nascite “assistite” aumenta in modo sproporzionato e inversamente proporzionale alle naturali capacità riproduttive degli esseri umani che soffrono le ripercussioni dell’inquinamento sul funzionamento degli organi riproduttivi. Si noti che la maggior parte degli ecologisti e delle altre persone di sinistra sono progressisti accaniti e, quindi, a favore di tutti questi nuovi sviluppi che trovano attraenti.
Relativamente in relazione con le due precedenti, è emersa una lotta contro le iper-organizzazioni e la tecno-burocratizzazione di tutta l’attività umana. Le folle, diventate sempre più dense, sono sospette e i sistemi di sorveglianza (elettronici e non) si stanno diffondendo in tutte le città e talvolta anche nei villaggi. Non c’è più spazio, inoltre, per la spontaneità e la creatività, i protocolli invadono l'intero sistema di cure mediche, ad esempio. La gestione da parte delle autorità diventa necessaria ovunque e fagocita qualsiasi attività che coinvolga numerose persone, ecc. Non dimentichiamo lo strumento più comunemente utilizzato per questi scopi: il ricorso sistematico alla digitalizzazione di tutto ciò che può essere digitalizzato, aprendo la possibilità di un controllo più restrittivo su tutto. Su questo solo aspetto bisognerebbe soffermarsi tanto è significativo e accettato da molti come una nuova libertà.
È ovvio che sono necessarie lotte per migliorare quantitativamente la vita quotidiana. I salari, le pensioni, ecc. Il rischio è che ci facciano dimenticare o sottostimare le lotte per l’autonomia”.
*
Ciò che gli scienziati sociali vedono come una rete infinita d’interdipendenza rappresenta, infatti, la sottomissione dell'individuo all'organizzazione, del cittadino allo Stato, del lavoratore al dirigente e del genitore alle professioni d’assistenza. Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, 1979.
 
NOTE:
1 Il Capitale, quarta sezione, capitolo XV, pag. 366 e seguenti de l’Ed. Garnier Flammarion. Le autorità hanno impiegato molto tempo per autorizzare le innovazioni tecniche, come ad esempio i telai per tessere che lavorano con più persone. La loro paura era vedere operai e artigiani trasformarsi in mendicanti. Le autorità britanniche non avevano più questi scrupoli nel diciottesimo secolo. Si verifica così la teoria di Karl Polanyi secondo cui l'economia nelle epoche preindustriali era radicata nel tessuto sociale e non poteva svilupparsi autonomamente come nel XIX secolo. con il potere della borghesia.
2 Rivolta degli artigiani nel nord dell'Inghilterra all'inizio del XIX secolo, che ruppero le macchine, distruggendo il loro lavoro ben fatto e il loro modo di vivere di artigiani liberi.
3 La Décroissance, luglio 2023. È coautore del libro: K. Polanyi e l'immaginazione economica, Éditions le Passenger Stowaway.

AUTONOMIE ET DÉPENDANCE 


 


Guy Michel

Dans un chapitre dans les dernières pages de son livre L’industrie du complotisme Mathieu Amiech écrit: «Je vais revenir dans ce chapitre sur cette histoire du capitalisme comme approfondissement de la dépendance.» C’est de cela que nous allons parler.

Il ajoute: «Toute la fin du Moyen-âge, toute la Renaissance et l’époque des Lumières sont marqués par ce bras de fer entre les habitudes d’autonomie matérielle (et parfois politique) des couches populaires et la volonté expropriatrice des puissants.»

Cela relève bien de la lutte des classes dont parle Marx. Mais il faut en préciser certaines modalités afin de voir comment les choses se sont passées et se passent encore.

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Dans le livre de M. Amiech on trouve des exemples que nous allons analyser :

 

1 _ page 186, écrit en 1890 par un sénateur américain de la Farmer’s Alliance.

«Il y a 50 ou 100 ans, les fermiers étaient dans une grande mesure des artisans, ils fabriquaient eux-mêmes une grande partie de ce dont ils avaient besoin dans la vie quotidienne. Chaque fermier avait une collection d’outils à l’aide desquels il fabriquait des instruments en bois tel que des fourches, des pelles, des manches de pelle et de charrues, des moyeux de voiture et une foule d’autres ustensiles. En outre, le fermier produisait le chanvre et le lin, la laine des moutons et le coton. On travaillait ces fibres à la ferme même, on les filait et on les tissait. De même, les vêtements et le linge étaient confectionnés à la maison, tout cela pour la consommation domestique. Dans chaque ferme, il y avait un petit atelier destiné aux travaux de charpente, de menuiserie et de mécanique. Dans la maison même se trouvait un métier à carder et à tisser…. en hiver, le froment, la farine, le maïs étaient apportés au marché parfois éloigné de 100 ou 200 miles. On y achetait pour toute l’année suivante de l’épicerie, certaines étoffes et autres marchandises semblables.

À présent, nous constatons un changement presque universel. Le fermier vend son bétail et achète de la viande fraîche ou du lard, il vend ses cochons et achète du jambon ou de la viande de porc, il vend ses légumes et ses fruits et les rachète sous la forme de conserve.il achète aujourd’hui presque tout ce qu’il produisait autrefois et pour cela il lui faut de l’argent.»

Il est montré comment l’économie domestique (on produit ce qu’on consomme) s’est transformée en l’espace de cinquante ans en économie monétaire au XIX siècle aux États Unis.

 

2 _ page 188, L’empire des tsars et les Russes, Anatole Leroy-Beaulieu, 1897. «Jamais les membres du comité de rédaction de la loi de 1861 [qui émancipait les serfs en Russie], même les plus favorables aux paysans, n’ont eu l’idée de leur donner assez de terre pour qu’il n’y ait plus besoin de travailler en dehors de son champ. Que serait, dans ce cas, devenu les propriétés laissées à la noblesse, et par quelle main eussent-elles été cultivées? Où le commerce, où l’industrie, comme la grande propriété eussent-ils pris les bras dont ils avaient besoin ?»

Émanciper les serfs? Oui, mais à condition qu’ils soient utilisés comme main d’œuvre, pas pour qu’ils soient autonomes (comme dans les villages libres [appelés Mir] de Russie, par exemple).

 

3 _ page 190. Journal officiel de la République française, 1898. «Pas de jardin; les légumes se vendent à un prix exorbitant; pas d’arbre fruitier. Et pour trouver les mangues si renommées de Cayenne il faut aller maintenant à la Martinique. La mer, les rivières, possèdent une grande quantité de poissons mais il est très tranquille et on mange la morue qui vient de Terre-Neuve. La Guyane a d’immenses savanes où le bétail pourrait prospérer. Mais il n’en est rien, pour alimenter en viande de boucherie la ville de Cayenne, on est obligé d’aller à grand frais chercher dans l’Orénoque et au Parà des bœufs. Les neuf dixièmes de la Guyane sont couverts d’immenses forêts et, pour les constructions qu’on y élève on fait venir par navire des bois de sapin de l’Amérique du Nord. La colonie achète au dehors tout ce dont elle a besoin pour son alimentation et la farine dont elle fait son pain et la viande qu’elle mange et le vin qu’elle boit. Elle ne vend en retour qu’une marchandise unique, le métal jaune sous la forme de poussière ou sous forme de lingots.» Les esclaves de Guyane ont été ‘émancipés’ de la même façon que les russes, sans qu’ils aient les moyens de vivre de façon autonome. Contrairement aux paysans américains. On comprend le pouvoir d’attraction de l’Amérique (surtout pour les émigrants d’Europe orientale à peine sortis de la servitude).

 

4 _ page 190 191. Plus près de nous dans l’espace mais pas dans le temps, au Moyen Age: «En obligeant les villageois et les métayers à utiliser les gros moulins à eau qu’ils avaient construits au bord des fleuves et en prélevant une taxe sur leur utilisation, les seigneurs travaillaient à la perte d’autonomie des «manants» et à la naissance d’une économie plus monétarisée. Il poussaient (ou obligeaient) les paysans à délaisser leur propre outil et à vendre une partie de leur production pour pouvoir payer la redevance du moulin seigneurial.» Empêcher les gens d’utiliser leurs outils pour leur faire payer l’utilisation des outils des seigneurs. Un vrai racket pour empêcher l’autonomie et contraindre à insérer les gens dans une «économie monétarisée», c’est-à-dire des échanges via l’argent.

 

5_ page 196. Là, un exemple contemporain:

«La répétition ‘ad nauseam’ des publicités racoleuses, l’autorité de la science et les propositions généreuses des services sociaux ont poussé les citoyens des pays industrialisés à déléguer toujours plus de tâches du quotidien. Les rapports marchands et la bureaucratie publique ont petit à petit grignoté la sphère familiale et personnelle; il est devenu désirable et absolument normal de tout acheter, et de faire chaque chose de la vie conformément au Conseil des spécialistes. C’est l’âge du supermarché….. aux États-Unis cela fait plusieurs décennies que presque personne ne se fait plus à manger. Les Américains consomment avant tout des repas préparés par d’autres et c’est bon pour les chiffres de la croissance.»

L’époque moderne et post moderne, la dépossession soft: avec les innovations technologiques, pub, science, services sociaux, confort,… tout converge pour que chacun achète ce dont il a besoin et ne produise plus grand chose par soi-même.

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Marx qui comprend l’histoire comme l’histoire de la lutte des classes, savait bien que l’accumulation des techniques et l’organisation nécessaire à celle-ci accroissaient «la dépendance des individus vis-à-vis de la machine sociale»: il l’écrit dans le Capital (1) et ailleurs. Sa théorie cependant le pousse à exprimer que l’histoire passe par certains stades. Après la société aristocratique de l’Ancien Régime, vient la société bourgeoise capitaliste et ensuite – possiblement – le communisme qui ne peut qu’être issu de cette société capitaliste car celle-ci crée la classe ouvrière qui œuvrera pour la destruction du capitalisme et l’avènement de la société communiste.

De sorte que les socialistes qui l’ont précédé, pense-t-il, sont «utopistes» car ils n’ont pas conscience de cette nécessaire «maturité» de la société capitaliste permettant de passer au communisme. Il dira, par exemple, des Luddites (2) qu’il est vain de casser les machines, que la mécanisation de la production est nécessaire parce que, grâce à elle, viendra l’émancipation seulement au moment où les prolétaires s’approprieront les moyens de production élaborés pendant la période capitaliste. Impossible donc de court-circuiter cette étape capitaliste libérale.

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Pour les libéraux, le monde se doit d’aller vers une production toujours plus grande de marchandises avec les modifications de l’environnement naturel que cela implique ainsi qu’une dépossession de plus en plus complète. Celle-ci se réalise avec l’hypertrophie d’un monde rempli de machines et géré à l’aide d’une organisation de plus en plus vaste et contraignante qui dépouille les humains de leurs capacités d’initiatives sur leurs vies et le monde.

Mais si l’objectif de Marx de réaliser un monde sans classes est louable il existe une opposition entre lui et des théoriciens comme Polanyi (exemple parmi d’autres). Ce dernier admet que la lutte des pauvres contre les riches sous l’Ancien Régime se déroulait entre ceux qui voulaient garder les libertés qu’ils avaient (les pauvres) et ceux qui voulaient changer le monde – à leur avantage bien sûr! (les riches). De sorte que l’opposition entre riches et pauvres est basée sur ce constat: les riches ont été – et sont toujours – ceux qui veulent changer le monde et les pauvres, ceux qui veulent garder les avantages qu’ils ont (…acquis) et que la tradition (ou les lois) leur octroie. La différence est ainsi indiquée dans un édit royal dès 1607 en Angleterre: «l’homme pauvre sera satisfait dans son but: l’habitation; le gentilhomme ne sera pas entravé dans son désir: l’amélioration.» le terme habitation renvoyait à la stabilité de l’environnement, aussi bien naturel que social, à laquelle étaient attachés les hommes pauvres» [«pauvre» étant entendu bien sûr comme relatif à d’autres; et surtout, à cette époque, il s’agit des paysans qui vivent sur et de leurs terres]. «C’était la nature nourricière et la coutume, les règlements, les traditions.» (Najib Abdelkader3). Cependant «cette habitation ne renvoie évidemment pas à un temps idyllique – les rapports de pouvoir ont toujours existé […]»

Comme l’avait clairement établi Marx, et c’est fondamental, la seule classe révolutionnaire de l’Histoire a été, jusqu’à présent encore, la bourgeoisie, celle qui veut changer le monde … en permanence! Pour cette classe, il s’agit là d’un besoin impérieux et essentiel. C’est la nouveauté du système capitaliste dans lequel tout est toujours en mouvement. Mu par la volonté de… progresser! D’améliorer. On vit mieux, disent-ils, avec la voiture, puis avec l’avion, puis avec le smartphone et ainsi de suite à l’infini! Par contre, remarquait Orwell mais aussi Lénine, les ouvriers, les paysans encore moins, ne veulent pas –sauf situation historique particulière (révolutionnaire, par exemple) – changer le monde; ils veulent, par contre, parfois, améliorer leur condition.

Venons-en donc au point central qui permet de comprendre la différence entre les deux points de vue: Si Marx voit l’émancipation sous la forme d’une société très industrialisée et administrée par le prolétariat vainqueur (stade communiste) qui se sera saisi du pouvoir politique et économique, dans la critique anti-industrielle (l’Encyclopédie des Nuisances, M. Amoros, J. Semprun, PMO, M. Amiech, etc mais aussi les précurseurs : G. Orwell, L. Mumford, J. Ellul, B. Charbonneau, etc), cet horizon d’industrialisation perpétuelle est considéré comme le pire horizon qui soit. La dépossession y est complète.

D’une certaine façon, l’industrialisation est la voie aussi bien suivie par le capitalisme, bien sûr, que par les régimes s’inspirant du marxisme orthodoxe. Lénine avait bien dit: «le socialisme, c’est les soviets [c’est à dire les conseils ouvriers] PLUS l’électrification!» et la plus grande puissance capitaliste aujourd’hui (en 2023) est bien un pays gouverné par un parti unique: le Parti Communiste Chinois.

La question aujourd’hui n’est donc pas d’accéder au pouvoir pour remplacer les patrons par des commissaires politiques (élus ou non élus) mais de défaire les pesantes chaînes qui nous empêchent de maîtriser notre existence: l’État, les grandes entreprises mondialisées, les organismes nationaux et supranationaux de toutes sortes qui, sous prétexte d’organisation technique ou technologique, de science (souvenons-nous du covid), de nécessité commerciale ou autres, nous contraignent à subir leurs logiques mortifères.

Conclusion

M. Amiech, pour revenir à son livre, écrit: «[les] auteurs de la maison d’édition la Roue (M. Amoros, M. Gomez) [disent] que les luttes de territoire constituent un renouveau de la lutte des classes au 21e siècle. Certains combats essentiels à l’avenir pourraient ainsi ressembler aux luttes préindustrielles, quand les villageois et autres manants d’Europe défendaient leurs habitats, leurs champs communs, leurs cours d’eau, contre des projets du Seigneur et de lentrepreneur qui impliquait la destruction de ce milieu de vie nourricier.»

On peut penser à la lutte contre l’aéroport de Notre Dame des Landes qui a défrayé la chronique pendant des années. On se souviendra au passage que les positions des écologistes et de la gauche n’ont jamais été clairement opposées à cette construction qui détruisait une partie du bocage nantais. Que les élus écolos locaux (comme F. De Rugy, EELV) voulant canaliser le mouvement à leur profit ont eu maille à partir avec les occupants de la ZAD, qui déposaient périodiquement des détritus devant la permanence de l’élu écolo.

Au Testet (barrage de Sivens) les opposants luttaient contre un projet de retenue d’eau devant alimenter l’agriculture industrielle locale, de grandes quantités d’eau étant nécessaires aux variétés de maïs dont celle-ci a besoin.

Plus récemment, les méga bassines en Vendée. Dans tous ces cas, il s’agit de reconquête d’un milieu de vie aux dépens de l’industrie (y compris agricole).

La grosse différence entre ces luttes et celles des paysans médiévaux étant que, dans ces derniers cas, ce sont les paysans locaux qui combattaient pour leur territoire alors que les combattants modernes pour les territoires cités au dessus étaient principalement des gens venus d’un peu partout avec une radicalité politique …déjà acquise par ailleurs, ce qui a impliqué des profils très différents et de plus en plus contradictoires avec les mœurs locales (comme les écolo-woke complètement déconnectés de la culture locale ces toutes dernières années).

Si ces luttes sont importantes, il faut insister aussi sur les luttes contre la pseudo science et les technologies qui entendent réglementer la vie des gens à coup de passes sanitaires, d’interdiction de circuler à certains types de voitures, bientôt de passes climatiques. Sans oublier la reproduction artificielle de l’humain à coups de Procréation Médicalement Assistée (PMA) et bientôt de Grossesse Pour Autrui (GPA). Aujourd’hui le pourcentage des naissances «assistées» augmentent démesurément de façon inversement proportionnelle aux capacités de reproduction naturelle des humains qui subissent le contre coup des pollutions affectant le fonctionnement des organes reproducteurs. Notons que la plupart des écolos et autres gens de gauche sont des progressistes acharnés et, par conséquent, favorables à toutes ces nouveautés qu’ils trouvent aguichantes.

Relevant un peu des deux précédentes, s’est imposée une lutte contre les hyper-organisations et la techno-bureaucratisation de toute activité humaine. Les foules, devenues de plus en plus denses, sont suspectes et les systèmes de surveillance (électronique ou pas) se généralisent dans toutes les villes et parfois même les villages. Plus de place, par ailleurs, à la spontanéité et la créativité, les protocoles envahissent tout le système de soins en médecine, par exemple. La gestion par les autorités devient nécessaires partout et phagocyte toute activité impliquant de nombreux individus, etc. Nous n’oublions pas l’outil le plus couramment utilisé à ces fins: le recours systématique à la numérisation de tout ce qui peut l’être ouvrant la possibilité d’un contrôle plus contraignant de tous. Sur ce seul aspect il faudrait revenir tant il est prégnant et accepté par bien des gens comme une liberté nouvelle.

Il est bien évident que les luttes pour améliorer quantitativement le quotidien sont nécessaires. Les salaires, les retraites, etc. Le risque, c’est que celles-ci nous fassent oublier ou sous-estimer les luttes pour l’autonomie.»

*

Ce que les spécialistes en sciences humaines voient comme un réseau sans fin d’interdépendance représente, en fait, l’assujettissement de l’individu à l’organisation, du citoyen à l’État, du travailleur au directeur, et du parent aux professions de l’assistance. Christopher Lasch, la culture du narcissisme, 1979.

Notes:

1 _ Le Capital, 4° section, chapitre XV, pages 366 et suivantes de l’Ed. Garnier Flammarion. Les autorités mirent bien du temps à autoriser les innovations techniques, comme les métiers à tisser faisant le travail de plusieurs personnes. Leur crainte était de voir les ouvriers et artisans se transformer en mendiants. Les autorités britanniques n’eurent plus ces scrupules au XVIII°s. D’où se vérifie la théorie de Karl Polanyi selon laquelle l’économie dans les époques préindustrielles était encastrée dans le tissu social et ne pouvait se déployer de façon autonome comme au XIX siècle. avec le pouvoir de la bourgeoisie.

2 _ Insurrection des artisans du nord de l’Angleterre au début du XIX siècle, qui cassaient les machines, lesquelles détruisaient leur travail bien fait et leur mode de vie d’artisans libres.

3_ La Décroissance, juillet 2023. Celui-ci a coécrit le livre: K. Polanyi et l’imaginaire économique, Éditions le passager clandestin.

sabato 21 ottobre 2023

NEL CUORE DEL MOSTRO

 






Di fronte all’artificializzazione della vita da cui scompare l’intelligenza sensibile che inventa l’umano nell’animalità originaria, questo testo di Matthieu Amiech che ho tradotto dal francese mette al centro della questione sociale il mito del progresso tecnologico incessante, rimettendo in causa l’industrializzazione produttivista al servizio dell’economia politica e denunciando l’ossimoro dell’intelligenza artificiale che rende idioti. Questa radicale zona da difendere appare ormai a molti di noi come una conditio sine qua non della sopravvivenza qualitativa della specie. 

Sergio Ghirardi Sauvageon

 

 

Ci si può opporre all’informatizzazione del mondo ?

Il 13 marzo 2019, nel programma radio “Du grain à moudre” su France Culture, Hervé Gardette ha ricevuto tre ricercatori per rispondere a una domanda apparentemente poco sovversiva: “Il 5G renderà le nostre vite più facili?” Dopo qualche scambio iniziale sullo stato attuale delle reti e sulle sfide industriali di questo progetto di intensificazione delle onde della telefonia mobile, il giornalista dà una svolta piuttosto inaspettata all'intervista: "Pensa che la questione dell'utilità sia sufficientemente posta? Ci é venduta una società che sarà strutturata diversamente, [quindi] abbiamo la possibilità di dire – diciamo, la società francese – che preferiamo non scegliere il 5G, perché in vista di guadagni e perdite, noi preferiamo restare dove siamo? Oppure non è ipotizzabile una domanda del genere?”

Pierre-Jean Benghouzi, professore all'École Polytechnique (ed ex membro dell'Autorità di regolamentazione delle comunicazioni e delle poste, Arcep), leggermente sorpreso, esordisce rispondendo: “No, non è impensabile”. Hervé Gardette allora insiste: “Dunque si può dire: no, non ci stiamo”. Benghouzi corregge il tiro: “No, non si può …” Pochi istanti dopo, un altro relatore, il semiologo Laurence Allard, risponde in modo molto diverso: “La risposta può essere data dalla terra stessa, dal pianeta, che può a suo modo dire di no. Perché questo scenario socio tecnico, consistente nel connettere tutti gli oggetti, moltiplicare i data center, estrarre ancora di più metalli rari, è abbastanza improbabile in termini ambientali”. Evidenziando così il legame tra il nostro stile di vita iperconnesso e il riscaldamento globale.

Qualche settimana prima, in pieno movimento dei Gilet Gialli, il difensore dei diritti Jacques Toubon aveva posto al centro del suo rapporto del 2019 il problema della disuguaglianza nell’accesso ai servizi pubblici causata dalle sistematiche politiche di “de materializzazione” di questi servizi[1]. Secondo le sue stime, in Francia 13 milioni di persone non hanno un facile accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC): residenti di comunità rurali, pensionati, cittadini di origine straniera in frequente contatto con le prefetture – tra gli altri … Il suo rapporto non esprime propriamente una posizione contraria alla digitalizzazione dei servizi pubblici, può persino essere letto come un appello ad accelerare gli sforzi per formare e connettere queste popolazioni alle tecnologie informatiche. Intanto, però, chiede al governo e alle amministrazioni che siano mantenuti ovunque sportelli fisici che l'uso di Internet non diventi un obbligo per gli utenti. In un contesto in cui un'istituzione importante come la SNCF elimina la maggior parte delle biglietterie delle sue stazioni, per non lasciare ai viaggiatori altra scelta che acquistare i biglietti online, una simile raccomandazione non è trascurabile[2].

In modo meno radicale della domanda posta sopra da Hervé Gardette, la raccomandazione del Difensore dei Diritti si oppone al determinismo tecnologico. La prima mette in dubbio l’inevitabilità dell’implementazione del 5G: non è perché ci consente di fare più cose e più velocemente che la sua adozione è necessaria e automatica. La seconda mette in discussione l'imposizione dell'uso universale di Internet: non è perché alcuni servizi possono essere forniti online che le altre modalità finora esistenti devono scomparire. La messa in discussione della prima e l'esigenza della seconda risuonano in un clima di scetticismo, se non di preoccupazione in Francia, di fronte alla ricerca incessante e frenetica dello sviluppo delle TIC. Fino a poco tempo fa, la critica esplicita agli effetti sociali e politici delle TIC era limitata ai sostenitori della decrescita. Ora si sta diffondendo oltre, come dimostra il rifiuto abbastanza ampio dei contatori Linky da parte della popolazione e, più recentemente, la tensione attorno al 5G. Forse non siamo ancora al punto di rifiuto causato in passato dal programma nucleare o dagli OGM; ma si sta delineando una consapevolezza condivisa che l'informatizzazione del mondo pone seri problemi politici, nonostante la forza delle abitudini di ciascuno in termini di connessione alla propria tribù e alla rete globale.

In modo meno radicale della domanda posta sopra da Hervé Gardette, la raccomandazione del Difensore dei Diritti si contrappone al determinismo tecnologico. Il primo mette in dubbio l’inevitabilità dell’implementazione del 5G non è perché ci consente di fare più cose e più velocemente che la sua adozione è necessaria e automatica. Il secondo mette in discussione l'imposizione dell'uso universale di Internet non è perché alcuni servizi possono essere forniti online che le altre modalità finora esistenti devono scomparire. La messa in discussione del primo e l'esigenza del secondo entrano in risonanza con un clima di scetticismo, vuoi di preoccupazione in Francia, di fronte alla ricerca incessante e frenetica dello sviluppo delle TIC (Tecnologie Informative e Comunicative). Fino a poco tempo fa, la critica esplicita agli effetti sociali e politici delle TIC era limitata ai sostenitori della decrescita. Ora si sta diffondendo oltre, come dimostra il rifiuto abbastanza ampio dei contatori Linky da parte della popolazione e, più recentemente, la tensione attorno al 5G. Forse non siamo ancora al punto di rifiuto causato in passato dal programma nucleare o dagli OGM; ma si sta delineando una coscienza condivisa che l'informatizzazione del mondo pone seri problemi politici, nonostante la forza delle abitudini di ciascuno in termini di connessione alla propria tribù e alla rete globale.

Affinché questa coscienza diffusa e ancora vaga diventi un movimento di opposizione, è necessario che lo sviluppo della tecnologia cessi di sembrare una fatalità. Non ci si può opporre a qualcosa che si percepisce come un destino scritto in anticipo: se l’informatizzazione è un processo più o meno naturale, si impone a tutti e nessuno può opporsi. Se invece è il risultato di politiche volontariste di Stati, imprese, grandi fondazioni e sforzi colossali in materia di ricerca scientifica, allora ha almeno una parte di contingenza. Dipende da decisioni ministeriali, da scelte gestionali, da finanziamenti pubblici e privati che possono essere denunciati, contestati vuoi impediti. Nonostante le ripetute inchieste di alcuni gruppi o giornali sull’argomento[3], il carattere estremamente volontarista, e quindi evitabile, dello sviluppo tecnologico non è ancora sufficientemente percepito, anche tra le fasce politicizzate o ribelli della popolazione.

Opporsi all’informatizzazione del mondo implica ovviamente considerare che ciò è possibile – e perfino pensabile. Ciò suppone anche di trovarlo sensato e perfino desiderabile. Qui mi soffermerò su alcune ragioni che dovrebbero far apparire tale opposizione non solo sensata, ma anche indispensabile. La nostra dipendenza dagli schermi, e la concomitante riduzione delle nostre vite a una riserva di informazioni, pone almeno quattro grandi problemi politici: le imprese economiche stanno aumentando considerevolmente la loro influenza su di noi; il potere sociale tende a concentrarsi in maniera straordinaria; il lavoro è più facilmente sfruttabile dal capitale; la catastrofe ecologica in corso è chiaramente aggravata dalla crescita esponenziale delle tecnologie cosiddette “immateriali”. Come si vede, non si tratta di questioni estetiche, di partiti presi sensibili o filosofici, che possono del resto legittimamente entrare in gioco nel giudicare un mondo dove macchine, algoritmi e procedure impersonali occupano sempre più posto[4]. Si tratta di problemi politici essenziali, davanti ai quali nessun sostenitore del progresso sociale e umano – dell’uguaglianza e della libertà – può rimanere indifferente; e ai quali un numero crescente di nostri contemporanei è effettivamente sensibile, anche se ciò non porta per il momento a un rifiuto massiccio della chincaglieria elettronica.

La crescente influenza delle imprese economiche sulle nostre esistenze

All’inizio degli anni 2000 Internet sarà il vettore di una profonda trasformazione dei rapporti tra imprese e consumatori. Non si contavano gli articoli, i libri e le rubriche che annunciavano la presa di potere dei consumatori, finalmente in grado d’informarsi e organizzarsi grazie alle nuove tecnologie. Le quali dovevano porre fine all’asimmetria tra le grandi organizzazioni industriali, con le loro tecniche di marketing, e la loro clientela atomizzata e facilmente manipolabile. La ricercatrice americana Shoshana Zuboff, che ha appena pubblicato L’epoca del capitalismo di sorveglianza, concordava allora con le analisi molto diffuse che profetizzano la nascita di “un mondo di individui informati che cercano di controllare la qualità della propria vita” e impongono le proprie scelte alle imprese; parlava di “un nuovo capitalismo distribuito, dove la creazione di valore dipende da una nuova logica di distribuzione attenta ai bisogni delle persone[5]”.

Vent’anni dopo, sostenere che Internet abbia emancipato massicciamente le popolazioni dalla società dei consumi è diventato molto difficile. Il tempo trascorso sugli schermi ci espone in modo approfondito alla pubblicità e ha consentito un affinamento delle tecniche di marketing difficile da immaginare nel ventesimo secolo. Parlare di “accerchiamento del consumatore” (John K. Galbraith, 1967) o di “società burocratica di consumo gestito” (Henri Lefebvre, 1958) sembra del tutto insufficiente per descrivere il tipo di influenza che gli attori della grande industria esercitano sui cittadini di oggi.

Nel suo scritto del 2019, Shoshana Zuboff cambia completamente posizione. Convalida tutti gli allarmi lanciati negli ultimi due decenni da coloro che non vedevano l’informatizzazione come una promessa di libertà. Ripercorre dettagliatamente gli sviluppi che hanno fatto del World Wide Web il terreno di un condizionamento degli individui senza precedenti: la svolta lucrativa di Google nel 2003, che integra la schedatura degli utenti del motore di ricerca “ai fini della pubblicità mirata”; il passaggio di una dirigente di alto livello di Google, Sheryl Sandberg, a Facebook nel 2008, dove ha importato i suddetti metodi di schedatura; l'installazione di dispositivi per spiare le nostre abitudini sulle pagine web come nell'elettronica dell'automobile; l'apparizione degli oggetti connessi; il lancio del gioco Pokemon Go nel 2016 da parte di un ex dipendente di Google Maps, in cui i cacciatori di Pokemon vengono “telecomandati” nello spazio urbano per portarli in particolare nei negozi che hanno pagato per partecipare al gioco[6]

Per completare, sottolineiamo che gli individui che trascorrono molto tempo sulle interfacce sviluppate dai colossi dell'informatica sono soggetti ad un ritmo di sollecitazioni pubblicitarie estremamente intenso, dalla semplice visione ripetuta dei logos di marca alle offerte personalizzate in base ai centri di interesse rilevati dagli algoritmi, compresi gli spot che vengono attivati continuamente durante la navigazione.

Internet ha sistematizzato e automatizzato il principio della ricerca di mercato, la base del marketing. Il marketing “tradizionale” si basava su indagini laboriose, che richiedevano la creazione e l’assemblaggio di panelli di consumatori rappresentativi di un dato segmento di popolazione, quindi la somministrazione di questionari o l’osservazione del comportamento in negozi falsi. Da vent’anni, l’uso sempre più massiccio e permanente del web ha permesso di risparmiare gran parte di questo lavoro, che ormai è svolto spontaneamente online, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. I computer non devono fare altro che analizzare l’immensa quantità di dati raccolti – sulla comparsa di una determinata tendenza societale, sul successo di una data offerta presso un dato pubblico, sul progresso o regresso nella notorietà di una data marca, ecc.

Lo stile di vita connesso ha rafforzato le tecniche di influenza e persino di controllo del comportamento, apparse con la società dei consumi. Gli inserzionisti non si sbagliano, poiché Internet rappresenta il 41% del mercato pubblicitario europeo, quasi il 60% nel Regno Unito[7]. E queste tecniche rischiano di essere ulteriormente rafforzate dall’acquisizione permanente di dati grazie ai chip RFID e ad altri dispositivi di riconoscimento facciale, in via di diffusione negli spazi urbani e nelle abitazioni. Si capisce perché gli attori della grande industria parlano a questo proposito di “realtà aumentata”: è perché si aspettano un aumento della propria influenza sulla soggettività e sulle abitudini delle masse umane.

Una società più centralizzata

L’idea che il potere sociale tenda a concentrarsi grazie alle TIC dipende ovviamente dalle osservazioni fatte al primo punto, ma molti altri esempi la supportano. Non è certo la prima volta nella storia moderna che una serie di innovazioni tecniche rimescolano le carte del gioco capitalista e favoriscono la nascita di nuovi imperi. Tuttavia, il “potere industriale” (per usare i termini di Cohen e Bauer nel 1981)[8] acquisito da GAFAM sui cittadini di tutto il mondo, in soli vent’anni, è davvero qualcosa di notevole.

Ci si aspettava che il microcomputer e la società in rete decentralizzassero il potere e l’iniziativa. Vista da oggi, l’informatizzazione della vita quotidiana ha, al contrario, consolidato il potere delle grandi organizzazioni sugli individui, gli amministrati e i consumatori. Man mano che diventano “smaterializzate”, queste organizzazioni si fanno più opache che mai agli occhi dei cittadini di base, mentre dispongono di maggiori informazioni su di loro. Pensiamo al prelievo diretto sul conto, reso possibile dalla proliferazione e dall'interconnessione dei dossier del fisco, dell’Urssaf, della Previdenza sociale, del Pôle emploi, delle banche, ecc. Pensiamo ovviamente ai contatori Linky, progettati per conoscere a distanza i consumi elettrici domestici, raccogliere dati sulla composizione dettagliata di tali consumi (quali apparecchi vengono utilizzati? per quanto tempo? a che ora?), e poter modulare l’intensità della corrente a seconda delle esigenze della rete – o addirittura interromperla quando l’utente è insolvibile[9].

Pensiamo più in generale alla logica dell’intelligenza artificiale: i robot possono essere sviluppati, in medicina, in agricoltura, nell’istruzione, solo attraverso la raccolta di quantità prodigiose di dati che “addestrano” il programma informatico. Il quale affina la sua capacità di risposta man mano che gli si presentano nuovi scenari. Lo sviluppo di tali algoritmi richiede tecnicamente che questi dati (big data) siano resi disponibili ad alcuni attori industriali; in quanto tale esso induce quindi notevoli fenomeni di concentrazione e centralizzazione. È ad accettare questa concentrazione, questa centralizzazione, che invita il rapporto Villani sull’intelligenza artificiale[10]: la “cultura del dato” che esso richiede consiste nel fare di tutto affinché le aziende impegnate nella robotica medica possano raccogliere quanti più dati possibili sulle diagnosi e prescrizioni effettuate dai medici, disattendendo, ad esempio, l'impegno di questi ultimi al segreto medicale.

Che peso hanno blog, forum e siti di informazione indipendenti rispetto a tutto ciò che i devoti del web dei primi anni 2000 speravano potesse cambiare il volto della società? Quale contrappeso alle logiche centralizzate rappresentano le conquiste della galassia del software “libero”, come Wikipédia? Dire che questo non conti nulla nel mondo di oggi sarebbe ingiusto. Tuttavia, non vedere che queste conquiste sono marginalizzate dal funzionamento dominante di Internet, dalle logiche capitaliste e burocratiche che agiscono dietro gli schermi, indica un’indubbia cecità[11]. E l'analisi degli effetti dell'informatica sul mondo del lavoro dovrebbe illustrare quanto sia delicato sperare di contrastare, attraverso questa infrastruttura tecnologica, tendenze che oggi trovano in gran parte la loro origine in suddette infrastrutture.

Un fattore chiave nello squilibrio capitale/lavoro a partire dagli anni ’70

Perché e come la classe dei detentori di capitale e dei leader aziendali è riuscita a invertire un rapporto di forze che era loro relativamente sfavorevole cinquant’anni fa? Si ritiene spesso che gli ingredienti decisivi di questa inversione siano lo sviluppo e il rafforzamento dei mercati finanziari, la globalizzazione della concorrenza, la disoccupazione di massa e la riorganizzazione delle imprese in reti, con nuove forme di gestione in corso. Il ruolo delle TIC in questi sviluppi è visto contemporaneamente come evidente e secondario: si tratta di un elemento importante sullo sfondo, ma mai di una causa fondamentale della grande regressione sociale in corso[12].

Ebbene, senza entrare qui nel delicato dibattito sul nesso tra progresso tecnologico e disoccupazione, è chiaro che né il formidabile potere acquisito dalla finanza, né l’intensificazione della concorrenza in molti settori, né la gestione neoliberista dell’impresa in rete non possono essere dissociati dallo sviluppo dell'informatica. Pertanto, sono state l’informatizzazione e la messa in rete delle borse di tutto il mondo che hanno consentito l’emergere, a partire dagli anni ’70, di un mercato globale unificato dei capitali, aperto 24 ore su 24, e sul quale gli investitori possono spostare i propri fondi con un solo clic, migliaia di volte al giorno. La vertiginosa esplosione delle transazioni finanziarie, l’aumento in potenza degli investitori istituzionali non sono solo il risultato di decisioni politiche, ma sono sostenuti da sviluppi tecnologici brutali e permanenti. Giudichiamo piuttosto: “dopo la Seconda Guerra Mondiale, un titolo apparteneva al suo proprietario per quattro anni. Nel 2000, questo periodo era di otto mesi. Poi due mesi nel 2008. Nel 2013, un titolo del mercato azionario cambia proprietà in media ogni 25 secondi, ma può altrettanto facilmente passare di mano in pochi millisecondi[13]”. Questa velocità non deriva più semplicemente dall'informatizzazione delle transazioni ma da una vera e propria automazione: più del 70% degli scambi di borsa sono ormai effettuati da algoritmi! Dietro i programmi di austerità di bilancio imposti ai governi dai mercati, dietro le richieste di profitto degli azionisti che provocano pressioni estreme sui dipendenti, fino ai licenziamenti del mercato azionario, ci sono senza dubbio attori che difendono degli interessi; ma c’è anche la potenza di calcolo e di trasmissione dei computer, delle reti e dei software, che danno concretamente il loro (surplus di) potere a questi attori.

Allo stesso modo, il ruolo delle TIC nella possibilità che hanno i padroni, dalla fine del ventesimo secolo, di spostare i diversi segmenti della loro produzione nel luogo del mondo dove i costi salariali, il livello di protezione sociale e la combattività dei lavoratori, sono ottimali per loro – questo ruolo è raramente enfatizzato nella dovuta misura. Oggigiorno un gruppo industriale può avere il management a Londra, centri di ricerca a Monaco e Sophia-Antipolis, stabilimenti affiliati in Turchia o Tunisia, pezzi di alta precisione prodotti da PMI concorrenti tra loro nel Nord Italia, l’agenzia di marketing a Chicago, call center per la hotline a Bombay e i bollettini di paga pubblicati in Polonia. Non c’è più bisogno di queste grandi concentrazioni di mano d’opera, come abbiamo visto spesso negli anni ’60 e ’70, quando la coscienza e l’organizzazione dei lavoratori avevano spaventato per un certo periodo le élite economiche di Italia, Francia o Inghilterra: oggi l’informatica consente di gestire efficacemente una catena di produzione decentralizzata, composta da stabilimenti, filiali o subfornitori sparsi ai quattro angoli di un Paese e del mondo. In questa impresa neoliberista del ventunesimo secolo, le TIC hanno dato nuova vita al taylorismo e alla burocrazia, come il lavoro di Guillaume Duval e Danièle Linhart[14] ci permetteva di anticipare vent’anni fa. Svolgono anche un ruolo essenziale nell’imposizione di metodi di gestione privata nel settore pubblico e nella distruzione dell’etica del lavoro sentita da molti dipendenti degli ospedali, dei servizi sociali, della SNCF o dell’Istruzione nazionale. “[L’informatica] sottrae tempo e attenzione al lavoro vivo, moltiplicando i compiti amministrativi, dichiarano dunque nella loro piattaforma i lavoratori uniti nella rete di resistenza al management, Écran total. Ci obbliga a inserire dei dati. Produce quindi statistiche e algoritmi per dividere, standardizzare e controllare il lavoro. (…) Il know-how è confiscato, la professione diventa applicazione meccanica di protocolli depositati nei software da parte di esperti[15]”, e tutto ciò impedisce loro di trattare gli utenti in modo professionale, o semplicemente umano.

Presto il cuore del disastro ecologico?

Infine, sempre in totale contraddizione con quanto sostenuto da molti discorsi ideologici sulla “de materializzazione” dall’inizio del secolo, le TIC danno un contributo importante alla distruzione degli ambienti di vita, ai quattro angoli del pianeta Terra. La produzione esponenziale di dispositivi elettronici richiede quantità enormi di metalli sepolti nel terreno, ed è quindi un fattore importante nell’attuale boom minerario, con conseguenze ecologiche catastrofiche. Se, come dice Anna Bednik, ci prepariamo a estrarre dalla crosta terrestre in una generazione più metalli che in tutta la storia dell’umanità[16], la domanda dell’industria digitale di oro, argento, rame, tungsteno, litio e “terre rare” ( neodimio, ittrio, cerio, germanio, ecc.) è responsabile del fatto. Infatti, l’industria mineraria è terribilmente inquinante ed energivora.

“Come il loro nome non indica, le terre rare sono meno rare che difficili da estrarre. (…) La separazione e la raffinazione di questi elementi naturalmente agglomerati con altri minerali, spesso radioattivi, comportano una lunga serie di processi che richiedono una grande quantità di energia e sostanze chimiche: varie fasi di macinazione, di attacchi acidi, di clorazione, di estrazione con solventi, di precipitazione selettiva e di scioglimento. (…) Stoccate vicino ai pozzi minerari, le rocce di scarto, questi immensi volumi di rocce estratte per accedere ad aree più concentrate in minerali, spesso generano rilasci di solfuri che drenano i metalli pesanti contenuti nelle rocce e li fanno migrare verso i corsi d'acqua ( …) La quantità di energia necessaria per estrarre, macinare, lavorare e raffinare i metalli rappresenterebbe dall’8 al 10% dell’energia totale consumata nel mondo, rendendo l’industria mineraria uno dei principali attori del riscaldamento globale[17]. »

Oltre a ciò che consuma e inquina nella produzione dei suoi dispositivi, l’industria digitale contribuisce al riscaldamento globale anche attraverso le enormi quantità di elettricità indotte dal suo funzionamento ordinario. Secondo le stime, oggi tutte le apparecchiature digitali consumano tra il 10 e il 15% dell’elettricità globale. Tuttavia, questo consumo raddoppia ogni quattro anni, il che potrebbe portare la quota del digitale al 50% dell’elettricità globale nel 2030 (!) – una quantità equivalente a ciò che l’umanità ha consumato in totale nel … 2008, appena undici anni fa. Queste vertiginose proiezioni[18] sono in parte informate dalle stime di alcuni recenti studi, sulla potenza elettrica richiesta da un Data center (equivalente a quella di una città di 50.000 abitanti), dai 10 miliardi di e-mail inviate ogni ora nel mondo (equivalenti alla produzione oraria di 15 centrali nucleari, o 4.000 viaggi andata e ritorno da Parigi a New York in aereo), dai 140 miliardi di ricerche su Google ogni ora, ecc.[19].

A ciò si aggiunge l’inquinamento generato dagli scarti di questa industria, commisurato all’obsolescenza attentamente mantenuta di tutti i prodotti che passano per le nostre mani. Ma anche l'inquinamento da moto ondoso, sulla portata e sulle conseguenze del quale non esiste consenso ma su cui persistono preoccupazioni supportate da un certo numero di lavori scientifici[20]).

Qualche mese fa, durante una presentazione pubblica del saggio La libertà in coma del gruppo MARCUSE, dove io ho composto parte di questo quadro, qualcuno tra il pubblico mi ha chiesto se quello che noi volevamo era “disinventare il computer”! Ovviamente non si tratta di questo. Disinventare una tecnologia che esiste non è possibile, anche se vediamo che provoca danni sociali e antropologici maggiori dei suoi vantaggi. La questione è piuttosto sapere se le società umane, che oggi si dicono così evolute, sono capaci di padroneggiare le loro invenzioni, di farne un uso ragionato che includa la possibilità di una limitazione. Cornelius Castoriadis ha affermato dunque che una società che “si ponesse esplicitamente la questione della trasformazione cosciente della propria tecnologia” sperimenterebbe una forma di libertà superiore e “una rivoluzione totale, senza precedenti nella storia[21]”.

Nel caso dell’informatica, data l’impennata che stiamo vivendo da diversi decenni, trasformare consapevolmente le cose richiede innanzitutto una frenata, una decelerazione. Ciò implicherebbe l’introduzione della contingenza e della deliberazione in una traiettoria finora definita esclusivamente dall’interesse commerciale e dall’ideologia del “sempre di più, sempre più velocemente”. Ci sembra che questo sia il senso dell’azione dei numerosi gruppi contrari all’installazione dei contatori Linky in tutta la Francia, tra i quali tutta una parte sta ora includendo il 5G nel proprio ambito di contestazione e riflessione: queste migliaia di cittadini sentono che c’è qualcosa di problematico nell’accumulazione stessa delle tecnologie, nella velocità con cui trasformano le loro vite senza che ci sia mai il minimo spazio socio-politico in cui la loro necessità, i loro effetti a lungo termine, il ritmo e le condizioni del loro sviluppo possano essere discussi – discussi davvero. Come dei zadisti (partigiani di zone da difendere -ZAD), chiedono quindi che alcuni grandi progetti industriali vengano sospesi, in modo che tutta la società possa essere informata e riflettere su cosa è desiderabile e cosa non lo è. Tuttavia, per tutta una parte del campo progressista, l’opportunità di tale messa in discussione rimane poco evidente. Mettere in discussione la necessità di innovazione permanente, o anche mettere in discussione l’uso delle tecnologie già esistenti, non è vano o secondario, finché viviamo sotto un regime di proprietà lucrativa, di concorrenza e profitto privato? Ciò non rischia persino di confondere il dibattito politico, distogliendo energie preziose dalla lotta prioritaria per la ridistribuzione economica e il cambiamento delle relazioni sociali? A queste classiche obiezioni rispondiamo che la tecnologia fa parte delle relazioni sociali: aiuta a modellarle; incide sul grado di sfruttamento dei lavoratori, sulla forma che assume la vita quotidiana, sulle possibilità di rivolta lasciate ai dominati. Voler cambiare le tecniche in uso nella direzione di una maggiore autonomia e democrazia[22] rientra quindi del tutto legittimamente in un progetto di emancipazione sociale, come sottolineava Herbert Marcuse nel 1964:

Il capitalismo avanzato introduce la razionalità tecnica nel suo apparato produttivo, nonostante l’uso irrazionale che ne viene fatto. Ciò vale per gli strumenti meccanizzati, per le fabbriche, per lo sfruttamento delle risorse, vale anche per la forma del lavoro, (…) “sfruttato scientificamente”. Né la nazionalizzazione né la socializzazione di per sé modificano questo aspetto materiale della razionalità tecnologica (…). Certamente Marx sosteneva che se i “produttori immediati” organizzassero e dirigessero l'apparato produttivo, ci sarebbe un cambiamento qualitativo nella continuità tecnica, cioè la produzione mirerebbe a soddisfare i bisogni individuali che si svilupperebbero liberamente. Tuttavia, nella misura in cui l'esistenza privata e pubblica in tutte le sfere della società viene fagocitata dall'apparato tecnico costituito (...), il cambiamento qualitativo implica un cambiamento della struttura tecnologica stessa.

Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Minuit, Paris 1968 [1964], p. 48-49.

È un tale cambiamento di orizzonte quello che suggeriscono le recenti scaramucce intorno ai progetti per la completa informatizzazione del mondo: non più aspettare un ipotetico rovesciamento o indebolimento del capitalismo per discutere di tecnologie desiderabili o accettabili; ma cercare di prevenire qui e ora il peggioramento delle disuguaglianze, l’aumento del potere dei gruppi dirigenti e il declino della libertà, mettendo in panne degli ingranaggi essenziali del sistema attraverso strategie di disobbedienza civile. La proposta di ridurre massicciamente l’uso delle tecnologie avanzate e di lottare contro le politiche pubbliche che le promuovono non riguarda semplicemente una questione morale (morale sanitaria, morale ecologica, morale “esistenziale”, ecc.); è anche una proposta strategica, che scommette che opporsi individualmente e collettivamente all’informatizzazione delle nostre vite può permetterci di uscire dall’impotenza, di riconquistare una presa sul mondo, una leva per nuocere finalmente ai potenti.

 

Matthieu Amiech

 

contact@terrestres.org



[1] Il rapporto intitolato “De materializzazione e disuguaglianze di accesso ai servizi pubblici” è consultabile all'indirizzo https://www.defenseurdesdroits.fr/sites/default/files/atoms/files/rapport-demat-num-21.12.18.pdf.

[2] Vedi l'articolo di Gaspard d'Allens sull'azione del 31 gennaio alla stazione di Matabiau, contro questa politica: https://reporterre.net/Des-humains-plutot-que-des-machines-usagers-et-cheminots-contestent-la-numerisation-des[

[3] Penso in particolare alle inchieste di Tomjo, Pieces and main d’oeuvre, e alla rivista annuale Z; ma anche alle rubriche fisse di Alain Gras, François Jarrige e Pierre Thiesset sul mensile La Décroissance.

[4] Per una critica all’informatizzazione del mondo che vada oltre questi quattro punti, possiamo fare riferimento a Hervé Krief, Internet ou le retour à la bougie (Internet o il ritorno alla candela), Quartz, 2018; Pièces et main d’œuvre, Manifeste des chimpanzés du futur. Contre le transhumanisme, 2017; e ovviamente il libro del gruppo MARCUSE a cui ho partecipato: La Liberté dans le coma. Essai sur l’identification électronique et les motifs de s’y opposer (La libertà in coma, saggio sull’identificazione elettronica e sui motivi di opporsi ad essa), La Lenteur, 2019.

[5] Estratto dal libro di Zuboff scritto in collaborazione con James Maxmin, The Support Economy, Penguin, 2002, citato da Frédéric Joignot, nel suo articolo “Sorveglianza, stadio supremo del capitalismo?”, su Le Monde di sabato 15 giugno 2019, p. 24-25.

[6] Cfr. Shoshana Zuboff, “Un capitalisme de surveillance ”, in Le Monde Diplomatique n° 778, gennaio 2019.

[7] Dati forniti nel 2018 dall'agenzia media belga Space.

[8] Cfr. Michel Bauer e Elie Cohen, Qui gouverne les groupes industriels ? Essai sur l’exercice du pouvoir du et dans le groupe industriel (Chi governa i gruppi industriali? Saggio sull'esercizio del potere da parte e nel gruppo industriale), Parigi, Le Seuil, 1981.

[9] È così che il sindaco di Nizza, Christian Estrosi, ha chiesto a Enedis di avere accesso ai dati dei contatori Linky per sapere se i proprietari di seconde case si erano rifugiati nella sua città all'inizio del lockdown. Enedis non sembra aver risposto a questa richiesta (fonte: L’Age de faire, n°151, maggio 2020, p. 18).

[10] Cédric Villani, Dare un senso all'intelligenza artificiale. Per una strategia nazionale ed europea, rapporto sulla missione parlamentare presentato al Primo Ministro nel 2018, disponibile su https://www.vie-publique.fr/sites/default/files/rapport/pdf/184000159.pdf[]

[11] Si veda al riguardo la chiara affermazione di Julia Laïnae e Nicolas Alep, Contre l’alternumérisme. Pourquoi nous ne vous proposerons pas d’« éco gestes numériques » ni de solutions pour une « démocratie numérique » (Contro l’alternumérisme. Perché non vi proporremo “eco gesti digitali” né soluzioni per una “democrazia digitale”), La Lenteur, 2020.

[12] Un esempio di questo tipo del quadro interessante ma fondamentalmente incompleto è fornito da Thomas Coutrot, in Contre l’organisation du travail (Contro l'organizzazione del lavoro), La Découverte (Repères), 1999.

[13] Secondo un rapporto IBM citato da Alexandre Laumonnier, 6, Sensitive Zones, 2013.

[14] Cfr. Guillaume Duval, L’entreprise efficace à l’heure de Swatch et McDonald’s. La seconde vie du taylorisme (L’azienda efficiente nell’era di Swatch e McDonald’s. La seconda vita del taylorismo), Parigi, Syros-Alternatives économique, 2000; Danièle Linhart e Aimée Moutet (dir.), Le Travail nous est compté. La construction des normes temporelles du travail (Il lavoro ci è contato. La costruzione delle norme temporali del lavoro), Parigi, La Découverte, 2005.

[15] “Schermo totale, contro la gestione e l'informatizzazione delle nostre vite” (maggio 2016), disponibile su https://sniadecki.wordpress.com/2016/09/13/plate-forme-ecran-total/.

[16] Cfr. Anna Bednik, Estrattivismo. Sfruttamento industriale della natura: logica, conseguenze, resistenza, Parigi, Le Passager clandestine, 2016, p. 112.

[17] Célia Izoard, “Les bas-fonds du capital” (I bassifondi del capitale), in Guyane. Trésors et conquêtes, revue Z, n°12, autunno 2018, p. 12-13-14.

[18] Proposto da Andrae Anders S.G. e Edler Tomas, in “On Global Electricity Usage of Communication Technology: Trends to 2030”, Challenges 6, 2015, p. 117-157. Nel loro rapporto del 2019 per ADEME, L’impact social et énergétique des data centers sur les territoires (L'impatto sociale ed energetico dei data center sui territori), Cécile Diguet e Fanny Lopez situano queste proiezioni in una serie di scenari più o meno estremi.

[19] Si veda il rapporto condotto da Hugues Ferreboeuf per il “think tank” del progetto Shift: Lean ICT – For digital sobriety (2018). Sottolineiamo che queste statistiche stabilite tre o quattro anni fa rischiano di essere del tutto superate a seguito dell’episodio di confinamento che abbiamo appena vissuto, e che ha colpito (o preoccupa tuttora) diversi miliardi di persone in tutto il mondo.

[20] Cfr. l'articolo del fisico belga (ed ex eurodeputato) Paul Lannoye, “Con il 5G... tutte cavie? », in Kairos n° 37, dicembre 2018 (https://www.kairospresse.be/article/avec-la-5g-tous-cobayes/); e quello di Laury-Anne Cholez, “Il 5G viene utilizzato mentre i suoi effetti sulla salute non sono stati valutati”, del 25 febbraio 2020 per il quotidiano online Reporterre (https://reporterre.net/La-5G-is-being -utilizzato-mentre-i-suoi-effetti-sulla-salute-non-sono-valutati.

[21] Cornélius Castoriadis, Les Carrefours du labyrinthe, Parigi, Seuil, 2017 (prima edizione: 1978), p. 307.

[22] Cfr. la precisazione straordinariamente illuminante di Lewis Mumford, in « Technique autoritaire, technique démocratique », publié dans Orwell et Mumford, la mesure de l’homme, La Lenteur, 2014.



AU CŒUR DU MONSTRE



Face à l'artificialisation de la vie d'où disparaît l'intelligence sensible qui invente l'humain dans l'animalité originaire, ce texte de Matthieu Amiech que j'ai traduit en italien pose au centre de la question sociale le mythe du progrès technologique incessant, remettant en cause l’industrialisation productiviste au service de l’économie politique et dénonçant l’oxymore de l’intelligence artificielle qui rend idiots. Cette zone à défendre radicalement apparaît désormais à beaucoup d’entre nous comme une condition sine qua non de la survie qualitative de l’espèce.

Sergio Ghirardi Sauvageon

 

Peut-on s’opposer à l’informatisation du monde ?

Le 13 mars 2019, dans l’émission « Du grain à moudre » sur France Culture, Hervé Gardette reçoit trois chercheurs pour répondre à une question a priori peu subversive : « La 5G va-t-elle nous simplifier la vie ? ». Après quelques échanges initiaux sur l’état actuel des réseaux et les enjeux industriels de ce projet d’intensification des ondes de téléphonie mobile, le journaliste donne un tour assez inattendu à l’entretien : « Est-ce que selon vous la question de l’utilité est suffisamment posée ? On nous vend une société qui va être structurée différemment par ça, [du coup], est-ce qu’on a la possibilité de dire – mettons, la société française – nous, on préfère ne pas faire le choix de la 5G, parce qu’au regard des gains et des pertes, on préfère rester là où on en est ? ou bien, est-ce qu’une telle question est inenvisageable ? »

Pierre-Jean Benghouzi, professeur à l’École polytechnique (et ancien membre de l’Autorité de régulation des communications et des postes, l’Arcep), légèrement surpris, commence par répondre : « Non, elle n’est pas inenvisageable ». Hervé Gardette insiste alors : « Donc, on peut dire : non, on n’y va pas ». Benghouzi corrige le tir : « Non, on ne peut pas… » Quelques instants plus tard, une autre intervenante, la sémiologue Laurence Allard, répond de manière très différente : « La réponse peut être donnée par la terre elle-même, par la planète, qui peut à sa façon dire non. Parce que ce scénario sociotechnique, consistant à connecter tous les objets, à multiplier les data centers, à extraire encore plus de métaux rares, est assez improbable en termes environnementaux ». Et de souligner le lien entre notre mode de vie hyper-connecté et le réchauffement climatique.

Quelques semaines plus tôt, en plein mouvement des Gilets jaunes, le Défenseur des droits, Jacques Toubon, plaçait au cœur de son rapport 2019 le problème de l’inégalité d’accès aux services publics provoquée par les politiques systématiques de « dématérialisation » de ces services1. Il estimait à 13 millions le nombre de personnes en France n’ayant pas un accès aisé aux technologies de l’information et de la communication (TIC) : habitants de communes rurales, retraités, citoyens d’origine étrangère en contacts fréquents avec les préfectures – entre autres… Son rapport n’est pas à proprement parler une prise de position contre la numérisation des services publics, il peut même être lu comme un appel à accélérer l’effort de formation et de connexion de ces populations aux technologies informatiques. Mais en attendant, il demande au gouvernement et aux administrations que des guichets physiques soient partout maintenus – que le passage par Internet ne devienne pas une obligation pour les usagers. Dans un contexte où une institution aussi importante que la SNCF supprime la très grande majorité de ses guichets de gare, pour ne laisser d’autre choix aux voyageurs que d’acheter leurs billets en ligne, une telle recommandation n’est pas négligeable2.

De manière moins radicale que la question posée par Hervé Gardette plus haut, la recommandation du Défenseur des droits s’inscrit en faux contre le déterminisme technologique. Le premier met en doute le caractère inéluctable du déploiement de la 5G – ce n’est pas parce qu’elle permet de faire plus de choses et plus vite que son adoption est nécessaire et automatique. Le second met en cause l’imposition d’un usage universel d’Internet – ce n’est pas parce que certains services peuvent être rendus en ligne, que les autres modalités existant jusqu’ici doivent disparaître. L’interrogation du premier et l’exigence du second entrent en résonance avec un climat de scepticisme, voire d’inquiétude en France, devant la poursuite incessante et effrénée du développement des TIC. La critique explicite des effets sociaux et politiques des TIC était, jusqu’à il y a peu, cantonnée aux partisans de la décroissance. Elle se diffuse désormais au-delà, comme en témoigne le refus assez large des compteurs Linky dans la population, et plus récemment la crispation autour de la 5G. On n’en est peut-être pas encore au point de rejet suscité dans le passé par le programme électronucléaire ou les OGM ; mais une conscience partagée que l’informatisation du monde pose des problèmes politiques graves prend forme, malgré la puissance des habitudes de chacun en matière de connexion à sa tribu et au réseau mondial.

Pour que cette conscience diffuse et encore floue devienne un mouvement d’opposition, il faut précisément que le développement de la technologie cesse d’apparaître comme une fatalité. On ne peut pas s’opposer à quelque chose que l’on perçoit comme un destin écrit d’avance : si l’informatisation est un processus plus ou moins naturel, elle s’impose à tout le monde et personne ne peut aller contre. Si par contre elle résulte de politiques volontaristes des États, des entreprises, des grandes fondations, et d’efforts colossaux en matière de recherche scientifique, alors elle a au moins une part de contingence. Elle dépend de décisions ministérielles, de choix managériaux, de financements publics et privés, qui peuvent être dénoncés, contestés, voire empêchés. Malgré les enquêtes répétées de certains groupes ou journaux à ce sujet3, le caractère extrêmement volontariste, et donc évitable, du développement technologique n’est pas encore assez perçu, même dans les fractions politisées ou révoltées de la population.

S’opposer à l’informatisation du monde suppose évidemment de considérer que c’est possible – et même pensable. Cela suppose aussi de trouver que c’est sensé et même souhaitable. Je vais ici m’attarder sur quelques raisons qui devraient faire apparaître une telle opposition comme non seulement sensée, mais également indispensable. Notre dépendance aux écrans, et la réduction concomitante de nos vies à un stock d’informations, posent en effet au minimum quatre problèmes politiques majeurs : les entreprises accroissent considérablement leur emprise sur nous ; le pouvoir social a tendance à se concentrer de manière extraordinaire ; le travail est plus facilement exploité par le capital ; la catastrophe écologique en cours est nettement aggravée par la croissance exponentielle des technologies prétendument « immatérielles ». Comme on le voit, il ne s’agit pas de questions esthétiques, de partis pris sensibles ou philosophiques, qui peuvent par ailleurs légitimement entrer en ligne de compte pour juger d’un monde où les machines, les algorithmes et les procédures impersonnelles prennent de plus en plus de place4. Il s’agit de problèmes politiques essentiels, auxquels aucun partisan du progrès social et humain – de l’égalité et de la liberté – ne peut rester indifférent ; et auxquels effectivement un nombre croissant de nos contemporains sont sensibles, même si cela n’entraîne pas pour l’instant de rejet massif de la quincaillerie électronique.

L’emprise accrue des entreprises sur nos existences

Au début des années 2000, Internet devait être le vecteur d’une transformation considérable des relations entre entreprises et consommateurs. On ne comptait pas les articles, ouvrages, chroniques, annonçant la prise de pouvoir des consommateurs, enfin en mesure de s’informer et de s’organiser grâce aux nouvelles technologies. Celles-ci devaient mettre fin à l’asymétrie entre les grandes organisations industrielles, avec leurs techniques de marketing, et leur clientèle atomisée, aisément manipulable. La chercheuse américaine Shoshana Zuboff, qui vient de publier L’Age du capitalisme de surveillance, rejoignait alors les analyses très répandues prophétisant la naissance d’« un monde d’individus informés cherchant à contrôler la qualité de leur vie » et imposant leurs choix aux entreprises ; elle parlait d’« un nouveau capitalisme distribué, où la création de valeur dépend d’une nouvelle logique de distribution attentive aux besoins des personnes5 ».

Vingt ans plus tard, prétendre qu’Internet a massivement émancipé les populations de la société de consommation est devenu bien difficile. Le temps passé sur les écrans nous expose de manière approfondie à la publicité et a permis un affinement des techniques de marketing qui était difficilement imaginable au 20e siècle. Parler d’« encerclement du consommateur » (John K. Galbraith, 1967) ou de « société bureaucratique de consommation dirigée » (Henri Lefebvre, 1958) semble bien insuffisant, pour décrire le type d’emprise que les acteurs de la grande industrie exercent sur les citoyens d’aujourd’hui.

Dans son ouvrage de 2019, Shoshana Zuboff tourne donc complètement casaque. Elle valide toutes les alarmes lancées au fil des deux décennies écoulées par ceux qui ne voyaient pas dans l’informatisation une promesse de liberté. Elle retrace par le menu les évolutions qui ont fait du World Wide Web le terrain d’un conditionnement sans précédent des individus : le tournant lucratif de Google en 2003, qui intègre le profilage des utilisateurs du moteur de recherche « à des fins de publicité ciblée » ; le passage d’une cadre de haut niveau de Google, Sheryl Sandberg, chez Facebook, en 2008, où elle importe les dites méthodes de profilage ; la mise en place de dispositifs d’espionnage de nos habitudes sur les pages du web aussi bien que dans l’électronique des voitures ; l’apparition des objets connectés ; le lancement du jeu Pokemon Go en 2016 par un ancien de Google Maps, où les chasseurs de Pokémon sont « téléguidés » dans l’espace urbain pour les amener notamment dans des enseignes qui ont payé pour faire partie du jeu6

Pour compléter, soulignons que les individus passant un temps important sur des interfaces mises au point par les géants de l’informatique sont soumis à un rythme de sollicitations publicitaires extrêmement intense, de la simple vision répétée des logos de marque aux offres personnalisées en fonction des centres d’intérêts décelés par les algorithmes, en passant par les spots qui se déclenchent à tout bout de champ au cours de la navigation.

Internet a systématisé et automatisé le principe de l’étude de marché, base du marketing. Le marketing « traditionnel » s’appuyait sur des enquêtes laborieuses, nécessitant la création et la réunion de panels de consommateurs représentatifs de tel segment de population, puis la passation de questionnaires ou l’observation des comportements dans des faux magasins. Depuis vingt ans, la fréquentation de plus en plus massive et permanente du web a permis d’épargner une grande partie de ce travail, qui se fait maintenant spontanément, en ligne, 24 heures sur 24 et 365 jours par an. Les ordinateurs n’ont plus qu’à analyser les immenses quantités de données recueillies – sur l’apparition de telle tendance sociétale, le succès de telle offre auprès de tel public, les progrès ou régressions de la notoriété de telle marque, etc.

Le mode de vie connecté a renforcé les techniques d’influence, voire de contrôle des comportements, apparus avec la société de consommation. Les annonceurs ne s’y trompent pas puisque Internet pèse 41 % du marché européen de la publicité, presque 60 % au Royaume-Uni7. Et ces techniques risquent d’être encore renforcées par la captation permanente de données grâce aux puces RFID, et autres dispositifs de reconnaissance faciale, en cours de dissémination dans l’espace urbain et dans les foyers. On comprend pourquoi les acteurs de la grande industrie parlent de « réalité augmentée » à ce propos : c’est qu’elles en escomptent une augmentation de leur propre emprise sur la subjectivité et les habitudes des masses humaines.

Une société plus centralisée

L’idée que le pouvoir social a tendance à se concentrer grâce aux TIC découle bien sûr des constats dressés dans le premier point, mais bien d’autres exemples viennent l’étayer. Ce n’est certes pas la première fois dans l’histoire moderne qu’une série d’innovations techniques rebat les cartes du jeu capitaliste et favorise l’émergence de nouveaux empires. Pour autant, le « pouvoir industriel » (pour reprendre les termes de Cohen et Bauer en 19818) acquis par les GAFAM sur les citoyens du monde entier, en seulement vingt ans, a tout de même quelque chose de remarquable.

On attendait de la micro-informatique et de la société en réseaux une décentralisation du pouvoir et de l’initiative. Vue d’aujourd’hui, l’informatisation de la vie quotidienne a au contraire consacré le pouvoir des grandes organisations sur les individus, les administrés, les consommateurs. À mesure qu’elles se « dématérialisent », ces organisations sont plus opaques que jamais aux yeux des citoyens de base, tandis qu’elles disposent de plus d’informations sur eux. Pensons au prélèvement à la source, que permettent la prolifération et l’interconnexion des fichiers du fisc, de l’Urssaf, de la Sécurité sociale, de Pôle emploi, des banques, etc. Pensons bien sûr aux compteurs Linky, prévus pour connaître à distance la consommation d’électricité des ménages, recueillir des données sur la composition détaillée de cette consommation (quels appareils sont utilisés ? combien de temps ? à quelle heure ?), et pouvoir moduler l’intensité du courant en fonction des besoins du réseau – voire, le couper quand l’usager est mauvais payeur9.

Pensons plus généralement à la logique de l’intelligence artificielle : des robots ne peuvent être mis au point, en médecine, en agriculture, en éducation, que grâce au recueil de quantités prodigieuses de données qui « entraînent » le programme informatique. Celui-ci affine sa capacité de réponse au fur et à mesure qu’on lui présente de nouveaux cas de figure. La mise au point de tels algorithmes nécessite techniquement que ces données (big data) soient mises à disposition de certains acteurs industriels ; elle induit donc en tant que telle des phénomènes de concentration, de centralisation, considérables. C’est à accepter cette concentration, cette centralisation, qu’invite le rapport Villani sur l’intelligence artificielle10: la « culture de la donnée » qu’il appelle de ses vœux consiste à tout faire pour que les entreprises engagées dans la robotique médicale puissent regrouper le plus de données possibles sur les diagnostics et les prescriptions effectués par les médecins, au mépris par exemple de l’engagement de ces derniers au secret médical.

Que pèsent par rapport à tout cela les blogs, les forums, les sites d’information indépendants, dont les zélateurs du web du début des années 2000 espéraient qu’ils allaient changer le visage de la société ? Quel contrepoids aux logiques centralisatrices représentent les réalisations de la galaxie du logiciel « libre », tel Wikipédia ? Dire que cela ne pèse rien dans le monde actuel serait injuste. Mais ne pas voir que ces réalisations sont marginalisées par le fonctionnement dominant d’Internet, par les logiques capitalistiques et bureaucratiques à l’œuvre derrière les écrans, relève d’un certain aveuglement11. Et l’analyse des effets de l’informatique sur le monde du travail devrait achever d’illustrer combien il est délicat d’espérer combattre, au moyen de cette infrastructure technologique, des tendances qui trouvent aujourd’hui largement leur ressort dans la dite infrastructure.

Un facteur essentiel du déséquilibre capital/travail depuis les années 1970

Pourquoi et comment la classe des détenteurs de capital et des dirigeants d’entreprise ont-ils pu à ce point inverser un rapport de forces qui leur était relativement défavorable il y a cinquante ans ? On considère souvent que les ingrédients décisifs de ce renversement sont le développement et l’autonomisation des marchés financiers, la mondialisation de la concurrence, le chômage de masse et la réorganisation des entreprises en réseaux, avec de nouvelles formes de management à la clé. Le rôle des TIC dans ces évolutions est vu à la fois comme évident et secondaire – c’est un élément important en toile de fond, mais jamais une cause fondamentale de la grande régression sociale en cours12.

Or, sans entrer ici dans le débat délicat sur le lien entre progrès technologique et chômage, il est clair que ni le formidable pouvoir acquis par la finance, ni l’intensification de la concurrence dans de nombreux secteurs, ni le management néolibéral dans la firme en réseaux ne peuvent être dissociés du développement de l’informatique. Ainsi, c’est l’informatisation et la mise en réseau des places boursières du monde entier qui a permis l’émergence à partir des années 1970 d’un marché planétaire unifié des capitaux, ouvert 24 heures sur 24, et sur lequel les investisseurs peuvent déplacer leurs fonds d’un simple clic, des milliers de fois par jours. L’explosion vertigineuse des transactions financières, la montée en puissance des investisseurs institutionnels, ne sont pas seulement le résultat de décisions politiques, elles sont sous-tendues par une évolution technologique brutale et permanente. Qu’on en juge plutôt : « après la Seconde Guerre mondiale, un titre appartenait à son propriétaire pendant quatre ans. En 2000, ce délai était de huit mois. Puis de deux mois en 2008. En 2013, un titre boursier change de propriétaire toutes les 25 secondes en moyenne, mais il peut tout aussi bien changer de main en quelques millisecondes13. » Cette vitesse ne ressort plus simplement d’une informatisation des transactions mais d’une véritable automatisation : ce sont désormais plus de 70 % des échanges boursiers qui sont réalisés par des algorithmes ! Derrière les programmes d’austérité budgétaire imposés aux gouvernements par les marchés, derrière les exigences de rentabilité des actionnaires qui provoquent une mise sous pression extrême des salariés, voire des licenciements boursiers, il y a sans nul doute des acteurs qui défendent des intérêts ; mais il y a aussi la puissance de calcul et de transmission des ordinateurs, des réseaux et des logiciels, qui donnent concrètement leur (surplus de) pouvoir à ces acteurs.

De même, le rôle des TIC dans la possibilité qu’ont les patrons, depuis la fin du XXe siècle, de déplacer les différents segments de leur production à l’endroit du monde où les coûts salariaux, le niveau de protection sociale et de combativité ouvrière, sont optimaux pour eux – ce rôle est rarement souligné à sa juste mesure. De nos jours, un groupe industriel peut avoir sa direction à Londres, des centres de recherche à Munich et Sophia-Antipolis, des usines affiliées en Turquie ou en Tunisie, des pièces de haute précision fabriquées par des PME mises en concurrence entre elles dans le Nord de l’Italie, l’agence de marketing à Chicago, le centre d’appels pour la hotline à Bombay et les fiches de paie éditées en Pologne. Plus besoin de ces grandes concentrations de main d’œuvre comme on en voyait fréquemment dans les années 1960-70, où la conscience et l’organisation des travailleurs avaient un temps effrayé les élites économiques d’Italie, de France ou d’Angleterre : aujourd’hui, l’informatique permet de gérer de manière efficace une chaîne de production décentralisée, faites d’établissements, de filiales ou de sous-traitants dispersés aux quatre coins d’un pays et du monde. Dans cette firme néolibérale du XXIe siècle, les TIC ont donné une nouvelle vie au taylorisme et à la bureaucratie, comme permettaient de l’anticiper il y a vingt ans les travaux de Guillaume Duval ou Danièle Linhart14. Elles jouent aussi un rôle essentiel dans l’imposition des méthodes de gestion du privé au secteur public, et dans la destruction de l’éthique du travail que ressentent de nombreux salariés des hôpitaux, des services sociaux, de la SNCF ou de l’Éducation nationale. « [L’informatique] prend du temps et de l’attention au travail vivant, en démultipliant les tâches administratives, déclarent ainsi dans leur plate-forme les travailleurs fédérés au sein du réseau de résistance au management, Écran total. Elle nous oblige à saisir des données. Elle produit ensuite des statistiques et des algorithmes pour découper, standardiser et contrôler le travail. (…) Le savoir-faire est confisqué, le métier devient application machinale de protocoles déposés dans des logiciels par des experts15 », et tout cela les empêche de traiter les usagers de manière professionnelle, ou simplement, humaine.

Bientôt le cœur de la catastrophe écologique ?

Enfin, là encore en totale contradiction avec ce que maints discours idéologiques sur la « dématérialisation » ont prétendu depuis le début du siècle, les TIC apportent une contribution majeure à la destruction des milieux de vie, aux quatre coins de la planète Terre. La production exponentielle d’appareils électroniques exige des quantités fantastiques de métaux enfouis dans les sols, et constitue donc un facteur important de l’actuel boom minier, aux conséquences écologiques catastrophiques. Si, comme le dit Anna Bednik, l’on s’apprête à extraire plus de métaux de la croûte terrestre en une génération que dans toute l’histoire de l’humanité16, la demande de l’industrie du numérique en or, argent, cuivre, tungstène, lithium, et « terres rares » (néodyme, yttrium, cérium, germanium…) y est pour beaucoup. Or, l’industrie minière est terriblement polluante et énergivore.

« Comme leur nom ne l’indique pas, les terres rares sont moins rares que difficiles à extraire. (…) La séparation et le raffinage de ces éléments naturellement agglomérés avec d’autres minerais, souvent radioactifs, impliquent une longue série de procédés nécessitant une grande quantité d’énergie et de substances chimiques : plusieurs phases de broyage, d’attaque aux acides, de chloration, d’extraction par solvant, de précipitation sélective et de dissolution. (…) Stockés à proximité des fosses minières, les stériles, ces immenses volumes de roches extraits pour accéder aux zones plus concentrées en minerais, génèrent souvent des dégagements sulfurés qui drainent les métaux lourds contenus dans les roches, et les font migrer vers les cours d’eau (…) La quantité d’énergie nécessaire pour extraire, broyer, traiter et raffiner les métaux représenterait 8 à 10 % de l’énergie totale consommée dans le monde, faisant de l’industrie minière un acteur majeur du réchauffement climatique17. »

En plus de ce qu’elle consomme et pollue pour la production de ses appareils, l’industrie du numérique contribue aussi au réchauffement climatique par les quantités faramineuses d’électricité qu’induit son fonctionnement ordinaire. L’ensemble des équipements numériques consomme aujourd’hui entre 10 et 15 % de l’électricité mondiale, selon les estimations. Mais cette consommation double tous les quatre ans, ce qui pourrait porter la part du numérique à 50 % de l’électricité mondiale en 2030 (!) – soit une quantité équivalente à que ce que l’humanité consommait au total en… 2008, il y a simplement onze ans. Ces projections vertigineuses18 sont en partie éclairées par les estimations de plusieurs études récentes, sur la puissance électrique demandée par un Datacenter (équivalente à celle d’une ville de 50.000 habitants), par les 10 milliards d’e-mails envoyés chaque heure dans le monde (équivalente à la production horaire de 15 centrales nucléaires, ou à 4000 allers-retours Paris-New York en avion), par les 140 milliards de recherches sur Google chaque heure, etc19.

À cela s’ajoute la pollution générée par les déchets de cette industrie, à la mesure de l’obsolescence soigneusement entretenue de tous les produits qui nous passent entre les mains. Mais aussi la pollution par les ondes, sur l’ampleur et les conséquences desquelles aucun consensus n’existe mais sur lesquelles des inquiétudes appuyées par un certain nombre de travaux scientifiques persistent20).

Il y a quelques mois, lors d’une présentation publique de l’essai du groupe MARCUSE La Liberté dans le coma, où je dressais une partie de ce tableau, une personne dans l’assistance m’a demandé si, ce que nous voulions, c’était « désinventer l’ordinateur » ! Bien évidemment, il ne s’agit pas de ça. Désinventer une technologie qui existe n’est pas possible, quand bien même on constate qu’elle provoque des dégâts sociaux et anthropologiques supérieurs à ses avantages. La question est plutôt de savoir si les sociétés humaines, qui se disent de nos jours si évoluées, sont capables de maîtriser leurs inventions, d’en faire un usage raisonné qui intègre la possibilité d’une limitation. Cornelius Castoriadis disait ainsi qu’une société qui « se poserait explicitement la question de la transformation consciente de sa technologie » connaîtrait une forme de liberté supérieure et « une révolution totale, sans précédent dans l’histoire21 ».

Dans le cas de l’informatique, compte tenu du déferlement que nous vivons depuis plusieurs décennies, transformer consciemment les choses nécessite pour commencer un freinage, une décélération. Il s’agirait d’introduire de la contingence et de la délibération dans une trajectoire jusqu’ici exclusivement définie par l’intérêt marchand et l’idéologie du « toujours plus, toujours plus vite ». Il nous semble que c’est le sens de l’action des nombreux groupes opposés à la pose des compteurs Linky à travers la France, dont toute une partie est désormais en train d’englober la 5G dans leur périmètre de réflexion et de contestation : ces milliers de citoyens sentent qu’il y a quelque chose de problématique dans l’accumulation même des technologies, la vitesse à laquelle elles transforment leurs vies sans qu’existe jamais le moindre espace sociopolitique où leur nécessité, leurs effets à long terme, le rythme et les conditions de leur développement puissent être discutés – réellement discutés. Tels des zadistes, ils réclament donc que certains grands projets industriels soient mis en pause, pour que l’ensemble de la société puisse s’informer et réfléchir à ce qui est souhaitable et à ce qui ne l’est pas. Or, pour toute une partie du camp progressiste, l’opportunité d’une telle mise en question reste peu évidente. S’interroger sur la nécessité de l’innovation permanente, voire remettre en cause l’usage de technologies déjà existantes, n’est-il pas vain ou secondaire, tant que nous vivons sous un régime de propriété lucrative, de concurrence et de profit privé ? Cela ne risque-t-il pas même de brouiller le débat politique, de détourner de précieuses énergies de la lutte prioritaire pour la redistribution économique et le changement des rapports sociaux ? À ces objections classiques, nous répondons que la technologie fait partie des rapports sociaux : elle contribue à les façonner ; elle a un impact sur le degré d’exploitation des salariés, sur la forme que prend la vie quotidienne, sur les possibilités de révolte qui sont laissées aux dominés. Vouloir changer les techniques en usage dans le sens de plus d’autonomie et de démocratie22 s’inscrit donc tout à fait légitimement dans un projet d’émancipation sociale, comme le soulignait Herbert Marcuse dès 1964 :

Le capitalisme avancé fait entrer la rationalité technique dans son appareil de production, malgré l’emploi irrationnel qui en est fait. Cela vaut pour l’outillage mécanisé, pour les usines, pour l’exploitation des ressources, cela vaut aussi pour la forme du travail, (…) « exploité scientifiquement ». Ni la nationalisation, ni la socialisation par elles-mêmes ne changent cet aspect matériel de la rationalité technologique (…). Certes, Marx soutenait que si les « producteurs immédiats » organisaient et dirigeaient l’appareil productif, il y aurait un changement qualitatif dans la continuité technique, c’est-à-dire que la production viserait à satisfaire les besoins individuels qui se développeraient librement. Cependant, dans la mesure où l’existence privée et publique dans toutes les sphères de la société est engloutie dans l’appareil technique établi (…), un changement qualitatif implique un changement de la structure technologique elle-même.

Herbert Marcuse, L’Homme unidimensionnel, Minuit, 1968 [1964], p. 48-49.

C’est un tel changement d’horizon que suggèrent les escarmouches récentes autour des projets d’informatisation complète du monde : ne plus attendre un hypothétique renversement ou affaiblissement du capitalisme pour discuter des technologies souhaitables ou acceptables ; mais tenter d’empêcher ici et maintenant l’aggravation des inégalités, l’accroissement du pouvoir des couches dirigeantes et le recul de la liberté, en grippant des rouages essentiels du système par des stratégies de désobéissance civile. La proposition de réduire massivement notre usage des technologies de pointe et d’entrer en lutte contre les politiques publiques qui les promeuvent ne relève pas simplement de la morale (morale sanitaire, morale écologique, morale « existentielle » …) ; c’est aussi une proposition stratégique, qui fait le pari que s’opposer individuellement et collectivement à l’informatisation de nos vies peut nous permettre de sortir de l’impuissance, de retrouver une prise sur le monde, un levier pour nuire enfin aux puissants.

 

Matthieu Amiech

 

NOTES

1.      rapport intitulé « Dématérialisation et inégalités d’accès aux services publics » est consultable à l’adresse https://www.defenseurdesdroits.fr/sites/default/files/atoms/files/rapport-demat-num-21.12.18.pdf[]

2.      Voir l’article de Gaspard d’Allens sur l’action du 31 janvier en gare de Matabiau, contre cette politique : https://reporterre.net/Des-humains-plutot-que-des-machines-usagers-et-cheminots-contestent-la-numerisation-des[]

3.      Je pense notamment aux enquêtes de Tomjo, de Pièces et main d’œuvre, de la revue annuelle ; mais aussi aux chroniques régulières d’Alain Gras, François Jarrige et Pierre Thiesset dans le mensuel La Décroissance[]

4.      Pour une critique de l’informatisation du monde qui dépasse ces quatre points, on peut se reporter à Hervé Krief, Internet ou le retour à la bougie, Quartz, 2018 ; Pièces et main d’œuvre, Manifeste des chimpanzés du futur. Contre le transhumanisme, 2017 ; et bien sûr le livre du groupe MARCUSE auquel j’ai participé : La Liberté dans le coma. Essai sur l’identification électronique et les motifs de s’y opposer, La Lenteur, 2019.[]

5.      Extrait du livre de Zuboff co-écrit avec James Maxmin, The Support Economy, Penguin, 2002, cité par Frédéric Joignot, dans son article « La surveillance, stade suprême du capitalisme ? », dans Le Monde du samedi 15 juin 2019, p. 24-25.[]

6.      Cf. Shoshana Zuboff, « Un capitalisme de surveillance », in Le Monde diplomatique n° 778, janvier 2019.[]

7.      Chiffres donnés en 2018 par l’agence médias belge Space.[]

8.      Cf. Michel Bauer et Elie Cohen, Qui gouverne les groupes industriels ? Essai sur l’exercice du pouvoir du et dans le groupe industriel, Paris, Le Seuil, 1981.[]

9.      C’est ainsi que le maire de Nice, Christian Estrosi, a demandé à Enedis d’avoir accès aux données des compteurs Linky pour savoir si les propriétaires de résidences secondaires s’étaient réfugiés dans sa ville, au début du confinement. Enedis ne semble pas avoir donné suite à cette demande (source : L’Age de faire, n°151, mai 2020, p. 18).[]

10.  Cédric Villani, Donner un sens à l’intelligence artificielle. Pour une stratégie nationale et européenne, rapport de mission parlementaire remis au Premier ministre en 2018, disponible à l’adresse https://www.vie-publique.fr/sites/default/files/rapport/pdf/184000159.pdf[]

11.  Voir à ce propos la mise au point tranchée de Julia Laïnae et Nicolas Alep, Contre l’alternumérisme. Pourquoi nous ne vous proposerons pas d’« éco gestes numériques » ni de solutions pour une « démocratie numérique », La Lenteur, 2020.[]

12.  Un exemple de ce genre de tableau intéressant mais fondamentalement lacunaire est fourni par Thomas Coutrot, dans Contre l’organisation du travail, La Découverte (Repères), 1999.[]

13.  D’après un rapport d’IBM cité par Alexandre Laumonnier, 6, Zones sensibles, 2013.[]

14.  Cf. Guillaume Duval, L’entreprise efficace à l’heure de Swatch et McDonald’s. La seconde vie du taylorisme, Paris, Syros-Alternatives économiques, 2000 ; Danièle Linhart et Aimée Moutet (dir.), Le Travail nous est compté. La construction des normes temporelles du travail, Paris, La Découverte, 2005.[]

15.  « Écran total, contre la gestion et l’informatisation de nos vies » (mai 2016), disponible à l’adresse https://sniadecki.wordpress.com/2016/09/13/plate-forme-ecran-total/[]

16.  Cf. Anna Bednik, Extractivisme. Exploitation industrielle de la nature : logiques, conséquences, résistances, Paris, Le Passager clandestin, 2016, p. 112.[]

17.  Célia Izoard, « Les bas-fonds du capital », in Guyane. Trésors et conquêtes, revue Z, n°12, automne 2018, p. 12-13-14.[]

18.  Proposées par Andrae Anders S.G. et Edler Tomas, in « On Global Electricity Usage of Communication Technology : Trends to 2030 », Challenges 6, 2015, p. 117-157. Dans leur rapport de 2019 pour l’ADEME, L’impact social et énergétique des data centers sur les territoires, Cécile Diguet et Fanny Lopez resituent ces projections dans un ensemble de scénarios plus ou moins extrêmes.[]

19.  Voir le rapport dirigé par Hugues Ferreboeuf pour le « think tank » Shift Project : Lean ICT- Pour une sobriété numérique (2018). Soulignons que ces statistiques établies il y a trois ou quatre ans ont toutes les chances d’être complètement dépassées suite à l’épisode de confinement que nous venons de vivre, et qui a concerné (ou concerne encore) plusieurs milliards de personnes dans le monde.[]

20.  Cf. l’article du physicien belge (et ancien eurodéputé) Paul Lannoye, « Avec la 5G… tous cobayes ? », dans Kairos n° 37, décembre 2018 (https://www.kairospresse.be/article/avec-la-5g-tous-cobayes/) ; et celui de Laury-Anne Cholez, « La 5G se déploie alors que ses effets sur la santé ne sont pas évalués », en date du 25 février 2020 pour le quotidien en ligne Reporterre (https://reporterre.net/La-5G-se-deploie-alors-que-ses-effets-sur-la-sante-ne-sont-pas-evalues[]

21.  Cornélius Castoriadis, Les Carrefours du labyrinthe, Paris, Seuil, 2017 (première édition : 1978), p. 307.[]

22.  Voir la mise au point extraordinairement éclairante de Lewis Mumford, dans « Technique autoritaire, technique démocratique », publié dans Orwell et Mumford, la mesure de l’homme, La Lenteur, 2014.[]

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