venerdì 30 agosto 2019

Intervista a Raoul Vaneigem realizzata a opera di Nicolas Truong e pubblicata su Le Monde del 31 agosto 2019



le parti soppresse nella versione pubblicata da Le Monde sono state evidenziate in rosso


Un mondo che muore in un mondo che cambia
e viceversa
Da Hong Kong alla Francia, dal Brasile agli Stati Uniti, dal Rojava al Chiapas, l’umano e il disumano si manifestano sempre più diversi, sempre più opposti, sempre più inconciliabili. L’Italia mi sembra invece sedata da una commedia politica secolare che non ha più niente dell’arte. Disfatta l’Italia si finiscono di disfare gli italiani, definitivamente “ignari di Mazzini e Garibaldi” (vecchio detto genovese).
Nell’attesa che il popolo del pesto sfugga alla peste cercando un’uscita dall'’avanspettacolo di una politica ormai demenziale, popolata da maschere di una volgarità e di un’idiozia sconcertante, vi ho tradotto dal vivo questa intervista uscita su Le Monde che mi sembra interessante per tutti i sopravvissuti.
Sergio Ghirardi

Intervista a Raoul Vaneigem
realizzata a opera di Nicolas Truong e pubblicata su Le Monde  del 31 agosto 2019

Qual è la natura della mutazione – o del crollo – in corso? In che senso la fine di un mondo non è la fine del mondo, ma l’inizio di uno nuovo? Qual è questa civiltà che Lei vede timidamente spuntare tra le rovine della vecchia?

Per quanto abbia fallito nel mettere in atto il progetto di un’autogestione della vita quotidiana, il Movimento delle occupazioni, che fu la tendenza più radicale del maggio 1968, ha potuto comunque rivendicare una riuscita di considerevole importanza. Aveva suscitato una presa di coscienza che ha segnato un punto di non ritorno nella storia dell’umanità. La denuncia compatta del Welfare State [Lo Stato provvidenza] lo stato del benessere consumistico, della felicità venduta a rate aveva inferto un colpo mortale a virtù e a comportamenti imposti da millenni che erano considerati delle verità incontrovertibili: il potere gerarchico, il rispetto dell’autorità, il patriarcato, la paura e il disprezzo della donna e della natura, la venerazione dell’esercito, l’obbedienza religiosa e ideologica, la concorrenza, la competizione, la predazione, il sacrificio, la necessità del lavoro.
È emersa allora l’idea che la vita vera non poteva essere confusa con una sopravvivenza che riduce la sorte della donna e dell’uomo a quella di una bestia da soma e da preda. Si è creduto che questa radicalità fosse scomparsa, spazzata via dalle rivalità interne, dalle lotte di potere, dal settarismo contestatore; la si è vista soffocata dal governo e dal Partito Comunista il cui atteggiamento reazionario durante il maggio 68 fu la sua ultima vittoria di Pirro. In effetti, quella radicalità fu soprattutto divorata dalla formidabile ondata di un consumismo trionfante, lo stesso che è oggi rinsecchito, lentamente ma certamente, dall’impoverimento crescente.
Eppure, nonostante il recupero e il lungo soffocamento di questo movimento di emancipazione, qualcosa stava accadendo?
Ci si era dimenticati che l’incitamento forsennato a consumare portava in sé la dissacrazione dei valori antichi. La liberazione fittizia incoraggiata dall’edonismo da supermercato, propagava un’abbondanza e una varietà di scelta che avevano un solo inconveniente: quello di dover essere pagate all’uscita. Ne è scaturito un modello di democrazia in cui le ideologie sfumavano a vantaggio di candidati la cui campagna promozionale era condotta secondo le tecniche pubblicitarie più efficaci. Il clientelismo e il fascino morboso del potere hanno portato a termine la rovina di un pensiero di cui l’ultimo governo francese in ordine di data non teme di esibire l’incredibile degrado (per non parlare di quello italiano NdT).
Cinque decenni hanno fatto dimenticare che sotto la coscienza proletaria, polverizzata dal consumismo, si manifestava una coscienza umana il cui lungo assopimento non ne ha impedito l’improvviso risorgere. La civiltà mercantile non è ormai che il ticchettio di una macchina che fa a pezzi il mondo per sminuzzarlo in profitti borsistici. Tutto s’inceppa dall'’alto. Quel che nasce dal basso e prende la sua sostanza nel corpo sociale, è un senso dell’umanità, una priorità dell’essere. Orbene, l’essere non ha il suo posto nella bolla dell’avere, tra i meccanismi della mondializzazione affarista. Che la vita dell’essere umano e lo sviluppo della sua coscienza affermino ormai la loro priorità nell’insurrezione in corso, è quanto mi autorizza a evocare lo sbocciare di una civiltà in cui per la prima volta la facoltà creatrice inerente alla nostra specie andrà liberandosi della tutela oppressiva degli Dei e dei signori.
Dal 1967 Lei non cessa di descrivere l’agonia della civiltà mercantile. Eppure essa perdura e si sviluppa ogni giorno di più all’epoca del capitalismo finanziario e digitale. Non si trova prigioniero di una visione progressista (o teleologica) della storia che Lei condivide con il neoliberalismo pur combattendolo?
Non so che farmene delle etichette, delle categorie e altri cassetti di stoccaggio dello spettacolo. L’inconveniente di un sistema che s’inceppa è che il suo cattivo funzionamento può durare a lungo. Parecchi economisti urlano come aquile nell’attesa di un crac finanziario ineluttabile. Catastrofismo o no, l’implosione della bolla monetaria è nell’ordine delle cose.
L’effetto auspicabile di un capitalismo che continua a gonfiarsi fino a scoppiare è che, come un governo che in nome della Francia, reprime, condanna, mutila, acceca e impoverisce il popolo francese, incita quelli che stanno in basso a difendere, innanzitutto, la loro vita quotidiana. Stimola la solidarietà locale, incoraggia a rispondere con la disobbedienza civile e con l’autorganizzazione a chi rende redditizia la miseria; invita a riprendere in mano la res publica, la cosa pubblica rovinata ogni giorno di più dalla truffa delle potenze finanziarie. Che gli intellettuali dibattano sui concetti di moda nelle tristi arene dell’egotismo, è un loro diritto.
Mi si permetterà di interessarmi piuttosto alla creatività che sta reinventando nei villaggi, nei quartieri, nelle città, nelle regioni, l’insegnamento rovinato dalla chiusura delle scuole e dall’educazione concentrazionaria; all’inventiva che si sta preoccupando del restauro dei trasporti pubblici; di scoprire nuove sorgenti di energia gratuita; di propagare la permacultura rivitalizzando le terre avvelenate dall’industria agroalimentare; di promuovere l’orticultura e un cibo sano; di festeggiare l’aiuto reciproco e la gioia solidale. La democrazia è nelle piazze non nelle urne.
Parlare di “totalitarismo democratico” o di “cupidigia concentrazionaria” a proposito del nostro mondo è una maniera adeguata di descrivere la realtà oppure è una inclinazione rivoluzionaria esagerata?

Denunciare gli oppressori e i manipolatori non mi pare più necessario, tanto la menzogna è diventata evidente. Il primo venuto dispone di quella che potremmo chiamare la “scala di Trump” per misurare il livello di deficienza mentale dei falsificatori, senza ricorrere al giudizio morale. Tuttavia non è questo l’importante. Ci sono voluti anni di spappolamento cerebrale perché Goebbels potesse stimare che “più una menzogna è grossa, meglio è creduta”. Chi ha oggi sotto gli occhi lo stato del settore ospedaliero e nelle orecchie le promesse di miglioramenti ministeriali non ha alcuna difficoltà a capire che trattare il popolo come una massa d’imbecilli non fa che sottolineare il guasto psicopatologico della gente di potere.
Non ho altra possibilità che scommettere sulla vita. Voglio credere che esista sotto il ruolo e la funzione di poliziotto, di giudice, di procuratore, di giornalista, di politico, di manipolatore, di tribuno, di esperto in sovversione, un essere umano che sopporta sempre meno l’assenza di autenticità vissuta alla quale condanna l’alienazione della menzogna lucrativa.
La preoccupazione di spingere alla rivoluzione, la ricerca di un plus-valore, non mi riguardano. Non sono né capo, né gestore di un gruppo, né guru, né maître à penser. Semino le mie idee senza preoccuparmi del suolo fertile o sterile in cui capiteranno. Nel caso specifico ho semplicemente modo di compiacermi dell’apparizione di un movimento che non è populista – come vorrebbero i fautori di un caos propizio agli intrighi – ed è invece un movimento popolare che fin dall'’inizio ha decretato il rifiuto dei capi e dei rappresentanti autoproclamati. Ecco quel che mi rassicura e mi conforta nella convinzione che la mia felicità personale è inseparabile da quella di tutte e di tutti.

Perché si è instaurato un faccia a faccia tra “gauchismo paramilitare” e “orde poliziesche”, in particolare dopo le manifestazioni contro la legge sul lavoro (La Loi travail dell’otto agosto 2016 – NdT)? E come uscirne?

I tecnocrati si ostinano con un tale cinismo a tormentare il popolo come una bestia presa in trappola dalla loro arrogante impotenza, che c’è da stupirsi della moderazione di cui fa prova la collera popolare. Il Black Bloc è l’espressione di una collera che la repressione poliziesca ha il compito d’istigare. È una collera cieca della quale i meccanismi del profitto mondiale hanno facilmente ragione. Fare a pezzi dei simboli non vuol dire fare a pezzi il sistema. Peggio che una stupidaggine è uno sfogo frettoloso, insoddisfacente, frustrante, è la deviazione di un’energia che sarebbe più utile nell’indispensabile costruzione di Comuni autogestite. Non sono solidale con alcun movimento paramilitare e auspico che il movimento dei Gilet gialli in particolare e della sovversione popolare in generale non si faccia prendere da una collera cieca nella quale s’insabbierebbero la generosità del vivente e la sua coscienza umana. Punto sull’espansione del diritto alla felicità, su un “pacifismo insurrezionale” che farebbe della vita un’arma assoluta, un’arma che non uccide.

Il movimento dei Gilet gialli è un movimento rivoluzionario o reazionario?

Il movimento dei Gilet gialli è soltanto l’epifenomeno di uno sconvolgimento sociale che ratifica la rovina della civiltà mercantile. È solo l’inizio e avviene ancora sotto lo sguardo inebetito degli intellettuali, questi resti di una cultura sclerotizzata che hanno tenuto tanto a lungo il ruolo di guide del popolo e non riescono a capacitarsi di essere messi da parte di punto in bianco. Ebbene il popolo ha deciso di non avere altra guida che se stesso. Brancolerà, balbetterà, sbaglierà, cadrà, si rialzerà ma ha in lui quella luce del passato, quell’aspirazione a una vita vera e a un mondo migliore che i movimenti di emancipazione, un tempo repressi, saccheggiati, schiacciati hanno affidato, nel loro slancio spezzato, al nostro presente per riprenderli alla fonte e completarne il corso.

La sua concezione dell’insurrezione è contemporaneamente radicale (rifiuto di dialogare con lo Stato, giustificazione del sabotaggio, ecc.) e misurata (rifiuto della lotta armata, della collera ridotta alla distruzione, ecc.). Quali sono i limiti della collera insurrezionale? Qual è la sua etica dell’insurrezione?

Dopo la fiammata del maggio 68, non vedo altre insurrezioni se non l’apparizione del movimento zapatista in Chiapas, l’emergenza di una società comunalista nel Rojava, ma anche, in un contesto molto diverso, la nascita e la moltiplicazione di ZAD, zone da difendere in cui la resistenza di una regione all’instaurarsi di nocività ha creato una solidarietà del “vivere insieme”. Ignoro che cosa significhi un’etica dell’insurrezione. Ci troviamo di fronte semplicemente ad esperienze piene di gioie e di furori, di sviluppi e di regressioni. Tra gli interrogativi che emergono, due mi sembrano indispensabili. Come impedire l’imperversare di paramilitari statalisti che devastano i luoghi di vita in cui la gratuità non ha accordi possibili con il principio di profitto? Come evitare che una società che sostiene l’autonomia individuale e collettiva permetta il ricostituirsi nel suo seno della vecchia opposizione tra la gente di potere e una base troppo poco fiduciosa nelle sue potenzialità creatrici?

Né patriarcato né matriarcato, Lei dice. Perché bisogna andare oltre il virilismo e il femminismo? E che cosa intende per l’instaurazione della “preminenza acratica della donna”?

La trappola del dualismo è che impedisce il superamento. Non ho lottato contro il patriarcato affinché gli succeda un matriarcato che è la stessa cosa a rovescio. C’è del maschile nella donna e del femminile nell’uomo, ecco una gamma abbastanza vasta perché la libertà del desiderio amoroso inventi le sue varietà a piacere. Quel che mi appassiona nella donna e nell’uomo è l’essere umano. Non mi si farà ammettere che l’emancipazione della donna consiste nell’accedere a quel che ha reso il maschio tanto spesso disprezzabile: il potere, l’autorità, la crudeltà guerriera e predatrice. Una donna ministro, capo di Stato, poliziotto, affarista non è meglio del maschio che l’ha considerata meno di niente. Per contro, sarebbe ora di rendersi conto che esiste una relazione tra l’oppressione della donna e quella della natura. Entrambe appaiono al momento del passaggio dalle civiltà preagrarie alla civiltà agro mercantile delle Città-Stato. Mi è parso che la società che si abbozza adesso debba, in virtù di una nuova alleanza con la natura, marcare la fine dell’antiphysis (dell’antinatura) e conseguentemente riconoscere alla donna la preminenza acratica – cioè priva di potere – di cui essa godeva prima dell’instaurazione del patriarcato. Ho preso il termine dalla corrente libertaria spagnola degli acrates.

(In questa intervista scritta che Raoul Vaneigem ha concesso al giornale Le Monde (pubblicata il 31/8/2019) la questione seguente è stata eliminata così come l’integralità della risposta senza informarne l’autore.)

Perché Lei considera che l’intellettuale sia “un poeta che si rinnega” e giudica vane le controversie intellettuali (dal post strutturalismo al femminismo, dal survivalismo all’animalismo)?

La poesia è la vita. L’intellettuale si glorifica di una funzione altrettanto alienante della funzione manuale – entrambe derivate dal lavoro e dalla sua divisione. Alle prese con il corpo di cui doma le pulsioni anziché affinarle, è uno spirito le cui idee, per quanto interessanti possano essere, sono separate dal vivente e da quell’intelligenza sensibile che emana dalle nostre pulsioni vitali. Le idee “escogitate dalla testa” nutrono un’intelligenza astratta che non si stacca mai dal potere che intende esercitare sul corpo e sul corpo sociale.

Lei scrive che “la Comune revoca il comunitarismo”. Che cosa le permette di pensare che una volta arrivata l’epoca dell’autogestione della vita, i problemi sociali (rapporto di dominio di ogni tipo, misoginia, ideologia identitaria, ecc.) saranno risolti? In che cosa l’emergere di un nuovo stile di vita metterebbe al riparo dall'’egoismo, dal potere e dai pregiudizi?

Niente è mai acquisito, ma la coscienza umana è un possente motore di cambiamento. Durante una conversazione con il “sottocomandante insorto” Moises, nella base zapatista della Realidad, in Chiapas, egli spiegava che “i Maya sono sempre stati misogini. La donna era un essere inferiore. Per cambiare questo abbiamo dovuto insistere affinché le donne accettassero di esercitare un mandato nella giunta di buon governo in cui sono discusse le decisioni delle assemblee. Oggi la loro presenza è molto importante, le donne lo sanno, e a nessun uomo verrebbe più l’idea di trattarle dall'’alto”. Si è sempre identificato il progresso con il progresso tecnico che da Gilgamesh ai giorni nostri è gigantesco. Tuttavia a giudicare dal divario tra la popolazione delle prime Città-Stato e i popoli odierni sottomessi alle leggi del profitto, il progresso della sorte riservata all’umano è altrettanto incontestabilmente infimo. Forse il tempo è venuto di esplorare le immense potenzialità della vita per favorire infine il progresso dell’essere e non dell’avere.

In che cosa lo zapatismo è uno dei tentativi più riusciti dell’autogestione della vita quotidiana?

Come dicono gli zapatisti: “Noi non siamo un modello, siamo un’esperienza”. Il movimento zapatista è nato da una collettività contadina maya. Non è esportabile ma è possibile trarre lezioni dalla nuova società di cui tenta di gettare le basi. La democrazia diretta postula l’offerta di mandatari che appassionati da un dominio particolare propongono di mettere il loro sapere a disposizione della comunità. Sono delegati, per un tempo limitato, alla giunta di buon governo, dove rendono conto nelle assemblee dei risultati del loro operato. La messa in comune delle terre ha avuto ragione dei conflitti, spesso sanguinosi, che coinvolgevano i proprietari di parcelle. Il divieto della droga dissuade l’intrusione dei narcotrafficanti, le cui atrocità infieriscono su una gran parte del Messico. Le donne hanno ottenuto il divieto dell’alcol che rischiava di ravvivare le violenze machiste di cui sono state a lungo le vittime. L’Università della terra di S. Cristobal dispensa un insegnamento gratuito dei mestieri più diversi. Nessun diploma è rilasciato. Le sole esigenze sono il desiderio di apprendere e la voglia di propagare ovunque il proprio sapere. C’è in questo una semplicità capace di sradicare la complessità burocratica e la retorica astratta che ci strappano a noi stessi durante tutta l’esistenza. La coscienza umana è un’esperienza in corso.


(In questa intervista scritta che Raoul Vaneigem ha concesso al giornale Le Monde (pubblicata il 31/8/2019) la questione seguente è stata eliminata così come l’integralità della risposta senza informarne l’autore.)

È possibile uscire dalla spirale della violenza?

Bisogna porre la questione al governo ricordandogli il proposito di Blanqui:” Sì signori, è la guerra tra ricchi e poveri, i ricchi hanno voluto così e sono loro, in effetti, gli aggressori. Solamente considerano un’azione nefasta che i poveri oppongano una resistenza. Direbbero volentieri, parlando del popolo: questo animale è così feroce che si difende quando è attaccato”. Il progetto di Blanqui, che sostiene la lotta armata contro gli sfruttatori, merita di essere esaminato alla luce dell’evoluzione congiunta del capitalismo e del movimento operaio che lottava per annientarlo.
La coscienza proletaria che aspirava a fondare una società senza classi è stata una forma transitoria con cui la storia ha rivestito la coscienza umana in un’epoca in cui il settore della produzione non aveva ancora ceduto il posto alla colonizzazione consumistica. È questa coscienza umana che risorge oggi nell’insurrezione di cui i Gilet gialli non sono che un segno precursore. Assistiamo all’emergenza di un pacifismo insurrezionale che con la sola arma di un’irreprimibile volontà di vivere, si oppone alla violenza distruttrice del governo. Perché lo Stato non può e non vuole intendere le rivendicazioni di un popolo cui è stato gradualmente strappato quel che costituiva il suo bene pubblico, la sua res publica.
In tutta evidenza, la dignità umana e la determinazione testarda degli insorti risparmiano precisamente agli impostori della repubblica un’ondata di violenza che li colpirebbe fisicamente fin nei loro ghetti di denaro sporco. Per colmo dell’assurdo, essi non trovano niente di meglio da fare che prendere di mira un movimento che evita loro un giusto ritorno al mittente delle loro violenze. Eccitano i loro cani da guardia mediatici e polizieschi. Accecano, imprigionano, assassinano impunemente. Moltiplicano le provocazioni esibendo agli occhi dei più poveri i loro segni esteriori e risibili di ricchezza. La loro preoccupazione di recuperare, se non d’incoraggiare in modo oculato, i devastatori di spazzatura e di vetrine non è forse la prova che hanno bisogno non di una vera guerra civile ma del suo spettacolo, della sua messa in scena? Come ognuno sa, il caos è propizio agli affari.
I dirigenti non hanno altro sostegno che il profitto la cui disumanità li logora. Hanno come sola intelligenza il denaro che ne ha occupato il posto. Sono la barbarie di cui gli insorti non smetteranno di annullare la legittimità usurpata.
Privilegiare l’essere umano, organizzarsi senza capi né delegati autoproclamati, assicurare la preminenza dell’individuo cosciente sull’individualista belante del gregge populista, ecco, per l’insurrezione in corso e per le popolazioni del globo, le migliori garanzie del crollo del sistema oppressivo e della sua violenza distruttrice.

Il clima si surriscalda, la biodiversità si erode e l’Amazzonia brucia. La lotta contro la devastazione della natura che mobilita una larga parte della popolazione mondiale e della sua gioventù può essere una delle leve di quella “insurrezione pacifista” che Lei sostiene?

L’incendio della foresta amazzonica fa parte del vasto programma di desertificazione che la rapacità capitalista impone agli Stati del mondo intero. È per lo meno ridicolo indirizzare delle lamentele agli Stati che non esitano a devastare i loro territori nazionali in nome della priorità accordata al profitto. In ogni dove i governi deforestano, soffocano gli oceani riempiendoli di plastica, avvelenano deliberatamente il cibo. Gas di scisto, estrazioni petrolifere e aurifere, interramento di scorie nucleari sono solo un dettaglio a riguardo del degrado climatico accelerato quotidianamente dalla produzione di nocività da parte d’imprese vicine a noi, a portata di mano del popolo che ne è vittima.
I governi obbediscono alle leggi di Monsanto e accusano d’illegalità un sindaco che vieta i pesticidi sul suo territorio comunale. Lo si accusa di proteggere la salute degli abitanti. Ecco dove si situa la lotta, alla base della società, là dove la volontà di una vita migliore scaturisce dalla precarietà delle esistenze.
In questa lotta il pacifismo non ha spazio. Voglio eliminare ogni ambiguità. Il pacifismo rischia di essere soltanto una pacificazione, un umanesimo che spinge al ritorno alla cuccia dei rassegnati. Del resto niente è meno pacifico di un’insurrezione, ma niente è più odioso delle guerre condotte dal gauchismo paramilitare i cui capi si dedicano a imporre il potere su un popolo che si vantano di liberare.
Pacifismo sacrificale e intervento armato sono i due poli di una contraddizione da superare. La coscienza umana avrà progredito in maniera sensibile quando i sostenitori del pacifismo belante avranno capito di concedere allo Stato il diritto di manganellare e di mentire ogni volta che si prestano al rituale delle elezioni scegliendo, secondo le libertà della democrazia totalitaria, dei rappresentanti che non rappresentano che se stessi, ogni volta che avallano per plebiscito degli interessi pubblici che diventeranno degli interessi privati.
Quanto ai sostenitori di una collera vendicativa, possiamo sperare che stanchi dei giochi di ruoli messi in scena dai mass media, imparino e s’impegnino a portare la stoccata laddove i colpi toccano veramente il sistema: il profitto, la redditività, il portafoglio. Propagare la gratuità è l’aspirazione più naturale della vita e della coscienza umana di cui essa ci ha accordato il privilegio. L’aiuto reciproco e la solidarietà festiva di cui fa mostra l’insurrezione della vita quotidiana sono un’arma di cui nessun’arma letale verrà a capo.
Non distruggere mai un essere umano e non smettere mai di distruggere quel che lo disumanizza. Annientare quel che pretende di farci pagare il diritto imprescrittibile alla felicità.

Utopia? Girate la questione come vi pare. Non abbiamo altra possibilità se non osare l’impossibile o strisciare come larve sotto il tallone di ferro che ci schiaccia.
Biarritz G7 


sabato 10 agosto 2019

Viva la Comune d’Europa!




Un secolo e mezzo dopo che Marx ripeteva a iosa di non essere marxista e mezzo secolo dopo che Bookchin ha scritto “Listen Marxiste!”[1] per denunciare il dogmatismo dei preti rossi (che siano bruni, neri o gialli, poco importa il colore del misticismo) di tutti i paesi e di tutte le ideologie di raccatto, dei nuovi chierichetti sniffano il sovranismo per rivitalizzare il sacro mentre gli ultimi diavoletti libertari prigionieri dello spettacolo si accontentano della foglia di fico di un internazionalismo da salotto.
Con nemici così il capitale non ha più bisogno di amici. Infatti, con l’uso confusionista e reazionario del termine di sovranismo si cortocircuita, banalizzandolo, il tema fondamentale della nazione (concetto evidentemente indispensabile per formulare quello d’internazionalismo) sulla cui falsificazione storico-filosofica si fonda il Leviatano produttivista nella sua forma moderna capitalistica[2].
La civiltà produttivista ha visto la luce con il passaggio dall'’agricoltura organica (legata al valore d’uso) a quella totalmente acquisita al valore di scambio da cui deriva l’economia politica (processo plurimillenario che la coscienza storica e antropologica dominante continua a ignorare – vedi in proposito l’interessante Homo Domesticus di H. C. Scott) e si è manifestata concretamente attraverso la sua struttura gerarchica e patriarcale con la nascita delle città-stato dell’inizio della civiltà agraria e mercantile.
In seguito, dopo millenni di sviluppo della civiltà mercantile fino alla sostituzione dell’ideologia teologica con quella pseudoscientifica dell’economia politica, il passaggio dal Leviatano feudale al Leviatano capitalista si è fatto con la vampirizzazione della nazione antropologica nello Stato-nazione che ha trasformato le gerarchie celesti dell’Ancien Régime nelle gerarchie terrestri della modernità capitalista. Lo Stato nazione è stato il testimone del passaggio nella continuità dall'Ancien Régime aristocratico alla società borghese cosiddetta moderna.
Laddove le radici della nazione organica (la gemeinwesen di cui parlava un Marx assai poco marxista) sono la base per un internazionalismo fraterno – o ancor meglio sororale – il sovranismo (che si realizza attraverso la gemeinschaft, comunità produttivista criticata dal barbuto di Treviri dal quale prende nome il marxismo)[3] è la regressione allo stadio di un nazionalismo che non basta esecrare a parole se si vuole respingere la peste emozionale fascista in agguato. Questa è, infatti, una patologia per sua natura ferocemente aggressiva contro barbari e stranieri, presunti invasori di una nazione trafficata (Stato-nazione), paranoica e bellicosa, ridotta a un territorio accerchiato da nemici e predatori, la cui popolazione, odiante e impaurita, è in cerca di nuovi spazi vitali e mitici posti al sole. Così, in effetti, lo Stato mascherato da nazione giustifica la sua intrinseca tendenza alla predazione imperialista che lo spinge a dominare il nemico preso di mira per taglieggiarlo e schiavizzarlo secondo le esigenze del produttivismo mercantile e guerriero, patriarcale e caratterialmente fascista.
Opporre al sovra nazionalismo della fase terminale del capitale (la cui tendenza è la concentrazione monopolistica del potere attraverso la riduzione del numero di Stati partecipanti alla mondializzazione mercantile) la nazione fantasma dello Stato sovrano del produttivismo arcaico, equivale a proporre la città-stato invece della Comune. Perché sia chiaro: la Comune è la città emancipata dallo Stato e autogestita da liberi cittadini. Con essa la cittadinanza, decisa ad abrogare lo Stato nella città e nel mondo, riprende in mano la gestione della vita quotidiana attraverso l’assemblea locale e le assemblee allargate progressivamente per mezzo di deleghe revocabili e sotto permanente controllo della base popolare.
La città-stato e lo Stato-Nazione sono stati le strutture dell’evoluzione alienante del principio gerarchico necessario allo sfruttamento di genere e di classe da parte delle minoranze dominanti durante tutta la civiltà produttivista: clero, guerrieri e mercanti hanno inventato dappertutto lo Stato per imporre e dominare il mercato nella città, nella nazione e nel mondo. La mondializzazione è iscritta fin dal principio nella società produttivista e ha trovato nell’industrializzazione i mezzi per realizzare il suo sogno artificiale, al prezzo dell’incubo della distruzione progressiva della vita naturale.
All’Europa sovranazionale di oggi (cioè un super Stato ancora meno controllabile che gli Stati nazione da parte dei cittadini di ogni Comune locale delle diverse nazioni antropologiche) non si tratta di opporre il sovranismo nazionale passato, ma la federazione delle comunità locali autonome, future e presenti.
Come hanno capito i Curdi del Rojava e gli zapatisti del Chiapas, non si tratta di elemosinare alle istanze statali l’indipendenza, ma di conquistare l’autonomia dallo Stato fino alla sua abrogazione decisa da una federazione di libere Comuni a democrazia diretta[4] In effetti, emerge finalmente la coscienza collettiva che la democrazia reale è incompatibile con lo Stato e con una democrazia parlamentare che è l’ultima truffa capitalistica della lotta di classe e di genere.
Per quanto riguarda il vecchio continente europeo, questa transizione in via di affermazione ineluttabile – ormai necessaria per salvare la sopravvivenza stessa della specie – sarà il passaggio dal super Stato europeo produttivista[5] alla Comune d’Europa, elaborata come federazione dei Consigli di tutte le Comuni locali, regionali e plurinazionali delle diverse popolazioni europee.
Certo, questo cammino verso la liberazione di donne e uomini dal feticismo della merce è ancora tutto da compiere, ma è imperativo cominciare a formularlo concretamente per arginare il confusionismo che opera a 360 gradi in favore del mantenimento del Leviatano statalista e produttivista. Il desiderio di liberarsi del vampiro che succhia il sangue umano da millenni è impellente e destinato a crescere intensamente di fronte al crollo ormai tangibile del sistema dominante e dell’industrialismo tecnocratico che ne è l’essenza. Una civiltà sta finendo e i servitori volontari piagnucolosi di un sovranismo desueto non hanno alcuna voce in capitolo nell’emancipazione dei popoli, degli individui e delle loro felicità desiderabili.
Che i sacrestani del vecchio mondo raccolgano il loro marxismo stantio per mescolarlo alla rinfusa con il liberalismo, il misticismo, il fascismo e tutte le altre ideologie che continuano a regolare i loro conti tra gerarchie autoritarie contro la volontà e il desiderio di emancipazione dei popoli.
Oltre che auspicabile, un altro mondo che comprenda molti mondi è l’unico ancora possibile.
Sergio Ghirardi, 14 luglio 2019
  


[1] Questo interessante articolo di Bookchin del 1969 è stato tradotto malamente in francese “Ascolta compagno!” (come se tutti i “compagni” fossero marxisti) mentre “Ascolta Marxista!” della traduzione italiana del 1979 di Post Scarcity Anarchisme, è una delle rare frasi non tradotte male di quell’illeggibile versione, fortunatamente esaurita ma purtroppo ancora reperibile su Internet (Il testo in questione, Oltre la penuria, l’anarchismo in una società d’abbondanza, è stato da me totalmente ritradotto da più di un anno e attende pazientemente un editore antiproduttivista).
[2] Nato come superamento del mondo feudale, il modo di produzione capitalista è arrivato ormai alla fase terminale dell’ideologia della crescita infinita in un mondo finito, diventando un modo di distruzione della biosfera e della vita che ne dipende.
[3] Marx distingueva la comunità organica, naturale (gemeinwesen) da quella artificiale, produttivista (gemeinschaft).
[4] Plausibile o no, questo è il vero obiettivo del municipalismo di Bookchin e compagnia.
[5] Europeo, cinese, indiano o americano che sia, un super Stato è sempre il risultato di un amalgama di precedenti Stati canaglia nazionali preesistenti, essi stessi nati sulle rovine di nazioni antropologiche violentate. Ogni Stato, passato, presente e futuro è lo sfruttatore di culture, lingue, costumi e produzioni di beni comuni privatizzati nel tempo da un qualche potere imperiale e/o federale. Dalle città-Stato agli Stati-nazione, fino ai super Stati recenti della mondializzazione, tutti sono responsabili di genocidi e stermini per arrivare al fine imperialista globale del Leviatano produttivista.