domenica 29 dicembre 2019

Pane di guerra Mario Silvestri - Isonzo 1917





Pane di guerra
Mario Silvestri - Isonzo 1917
                  
Merci vendute per lungo tempo a prezzi invariati, improvvisamente rincaravano senza alcuna apparente spiegazione. Violente imprecazioni si levavano allora contro i commercianti, accusati di speculare sulla pubblica fame per estorcere più cospicui guadagni. Protestavano con malcelata soddisfazione i socialisti e gli ex neutralisti; protestavano i partiti “interventisti” e i fautori dei metodi sbrigativi, che invocavano con disinvoltura la fucilazione sommaria dei colpevoli; protestavano, benché in tono più sommesso e rassegnato, i poveracci, che dovevano far quadrare il bilancio d’ogni giorno. Tutti poi chiedevano l’imposizione dei “calmieri”, nonostante i moniti di pochi scettici. Ma gli esperimenti calmieranti, tentati in moltissimi comuni,  diedero subito risultati disastrosi, gli stessi che erano seguiti all’editto di Diocleziano o alle gride del gran cancelliere Antonio Ferrer, di manzoniana memoria. Anziché diminuire di prezzo, la merce spariva dalle vetrine e veniva venduta sottobanco assai più cara. Ma la legge è protetta dal gendarme; e i giornali, in ciò concordi nonostante le diverse opinioni politiche, plaudivano agli agenti di polizia ed ai vigili urbani, che, entrando nei negozi come finti clienti, constatavano la violazione del calmiere e si rendevano benemeriti con multe ed arresti di pochi e sfortunati commercianti.
(…)
Ma vi era un genere essenziale, per il cui approvvigionamento non era permesso commettere sbagli. Alla fine del 1916 il pericolo della carestia si profilava grave, perché il governo ai primi di luglio aveva abbassato il prezzo ufficiale del grano da 40 a 36 lire al quintale, quando gli agricoltori si attendevano ragionevolmente un aumento. Tale riduzione, in un periodo di prezzi crescenti, era motivata dalla convinzione, che questo fosse il modo migliore per diminuire il prezzo del pane. Le conseguenze del provvedimento dissiparono in fretta ogni illusione: perché vennero ridotte le colture, nel momento in cui il trasporto del grano nord americano attraverso l’Atlantico diveniva sempre più malsicuro; e i contadini, avvezzi da tempo immemorabile a mangiar polenta e legumi, cominciarono ad apprezzare il pane, che era poco rimunerativo vendere; o preferirono darlo al bestiame, poiché nel frattempo era molto salito il prezzo delle biade, che i legislatori si erano scorati di calmierare.
Già nell’estate del 1916 la razione di pane dei soldati era stata ridotta da 750 a 600 grammi di pane al giorno

(…)
Ma l’aggravarsi della situazione esigeva ben altre restrizioni, che andarono in vigore in tutta Italia dal 1 gennaio 1917. Fra queste la più importante, escogitata dai funzionari del neo costituito ministero dell’Agricoltura, consisteva nel rendere il pane stesso poco meno che immangiabile. A tal fine venne imposta ai fornai la confezione di un’unica forma grossa e mal lievitata, cui era proibito apportare il rituale taglio trasversale, che facilita la cottura. Questo pane greve d’acqua e di crusca doveva per di più essere venduto raffermo il giorno dopo la cottura. Per correggere con un soffio di poesia l’indigesta composizione, la fantasia crudele del ministero dell’Agricoltura stabilì di premiare quei panettieri che meglio confezionassero il prescritto “pane di guerra”, assegnando loro una speciale medaglia commemorativa, di cui Gabriele d’Annunzio fu pregato di comporre l’iscrizione. Il poeta immaginifico accettò l’incarico e dettò:
Il pane di guerra / fatto con mano pura / è pane di comunione / dove la patria intera / transustanziata vive / come il Corpo del Redentore / nell’Offerta Eucaristica / anno di vittoria MCMXVII
Quando però alcuni volonterosi fornai vollero concorrere alla gara, non riuscirono a scoprire a chi dovessero rivolgersi per conoscere le modalità del concorso.
Il pane restò immangiabile, nonostante i versi e le medaglie, ma il suo consumo con sorpresa dei legislatori non diminuì. Anzi, dalle prime statistiche disponibili a Torino, risultò che il consumo, dopo i provvedimenti adottati, era aumentato, perché era aumentato lo spreco. E il “Corriere della Sera” annotava scandalizzato che a Milano nell’ora dei pasti si vedevano muratori esercitarsi al turo a segno sui passanti con palline di mollica.







mercoledì 27 novembre 2019

La rinascita dell’umano è la sola crescita che ci conviene - Nous sommes là où tout commence - Raoul Vaneigem 17 novembre 2019





La rinascita dell’umano è
la sola crescita che ci conviene


Camarades,
Il momento storico è unico, particolare e planetario, anche se, vista relativamente da lontano, l’Italia mi sembra una luna cloroformizzata da un’idiozia atemporale. Il mondo cambia, ma nello stivale di una Lega di troppo, delle stelle cadenti e di una piccola borghesia sinistra, Salvini, Di Maio e Zingaretti sono soltanto gli ultimi guitti di una demenza ereditata da un clericalismo plurisecolare, finito nel marciume di Berlusconi prima e di Renzi poi. Tuttavia, la lista sarebbe lunga per citare tutti i miserabili opportunisti che hanno prodotto lo (s)fascio mafioso di una nazione arraffando en passant i denari della comunità. Come i peggiori siano riusciti a farsi passare per statisti e politici di qualità, è un mistero che un popolo in perdizione ha subito sconcertato e impotente, quando non ha applaudito beceramente. Usque tandem?
Ciononostante, oltre l’imbarazzo di non sentirsi italiani pur rimanendolo intimamente per affetti e memoria storica, è con grande piacere che vi traduco nella lingua di Dante e di De André questo testo di Raoul Vaneigem che ho appena ricevuto.La sua poesia sovversiva, lucida e concreta, ci riporta al cuore della riflessione che, volenti o nolenti, finirà per riguardare anche l’Italia.
Buona lettura e felice rivoluzione sociale.
Sergio Ghirardi


Le mazzate che la libertà porta all’idra capitalista che la soffoca fanno fluttuare di continuo l’epicentro delle perturbazioni sismiche. I territori mondialmente defraudati dal sistema del profitto sono in preda a un afflusso improvviso di movimenti insurrezionali. La coscienza è obbligata a inseguire ondate successive di avvenimenti, a reagire a degli sconvolgimenti costanti, paradossalmente prevedibili e inopinati.
Due realtà si combattono e si urtano con violenza. Una è la realtà della menzogna. Beneficiando del progresso delle tecnologie, essa s’impegna nel manipolare l’opinione pubblica a favore dei poteri costituiti. L’altra è la realtà di quel che è vissuto quotidianamente dalle popolazioni.
Da un lato delle parole vuote partecipano al gergo degli affari, dimostrano l’importanza delle cifre, dei sondaggi, delle statistiche; architettano dei falsi dibattiti la cui proliferazione maschera i veri problemi: le rivendicazioni esistenziali e sociali. Le loro finestre mediatiche riversano ogni giorno la banalità delle truffe e dei conflitti d’interesse che ci riguardano unicamente per le loro conseguenze negative. Le loro guerre di devastazione redditizia non sono le nostre, non hanno altro scopo che dissuaderci dal combattere la sola guerra che ci riguarda, quella contro la disumanità mondialmente propagata.
Da un lato, secondo l’assurda verità dei dirigenti, le cose sono chiare: rivendicare i diritti dell’essere umano rileva della violenza antidemocratica. La democrazia consisterebbe dunque nel reprimere il popolo, nel lanciare contro di lui un’orda di poliziotti spinti a comportamenti di stampo fascista, la cui l’impunità è garantita dal governo e dai candidati dell’opposizione vogliosi di occuparne il posto. Immaginate a quali tremiti si dedicheranno gli zombi mediatici se l’immolazione tramite il fuoco di una vittima della pauperizzazione genererà l’incendio del sistema responsabile!
Dall'altro, la realtà vissuta dal popolo è altrettanto chiara. Nessuno ci farà ammettere che si possa ridurre a un oggetto di transazione mercantile l’obbligo del lavoro mal retribuito, la pressione burocratica che aumenta le tasse, diminuendo il montante delle pensioni e delle conquiste sociali, la pressione salariale che riduce la vita a una limitata sopravvivenza. La realtà vissuta non è una cifra, è un sentimento d’indegnità, è la sensazione di essere niente tra le grinfie dello Stato, un mostro che si riduce sempre di più a causa del prelievo delle malversazioni finanziarie internazionali.
Sì. È nello scontro tra queste due realtà – una imposta dal feticismo del denaro, l’altra che si rivendica del vivente – che una scintilla, spesso impercettibile, ha dato fuoco alle polveri.
Non c’è futilità che non  rischi oggi di scatenare la violenza della vita repressa, della vita risoluta a frantumare quel che la minaccia d’estinzione.
L’inerzia secolare e la letargia, tanto confortata dalla vecchia ricetta “panem et circenses”, fondano la formidabile potenza della servitù volontaria. Già denunciata da La Boétie nel XVI secolo, essa resta il nostro nemico più implacabile. Attaccandoci dall’interno, la servitù volontaria favorisce una propensione che agisce su molti come una droga: la volontà di esercitare un potere, di assumere il ruolo di guida. L’autorità di alcuni ha molto spesso infestato gli ambienti libertari con la sua morbosità. Bisogna dunque rallegrarsi della determinazione dei Gilet Jaunes e degli insorti della vita quotidiana nel ricordare senza sosta il loro rifiuto dei capi, dei delegati autoproclamati, dei maîtres à penser, delle ranocchie da acqua benedetta sia politiche che sindacali.
Liberi di attendere la morte nel confort congiunto della cassa da morto e della televisione quanti vogliono morire in pace, ma non permetteremo che il loro rimbambimento infesti la nostra volontà di vivere.
Quel che vogliamo, è la sovranità dell’essere umano. Niente di più e niente di meno!
La pauperizzazione bussa alla porta con una violenza crescente che finirà per sfondarla. Stop all’edonismo degli ultimi giorni martellato dallo slogan consumista e governativo: “Godete oggi che domani sarà peggiore!” Il peggio è ora, se continuiamo ad accomodarcene. Smettiamo di credere all’onnipotenza del capitalismo e del feticismo del denaro. Abbiamo imparato che la grande farsa macabra che fa ballare il mondo non obbedisce ormai più che a una piccola sordida molla, quella del profitto immediato dell’assurda rapacità di un negoziante fallito che raschia i fondi del cassetto.
Io non parlo di speranza. La speranza non è che l’illusione della disperazione. Parlo della realtà di tutte le regioni della terra in cui un’insurrezione della vita quotidiana – chiamatela pure come volete – si è messa a smantellare la dittatura del profitto e a rigettare gli Stati che l’impongono a dei popoli che pretendono di rappresentare. Quel che vogliamo, non è per domani ma adesso, come lo esprimono rigorosamente gli inservienti ospedalieri, le infermiere, gli infermieri, i medici del pronto soccorso e quelli confrontati alla gestione economica che disumanizza il settore ospedaliero.
Il sistema di sfruttamento della natura terrestre e della natura umana ha reso cupo l’orizzonte mondiale. La cappa della redditività a ogni costo non lascia alcuno sbocco alla generosità della vita e al senso umano che ne favorisce la pratica.
In tutta evidenza, sfruttatori e sfruttati sono persuasi che la marmitta sta per esplodere. La violenza è ineluttabile, ma non è questo il problema. La questione da risolvere senza ambiguità riposa su un’alternativa.


Tollereremo, dunque, che l’esplosione sociale sfoci in uno stato di guerra civile endemica, su un caos di vendette e di odi di cui beneficeranno in fin dei conti le mafie multinazionali, libere di proseguire impunemente, e fino all’autodistruzione, il loro progetto di desertificazione lucrativa?
Oppure ci decideremo a creare delle microsocietà affrancate dalla tirannia statale e mercantile, dei territori federati in cui l’intelligenza degli individui si liberi dell’individualismo gregario sempre in cerca di una guida suprema che lo conduca al macello? Oseremo finalmente prendere in mano il nostro destino e fare piazza pulita di una giungla sociale in cui le bestie da soma non hanno altra libertà che eleggere i predatori che le mangiano?
Nel 1888 Octave Mirbeau scriveva: “Le pecore vanno al macello. Non dicono nulla e non sperano niente. Almeno, però, non votano per il macellaio che le ucciderà e per il borghese che le mangerà. Più bestia delle bestie, più pecorone che le pecore, l’elettore nomina il suo macellaio e sceglie il suo borghese. Ha fatto delle rivoluzioni per conquistare questo diritto”.
Non siete forse stanchi di gettare in aria di generazione in generazione la stessa inutilizzabile moneta: testa il manganello dell’ordine, croce la menzogna umanitaristica? Non esiste il voto del “male minore”, c’è solo una democrazia totalitaria che solo la democrazia diretta esercitata dal popolo per il popolo potrà revocare. Di passaggio, mi ha divertito uno slogan che, per quanto sommario, invita a una riflessione più profonda: “Macron, Le Pen, Mélenchon, stessa lotta di coglioni!”. (Avrei preferito “stessa lotta di capponi”, ma il rifiuto di ogni forma di potere e di dialogo con lo Stato fa parte di quei piccoli piaceri da cui scaturiscono le grandi ondate del godimento individuale e collettivo).

Autonomie. Autorganizzazione, autodifesa
Le istanze al potere non tollereranno che il popolo si liberi della loro tirannia. Dobbiamo prepararci a una lunga lotta. Quella da condurre contro la servitù volontaria non sarà la meno importante. Il solo elemento di cui il dispotismo possa farsi forte è l’aggressivo bisogno di sicurezza dei rassegnati, il rancore suicida di una maggioranza definita silenziosa che urla il suo odio per la vita.
La miglior difesa è sempre l’attacco. A questo principio ampiamente dimostrato dalla tradizione militare, preferirei sostituire quello dell’apertura, perché al vantaggio di rompere l’accerchiamento si aggiunge il piacere di rompere l’incasermamento.
L’apertura alla vita la vediamo all’opera nella feroce determinazione delle insurrezioni in corso. Anche se alcune si spengono, ripartono poi con rinnovato vigore. Lo si percepisce nel carattere festoso delle manifestazioni di protesta che durano anche se si scontrano con la cecità, la sordità, la rabbia repressiva dei governi. È fondandomi su quest’apertura che ho parlato di pacifismo insurrezionale.
Il pacifismo insurrezionale non è né pacifico nel senso belante del termine, né insurrezionale nel senso inteso dalle aberrazioni della guerriglia urbana e guevarista.
Non ho la vocazione del guerriero né del martire. Mi rimetto alla vita e alla sua poesia per quel che riguarda l’attenzione a superare i contrari affinché non diventino contrarietà, affinché sfuggano al dualismo manicheo del per e del contro. Scommetto sulla creatività degli individui per inventare una rivoluzione della quale non esiste alcun esempio passato. I turbamenti e le incertezze di una civiltà che nasce non hanno niente in comune con lo sgomento di una civiltà che non ha che la certezza di crepare.
Filosofi, sociologi, esperti del pensiero, risparmiateci le eterne discussioni sulla malignità del capitalismo che rende redditizia la sua agonia. Siamo tutti d’accordo su questo punto, anche i capitalisti. I veri problemi, per contro, non sono stati abbordati. Sono quelli della base, quelli dei villaggi e dei quartieri urbani, quelli del nostro corpo che in fondo – bisogna dunque ricordarlo? – è l’unico a decidere veramente del nostro destino, no?


Più le lotte si diffondono a livello planetario, più il loro senso acquista radicalità, profondità, esperienza vissuta, più fanno a meno di impegno militante, più se la ridono degli intellettuali, degli specialisti in manipolazione sovversiva o reazionaria (perché la manipolazione tratta entrambi come il diritto e il rovescio di una stessa moneta). Contemporaneamente, nel loro vissuto esistenziale e nella loro funzione sociale, gli individui si scoprono sul terreno in cui la loro aspirazione a vivere comincia a picconare e spazzare via il muro che le cifre d’affari oppongono loro come se il loro destino si fermasse lì.
No, non si può più parlare dell’uomo astratto, il solo riconosciuto dalle statistiche, dai calcoli di bilancio, dalla retorica di quanti laici o religiosi, umanisti o razzisti, progressisti o conservatori – fanno bastonare, accecare violentare, imprigionare, massacrare mentre, rintanati nei loro ghetti di codardi, contano sull’arrogante cretinismo del denaro per assicurare la loro impunità e la loro sicurezza.
La dittatura del profitto è un’aggressione contro il corpo. Affidare alla vita la cura d’immunizzarci contro la cancrena finanziaria che corrompe la nostra carne, implica una lotta poetica e solidale. Niente è meglio dei falò della gioia di vivere per ridurre in cenere la morbosità del mondo! La rivoluzione ha delle virtù terapeutiche finora insospettate.
Ecologisti, a che pro sbraitare sul miglioramento del clima dialogando con Stati che vi prendono in giro inquinando ogni giorno di più mentre è urgente agire su un terreno in cui le questioni non hanno niente delle mondanità intellettuali. Delle questioni tipo:
Come passare dalle terre avvelenate dall'’industria agroalimentare alla loro rinaturazione attraverso la permacultura?
Come vietare i pesticidi senza danneggiare il contadino che intrappolato da Monsanto, Total e affini, danneggia la sua salute danneggiando quella altrui?
Come ricostruire su nuove basi quelle piccole scuole di villaggio e di quartiere che lo Stato ha rovinato e chiuso per promuovere un insegnamento concentrazionario?
Come boicottare i prodotti nocivi e inutili che le molestie della pubblicità ci ingiungono di comprare?
Come creare delle banche d’investimento locale la cui moneta di scambio compenserà opportunamente il crollo monetario e il crac finanziario programmato?
Come decurtare i prelevamenti fiscali che lo Stato attribuisce alle malversazioni bancarie per investirli invece nell’autofinanziamento di progetti locali e regionali?
Soprattutto come propagare dappertutto il principio di una gratuità che la vita rivendica in modo naturale e che il feticismo del denaro snatura. Gratuità dei treni e dei trasporti pubblici, gratuità delle cure, gratuità dell’alloggio e dell’autocostruzione, gratuità graduale della produzione artigianale e dell’alimentazione locale.
Utopia? C’è forse peggiore utopia del mucchio di progetti assurdi e deleteri che snocciolano, sotto gli occhi stanchi dei telespettatori, gli istrioni senza talento che agitano lo spettro delle loro guerre di commessi viaggiatori? Questi buffoni ripetono senza fine la pagliacciata della lotta dei capi, velano sotto falsi dibattiti le vere questioni esistenziali e sociali, eclissano il terrorismo di Stato dando spazio a un terrorismo dei fatti di cronaca la cui follia suicida aumenta con la pauperizzazione e un clima sociale sempre più irrespirabile.
Abbiamo preso davvero coscienza che nelle loro diversità, vuoi nelle loro divergenze, i Gilet jaunes e i movimenti rivendicativi formavano un formidabile gruppo di pressione capace di boicottare, bloccare, paralizzare, distruggere tutto quel che inquina, avvelena, impoverisce, minaccia la nostra vita e il nostro ambiente? Farci sottovalutare la nostra potenza e creatività rileva dei meccanismi democratici della tirannia statale e mercantile. Più che sui suoi gendarmi, la forza illusoria dello Stato riposa su un effetto di propaganda che ci spinge in ogni momento a rinunciare alla potenza poetica che è in noi, a quella forza di vita che nessuna tirannia vincerà.
Ebbene, nel frattempo...
In Cile la lotta contro i vermi che proliferano sul cadavere di Pinochet ha ravvivato la consapevolezza che tutto deve ripartire dalla base, che i rappresentanti del popolo non sono il popolo, che l’individualista manipolato dallo spirito gregario non è un individuo capace di riflettere autonomamente e di prendere partito per la vita contro il partito del denaro che uccide. Bisogna lasciare al popolo la conquista di un’intelligenza che gli appartiene e che le diverse forme di potere s’impegnano a togliergli.
Lo stesso avviene in Algeria, nel Sudan, nel Libano, in Iraq. Ho fiducia nel Rojava perché trasformi la sua ritirata momentanea in offensiva. Quanto agli zapatisti del Chiapas, rispondono agli argomenti economicistici del socialista Lopès Obrador aumentando il numero delle loro basi (caracoles) e dei loro Consigli di buon governo in cui le decisioni sono prese dal popolo per il popolo.
La rivendicazione testarda di una democrazia a Hong Kong oscilla tra una collera cieca pronta a soddisfarsi di un parlamentarismo rimesso in causa dappertutto, da un lato e dall'’altro una collera lucida che scuote e fa tremare per la sua persistenza la gigantesca piramide del regime totalitario cinese (inquieto per la minaccia di un crac finanziario). Chissà. L’edera s’infiltra dappertutto e il passato insurrezionale di Shangai non è lontano.
Il Sudan scuote il giogo della tirannia e del potere militare, l’Iran vacilla. Il Libano dà una bella botta all’Hezbollah e all’islamismo la cui copertura religiosa non maschera più l’obiettivo politico petrolifero. L’Algeria non vuole un governo riverniciato. L’Iraq scopre che la realtà sociale è più importante delle rivalità religiose. Restano i Catalani, gli unici a volere uno Stato quando “il più freddo dei mostri freddi” è trafitto dovunque di frecce. Tuttavia, non è impossibile che gli indipendentisti, finiti nell’impasse del braccio di ferro tra lo Stato madrileno e la non meno statale Generalitat, respirino improvvisamente i cattivi odori del cadavere franchista che lo spirito nazionalista ha tirato fuori dai suoi cimiteri. Non è dunque impossibile che tornino loro in memoria le collettività libertarie della rivoluzione del 1936 in cui si forgiò una vera indipendenza, prima che il partito comunista e lo Stato catalano, suo alleato, le schiacciassero.
Non è una chimera ma la vita è un sogno e siamo entrati in un’era in cui la poesia è il passaggio dal sogno alla realtà, un passaggio che marca la fine dell’incubo e della sua valle di lacrime.
Aprire uno spazio vitale a chiunque sia paralizzato dallo sgomento e dall'’angoscia per il futuro, non è forse la pratica poetica che marca l’insolente novità dell’insurrezione della vita quotidiana? Non la cogliamo forse nella disgregazione del militantismo, nell’erosione di quel vecchio riflesso militare che moltiplica i capetti e i loro greggi timorosi?
Sotto la diversità dei suoi pretesti, l’unica rivendicazione odierna senza riserve è la vita piena e intera.
Chi potrebbe sbagliarsi? Non siamo nel tumulto delle rivolte prevedibili o inattese, siamo in seno a un processo rivoluzionario. Il mondo cambia base, una vecchia civiltà crolla, una nuova appare. Le mentalità compassate e i comportamenti arcaici possono pure perpetuarsi sotto un’apparenza di modernità, un nuovo Rinascimento emerge in seno a una storia fatta a pezzi dalla sua disumanità sotto i nostri occhi. Occhi che si aprono poco a poco. Scoprono nella donna, nell’uomo, nel bambino il genio di sperimentare innocentemente delle novità incredibili, delle energie insolite, delle forme di resistenza alla morte, degli universi che nessuna immaginazione aveva osato mettere in moto per il passato.
Siamo là, dove tutto comincia.

Raoul Vaneigem, 17 novembre 2019


La renaissance de l'humain est la

seule croissance qui nous agrée

            Les coups de boutoirs que la liberté porte à l'hydre capitaliste qui l'étouffe, font fluctuer sans cesse l'épicentre des perturbations sismiques. Les territoires mondialement ponctionnés par le système du profit sont en butte à un déferlement des mouvements insurrectionnels. La conscience est mise en demeure de courir sus à des vagues successives d'événements, de réagir à des bouleversements constants, paradoxalement  prévisibles et inopinés.
            Deux réalités se combattent et se heurtent violemment. L'une est la réalité du mensonge. Bénéficiant du progrès des technologies, elle s'emploie à manipuler l'opinion publique en faveur des pouvoirs constitués. L'autre est la réalité de ce qui est vécu quotidiennement par les populations.
            D'un côté, des mots vides travaillent au jargon des affaires, ils démontrent l'importance des chiffres, des sondages, des statistiques ; ils manigancent de faux débats dont la prolifération masque les vrais problèmes : les revendications existentielles et sociales. Leurs fenêtres médiatiques déversent chaque jour la banalité de magouilles et de conflits d'intérêts qui ne nous touchent que par leurs retombées négatives. Leurs guerres de dévastation rentable ne sont pas les nôtres, elles n'ont d'autre but que de nous dissuader de mener la seule guerre qui nous concerne, la guerre contre l'inhumanité mondialement propagée.
            D'un côté, selon l'absurde vérité des dirigeants, les choses sont claires : revendiquer les droits de l'être humain relève de la violence anti-démocratique. La démocratie consisterait donc à réprimer le peuple, à lancer contre lui une horde de policiers que pousse à des comportements fascisant, l'impunité garantie par le gouvernement et par les candidats d'opposition, avides de lui succéder. Imaginez à quels trémolos se livreront les zombies médiatiques si l'immolation par le feu d'une victime de la paupérisation débouche sur l'incendie du système responsable !
            De l'autre, la réalité vécue par le peuple est tout aussi claire. On ne nous fera pas admettre que l'on puisse réduire à un objet de transactions marchandes l'astreinte du travail mal rémunéré, la pression bureaucratique accroissant les taxes, diminuant le montant des retraites et des acquis sociaux, la pression salariale qui réduit la vie à une stricte survie. La réalité vécue n'est pas un chiffre, c'est un sentiment d'indignité, c'est le sentiment de n'être rien entre les griffes de l’État, un monstre qui se racornit en peau de chagrin sous la ponction des malversations financières internationales.
            Oui, c'est dans le choc de ces deux réalités - l'une imposée par le fétichisme de l'argent, l'autre qui se revendique du vivant - qu'une étincelle, souvent infime, a mis le feu aux poudres.
            Il n'est pas de futilité qui ne soit aujourd'hui de nature à déchaîner la violence de la vie réprimée, de la vie résolue à briser ce qui la menace d'extinction.
            L'inertie séculaire, la léthargie si bien confortées par la vieille recette « du pain et des jeux », fondent la formidable puissance de la servitude volontaire. Déjà dénoncée au XVIe siècle par La Boétie, elle demeure notre ennemi le plus implacable. En nous attaquant de l'intérieur, la servitude volontaire favorise une propension qui agit chez beaucoup comme une drogue : la volonté d’exercer un pouvoir, d'endosser le rôle de guide. L'autorité de quelques uns a bien souvent infesté les milieux libertaires de sa morbidité. Aussi faut-il se réjouir de la détermination des Gilets jaunes et des insurgés de la vie quotidienne à rappeler sans trêve leur refus de chefs, de délégués autoproclamés, de maîtres à penser, de grenouilles de bénitiers politiques et syndicales.


           

Libre à ceux qui souhaitent mourir en paix d'attendre la mort dans le confort conjoint du cercueil et de la télévision, mais nous ne laisserons pas leur gâtisme infester notre volonté de vivre.
            Ce que nous voulons, c'est la souveraineté de l'être humain. Rien de plus, rien de moins !
            La paupérisation frappe à la porte avec une violence accrue, qui va la défoncer. C'en est fini de l'hédonisme des derniers jours que martèle le slogan consumériste et gouvernemental : « Jouissez d'aujourd'hui car demain sera pire ! » Le pire, c'est maintenant, si nous continuons à nous en accommoder. Cessons de croire à la toute puissance du capitalisme et du fétichisme de l'argent. Nous avons appris que la grande farce macabre qui fait valser le monde n'obéit plus qu'à un petit ressort sordide, celui du profit à court terme, de l'absurde rapacité d'un boutiquier en faillite raclant les fonds de tiroirs.

            Je ne parle pas d'espoir. L'espoir n'est que le leurre de la désespérance. Je parle de la réalité de toutes les régions de la terre où une insurrection de la vie quotidienne – appelez cela comme vous voulez – a entrepris de démanteler la dictature du profit et de jeter à bas les États qui l'imposent à des peuples, censés être représentes par eux. Ce que nous voulons, ce n'est pas demain, c'est maintenant, comme l'expriment très bien les aides-soignants, infirmières, infirmiers, urgentistes, médecins confrontés à la gestion économique qui déshumanise le secteur hospitalier.

            Le système d'exploitation de la nature terrestre et de la nature humaine a mondialement plombé l'horizon. La chape de la rentabilité à tous prix ne laisse aucune issue à la générosité de la vie et au sens humain qui en favorise la pratique.
            De toute évidence, exploiteurs et exploités sont persuadés que la marmite va exploser. La violence est inéluctable. Le problème n'est pas là. La question à résoudre sans ambiguïté repose sur une alternative.
            Allons-nous tolérer que l'explosion sociale débouche sur un état de guerre civile endémique, sur un chaos de vengeances et de haines qui bénéficiera en fin de compte aux mafias multinationales, libres de poursuivre impunément, et jusqu'à l'autodestruction, leur projet de désertification lucrative ?
            Ou bien, allons-nous créer des microsociétés affranchies de la tyrannie étatique et marchande, des territoires fédérés où l'intelligence des individus se libère de cet individualisme de troupeau en mal d'un guide suprême qui les mène à l'abattoir ? Allons-nous enfin oser prendre en mains notre propre destinée et araser une jungle sociale où les bêtes de somme n'ont d'autre liberté que celle d'élire les bêtes de proie qui les dévorent ?
            En 1888, Octave Mirbeau écrivait : « Les moutons vont à l'abattoir. Ils ne disent rien et n'espèrent rien. Mais du moins, ils ne votent pas pour le boucher qui les tuera et pour le bourgeois qui les mangera. Plus bête que les bêtes, plus moutonnier que les moutons, l'électeur nomme son boucher et choisit son bourgeois. Il a fait des révolutions pour conquérir ce droit. »
            N'êtes-vous pas lassés de faire virevolter de génération en génération la même et inusable pièce de monnaie : pile la matraque de l'Ordre, face le mensonge humanitariste ?
            Il n'y a pas de « vote du moindre mal, » il n'y a qu'une démocratie totalitaire, que seule révoquera la démocratie directe exercée par le peuple et pour le peuple. Je me suis amusé au passage d'un slogan qui, si sommaire qu'il soit, appelle à une réflexion plus poussée : « Macron, Le Pen, Mélenchon, même combat de cons ! » (J’aurais préféré « même combat de capons», mais le rejet de toute forme de pouvoir et de dialogue avec l’État fait partie de ces petits plaisirs d'où viennent les grandes vagues de la jouissance individuelle et collective.)

Autonomie, auto-organisation, autodéfense.

            Les instances au pouvoir ne vont pas tolérer que le peuple s'affranchisse de leur tyrannie. Nous devons nous préparer à une longue lutte. Celle à mener contre la servitude volontaire ne sera pas la moindre. La seule assise dont le despotisme puisse se prévaloir, c'est la hargne sécuritaire des résignés, c'est le ressentiment suicidaire d'une majorité prétendument silencieuse qui hurle sa haine de la vie.

            La meilleure défense est toujours l'offensive. A ce principe, amplement démontré par la tradition militaire, j'aimerais substituer celui de l'ouverture, car, à l'avantage de briser l'encerclement s'ajoute le plaisir de briser l'encasernement.
            L'ouverture à la vie, nous la voyons à l’œuvre dans la farouche détermination des insurrections en cours. Même si certaines s'éteignent, elles repartent de plus belle. Nous le sentons dans le caractère festif des manifestations de protestations qui perdurent bien qu'elles se heurtent à l'aveuglement, à la surdité, à la rage répressive des gouvernements. C'est en me fondant sur cette ouverture que j'ai parlé de pacifisme insurrectionnel.
            Le pacifisme insurrectionnel n'est ni pacifique, au sens bêlant du terme, ni insurrectionnel, si l'on entend par là les aberrations de la guérilla urbaine et guévariste.
            Je n'ai ni vocation de guerrier, ni vocation de martyr. Je m'en remets à la vie et à sa poésie du soin de dépasser les contraires afin qu'ils ne deviennent pas contrariétés, afin qu'ils échappent à la dualité manichéenne du pour et du contre. Je mise sur la créativité des individus pour inventer une révolution dont il n'existe aucun exemple par le passé. Le désarroi et les incertitudes d'une civilisation qui naît n'ont rien de commun avec le désarroi d'une civilisation qui n'a que la certitude de crever.

            Philosophes, sociologues, experts en pensées, épargnez-nous les sempiternelles discussions sur la malignité du capitalisme qui rentabilise son agonie. Tout le monde est d'accord sur ce point, même les capitalistes. Les vrais problèmes en revanche n'ont pas été abordés. Ce sont ceux de la base, ceux des villages et des quartiers urbains, ceux de notre propre corps, qui est tout de même, faut-il le rappeler, le vrai décideur de notre destinée, non ? 

            Plus les luttes se répandent planétairement, plus leur sens gagne en radicalité, en profondeur, en expérience vécue, plus elles se passent d'engagement militant, plus elles se moquent des intellectuels, spécialistes en manipulation subversive ou réactionnaire (car la manipulation traite l'une et l'autre comme l'avers et le revers d'une pièce de monnaie). C'est à la fois dans leur vécu existentiel et dans leur fonction sociale que les individus se découvrent sur le terrain où leur aspiration à vivre commence à saper et à déblayer le mur que les chiffres d'affaires leur opposent, comme si là s'arrêtait leur destin.
            Non, on ne peut plus parler de l'homme abstrait, le seul que reconnaissent les statistiques, les calculs budgétaires, la rhétorique de celles et ceux qui – laïcs ou religieux, humanistes ou racistes, progressistes ou conservateurs – font matraquer, éborgner, violer, emprisonner, massacrer, tandis que, tapis dans leurs ghettos de lâches, ils comptent sur l'arrogant crétinisme de l'argent pour assurer leur impunité et leur sécurité.

            La dictature du profit est une agression contre le corps. Confier à la vie le soin de nous immuniser contre le chancre financier qui corrompt notre chair implique une lutte poétique et solidaire. Rien de tels que les feux de la joie de vivre pour réduire en cendre la morbidité du monde ! La révolution a des vertus thérapeutiques, insoupçonnées jusqu'à nos jours.

            Écologistes, qu'allez-vous brailler à l'amélioration climatique auprès d’États qui vous narguent en polluant chaque jour davantage, alors qu'il est urgent d'agir sur un terrain où les questions n'ont rien de mondanités intellectuelles. Des questions telles que :
            Comment passer des terres empoisonnées par l'agro-alimentaire à leur renaturation par la permaculture ?
            Comment interdire les pesticides sans léser le paysan qui, piégé par Monsanto, Total et consorts, détruit sa santé en détruisant celle des autres ? Comment rebâtir sur des bases nouvelles ces petites écoles de village et de quartiers que l’État a ruinées et interdites pour promouvoir un enseignement concentrationnaire ?
            Comment boycotter les produits nocifs et inutiles que le harcèlement publicitaire nous enjoint d'acheter ?
            Comment constituer des banques d'investissement local où la monnaie d'échange palliera opportunément l'effondrement monétaire et le krach financier programmé ?
            Comment couper court aux prélèvements fiscaux que l’État affecte aux malversations bancaires, et entreprendre de les investir dans l'autofinancement de projets locaux et régionaux ?
            Surtout, comment propager partout le principe d'une gratuité que la vie revendique par nature et que le fétichisme de l'argent dénature. Gratuité des trains et des transports publics, gratuité des soins, gratuité de l'habitat et de l'auto construction, gratuité graduelle de la production artisanale et alimentaire locale.
            Utopie ? Y a-t-il pire utopie que le fatras de projets absurdes et délétères que déballent, sous les yeux fatigués des téléspectateurs, ces cabotins sans talent qui agitent le spectre de leurs guerres de commis-voyageurs, réitèrent sans fin la pitrerie du combat des chefs, voilent sous de faux débats les vraies questions existentielles et sociales, éclipsent le terrorisme d’État par un terrorisme de faits-divers où la folie suicidaire croît avec la paupérisation et un air ambiant de plus en plus irrespirable ?
            A-t-on assez pris conscience que, dans leur diversité, voire dans leurs divergences, les Gilets jaunes et les mouvements revendicatifs formaient un formidable groupe de pression capable de boycotter, bloquer, paralyser, détruire tout ce qui pollue, empoisonne, appauvrit, menace notre vie et notre environnement ? Nous faire sous-estimer notre puissance et notre créativité relève des mécanismes démocratiques de la tyrannie étatique et marchande. Plus que sur ses gendarmes, la force illusoire de l’État repose sur un effet de propagande qui nous presse à chaque instant de renoncer à la puissance poétique qui est en nous, à cette force de vie dont aucune tyrannie ne viendra à bout.
            Or, pendant ce temps-là...
            Au Chili, la lutte contre la vermine qui prolifère sur le cadavre de Pinochet a ravivé la conscience que tout doit repartir de la base, que les représentants du peuple ne sont pas le peuple, que l'individualiste manipulé par l'esprit grégaire n'est pas l'individu capable de réfléchir par lui-même et de prendre le parti de la vie contre le parti de l'argent qui tue. Il faut laisser au peuple la conquête d'une intelligence qui lui appartient et que les diverses formes de pouvoir s'attachent à lui ôter.
            Il en va de même en Algérie, au Soudan, au Liban, en Irak. Je fais confiance au Rojava pour transformer sa retraite momentanée en offensive. Les zapatistes ont, quant à eux, répondu aux arguments économistes du socialiste Lopès Obrador en accroissant le nombre de leurs bases (caracoles) et de leurs Conseils de bon gouvernement, où les décisions sont prises par le peuple et pour le peuple.

            La revendication opiniâtre d'une démocratie à Hong-Kong oscille entre d'une part une colère aveugle, prête à se satisfaire d'un parlementarisme partout remis en cause, et d'autre part une colère lucide qui ébranle et fait trembler par sa persistance la gigantesque pyramide du régime totalitaire chinois (qu'inquiète la menace d'un krach financier.) Qui sait ? Le lierre s'infiltre partout, et le passé insurrectionnel de Shanghai n'est pas loin.
            Le Soudan secoue le joug de la tyrannie et du pouvoir militaire, l'Iran vacille. Le Liban est un coup de semonce pour le Hezbollah et pour l'islamisme dont la défroque religieuse ne masque plus l'objectif politico-pétrolier. L'Algérie ne veut pas d'un ripolinage gouvernemental. L'Irak découvre que la réalité sociale l'emporte sur l'importance accordée aux rivalités religieuses. Restent les Catalans, les seuls à vouloir un État alors que le « plus froid des monstres froids » est partout criblé de flèches. Mais il n'est pas impossible que les indépendantistes, engagés dans une impasse par le bras de fer opposant l’État madrilène à la non moins étatique Generalitat, respirent soudain les remugles du cadavre franquiste que l'esprit nationaliste a sorti de ses cimetières. Donc il n'est pas impossible que leur revienne la mémoire des collectivités libertaires de la révolution de 1936 où se forgea une véritable indépendance, avant que le parti communiste et son allié, l’État catalan, les écrasent. 
            Ce n'est qu'un rêve mais la vie est un songe et nous sommes entrés dans une ère où la poésie est le passage du rêve à la réalité, un passage qui marque la fin du cauchemar et de sa vallée de larmes.
            Ouvrir un espace vital à celles et ceux que paralysent le désarroi et l'angoisse du futur, n'est-ce pas la pratique poétique qui fait l'insolente nouveauté de l'insurrection de la vie quotidienne ? Ne la voyons-nous pas dans la déperdition du militantisme, dans l'érosion de ce vieux réflexe militaire qui multiplie les petits chefs et leurs troupeaux apeurés ?
            Sous la diversité de ses prétextes, l'unique revendication qui s'exprime aujourd'hui sans réserve, c'est la vie pleine et entière.
            Qui s'y tromperait ? Nous ne sommes pas dans le tumulte de révoltes prévisibles ou inattendues, nous sommes au sein d'un processus révolutionnaire. Le monde change de base, une vieille civilisation s'effondre, une civilisation nouvelle apparaît. Les mentalités compassées et les comportements archaïques ont beau se perpétuer sous un ersatz de modernité, une nouvelle Renaissance émerge au sein d'une histoire que son inhumanité met en capilotade sous nos yeux. Et ces yeux se dessillent peu à peu. Ils découvrent chez la femme, l'homme et l'enfant un génie d'expérimenter innocemment des innovations inouïes, des énergies insolites, des formes de résistances à la mort, des univers qu'aucune imagination n'avait osé mettre en branle par le passé.
Nous sommes là où tout commence.



Raoul Vaneigem 17 novembre 2019


mercoledì 20 novembre 2019

Lettre du Chili






"Chères amies, chers amis,

Je vous communique un texte émanant d'insurgées et d'insurgés de Santiago. Il est de nature à souligner le caractère international des résolutions dressant le peuple contre la tyrannie du profit, qui nous ruine et nous déshumanise. Merci de le diffuser et de le traduire si possible en français (mais, avec les mots qui résonnent partout pareils, il est assez aisément compréhensible), en arabe (pour l'Algérie, le Liban, l'Irak, en persan".

Santiago, le 1er novembre 2019

Ce que nous vivons ici est magnifique ! Cela fait deux semaines maintenant que ce soulèvement nous a permis de vaincre la peur, l’indolence et la frustration de vivre sous la dictature de l’argent, mais aussi de nous rencontrer comme êtres humains, par-delà toutes les identités qui nous avaient maintenus séparés.
Depuis le début, cette insurrection généralisée spontanée exprime une critique en actes du mode de vie capitaliste. Elle exproprie et détruit ses symboles et ceux de l’État : supermarchés, pharmacies, banques, commissariats, édifices municipaux, etc. Ses revendications sont nombreuses, si nombreuses que chacun sait que la seule question qui se pose est celle d’un changement structurel. « Plus rien ne sera comme avant », entend-on dans les rues. Notre désir de vivre a retrouvé de la force dans l’aventure de cette lutte contre le système.
La précarisation qui prévaut dans ce territoire et contre laquelle ce mouvement s’est levé, n’est pas le produit de mesures d’austérité. Ici, l’état de bien-être n’a jamais existé. Elle est le résultat d’un saccage organisé par l’État-Capital. Comme tu le sais sûrement, le Chili fut l’un des berceaux du néolibéralisme. Le dictateur Pinochet a tout vendu : l’eau, la santé, les pensions de retraite, l’éducation, les routes, la mer, etc. Et la démocratie qui lui succéda consolida ce système social et économique.
Mais, à force d’humiliations et d’abus répétés des politiciens et des patrons, la conscience de tous s’est aiguisée. Un des slogans de cette insurrection l’exprime : « Il ne s’agit pas de 30 pesos [l’augmentation du prix du ticket de métro qui provoqua ce soulèvement fut de 30 pesos, soit de 4 %], il s’agit de 30 ans ». Claire est l’allusion à l’époque de la « transition vers la démocratie », l’année 1989 étant celle qui vit accéder au pouvoir, après la dictature, le premier président élu démocratiquement. Ce slogan — que les Indiens mapuches ont fait leur en le transformant ainsi : « Il ne s’agit pas de 30 pesos, mais de plus de 500 ans » — est révélateur du niveau de conscience des insurgés quand ils font de la dictature de Pinochet et du régime démocratique les deux faces de la dictature du capital, l’État n’étant, à travers les politiciens et autres experts qui pullulent dans sa sphère, que son simple exécutant.
C’est là que se manifeste une autre caractéristique de ce mouvement : la totale absence en son sein des partis politiques. Bien que, sans crainte du ridicule, ceux qui s’en sont faits les détracteurs nous affirment qu’il serait, à travers la faction gauchiste d’ici, sous influence russe, vénézuélienne ou cubaine, le fait est que les seuls drapeaux qu’on y voit sont celui du Chili, des peuples indigènes et des équipes de foot. Du haut du pouvoir on se désespère de lui fabriquer des représentants, ces voix autorisées avec lesquelles on pourrait négocier. On en cherche dans les organisations syndicales et sociales ; on convoque aussi des assemblées citoyennes. Jusqu’à maintenant personne n’a accepté de jouer ce rôle. Le caractère de masse et la diversité de ce mouvement sont des antidotes contre toute tentative de récupération.
On dénombre, à ce jour, plus de 4 000 arrestations (parmi lesquelles plus de 400 enfants et adolescents) et plus de 1 300 blessés par armes à feu. Il y a plus de 100 dépôts de plainte pour torture et une vingtaine pour violences sexuelles de la part de la police. D’après les chiffres officiels, on compte 33 morts et plus de 140 personnes souffrent de lésions oculaires — 26, parmi elles, ayant perdu l’usage d’un œil. (Quand j’ai lu dans un article censuré par Le Monde qu’en France aussi la police éborgnait, j’ai été surpris de constater que les deux polices s’accordaient sur les mêmes techniques de répression.)
Quelques heures à peine après le début de l’insurrection — qui coûta très cher aux grands capitalistes, même si ce coût est sans comparaison avec le montant de leurs vols —, le pouvoir déclara l’« état d’exception », ce qui lui permit d’imposer des couvre-feux et de sortir les militaires des casernes pour réprimer aux côtés de la police. Cela fait une semaine que l’« état d’exception » a été levé, mais le niveau de répression n’a pas baissé. La police continue d’utiliser des armes antiémeute (pratique mise en œuvre dans ces manifestations) et de procéder à des arrestations massives ou sélectives.
Tous les secteurs politiques et les chaînes de télévision nous disent qu’il est possible de manifester « à condition d’être pacifiques ». (Certains bons citoyens ont revêtu des gilets jaunes popularisés par le mouvement français pour développer, en alliés de la police, leurs propres techniques de maintien de l’ordre.) Mais le niveau de répression est très élevé, même quand on manifeste de façon moins offensive, plus mesurée. Il faut croire que la police redoute vraiment que nous passions beaucoup de temps ensemble…
L’État a les mains pleines de sang. Il nous dit qu’il réprime pour notre paix. Peu nombreux sont ceux qui le croient. Malgré l’énorme violence qu’il nous inflige, personne n’a peur de lui. Et, de fait, on constate, dans les manifestations, une prolifération de noyaux de plus en plus larges qui répondent aux « forces de l’ordre » par la violence offensive et l’autodéfense.
Il est vrai que, majoritairement, nous sentons bien que nous n’avons plus rien à perdre, qu’il n’y a pas d’avenir dans cette société. D’un côté, la télévision nous inonde de nouvelles sur la catastrophe écologique qu’elle-même nous prie aussitôt d’oublier en nous montrant des publicités de tout ce que nous pouvons acheter. De l’autre, nous constatons qu’être vieux dans ce Chili relève de l’enfer. On peut avoir travaillé toute sa vie pour une retraite misérable. Et, de fait, les anciens se voient obligés de continuer à travailler jusqu’à la mort. Je n’exagère pas. Il y a cinq ans, une nouvelle a fait grand bruit ici : il s’agissait de l’histoire d’un jardinier qui travaillait en face du palais de La Moneda, le siège de la présidence, et qui mourut assis sur un banc de la place qu’il fut chargée de balayer les dernières années de sa vie. Il avait quatre-vingts ans.
Certains voudraient canaliser cette irruption à travers la création d’une nouvelle Constitution. Celle que nous avons date de l’époque de Pinochet ; elle légitime le saccage. La revendication d’une assemblée constituante d’où sortirait cette nouvelle Constitution rencontre chaque fois plus d’échos parmi certains groupes. Il m’arrive de penser que, si on la satisfaisait, le mouvement perdrait en puissance. Mais, d’un autre côté, je pense aussi que, si elle répondait aux multiples aspirations du peuple, une autre Constitution pourrait contribuer à modifier si profondément l’ordre des choses au Chili qu’elle accoucherait d’un autre pays où, peut-être, la nouvelle Constitution finirait par ne plus avoir de nécessité. Car cette révolte remet intuitivement en cause les fondations de la structure sociale capitaliste.
Le moment que nous vivons semble être notre seule terre fertile. Quelques jours durant, tout a semblé possible. Beaucoup d’assemblées de quartier autoconvoquées ont été créées. Certaines villes frappées par la pollution des industries extractivistes se sont confrontées aux grands capitaux et paralysé leurs projets. Voir surgir ces formes d’organisations spontanées a été passionnant.
Les manifestations continuent d’être massives. Elles ressemblent à des fêtes. Dans les rues conquises, les gens se sentent heureux. On y danse, on y chante, on y partage des idées, des repas, des sourires. Personne ne sait ce qu’il va advenir de tout cela. Pour le moment, nous continuons de profiter de nos rencontres, en pariant sur la puissance qui naît du fait de nous voir et de nous sentir.
Que faut-il faire pour progresser dans la destruction de cet ordre qui s’écroule de lui-même sans notre intervention ? S’agit-il seulement de vivre nos vies à contre-courant des exigences du capital ? Faut-il renoncer à mettre à bas ce système dans son ensemble pour nous consacrer à construire, sur ses ruines, ici et maintenant et dans les limites et potentiels des circonstances, nos propres formes d’organisation ?


lunedì 18 novembre 2019

Martinique-Guadeloupe-Guyane-Réunion MANIFESTE POUR LES “PRODUITS” DE HAUTE NECESSITÉ



jardin-kreyol de Balata




Ernest BRELEUR, Patrick CHAMOISEAU, Serge DOMI, Gérard DELVER, Edouard GLISSANT, Guillaume PIGEARD DE GURBERT, Olivier PORTECOP, Olivier PULVAR, Jean-Claude WILLIAM
« Au moment où le maître, le colonisateur proclament « il n’y a jamais eu de peuple ici », le peuple qui manque est un devenir, il s’invente, dans les bidonvilles et les camps, ou bien dans les ghettos, dans de nouvelles conditions de lutte auxquelles un art nécessairement politique doit contribuer » Gilles Deleuze, L’Image-temps
« Cela ne peut signifier qu’une chose : non pas qu’il n’y a pas de route pour en sortir, mais que l’heure est venue d’abandonner toutes les vieilles routes. »
Aimé Césaire, Lettre à Maurice Thorez.
C’est en solidarité pleine et sans réserve aucune que nous saluons le profond mouvement social qui s’est installé en Guadeloupe, puis en Martinique, et qui tend à se répandre à la Guyane et à la Réunion. Aucune de nos revendications n’est illégitime. Aucune n’est irrationnelle en soi, et surtout pas plus démesurée que les rouages du système auquel elle se confronte. Aucune ne saurait donc être négligée dans ce qu’elle représente, ni dans ce qu’elle implique en relation avec l’ensemble des autres revendications. Car la force de ce mouvement est d’avoir su organiser sur une même base ce qui jusqu’alors s’était vu disjoint, voire isolé dans la cécité catégorielle –– à savoir les luttes jusqu’alors inaudibles dans les administrations, les hôpitaux, les établissements scolaires, les entreprises, les collectivités territoriales, tout le monde associatif, toutes les professions artisanales ou libérales...
Mais le plus important est que la dynamique du Lyannaj –– qui est d’allier et de rallier, de lier relier et relayer tout ce qui se trouvait désolidarisé –– est que la souffrance réelle du plus grand nombre (confrontée à un délire de concentrations économiques, d’ententes et de profits) rejoint des aspirations diffuses, encore inexprimables mais bien réelles, chez les jeunes, les grandes personnes, oubliés, invisibles et autres souffrants indéchiffrables de nos sociétés. La plupart de ceux qui y défilent en masse découvrent (ou recommencent à se souvenir) que l’on peut saisir l’impossible au collet, ou enlever le trône de notre renoncement à la fatalité.
Cette grève est donc plus que légitime, et plus que bienfaisante, et ceux qui défaillent, temporisent, tergiversent, faillent à lui porter des réponses décentes, se rapetissent et se condamnent.
Dès lors, derrière le prosaïque du « pouvoir d’achat » ou du « panier de la ménagère », se profile l’essentiel qui nous manque et qui donne du sens à l’existence, à savoir : le poétique. Toute vie humaine un peu équilibrée s’articule entre, d’un côté, les nécessités immédiates du boire-survivre-manger (en clair : le prosaïque) ; et, de l’autre, l’aspiration à un épanouissement de soi, là où la nourriture est de dignité, d’honneur, de musique, de chants, de sports, de danses, de lectures, de philosophie, de spiritualité, d’amour, de temps libre affecté à l’accomplissement du grand désir intime (en clair : le poétique). Comme le propose Edgar Morin, le vivre-pour-vivre, tout comme le vivre-pour-soi n’ouvre à aucune plénitude sans le donner-à-vivre à ce que nous aimons, à ceux que nous aimons, aux impossibles et aux dépassements auxquels nous aspirons.
La « hausse des prix » ou « la vie chère » ne sont pas de petits diables-ziguidi[1] qui surgissent devant nous en cruauté spontanée, ou de la seule cuisse de quelques purs békés[2]. Ce sont les résultantes d’une dentition de système où règne le dogme du libéralisme économique. Ce dernier s’est emparé de la planète, il pèse sur la totalité des peuples, et il préside dans tous les imaginaires –– non à une épuration ethnique, mais bien à une sorte « d’épuration éthique » (entendre : désenchantement, désacralisation, dé symbolisation, déconstruction même) de tout le fait humain. Ce système a confiné nos existences dans des individuations égoïstes qui vous suppriment tout horizon et vous condamnent à deux misères profondes : être « consommateur » ou bien être « producteur ». Le consommateur ne travaillant que pour consommer ce que produit sa force de travail devenue marchandise ; et le producteur réduisant sa production à l’unique perspective de profits sans limites pour des consommations fantasmées sans limites. L’ensemble ouvre à cette socialisation antisociale, dont parlait André Gorz, et où l’économique devient ainsi sa propre finalité et déserte tout le reste.
Alors, quand le « prosaïque » n’ouvre pas aux élévations du « poétique », quand il devient sa propre finalité et se consume ainsi, nous avons tendance à croire que les aspirations de notre vie, et son besoin de sens, peuvent se loger dans ces codes-barres que sont « le pouvoir d’achat » ou « le panier de la ménagère ». Et pire : nous finissons par penser que la gestion vertueuse des misères les plus intolérables relève d’une politique humaine ou progressiste. Il est donc urgent d’escorter les « produits de premières nécessités », d’une autre catégorie de denrées ou de facteurs qui relèveraient résolument d’une « haute nécessité ».
Par cette idée de « haute nécessité », nous appelons à prendre conscience du poétique déjà en œuvre dans un mouvement qui, au-delà du pouvoir d’achat, relève d’une exigence existentielle réelle, d’un appel très profond au plus noble de la vie.
Alors que mettre dans ces « produits » de haute nécessité ?
C’est tout ce qui constitue le cœur de notre souffrant désir de faire peuple et nation, d’entrer en dignité sur la grand-scène du monde, et qui ne se trouve pas aujourd’hui au centre des négociations en Martinique et en Guadeloupe, et bientôt sans doute en Guyane et à la Réunion.
D’abord, il ne saurait y avoir d’avancées sociales qui se contenteraient d’elles-mêmes. Toute avancée sociale ne se réalise vraiment que dans une expérience politique qui tirerait les leçons structurantes de ce qui s’est passé. Ce mouvement a mis en exergue le tragique émiettement institutionnel de nos pays, et l’absence de pouvoir qui lui sert d’ossature. Le « déterminant » ou bien le « décisif » s‘obtient par des voyages ou par le téléphone. La compétence n’arrive que par des émissaires. La désinvolture et le mépris rôdent à tous les étages. L’éloignement, l’aveuglement et la déformation président aux analyses. L’imbroglio des pseudos pouvoirs Région-Département-Préfet, tout comme cette chose qu’est l’association des maires, ont montré leur impuissance, même leur effondrement, quand une revendication massive et sérieuse surgit dans une entité culturelle historique identitaire humaine, distincte de celle de la métropole administrant, mais qui ne s’est jamais vue traitée comme telle. Les slogans et les demandes ont tout de suite sauté par-dessus nos « présidents locaux » pour s’en aller mander ailleurs. Hélas, tout victoire sociale qui s’obtiendrait ainsi (dans ce bond par-dessus nous-mêmes), et qui s’arrêterait là, renforcerait notre assimilation, donc conforterait notre inexistence au monde et nos pseudos pouvoirs.
Ce mouvement se doit donc de fleurir en vision politique, laquelle devrait ouvrir à une force politique de renouvellement et de projection apte à nous faire accéder à la responsabilité de nous-mêmes par nous-mêmes et au pouvoir de nous-mêmes sur nous-mêmes. Et même si un tel pouvoir ne résoudrait vraiment aucun de ces problèmes, il nous permettrait à tout le moins de les aborder désormais en saine responsabilité, et donc de les traiter enfin plutôt que d’acquiescer aux sous-traitances. La question békée et des ghettos qui germent ici où là, est une petite question qu’une responsabilité politique endogène peut régler. Celle de la répartition et de la protection de nos terres à tous points de vue aussi. Celle de l’accueil préférentiel de nos jeunes tout autant. Celle d’une autre Justice ou de la lutte contre les fléaux de la drogue en relève largement... Le déficit en responsabilité crée amertume, xénophobie, crainte de l’autre, confiance réduite en soi... La question de la responsabilité est donc de haute nécessité. C’est dans l’irresponsabilité collective que se nichent les blocages persistants dans les négociations actuelles. Et c’est dans la responsabilité que se trouve l’invention, la souplesse, la créativité, la nécessité de trouver des solutions endogènes praticables. C’est dans la responsabilité que l’échec ou l’impuissance devient un lieu d’expérience véritable et de maturation. C’est en responsabilité que l’on tend plus rapidement et plus positivement vers ce qui relève de l’essentiel, tant dans les luttes que dans les aspirations ou dans les analyses.
Ensuite, il y a la haute nécessité de comprendre que le labyrinthe obscur et indémêlable des prix (marges, sous-marges, commissions occultes et profits indécents) est inscrit dans une logique de système libéral marchand, lequel s’est étendu à l’ensemble de la planète avec la force aveugle d’une religion. Ils sont aussi enchâssés dans une absurdité coloniale qui nous a détournés de notre manger-pays, de notre environnement proche et de nos réalités culturelles, pour nous livrer sans pantalon et sans jardins-bokay [3] aux modes alimentaires européens. C’est comme si la France avait été formatée pour importer toute son alimentation et ses produits de grande nécessité depuis des milliers et des milliers de kilomètres. Négocier dans ce cadre colonial absurde avec l’insondable chaîne des opérateurs et des intermédiaires peut certes améliorer quelque souffrance dans l’immédiat ; mais l’illusoire bienfaisance de ces accords sera vite balayée par le principe du « Marché » et par tous ces mécanismes que créent un nuage de voracités, (donc de profitations nourries par « l’esprit colonial » et régulées par la distance) que les primes, gels, aménagements vertueux, réductions opportunistes, pianotements dérisoires de l’octroi de mer, ne sauraient endiguer.
Il y a donc une haute nécessité à nous vivre caribéens dans nos imports-exports vitaux, à nous penser américains pour la satisfaction de nos nécessités, de notre autosuffisance énergétique et alimentaire. L’autre très haute nécessité est ensuite de s’inscrire dans une contestation radicale du capitalisme contemporain qui n’est pas une perversion mais bien la plénitude hystérique d’un dogme. La haute nécessité est de tenter tout de suite de jeter les bases d’une société non économique, où l’idée de développement à croissance continuelle serait écartée au profit de celle d’épanouissement ; où emploi, salaire, consommation et production serait des lieux de création de soi et de parachèvement de l’humain. Si le capitalisme (dans son principe très pur qui est la forme contemporaine) a créé ce Frankenstein consommateur qui se réduit à son panier de nécessités, il engendre aussi de bien lamentables « producteurs » –– chefs d’entreprises, entrepreneurs, et autres socioprofessionnels ineptes –– incapables de tressaillements en face d’un sursaut de souffrance et de l’impérieuse nécessité d’un autre imaginaire politique, économique, social et culturel. Et là, il n’existe pas de camps différents. Nous sommes tous victimes d’un système flou, globalisé, qu’il nous faut affronter ensemble. Ouvriers et petits patrons, consommateurs et producteurs, portent quelque part en eux, silencieuse mais bien irréductible, cette haute nécessité qu’il nous faut réveiller, à savoir : vivre la vie, et sa propre vie, dans l’élévation constante vers le plus noble et le plus exigeant, et donc vers le plus épanouissant.
Ce qui revient à vivre sa vie, et la vie, dans toute l’ampleur du poétique.
On peut mettre la grande distribution à genoux en mangeant sain et autrement.
On peut renvoyer la Sara (Société Anonyme de la Raffinerie des Antilles) et les compagnies pétrolières aux oubliettes, en rompant avec le tout automobile.
On peut endiguer les agences de l’eau, leurs prix exorbitants, en considérant la moindre goutte sans attendre comme une denrée précieuse, à protéger partout, à utiliser comme on le ferait des dernières chiquetailles d’un trésor qui appartient à tous.
On ne peut vaincre ni dépasser le prosaïque en demeurant dans la caverne du prosaïque, il faut ouvrir en poétique, en décroissance et en sobriété. Rien de ces institutions si arrogantes et puissantes aujourd’hui (banques, firmes transnationales, grandes surfaces, entrepreneurs de santé, téléphonie mobile...) ne sauraient ni ne pourraient y résister.
Enfin, sur la question des salaires et de l’emploi. Là aussi il nous faut déterminer la haute nécessité.
Le capitalisme contemporain réduit la part salariale à mesure qu’il augmente sa production et ses profits. Le chômage est une conséquence directe de la diminution de son besoin de main d’œuvre. Quand il délocalise, ce n’est pas dans la recherche d’une main d’œuvre abondante, mais dans le souci d’un effondrement plus accéléré de la part salariale. Toute déflation salariale dégage des profits qui vont de suite au grand jeu de la finance. Réclamer une augmentation de salaire conséquente n’est donc en rien illégitime : c’est le début d’une équité qui doit se faire mondiale.
Quant à l’idée du « plein emploi », elle nous a été clouée dans l’imaginaire par les nécessités du développement industriel et les épurations éthiques qui l’ont accompagnée. Le travail à l’origine était inscrit dans un système symbolique et sacré (d’ordre politique, culturel, personnel) qui en déterminait les ampleurs et le sens. Sous la régie capitaliste, il a perdu son sens créateur et sa vertu épanouissante à mesure qu’il devenait, au détriment de tout le reste, tout à la fois un simple « emploi », et l’unique colonne vertébrale de nos semaines et de nos jours. Le travail a achevé de perdre toute signifiance quand, devenu lui-même une simple marchandise, il s’est mis à n’ouvrir qu’à la consommation.
Nous sommes maintenant au fond du gouffre.
Il nous faut donc réinstaller le travail au sein du poétique. Même acharné, même pénible, qu’il redevienne un lieu d’accomplissement, d’invention sociale et de construction de soi, ou alors qu’il en soit un outil secondaire parmi d’autres. Il y a des myriades de compétences, de talents, de créativités, de folies bienfaisantes, qui se trouvent en ce moment stérilisés dans les couloirs ANPE et les camps sans barbelés du chômage structurel né du capitalisme. Même quand nous nous serons débarrassés du dogme marchand, les avancées technologiques (vouées à la sobriété et à la décroissance sélective) nous aiderons à transformer la valeur-travail en une sorte d’arc-en-ciel, allant du simple outil accessoire jusqu’à l’équation d’une activité à haute incandescence créatrice. Le plein emploi ne sera pas du prosaïque productiviste, mais il s’envisagera dans ce qu’il peut créer en socialisation, en autoproduction, en temps libre, en temps mort, en ce qu’il pourra permettre de solidarités, de partages, de soutiens aux plus démantelés, de revitalisations écologiques de notre environnement... Il s’envisagera en « tout ce qui fait que la vie vaut la peine d’être vécue ».
Il y aura du travail et des revenus de citoyenneté dans ce qui stimule, qui aide à rêver, qui mène à méditer ou qui ouvre aux délices de l’ennui, qui installe en musique, qui oriente en randonnée dans le pays des livres, des arts, du chant, de la philosophie, de l’étude ou de la consommation de haute nécessité qui ouvre à création –– créa consommation.
En valeur poétique, il n’existe ni chômage ni plein emploi ni assistanat, mais auto régénération et auto réorganisation, mais du possible à l’infini pour tous les talents, toutes les aspirations. En valeur poétique, le PIB des sociétés économiques révèle sa brutalité.
Voici ce premier panier que nous apportons à toutes les tables de négociations et à leurs prolongements : que le principe de gratuité soit posé pour tout ce qui permet un dégagement des chaînes, une amplification de l’imaginaire, une stimulation des facultés cognitives, une mise en créativité de tous, un déboulé sans manman de l’esprit. Que ce principe balise les chemins vers le livre, les contes, le théâtre, la musique, la danse, les arts visuels, l’artisanat, la culture et l’agriculture... Qu’il soit inscrit au porche des maternelles, des écoles, des lycées et collèges, des universités et de tous les lieux connaissance et de formation... Qu’il ouvre à des usages créateurs des technologies neuves et du cyberespace. Qu’il favorise tout ce qui permet d’entrer en Relation (rencontres, contacts, coopérations, interactions, errances qui orientent) avec les virtualités imprévisibles du Tout-Monde... C’est le gratuit en son principe qui permettra aux politiques sociales et culturelles publiques de déterminer l’ampleur des exceptions. C’est à partir de ce principe que nous devrons imaginer des échelles non marchandes allant du totalement gratuit à la participation réduite ou symbolique, du financement public au financement individuel et volontaire... C’est le gratuit en son principe qui devrait s’installer aux fondements de nos sociétés neuves et de nos solidarités imaginantes...
Projetons nos imaginaires dans ces hautes nécessités jusqu’à ce que la force du Lyannaj ou bien du vivre-ensemble, ne soit plus un « panier de ménagère », mais le souci démultiplié d’une plénitude de l’idée de l’humain.
Imaginons ensemble un cadre politique de responsabilité pleine, dans des sociétés martiniquaise, guadeloupéenne, guyanaise, réunionnaise nouvelles, prenant leur part souveraine aux luttes planétaires contre le capitalisme et pour un monde écologiquement nouveau.
Profitons de cette conscience ouverte, à vif, pour que les négociations se nourrissent, prolongent et s’ouvrent comme une floraison dans une audience totale, sur ces nations qui sont les nôtres.
An gwan lodyans[4] qui ne craint ni ne déserte les grands frissons de l’utopie.
Nous appelons donc à ces utopies où le Politique ne serait pas réduit à la gestion des misères inadmissibles ni à la régulation des sauvageries du « Marché », mais où il retrouverait son essence au service de tout ce qui confère une âme au prosaïque en le dépassant ou en l’instrumentalisant de la manière la plus étroite.
Nous appelons à une haute politique, à un art politique, qui installe l’individu, sa relation à l’Autre, au centre d’un projet commun où règne ce que la vie a de plus exigeant, de plus intense et de plus éclatant, et donc de plus sensible à la beauté.
Ainsi, chers compatriotes, en nous débarrassant des archaïsmes coloniaux, de la dépendance et de l’assistanat, en nous inscrivant résolument dans l’épanouissement écologique de nos pays et du monde à venir, en contestant la violence économique et le système marchand, nous naîtrons au monde avec une visibilité levée du post-capitalisme et d’un rapport écologique global aux équilibres de la planète....
Alors voici notre vision : Petits pays, soudain au cœur nouveau du monde, soudain immenses d’être les premiers exemples de sociétés post-capitalistes, capables de mettre en œuvre un épanouissement humain qui s’inscrit dans l’horizontale plénitude du vivant...


[1] Référence aux fables de Guyane de Alfred et Auguste Saint-Quentin (19eme siècle) reprises par  Pierre Appolinaire Stephenson pour les enfants et leurs parents.
[2] Créoles des Antilles avec des ascendants blancs.
[3] Ce jardin créole s’inscrit dans une longue tradition depuis l’époque des indiens kalinagos et leurs « ichalis ». Véritable reflet de la culture créole, il est un mélange d’influences amérindiennes, africaines, européennes… Jardin d’autosubsistance par excellence, s’y côtoient les plantes vivrières, les plantes médicinales et les plantes d’ornement dans un savant agencement dans l’espace et le temps qui permet une production familiale abondante dans un espace restreint. Un véritable modèle pour l’agroécologie.
[4] Genre littéraire haïtien, caractérisé par un récit bref proche du conte.