mercoledì 28 agosto 2013

LA FINE DI UN INCUBO. QUANDO?



Istambul 2013

Non sapendo quel che Straram abbia eventualmente risposto alla lettera di Debord dell’agosto ‘60 (vedi nota in fondo al testo), provo brevemente a farlo io, a un mezzo secolo di distanza dalla stesura dei Preliminari e mezz’oretta dopo aver finito di tradurvi ex novo quell’antico documento.
Il testo che segue, redatto da Daniel Blanchard e G. Debord al momento di una frequentazione intensa da parte del situazionista del gruppo Socialisme ou barbarie (di cui Blanchard/Canjuers faceva allora parte), parla ancora all’attualità della questione sociale al di là di qualche ruga ideologica dovuta piuttosto ai resti di schemi culturali politicamente superati che alla stratificazione successiva del processo di alienazione della società.
Nell’essenziale, quel che i due compagni d’avventura comune (rapidamente finita, del resto, negli anni seguenti il testo in questione) evocavano allora come una nuova pista, è oggi un’evidenza che lo spettacolo non riesce più a nascondere allorché l’auto costruzione di un altro mondo possibile non è più un’utopia ma una necessità concreta e urgente cui molti s’industriano sia pur confusamente ai quattro angoli di un pianeta corroso dall’inquinamento e di una società globale in preda all’implosione.
Certo, il concetto d’avanguardia è ormai totalmente recuperato dallo spettacolo, ai tempi della sua versione integrata comprensiva di tutti i miasmi ideologici, dal liberalismo al totalitarismo.
Certo, il movimento operaio storico non è più espressione della soggettività agente ai bordi di una rivoluzione sociale in fieri che riguarda ormai l’umano soffocato dal produttivismo e sfiora tutte le lande di un capitalismo mondializzato. Un movimento che oscilla tra indignazione, occupazione del mondo e deriva psicogeografica pressoché inconscia è ancora troppo confuso per sapere dove affondare il bisturi della storia, tra vomiti religiosi e singulti di laica radicalità.
Eppure, rileggendo oggi questi preliminari, sento più che mai un’attualità che mi ha spinto a sollecitarne la lettura nel contesto attuale.
In un’Italia putrefatta dei cadaveri della politica separata che continuano a occupare la scena di uno spettacolo morboso, la luce di un testo di esseri vivi e desideranti in una vita reale e senza spaventapasseri ideologici, affiora come una forza capace di spazzar via le rovine che si accumulano.
La decomposizione percettibile del capitalismo nichilista invita ormai la gente comune ancora viva ad abbandonare il Titanic e a passare all’autocostruzione. Così l’essenza radicale di questo discorso di un altro secolo valica i confini del tempo e si proietta nel nostro presente. Per che farne? Tutta la questione sta lì: come passare da NOTAV a SIVALDISUSA.

Sergio Ghirardi

PRELIMINARI PER UNA DEFINIZIONE DELL’UNITÀ DEL PROGRAMMA RIVOLUZIONARIO

I. Il capitalismo società senza cultura

1.  Si può definire la cultura come l’insieme dei momenti attraverso i quali una società si pensa e si mostra a se stessa scegliendo, dunque, tutti gli aspetti dell’impiego del suo plusvalore disponibile, cioè l’organizzazione di tutto quel che supera le necessità immediate della sua riproduzione.
Tutte le forme di società capitalista appaiono oggi, in ultima analisi, fondate sulla divisione stabile - sulla scala delle masse - e generalizzata tra i dirigenti e gli esecutori. Trasposta sul piano della cultura, questa caratterizzazione significa la separazione tra il «capire» e il «fare», l’incapacità di organizzare a un qualunque fine (sulla base dello sfruttamento permanente) il movimento in costante accelerazione del dominio della natura.
In effetti, per la classe capitalista, dominare la produzione vuol dire obbligatoriamente monopolizzare la comprensione dell’attività produttrice, del lavoro. Per riuscirci, il lavoro è da un lato sempre più parcellizzato, reso cioè incomprensibile a chi lo esegue; d’altro lato è ricostituito come unità da un organo specializzato. Quest’organo, tuttavia, è anch’esso subordinato alla direzione propriamente detta che è la sola detentrice, da un punto di vista teorico, della comprensione d’insieme poiché è questa che impone il suo significato alla produzione sotto forma di obiettivi generali. Tuttavia questa comprensione e questi obiettivi sono a loro volta invasi dall’arbitrario poiché sono separati dalla pratica e anche da ogni conoscenza realistica che nessuno ha interesse a trasmettere.
L’attività sociale globale è così scissa in tre livelli: l’atelier, l’ufficio, la direzione. La cultura nel senso della comprensione attiva e pratica della società, è ugualmente scissa in questi tre momenti. L’unità non è ricostituita, infatti, che per mezzo di una trasgressione costante degli uomini fuori della sfera in cui li rinchiude l’organigramma sociale, in modo, dunque, clandestino e parcellare.

2.  Il meccanismo di costituzione della cultura si riduce dunque a una reificazione delle attività umane che assicura la fissazione del vivente e la sua trasmissione sul modello della trasmissione delle merci, la quale si sforza di garantire un dominio del passato sul futuro.
Un tale funzionamento culturale entra in contraddizione con l’imperativo costante del capitalismo che consiste nell’ottenere il consenso degli uomini e nel sollecitarne in ogni istante l’attività creatrice nel quadro ristretto in cui li imprigiona. L’ordine capitalistico, insomma, non vive se non a condizione di proiettare incessantemente dinanzi a sé un nuovo passato. Ciò è particolarmente verificabile nel settore specificamente culturale, la cui pubblicità periodica è tutta fondata sul lancio di false novità.

3.  Il lavoro tende così a ridursi alla mera esecuzione, diventando dunque assurdo. Man mano che la tecnica prosegue la sua evoluzione, essa si diluisce, il lavoro si semplifica e la sua assurdità aumenta.
Quest’assurdità si estende, però, agli uffici e ai laboratori: le determinazioni finali delle loro attività si trovano fuori, nella sfera politica della direzione complessiva della società.
D’altra parte, mentre l’attività d’ufficio e di laboratorio è integrata al funzionamento complessivo del capitalismo, l’imperativo di un recupero di quest’attività gli impone d’introdurre la divisione capitalistica del lavoro, cioè la parcellizzazione e la gerarchizzazione. Il problema logico della sintesi scientifica entra allora in collisione con il problema sociale della centralizzazione. Contrariamente alle apparenze, il risultato di queste trasformazioni è un’incultura generalizzata a tutti i livelli della conoscenza: la sintesi scientifica non si fa più, la scienza non comprende più se stessa. La scienza non è più per gli uomini attuali una chiarificazione vera e attiva del loro rapporto con il mondo; essa ha distrutto le antiche rappresentazioni senza essere capace di fornirne di nuove. Il mondo diventa allora illeggibile come unità; solo degli specialisti detengono qualche frammento di razionalità ma si confessano incapaci di trasmetterselo.

4.  Questo stato di fatto genera un certo numero di conflitti. Esiste un conflitto tra la tecnica, la logica propria dello sviluppo dei processi materiali (e in larga misura anche la logica propria dello sviluppo delle scienze) da una parte e dall’altra la tecnologia che è un’applicazione rigorosamente selezionata dalle necessità di sfruttamento dei lavoratori per sconfiggerne le resistenze. Esiste un conflitto tra gli imperativi capitalisti e i bisogni elementari degli uomini. Così la contraddizione tra le attuali pratiche nucleari e un gusto di vivere ancora assai generalmente diffuso trova un’eco fin nelle proteste moralizzatrici di certi fisici. Le modificazioni che ormai l’uomo può operare sulla propria natura (dalla chirurgia estetica alle mutazioni genetiche guidate) esigono anche una società auto controllata e l’abolizione di tutti i dirigenti specializzati.
Ovunque, l’enormità delle nuove possibilità pone l’alternativa pressante: soluzione rivoluzionaria o barbarie da fantascienza. Il compromesso rappresentato dalla società attuale non può vivere che grazie a uno statu quo che gli sfugge da tutte le parti, incessantemente.

5.  L’insieme della cultura attuale può essere qualificata di alienata nel senso che ogni attività, ogni istante di vita, ogni idea, ogni comportamento non hanno senso che fuori di sé, in un altrove che non essendo più il cielo è ancora più inquietante da localizzare: un’utopia, nel senso stretto della parola, domina, infatti, la vita del mondo moderno.

6. Poiché il capitalismo, dall’atelier al laboratorio, ha svuotato l’attività produttrice di ogni senso intrinseco, si è sforzato di porre il senso della vita negli svaghi, orientando, a partire di là, l’attività produttrice. Poiché per la morale prevalente la produzione è l’inferno, la vera vita sarebbe il consumo, l’uso dei beni.
Questi beni, però, non sono nella maggior parte di nessuna utilità se non per soddisfare qualche bisogno privato reso ipertrofico per soddisfare le esigenze del mercato. Il consumo capitalista impone un movimento di riduzione dei desideri attraverso la regolarità della soddisfazione di bisogni artificiali che restano bisogni, senza essere mai stati desideri; i desideri autentici sono, infatti, costretti a restare allo stadio della non realizzazione (oppure compensati sotto forma di spettacoli). Moralmente e psicologicamente, il consumatore è in realtà consumato dal mercato. Poi e soprattutto, questi beni non hanno un uso sociale poiché l’orizzonte sociale è interamente chiuso dalla fabbrica; fuori dalla fabbrica tutto è arredato in deserto (la città dormitorio, l’autostrada, il parcheggio…) Il luogo del consumo è il deserto.
Tuttavia, la società costituita nella fabbrica domina assolutamente questo deserto. Il vero uso dei beni è semplicemente di facciata sociale poiché tutti i segni di prestigio e di differenziazione comprati diventano nello stesso tempo obbligatori per tutti come tendenza fatale della merce industriale. La fabbrica si ripete negli svaghi sul modo dei segni con un margine, tuttavia, di trasposizione possibile, sufficiente a permettere di compensare qualche frustrazione. Il mondo del consumo è in realtà quello della messa in spettacolo di tutti per tutti, come dire quello della divisione, dell’estraneità e della non partecipazione tra tutti. La sfera direttiva è il regista severo di questo spettacolo, composto automaticamente e poveramente in funzione d’imperativi esteriori alla società, significati tramite valori assurdi (gli stessi direttori, in quanto uomini vivi possono essere considerati come vittime di questo regista robot).

7.  Al di fuori del lavoro, lo spettacolo è il modo dominante di messa in rapporto degli uomini tra loro. È solo attraverso lo spettacolo che gli uomini acquisiscono una conoscenza - falsificata - di certi aspetti d’insieme della vita sociale, dagli exploit scientifici o tecnici fino ai tipi di comportamento regnanti, passando per gli incontri tra i Grandi. Il rapporto tra autori e spettatori non è altro che una trasposizione del rapporto fondamentale tra dirigenti ed esecutori. Risponde perfettamente ai bisogni di una cultura reificata e alienata: il rapporto stabilito all’occasione dello spettacolo è di per sé il portatore irriducibile dell’ordine capitalista. L’ambiguità di ogni arte rivoluzionaria è dunque nel fatto che il carattere rivoluzionario di uno spettacolo è sempre avvolto da quel che c’è di reazionario in ogni spettacolo.
Per questo il perfezionamento della società capitalista significa, in buona parte, il perfezionamento del meccanismo della messa in scena. Meccanismo complesso, evidentemente, poiché deve essere prima di tutto il difensore dell’ordine capitalista, evitando anche, però, di apparire al pubblico come il delirio del capitalismo; deve riguardare il pubblico integrandosi degli elementi di rappresentazione che corrispondono - per frammenti - alla razionalità sociale. Deve sviare i desideri di cui l’ordine dominante vieta la soddisfazione. Il moderno turismo di massa, per esempio, fa vedere città o paesaggi non per soddisfare il desiderio autentico di vivere in un tale ambiente (umano e geografico) ma dandolo come puro spettacolo rapido di superficie (per finalmente permettere di far mostra del souvenir di questi spettacoli, come valorizzazione sociale). Lo strip-tease è la forma più netta dell’erotismo degradato in semplice spettacolo.

8.  L’evoluzione e la conservazione dell’arte sono state comandate da queste linee di forza. A un polo, l’arte è puramente e semplicemente recuperata dal capitalismo come mezzo di condizionamento della popolazione. All’altro polo, essa beneficia della grazia capitalistica di una perpetua concessione privilegiata: quella dell’attività creatrice pura, alibi per l’alienazione di tutte le altre attività (il che è infatti il più caro degli orpelli sociali). Nello stesso tempo, però, la sfera riservata all’attività creatrice libera è la sola dove ci si ponga praticamente, in tutta la sua portata, la questione dell’impiego profondo della vita, la questione della comunicazione. Qui si fondano, nell’arte, gli antagonismi tra partigiani e avversari delle ragioni di vivere ufficialmente dettate. Al non senso e alla separazione stabiliti corrisponde la crisi generale dei mezzi artistici tradizionali, crisi che è legata all’esperienza o alla rivendicazione di sperimentare altri usi della vita. Gli artisti rivoluzionari sono quelli che chiamano all’intervento e che sono essi stessi intervenuti nello spettacolo per confonderlo e distruggerlo.

II. La politica rivoluzionaria e la cultura

1.  Il movimento rivoluzionario non può essere niente di meno che la lotta del proletariato per il dominio effettivo e la trasformazione deliberata di tutti gli aspetti della vita sociale; innanzitutto per la gestione della produzione e la direzione del lavoro da parte dei lavoratori che decidano direttamente di tutto. Un tale cambiamento implica, immediatamente, la trasformazione radicale della natura del lavoro e la costituzione di una nuova tecnologia tendente ad assicurare il dominio dei lavoratori sulle macchine.
Si tratta di un vero rovesciamento di segno del lavoro che porterà a un buon numero di conseguenze, la cui principale è senza dubbio lo spostamento del centro d’interesse della vita dagli svaghi passivi fino a un’attività produttiva di nuovo tipo. Il che non significa che dall’oggi al domani tutte le attività produttive diventeranno di per sé appassionanti. Tuttavia, operare per renderle appassionanti, attraverso una riconversione generale e permanente dei fini altrettanto che dei mezzi del lavoro industriale, sarà in ogni caso la passione minima di una società libera.
Tutte le attività tenderanno a fondere in un corso unico, ma infinitamente diversificato, l’esistenza fino allora separata tra gli svaghi e il lavoro. La produzione e il consumo si annulleranno nell’uso creativo dei beni della società.

2.  Un tale programma non propone agli esseri umani alcun’altra ragione di vivere che l’auto costruzione della loro propria vita. Ciò presuppone non solo che gli uomini siano obiettivamente liberati dai bisogni reali (fame, ecc.), ma soprattutto che comincino a proiettare di fronte a loro dei desideri - anziché le compensazioni attuali -; che rifiutino tutte le condotte dettate da altri per reinventare sempre la loro realizzazione unica; che non considerino più la vita come il mantenimento di un certo equilibrio, ma pretendano un arricchimento senza limite dei loro atti.

3.  La base di tali rivendicazioni non è oggi un’utopia qualunque. È innanzitutto la lotta del proletariato, a tutti i livelli; insieme a tutte le forme di rifiuto esplicito o d’indifferenza profonda che deve combattere in permanenza, con tutti i mezzi, l’instabile società dominante. È anche la lezione dello scacco essenziale di tutti i tentativi di cambiamento meno radicali. Infine è l’esigenza che affiora in certi comportamenti estremi della gioventù (il cui addomesticamento risulta meno efficace) e di qualche ambiente artistico, ora.
Questa base, però, contiene anche l’utopia come invenzione e sperimentazione di soluzioni ai problemi attuali senza preoccuparsi di sapere se le condizioni della loro realizzazione siano immediatamente date (bisogna notare che la scienza moderna fa già un uso centrale di questa sperimentazione utopica). Quest’utopia momentanea, storica, è legittima; ed è necessaria poiché è in essa che s’innesca la proiezione di desideri senza la quale la vita libera sarebbe vuota di contenuto. Essa è inseparabile dalla necessità di dissolvere la presente ideologia della vita quotidiana, dunque i legami dell’oppressione quotidiana, affinché la classe rivoluzionaria scopra, con uno sguardo disincantato, gli usi esistenti e le libertà possibili.
La pratica dell’utopia non può tuttavia avere senso che strettamente collegata alla pratica della lotta rivoluzionaria. La quale, a sua volta, non può fare a meno di una tale utopia per pena di sterilità. I ricercatori di una cultura sperimentale non possono sperare di realizzarla senza il trionfo del movimento rivoluzionario, che non potrà egli stesso instaurare delle autentiche condizioni rivoluzionarie senza riprendere gli sforzi dell’avanguardia culturale per la critica della vita quotidiana e la sua ricostruzione libera.

4.  La politica rivoluzionaria ha dunque per contenuto la totalità dei problemi della società. Essa ha come forma una pratica sperimentale della vita libera attraverso la lotta organizzata contro l’ordine capitalista. Il movimento rivoluzionario deve così diventare esso stesso un movimento sperimentale. Fin da ora, là dove esiste, deve sviluppare e risolvere il più profondamente possibile i problemi di una micro società rivoluzionaria. Questa politica completa culmina nel momento dell’azione rivoluzionaria, quando le masse intervengono bruscamente per fare la storia e scoprono anche la loro azione come esperienza diretta e come festa. Esse intraprendono allora una costruzione cosciente e collettiva della vita quotidiana che un giorno più niente potrà fermare.

P. Canjuers (Daniel Blanchard), G. E. Debord, il 20 luglio 1960*[*]


[*]  Che cosa pensi della piattaforma stabilita da me e Canjuers come base di discussione tra l’IS e certe minoranze marxiste del movimento operaio?” G. Debord, Lettera a Patrick Straram, 25 agosto 1960.

Il 20 luglio è stato pubblicato in Francia un documento redatto da P. Canjuers e G. Debord sul capitalismo e la cultura. Si tratta di una piattaforma di discussione nell’IS in vista di un suo collegamento con alcuni militanti rivoluzionari del movimento operaio.”
Informazioni situazioniste, in Internazionale Situazionista n°5, pag. 11, dicembre 1960, Nautilus Torino 1994.

domenica 25 agosto 2013

Ecco, appunto: le armi




“ma sé mati a sbarar col canon, non vedé che xe gente?”
(sentita sul fronte austro-russo nella prima guerra mondiale)

“ una volta, tanto tempo fa, abbiamo provato anche noi a fare una guerra ma poi c’è scappato il morto e abbiamo lasciato perdere”
( un componente del popolo Nuer – Sudan nel racconto di Edward Evans Pritchard)

Le grandi guerre mondiali, che erano state spacciate ai fanti nelle trincee e alle popolazioni sotto i bombardamenti, come “le guerre che avrebbero posto fine alla guerra”, oggi, trascorsi un numero sufficiente di anni per trarre dei rendiconti, ci rivelano, in sostanza, di avere posto fine alla pace.
Ogni anno nascono nuovi conflitti nei cinque continenti; questa, se vogliamo, non sarebbe propriamente una novità.
La novità consiste nel fatto che nessuno di questi conflitti termina più per sfociare in un nuovo pacifico equilibrio: a questo ci hanno condotto la vittoria delle Nazioni Unite nella Seconda guerra mondiale con il suo corollario, la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, stabilita con esplicite intenzioni simboliche nel centro del commercio mondiale (il World Trade Center) a New York.
Le guerre, da malattia acuta di un sistema, si sono convertite nella sua malattia cronica, nella sua epidemia. Ma anche nella fonte ultima della sua sopravvivenza. Nessuno vince definitivamente, nessuno definitivamente è sconfitto. Tutto senza posa si ricrea mentre tutti si uccidono senza posa, con tutte le armi che riescono a produrre, a comprare, a raccogliere.
Ecco, appunto: le armi.
Che i mercanti d’armi fomentino i conflitti è cosa nota, e che, in certo qual modo, esiste da sempre: si chiama “creazione del bisogno”, un’attività cui ogni imprenditore si dedica, se tiene al successo dei propri commerci.
Il punto è che la crescita verticale della produzione industriale viene a scontrarsi in questi ultimi decenni con la limitata capacità di assorbimento delle merci da parte dei mercati.
Il commercio più redditizio, l’unico commercio al riparo dalle crisi, diviene dunque, quello in cui l’acquisto non è demandato al singolo consumatore finale, ogni giorno più difficile da sedurre, ma è competenza riservata a pochi soggetti, posti al vertice di governi. Costoro sono meravigliosamente sensibili agli argomenti dei piazzisti della guerra per diverse, ben comprensibili ragioni: perché sono pochi e corromperli anche con somme ingenti, costa pur tuttavia poco; perché sempre più spesso si sono arrampicati fino a quelle responsabilità precisamente con il fine di arricchire, sia personalmente sia come esponenti di cordate politico-mafiose e militari di cui sono gli emissari; perché è insita nel loro ruolo politico la necessità di “agire” militarmente  o perlomeno di organizzare la prevenzione contro questo o quel pericolo.
Infatti, la giustificazione prima dell’ingiustificabile, l’esistenza cioè di stati nazionali armati gli uni contro gli altri, viene argomentata da sempre con l’esistenza minacciosa di nemici potenti ed aggressivi, le nazioni vicine un tempo, il misterioso ed indefinibile “terrorismo internazionale” oggi.
Spesso si parla di missioni umanitarie, ricercando alleati fra i rappresentanti politici che si oppongono ai governi in carica (magari condotti e mantenuti al potere dalle stesse industrie che forniscono i ribelli) fomentando anch’essi scontri armati tra fazioni rivali, modellate sotto il travestimento rivoluzionario come vere e proprie organizzazioni mafiose.
Ma anche a livello dei traffici illegali le armi hanno un canale privilegiato e i traffici scorrono indisturbati accanto alla morte per fame e per sete dei rifugiati, di coloro che con la guerra perdono uno spazio da coltivare e da abitare, dove far crescere i propri bambini cercando di sottrarli al destino che li vuole soldati e assassini già in tenera età.
Un intero continente come l’Africa sta pagando da secoli l’ingordigia dei mercanti di morte.
I campi profughi sono sempre più numerosi e sempre meno visibili, da lì non si sfugge se non per finire magari dopo percorsi letali nel deserto e sulle carrette del mare in qualche altro “centro di accoglienza” che meglio sarebbe definire campo di concentramento.
Le guerre quindi svolgono una duplice funzione di sostegno dei mercati (non solo quello delle armi): da un lato mostrano la consistenza delle minacce con cui si giustificano gli sprechi deliranti legati all’apparato bellico; dall’altro consumano armi vecchie ed ammortizzate, creando spazio per armi nuove da acquistare e testare sui civili inermi, alla faccia delle convenzioni internazionali che nessuno stato ha interesse a far rispettare. E tutti gli organismi internazionali sono organizzazioni di stati, nelle quali gli esseri umani concreti non hanno per definizione alcuna voce in capitolo.
Armi da cui tutti hanno da guadagnare: i produttori che le producono, i politici che le acquistano, gli operai che le fabbricano, i sindacalisti che li difendono, i mercenari specialisti che le utilizzano, i giornalisti che le descrivono, i preti, gli imam, i rabbini che le benedicono. Sovente perfino i pacifisti e i volontari che le contrastano.
Nella recentissima crisi finanziaria in Grecia mentre si chiedeva il massimo sacrificio alla popolazione tutta, si manteneva l’impegno degli acquisti di armi dalla Germania per cifre che potrebbero sfamare molte persone per anni. Né si può escludere che questa fosse precisamente una delle condizioni perché il prestito tedesco fosse erogato: che le commesse all’industria germanica, cioè, fossero onorate.
Talmente immenso è l’indotto del commercio delle armi, che si può per certi aspetti guardare l’intera produzione mondiale, e l’intera politica mondiale, come un unico sistema di supporto all’industria della guerra.
Una parola vale la pena di spendere per mostrare come anche la corsa al nucleare per la produzione di energia sia sovvenzionata e possa esistere solo grazie agli investimenti militari dei paesi che la producono. Il cosiddetto “nucleare di pace” è sempre stato e sempre sarà un settore in perdita, integralmente antieconomico: il suo UNICO fine è sempre stato quello di ammortizzare parte degli sprechi miliardari del “nucleare di guerra”, di assorbirne le scorie, di giustificarne gli investimenti.
Tutto il sistema che ruota intorno alle spese militari è opaco, protetto da segreto di stato e impossibile da verificare per i cittadini, che non conoscono più nemmeno quali formazioni private agiscano a fini di guerra e in “loro nome” nelle varie disgraziate guerre del mondo. E questa opacità è il migliore rifugio per i malfattori installati in tutte le cancellerie del pianeta, intenti a combattersi gli uni contro gli altri, per meglio e più capillarmente spolpare il mondo intero, l’intera umanità.
Porre la questione delle armi e del loro commercio perciò significa già ripensare l’intero sistema politico ed economico nel quale siamo imprigionati







filmato della serata incontro con Carlo Tombola membro di  TransArmsEurope e di Opal


martedì 15 giugno 2010  promosso dal MeetUp dei Grilli milanesi:

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