venerdì 12 luglio 2024

“Non cedere alle illusioni identitarie”

 

■ Il libro di Nedjib Sidi Moussa, La Fabrique du Musulman , è recensito nella sezione “Recensioni e studi critici”. Vedi: “Archeologia di una regressione” (Moriel).

Ballast Secondo voi, due schieramenti stanno prendendo in ostaggio la sinistra: i “fondamentalisti repubblicani” contro gli “islamo-sinistristi”. Quale terza via invoca?

Nedjib Sidi Moussa –Credo piuttosto che il movimento operaio e rivoluzionario sia più che mai intrappolato tra le sue tendenze opportuniste e settarie. Queste vecchie impasse assumono forme nuove in ogni epoca, senza mai offrire un reale punto di appoggio a favore dell’emancipazione dei proletari di tutti i paesi. Tra molte questioni molto più serie come la guerra e lo sfruttamento, la mia generazione si è confrontata con l’ascesa delle cosiddette narrazioni “fondamentaliste repubblicane” o “islamico-sinistra”, presentate come esattamente opposte ma che sono, nei fatti, solo due facce. della stessa medaglia che porta alla confusione e alla capitolazione. Possiamo, ad esempio, dire che difendiamo la separazione tra Chiesa e Stato sostenendo l'installazione dei presepi natalizi nei municipi? Possiamo, in nome della lotta antirazzista, allearci con associazioni che siano emanazione di gruppi fondamentalisti? Si tratta di domande concrete che vengono poste ad attivisti, collettivi o organizzazioni che, nonostante la loro relativa debolezza numerica, hanno un vasto pubblico e possono quindi influenzare i dibattiti in una direzione progressista o reazionaria.

Ovviamente, le successive controversie sul velo islamico, il dibattito sull’identità nazionale o gli attacchi islamici non hanno facilitato la discussione in campo intellettuale – il “caso” Kamel Daoud ne è stato un patetico esempio – o negli ambienti pubblici in cui le divisioni si sono inasprite e si sono verificate rotture. Tuttavia, penso con un certo ottimismo che siamo entrati in una fase di chiarificazione e decantazione. Il futuro ce lo dirà con più certezza. Da parte mia, sostengo qualsiasi iniziativa, anche limitata, che sottolinei la necessità dell’indipendenza della classe operaia e articoli le lotte antirazziste e anticlericali su questo asse. E questo, senza cedere a illusioni identitarie, mode teoriche o alla tentazione di voler formare “fronti ampi” senza sponda a destra. Non penso che esista una “terza via”, in quanto si tratta piuttosto di trovare un’alternativa reale alle diverse manifestazioni di oscurantismo che si stanno diffondendo su scala globale, in particolare grazie alle nuove tecnologie. A livello internazionale, la mia solidarietà – che non è mai incondizionata – va, tra gli altri, ai comunisti iracheni che resistono al settarismo religioso, agli attivisti americani che si distinguono dalla politica identitariao agli anarchici venezuelani che affrontano un regime repressivo. I partecipanti al congresso antiautoritario di Saint-Imier [del 1872] proclamarono che “la distruzione di ogni potere politico è il primo dovere del proletariato”. In questo spirito, diffido delle alternative che pongono al centro delle loro preoccupazioni la conquista del potere a beneficio degli “oppressi” – indipendentemente dalla loro nazionalità, religione, colore, status, ecc. In offesa al presidente , Mezioud Ouldamer ha osservato lucidamente: “Sappiamo, ora che l'Algeria è indipendente, che gli schiavi di ieri sono i padroni di oggi. Allo stesso tempo, si verifica la strana dialettica che spinge lo schiavo ad essere ancora più crudele del padrone quando ne prende il posto. » La questione non è quindi cambiare padroni ma sbarazzarsene definitivamente o, per citare Daenerys Targaryen: non si tratta di fermare la ruota ma di romperla.

Elogi il movimento rivoluzionario, menzioni la tua formazione marxista, pubblichi con un editore anarchico e invochi il socialismo o la barbarie , prendendo di mira, pagina dopo pagina, la sinistra radicale. La corrente che porti ha un’esistenza palpabile?

La conclusione del libro menziona tre riviste rivoluzionarie del XX secolo: Internazionale Situazionista, Nero e Rosso e Socialismo o Barbarie . Il saggio si basa in particolare sui testi di questi periodici che costituiscono un vero e proprio capitale politico che sarebbe sbagliato non promuovere o riscoprire. I loro dirigenti intervennero nella lotta di classe e produssero articoli, molti dei quali criticavano duramente ma lucidamente gli ostacoli (socialdemocratici, stalinisti, ecc.) posti sulla via dell'emancipazione. La decomposizione del movimento operaio e la retrazione del movimento rivoluzionario hanno indubbiamente portato oggi a confondere analisi e invettive, dibattito e polemica. Se alcuni pensano ancora che la situazione sia caratterizzata dalla “crisi storica della direzione del proletariato”, ciò significa che le organizzazioni che pretendono di difendere gli interessi di questa classe devono essere ritenute responsabili. È quindi del tutto legittimo prendere sul serio le loro dichiarazioni, azioni o alleanze chiedendoci se ci permettono di uscire dalla crisi prevalente. Un altro metodo consisterebbe nell'astenersi dal segnalare derive e spostamenti dubbi in nome di un'unità senza forma né contenuto. Non mi riconosco in quest'ultimo approccio.

D'altra parte, ho citato nel libro due iniziative che mi sono sembrate rilevanti nel contesto recente perché offrono vie di intervento sul piano economico e politico: Disertori attivi e Blocchiamo tutto!Non rimpiango queste allusioni, soprattutto dopo aver vissuto il clima pesante tra i due turni delle elezioni presidenziali, durante le quali si voleva far passare gli astenuti o i boicottatori per complici del fascismo... Tuttavia, lo slogan "Né patria né padrone ! Né Le Pen né Macron! » è stato estremamente preciso nella confusione ambientale. Tuttavia, dalla pubblicazione del saggio nel gennaio di quest'anno, ho ricevuto messaggi, commenti e inviti a discuterne il contenuto da attivisti rivoluzionari di tutte le tendenze (autonomi, libertari, marxisti, sindacalisti, ecc.) e lettori di diverse origini o filosofiche. orientamenti. Questi individui, molti dei quali combattono all’interno delle loro organizzazioni contro tendenze tanto opportunistiche quanto disfattiste, hanno un’esistenza molto più palpabile delle lamentele o dei commenti pubblicati sui social network. E questo fa parte di una battaglia politica che è appena iniziata.

Cosa sono questo “paternalismo” e questo “orientalismo inverso” che vedi nella sinistra critica?

All'inizio degli anni '80, Sadik Jalal Al-Azm offrì una critica all'orientalismo di Edward Said . Al-Azm ha sottolineato il carattere astorico dell'orientalismo presentato da Said. Secondo lui, questo approccio portava a essenzializzare l’opposizione tra Occidente e Oriente, o a privilegiare una lettura idealista a scapito di un’analisi materialista dell’espansionismo occidentale. Al-Azm ha sottolineato l'esistenza dell'"orientalismo ontologico", come dottrina creata dall'Europa moderna e che prevede l'esistenza di una differenza ontologica radicale tra Oriente e Occidente. Questo orientalismo – che potremmo definire differenzialista – ha lasciato il segno in Oriente, dove si è formato un discorso utilizzando gli stessi pregiudizi essenzialisti dell’Occidente, ma con una connotazione migliorativa. Questo è ciò che Al-Azm chiama “orientalismo al contrario”. Ha inoltre sottolineato la tendenza di alcuni intellettuali arabi a fare dell'"Islam politico popolare" lo strumento di salvezza nazionale dopo la rivoluzione iraniana. Gilbert Achcar ha poi ripreso questa nozione per dimostrare che questa corrente si ritrova, con sfumature, tra gli orientalisti francesi dopo il 1979. Achcar ha criticato in particolare François Burgat, per il quale l'islamismo rappresentava "la terza tappa del razzo della decolonizzazione". Tuttavia, sono le analisi di Burgat e non quelle di Achcar - per non parlare di Al-Azm o di altri materialisti arabi come Georges Tarabichi - che talvolta acquistano autorità anche negli ambienti radicali francesi grazie ad alcuni accademici, editori, giornalisti o organizzazioni.

Il paternalismo, dal canto suo, implica una situazione di subordinazione e di disuguaglianza in cui i “dominati” – ad esempio, i lavoratori o i colonizzati del secolo scorso – erano oggetto di un atteggiamento benevolo – da parte dei padroni o degli Stati – che cercavano così di impedire qualsiasi atto autonomo che metta in discussione la loro supervisione. Questa inclinazione si ritrova anche in certe correnti o individui di sinistra, sicuri della propria legittimità a dettare il proprio atteggiamento nei confronti dei “dominati”, a scegliere tra questi ultimi i propri interlocutori e a dare visibilità alle proprie iniziative – anche ambigue o reazionarie – del partito momento che sia rispettato il principio di separazione, che sia rigorosamente mantenuto il confine tra “loro” e “noi”. Ma esiste anche un “paternalismo al contrario”, che i trotskisti denunciano sottolineando il silenzio di alcuni anticolonialisti francesi di fronte all’assassinio dei sindacalisti algerini ( La Vérité , 3 ottobre 1957). Questo atteggiamento – altrimenti problematico e caratteristico di un certo antimperialismo – consiste dunque nell’applaudire selvaggiamente quando i “dominati” sembrano andare nella direzione giusta ed evitare la minima critica pubblica – anche quando necessaria – per “evitare o ritardare un processo di paternalismo che tuttavia finisce per realizzarsi in un modo o nell'altro...

Lei denuncia il fatto che i musulmani sono diventati i "capri espiatori" della società francese pur criticando la nozione di "islamofobia". Pignolo o sfondo etimologico?

I “musulmani” – veri o presunti – sono oggetto di numerose sollecitazioni contraddittorie in Francia nel 2017. In quanto consumatori, sono il bersaglio preferito del cosiddetto marketing etnico attraverso la nicchia halal, con grande piacere dei grandi marchi e delle catene di supermercati. Come elettori, sono favoriti dallo stato maggiore – tutte le tendenze insieme – a causa della fede nell’esistenza di un “voto musulmano” o della presunta sensibilità di questo gruppo verso determinate questioni. Che siano percepiti come consumatori o come elettori, l’essenziale è che restino “musulmani”, il che rivela la forza dell’assegnazione identitaria – con una colorazione peraltro confessionale – e costituisce una vera e propria violenza simbolica per atei, agnostici, liberi pensatori, eterodossi. e non praticanti. Tuttavia, queste stesse persone sono state designate in passato con altre parole o espressioni come “Beurs” negli anni ’80, “lavoratori arabi” negli anni ’70, “lavoratori nordafricani” negli anni ’50. Ciò non significa che questi termini erano più corretti, ma questo sviluppo sottolinea tanto la demonetizzazione del referente operaio nel discorso pubblico quanto la sostituzione degli ideali nazionalisti, socialisti o panarabi con l’egemonia islamista sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Naturalmente, i “musulmani” non sono del tutto passivi nell’attuazione dei processi sopra descritti.

Alcuni broker o imprenditori di comunità, infatti, vedono nuove opportunità per soddisfare i propri interessi personali o il proprio progetto sociale. Ma ciò non risolverà in alcun modo il destino della stragrande maggioranza dei “musulmani”, che ha più a che fare con le fasce economicamente meno avvantaggiate della popolazione francese. Solo una minoranza – piuttosto dotata di capitale economico o educativo – potrà accedere a posizioni rappresentative o integrare la élite al potere grazie alla “diversità”, che va contro l’uguaglianza, come ha ricordato Walter Benn Michaels. Il resto sarà condannato alla stagnazione o alla retrocessione – allo stesso modo delle altre componenti delle classi lavoratrici francesi – con in più la discriminazione. Queste ultime non hanno necessariamente un rapporto diretto con la religione reale o presunta degli individui ma piuttosto con il Paese di origine o lo status sociale. Ecco perché sono estremamente scettico riguardo alla volontà di semplificare le questioni attraverso una griglia di lettura esclusivamente religiosa senza percepire l'emergere di una classe di misleadership musulmana., per usare l’espressione di Nazia Kazi. Tuttavia, non si possono nascondere gli effetti di certi discorsi mediatici e politici che tendono a focalizzare l’attenzione del grande pubblico sui “musulmani” e ad alimentare paure, soprattutto da quando il terrorismo islamico si è diffuso in Europa e in America o che pratiche retrograde sono diventate più visibile in Francia.

Tuttavia, a rigore, non possiamo chiudere un occhio di fronte agli usi ambivalenti del concetto di “islamofobia” da parte di alcuni attori nazionali o internazionali – penso in particolare all’Organizzazione per la cooperazione islamica –, che desiderano combinare attacchi intollerabili contro persone e la legittima critica alle istituzioni religiose, la discriminazione (nelle assunzioni, nell'alloggio, nel tempo libero) e l'istituzione del reato di blasfemia. Su questa questione, la Lettera di Charb ai truffatori dell'islamofobia rimane ancora attuale. Condivido anche la vigilanza dei liberi pensatori internazionali che non confondono libertà di coscienza e libertà di religione, soprattutto perché il mio anticlericalismo non si dissolve nelle mie convinzioni antirazziste, anzi. Per questo rifiuto con la stessa forza la confessionalizzazione e la razzializzazione della questione sociale, perché il loro trionfo definitivo significherebbe la scomparsa di ogni esito veramente emancipativo.

Perché non riprodurre la famosa “mano tesa” del Partito Comunista ai cattolici nei confronti dei musulmani, di cui sappiamo che un numero significativo di loro appartiene alle classi lavoratrici?

Coloro che tendiamo a designare con il termine “musulmani” non costituiscono in alcun modo un gruppo sociale omogeneo. Inoltre, a volte raggruppiamo dietro questa parola non solo persone che si dichiarano musulmane, ma anche individui di “cultura musulmana” o che hanno un genitore musulmano. Non è troppo difficile indovinare dove questo tipo di cambiamento potrebbe portarci – e nel libro menziono la possibilità della formazione di una casta di musulmani come sottogruppo nazionale. Ammettiamo che questi “musulmani” abbiano un rapporto privilegiato con le classi lavoratrici, a partire dal principio che tra queste rientrano i discendenti dei proletari nordafricani o subsahariani a cui si aggiungono le popolazioni dell’ex impero ottomano – e anche oltre – , senza dimenticare i convertiti. Queste popolazioni hanno quindi origini geografiche diverse che coprono anche forti disparità regionali o culturali, nonché rapporti differenziati con la società francese a causa della storia non solo coloniale. È anche ipotizzabile che questo gruppo includa commercianti, artigiani, imprenditori, alti funzionari pubblici, artisti, agenti di polizia, delinquenti, ecc. A priori, non vi è quindi motivo di pensare che questo gruppo non sia attraversato da divisioni economiche, anche se alcuni vorrebbero farne un “popolo-classe”, alla maniera di Abraham Léon nella sua Concezione materialista della questione ebraica . Inoltre, a livello individuale, certi “musulmani” sono indubbiamente più vicini ai personaggi ritratti da Philip Roth in Goodbye, Columbus che alle caricature troppo pubblicizzate. Quindi su quali basi e per quali ragioni dovremmo rivolgerci a loro?

La mano del Partito comunista è stata tesa ai cattolici in un contesto elettorale e in vista del Fronte popolare. Dobbiamo rileggere il discorso di Maurice Thorez che parlò a nome dei comunisti che avevano “riconciliato la bandiera tricolore dei nostri padri e la bandiera rossa delle nostre speranze” e invitò a votare per la “Francia forte” (L'Humanité, 17 aprile , 1936). Il tutto aveva un tono populista piuttosto che operaista, fortemente venato di patriottismo, e metteva un freno all’anticlericalismo del PC. Marceau Pivert aveva pubblicato un opuscolo in risposta a questa “mano tesa” del PC. Secondo Pivert, nella lotta contro lo sfruttamento capitalista, “accade che i cattolici, conservando le loro convinzioni, si avvicinino alle masse rivoluzionarie. Ma non è perché abbiamo teso loro una mano risparmiando il sistema di sfruttamento intellettuale di cui sono vittime, è al contrario conducendo un attacco vigoroso contro i loro sfruttatori: fratelli in quanto sfruttati ma non non fratelli in quanto cattolici! ". Non vorrei sorprendere i vostri lettori affermando la mia vicinanza a Pivert su questa questione. Da una prospettiva anticapitalista, non c’è bisogno di fare un lavoro interreligioso come altri gruppi interclassisti per i quali i musulmani devono esistere come comunità di credenti per dialogare con le istituzioni cristiane, ebraiche, ecc., e promuovere un “vivere insieme”. ” dove tutte le religioni potessero esprimersi nello spazio pubblico e beneficiare del denaro dei contribuenti. Ma questo pone in realtà altre due domande: chi si rivolge a chi? E chi ci dice che questa mano non sia già tesa in realtà, soprattutto in periodo elettorale?

Citi Camus più volte. Tariq Ramadan, che tu critichi, dice di Camus, nel suo libro con Edgar Morin, che gli ha fatto desiderare di diventare un “contropotere, resistente, etico e sempre costruttivo”. Ci sono quindi convergenze inaspettate!

Ho molto rispetto per Edgar Morin, in particolare per il suo impegno politico giovanile quando, rompendo con lo stalinismo, continuò a difendere l'ideale socialista – in particolare attraverso la sua attività all'interno del Comitato di collegamento e d'azione per la democrazia operaia, ma anche attraverso dirige la rivista Argomenti. Si impegnò anche contro il colonialismo francese lanciando il Comitato degli intellettuali contro la continuazione della guerra in Nord Africa. All'interno di questo comitato dovette affrontare l'ostilità dei sartriani che, a causa del loro appoggio incondizionato al Fronte di Liberazione Nazionale, diffamarono i Messalisti ai quali era vicino e di cui non smise mai di difendere l'onore. In questo senso sulla questione algerina era più vicino ad Albert Camus che a Jean-Paul Sartre. Ricordiamo che Camus ha sostenuto il comitato per la liberazione di Messali Hadj e delle vittime della repressione. Aveva anche protestato contro l'assassinio dei sindacalisti messalisti da parte del FLN. Camus, che però non era un separatista, annota nelle sue Cronache algerine  : "Mi sembrava indecente e dannoso gridare contro la tortura insieme a coloro che hanno digerito molto bene Melouza o la mutilazione dei bambini europei. Quanto mi è sembrato dannoso e indecente condannare il terrorismo insieme a coloro che trovano facile sopportare la tortura. » Pochi anticolonialisti francesi hanno denunciato pubblicamente il massacro di Melouza, gli abusi dell'esercito francese o le violenze contro i civili. Camus aveva anche sostenuto l'appello di Messali per la fine delle lotte fratricide tra gli algerini e degli attacchi terroristici. Il lavoro di Camus – da Lo Straniero a Il Primo Uomo a Il Giusto – è abbastanza importante da ispirare individui con sensibilità diverse. Tutti possono trovarvi riflessioni stimolanti, a patto di non leggerlo male. Dal mio punto di vista si può convergere con tutti coloro che lottano sinceramente per l’emancipazione ma senza cedere al nazionalismo o all’oscurantismo, senza tacere certi eccessi degli “oppressi” in nome dell’appoggio incondizionato, senza farsi prendere dalla alleanze vagamente definite in nome dell’antimperialismo o della lotta contro la repressione statale. Allo stesso modo, oggi non è necessario essere selettivi nella nostra ricerca della verità o nella nostra indignazione, sia che si tratti delle tragiche sparizioni di Adama Traoré, Liu Shaoyao o Sarah Halimi.

La “razza”, come strumento sociologico volto a riflettere sulla questione del razzismo, è una questione “pignola”, si pensa. Il marxista caraibico CLR James riteneva che il fattore razziale non potesse essere “trattato con negligenza”, né potesse essere “considerato fondamentale”. Questa linea di cresta, che unisce marxisti paleolitici e maniaci dell’identità, non è forse la strada migliore di tutte?

Cerchiamo di essere precisi nelle virgolette per evitare false denunce intentate da certi lettori, troppo desiderosi di combattere a causa del mio nome, del mio itinerario o delle mie convinzioni. Nel libro ho usato il termine “fumatore” per qualificare la nozione di “razza sociale”, usata da Sadri Khiari in La Contre-révolution coloniale en France . In questa logica, pensare al conflitto sociale attraverso il prisma razziale porta a presentare un campo politico globale strutturato dal confronto tra un “Potere Bianco” e un “Potere Politico Indigeno”. Il primato del fattore razziale porta ad un’impasse totale dal punto di vista emancipativo, perché ciò porrebbe il confronto sullo stesso terreno di quello degli identitari di estrema destra che sostengono la “remigrazione”, in nome di una presunta lotta contro “ Islamismo” o in risposta alla “grande sostituzione”, e veicolano tesi etno-differenzialiste che penetrano tutti gli strati della società. Condivido le osservazioni di Amin Maalouf che, in Murderous Identities , ha espresso le sue preoccupazioni sul funzionamento del mondo quando persone con affiliazioni multiple “sono costantemente costrette a scegliere da che parte stare, con l'ordine di reintegrarsi nei ranghi della loro tribù”. Ha aggiunto che questo è il modo in cui venivano compiuti i “massacri”. Ne Gli esecutori Harald Welzer sottolinea la rapidità dei “processi di etnicizzazione” nell'ex Jugoslavia o di nazificazione della società tedesca. Al giorno d’oggi, nozioni come “razza” e “identità” sono state rapidamente riappropriate, senza la minima critica, da alcuni circoli di attivisti portatori di un discorso radicale – e non sto parlando di discussioni accademiche in conferenze o seminari universitari. Dovremmo ancora riuscire a dimostrare l’utilità politica di questi strumenti teorici da una prospettiva rivoluzionaria, in particolare nel contesto francese. Il nostro tempo è confuso, confusionista, e sono d'accordo con Daniel Bensaïd che ha dichiarato la sua ostilità “alla mitologia delle origini per rispondere al panico identitario”. Le nozioni sopra menzionate sembrano comportare ambiguità e questo rimane sempre il caso quando cerchiamo loro sostituti, come lo status di “afro-discendente” che alcuni concedono a un individuo se, e solo se, i suoi antenati sub-sahariani “rappresentano più di 6,25% del totale dei suoi antenati”, criterio sufficiente per influenzare “l'aspetto” di questa persona. Tale precisione numerica è qualcosa su cui richiamare l’attenzione…

Da parte sua, CLR James ha scritto in The Black Jacobins : “In politica la questione della razza è subordinata a quella della classe, e pensare all’imperialismo in termini di razza è disastroso. Ma trascurare il fattore razziale come meramente incidentale è un errore non meno grave che renderlo fondamentale.  [ 1 ]  » James, che si dichiarava Lenin e Trotsky, cercò di tracciare un parallelo tra il fallimento dei dirigenti bolscevichi e quello di Toussaint Louverture, il cui errore sarebbe stato quello di trascurare i pregiudizi razziali dei neri sfruttati apparendo troppo vicino agli ex proprietari bianchi. Comprendiamo chiaramente il posto che James attribuisce alla questione razziale in politica: è subordinata alla lotta di classe. In questo senso ha sempre fatto di quest'ultimo il motore della Storia, anche in un territorio segnato dalla schiavitù. La sua analisi dell'imperialismo si unisce, in una certa misura, a quella di Robert Louzon che, in occasione del centenario della conquista francese dell'Algeria, osservava: “La colonizzazione non è quindi, in realtà, quello che sembra a prima vista; non è una questione di razze e tanto meno è una questione di religione; il suo scopo non è né quello di sterminare una razza nemica né di convertire gli “infedeli”; è semplicemente l’estensione ad altre parti del pianeta del sistema di produzione dei proletari che la borghesia ha cominciato ad applicare in patria fin dalla sua nascita. » ( La Rivoluzione Proletaria , 1 marzo 1930.) Preferirei pensare che ci manchino anarchici, marxisti e materialisti coerenti per contrastare i “pazzi dell’identità”, da qualunque parte provengano.

Lei dedica molte pagine a Houria Bouteldja, portavoce del Partito Indigeno della Repubblica e autrice del saggio I bianchi, gli ebrei e noi . E affermano, nonostante le avversità, di condividere “molto in comune” con Alain Soral. Allora a cosa stai pensando?

Si tratta innanzitutto di giornali, riviste, siti o case editrici della “sinistra della sinistra” che da molti anni offrono molto spazio al portavoce dell'organizzazione da lei citata, il più delle volte con grande compiacenza e senza la minima riserva. Qui sta il problema: quello di un’alleanza apparentemente “innaturale” che non ha fatto nulla per migliorare la situazione di quelli che alcuni chiamano i discendenti dell’“immigrazione postcoloniale” o gli abitanti dei “quartieri popolari”, per non parlare degli sfruttati un'intera. Che esistano gruppi ossessionati dall'"identità", dalla "razza", dalla "mitologia delle origini" o dalla percentuale del "totale degli antenati", non è una novità nella storia francese - basta leggere ad esempio Né destra né sinistradi Zeev Sternhell. Ma che questi gruppi siano cooptati e riconosciuti come alleati legittimi da una parte significativa della “sinistra della sinistra”, come parte di una preoccupante divisione del lavoro politico, è molto più dannoso. Risulta che dopo la pubblicazione del saggio menzionato nella sua interrogazione, alcuni a sinistra sembrano aver aperto gli occhi per scoprire le produzioni testuali di questa corrente che seguiva, ormai da tempo, un versante reazionario. Meglio tardi che mai... ma il danno è fatto e molto tempo è stato perso per reagire.

Tanto più che questo discorso viene oggi ripreso in certi ambienti radicali. Il che pone altri problemi, più spinosi. Fortunatamente, la resistenza a questo spostamento generalizzato – dovuta allo stupore, alla passività, alla paura, ai legami personali, ecc. – sta crescendo. – cominciò ad emergere. Per quanto riguarda le due persone citate nella tua domanda, hanno davvero molto in comune, nel senso che hanno cercato di catturare l'attenzione di uno strato significativo di spettatori-consumatori di origine nordafricana, conservatori di fede musulmana, ostili alla classe operaia e movimenti rivoluzionari, virulenti verso l'omosessualità e il femminismo, ossessionati dai "sionisti" o sensibili alle teorie del complotto. Questi due imprenditori volevano avere successo nel campo della rappresentanza politica dei “dannati dell’imperialismo” alla maniera di un ex comico che passò dal combattere l’estrema destra alla celebrazione di un negazionista dell’Olocausto. Il che spiega, da un lato, la sua difficoltà nel condannare fermamente l'ex comico per non essersi tagliato fuori da quella che pensa sia la sua clientela, e, dall'altro, il suo sincero sostegno perché non debba caricarsi di un atteggiamento falsamente progressista in per rassicurare i propri alleati della cosiddetta sinistra “bianca”. Infatti, progressisti o rivoluzionari di origine nordafricana – oggigiorno si parla addirittura di “origine musulmana”! – non li interessano, poiché questi ultimi li combattono rifiutando i ghetti in cui vorrebbero murarli vivi.

Il pensiero postcoloniale o decoloniale ha spesso criticato la nozione di universalismo come strumento di un Occidente imperiale. Come salvarlo dalla storia coloniale?

Se una certa critica all’universalismo porta a promuovere lo svolgimento di assemblee cosiddette “non miste” nelle università o l’organizzazione di campi estivi vietati ai “bianchi”, ciò riflette in primo luogo la vittoria dell’etnodifferenzialismo nella certi circoli militanti piuttosto che quello dell’antirazzismo. Tutti a casa e mercato per tutti: le classi possidenti possono quindi dormire sonni tranquilli finché non ci sarà un grande movimento che metta in discussione la proprietà privata. Gli studi postcoloniali o decoloniali sono stati oggetto di dibattito in campo scientifico. Potremmo citare la critica formulata da Vivek Chibber per il quale, “in nome dell’antieurocentrismo, gli studi postcoloniali rigurgitano un essenzialismo culturale che la sinistra giustamente considerava come base ideologica del dominio imperiale” ( Le Monde Diplomatique , maggio 2014). Nello scrivere il mio saggio, ero particolarmente interessato agli usi politici di queste opere, alla loro influenza sui circoli radicali e agli interventi pubblici di intellettuali che affermano di appartenere a queste correnti di pensiero che coprono approcci plurali. Ma quando consultiamo, ad esempio, The Post-Colonial Studies Reader , restiamo colpiti dagli amalgami che si creano tra universalismo e omogeneità, universalità e controllo imperiale, universale ed europeo... Frantz Fanon, che è uno degli autori riappropriati dal correnti sopra citate, scriveva però in Pelle nera, maschere bianche  : “Noi crediamo che l’individuo debba tendere ad assumere l’universalismo insito nella condizione umana. » Questa proposta, che conserva tutta la sua validità, offre uno sbocco politico molto più entusiasmante dello slogan “Separazione o morte”, attorno al quale potrebbero ritrovarsi la Nation of Islam di Malcom X e il Partito nazista americano.

Purtroppo, la storia coloniale è maltrattata da ogni parte ed è oggetto di rappresentazioni fantasiose, soprattutto perché il rapporto con l’Algeria resta una questione tanto centrale quanto repressa nella società francese. Tuttavia, è anche nel movimento rivoluzionario algerino che troviamo in azione l’universalismo e l’internazionalismo. Del resto, negli archivi Messali figura la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, mentre Mohamed Dahou scriveva da parte sua: “I nostri fratelli sono al di là delle questioni di frontiera e di razza. Alcune opposizioni, come il conflitto con lo Stato di Israele, possono essere risolte solo attraverso la rivoluzione da entrambe le parti. Dobbiamo dire ai paesi arabi: la nostra causa è comune. Non c’è nessun Occidente davanti a te. » ( Potlatch, 27 luglio 1954). Dahou ha senza dubbio espresso una delle opinioni più radicali tra i suoi connazionali, rimanendo sul terreno dell'universalismo e dell'internazionalismo, allontanando i progetti panarabi o panislamici.

Concludi il tuo lavoro con l'evocazione di Mohamed Saïl, attivista comunista libertario e anticolonialista, al quale avevamo dedicato anche un articolo. Come può aiutarci ad attuare una politica di emancipazione, capace di influenzare le città e i villaggi tanto quanto i quartieri?

In conclusione, cito varie figure progressiste o rivoluzionarie del passato come Buenaventura Durruti, Emma Goldman, Ta Thu Thau, Mohamed Saïl, ecc. La mia intenzione era innanzitutto di ricordare che se il XX secolo è stato segnato da grandi catastrofi per l'umanità, ci sono stati anche tentativi di trasformare il mondo per rispondere all'alternativa storica formulata da Rosa Luxemburg: socialismo o barbarie . Ma si trattava anche di sottolineare la necessità di pensare all’unità del progetto rivoluzionario contro la volontà di atomizzare la rivolta sociale contro le ingiustizie e le disuguaglianze. Dopotutto, perché l’immaginazione politica dei discendenti dei colonizzati – sapendo che questo copre traiettorie individuali molto diverse – dovrebbe essere alimentata esclusivamente dalla questione coloniale? Perché non dovrebbero preoccuparsi della rivoluzione spagnola o della resistenza al totalitarismo, per citare solo questi due casi? Il viaggio di Saïl mostra che gli individui hanno guidato concretamente queste diverse lotte guidate dai movimenti operai e rivoluzionari, in particolare dai libertari. Il suo itinerario mostra che era possibile articolare anticapitalismo, anticolonialismo e anticlericalismo. Quando Saïl si rivolse agli indigeni algerini definendoli anarchici, non si mise in tasca la bandiera. Ha anche detto francamente: “Non aspettatevi nulla da Allah, i cieli sono vuoti e gli dei sono stati creati solo per servire lo sfruttamento e predicare la rassegnazione. Cercate la salvezza solo in voi stessi perché la vostra liberazione sarà opera vostra, o non lo sarà mai. » ( La Voix libertaire , 23 marzo 1935.) Che siamo o meno d'accordo con questa affermazione, è facile immaginare l'imbarazzo di alcuni attivisti – soprattutto libertari – se fosse riformulata oggi in questo modo.

Ma questo disagio rifletterebbe proprio la difficoltà di disegnare una politica di emancipazione che non si basi sulla separazione di principio tra le modalità di intervento nel centro città, nei “quartieri popolari” o nei villaggi. Come se gli abitanti di queste zone, al di là dei loro problemi specifici, non avessero fondamentalmente nulla in comune o non soffrissero dello stesso sistema capitalista. Al giorno d’oggi, una politica di emancipazione si fonderebbe sul rifiuto dell’opposizione mortale tra “bianchi” e “non bianchi”, come ha recentemente affermato Martine Storti. Nello stesso movimento, non c’è motivo di essere entusiasti dei surrogati che costituiscono le varianti “decoloniali” o “islamiche” del femminismo. Dobbiamo dimenticare l'audacia di Huda Sharawi o il coraggio di Katia Bengana  [ 2 ]  ? Dovremmo nascondere l'esistenza di testi sovversivi come la Lettera di Dakar o L'Algeria brucia  ? Nel suo discorso ai rivoluzionari dell’Algeria e di tutti i paesi , l’Internazionale situazionista ha avvertito: “Le prossime rivoluzioni potranno trovare aiuto nel mondo solo attaccando il mondo nella sua interezza. Il movimento per l’emancipazione dei neri americani, se riesce ad affermarsi con conseguenze, mette in discussione tutte le contraddizioni del capitalismo moderno; non deve essere mascherato dalla deviazione del nazionalismo e del capitalismo colorato dei musulmani neri. » Non mancavano mai divertimenti di ogni genere, come ironicamente notano Karl Marx e Friedrich Engels ne L'ideologia tedesca a proposito degli “industriali della filosofia”. Tutto ciò significa l’importanza cruciale degli spazi autogestiti dove si sviluppa la critica sociale, dove si organizza la solidarietà e dove la convivialità si esprime – anche – “nella diversità rivoluzionaria e nella diversità non di classe”, ovviamente.


fonte: [Fonte: https://www.revue-ballast.fr/nedjib-sidi-moussa/ 



Note:

1 ]  “La questione razziale è sussidiaria alla questione di classe in politica, e pensare all’imperialismo in termini di razza è disastroso. Ma trascurare il fattore razziale come meramente incidentale è un errore solo meno grave che renderlo fondamentale. »

2 ]  Katia Bengana era una studentessa liceale di 17 anni che fu assassinata nel 1994, a Meftah, a Metidja in Algeria, da membri di un gruppo islamico armato per aver rifiutato di indossare il velo.

Articolo pubblicato online il 15 giugno 2017
ultima modifica 26 agosto 2017


di F.G





Ballast
.– Deux camps prennent la gauche en otage, estimez-vous : les « intégristes républicains » versus les « islamo-gauchistes ». À quelle troisième voie appelez-vous ?


Nedjib Sidi Moussa.–J’estime plutôt que le mouvement ouvrier et révolutionnaire demeure, plus que jamais, pris en étau entre ses tendances opportunistes et sectaires. Ces vieilles impasses prennent à chaque époque des formes nouvelles, sans jamais offrir de réel point d’appui en faveur de l’émancipation des prolétaires de tous les pays. Parmi de nombreuses questions autrement plus sérieuses comme la guerre et l’exploitation, ma génération a été confrontée à la montée en puissance des récits dits « intégristes républicains » ou « islamo-gauchistes », présentés comme des exacts opposés mais qui ne sont, dans les faits, que les deux faces d’une même pièce menant à la confusion et la capitulation. Peut-on, par exemple, laisser dire que l’on défend la séparation des Églises et de l’État tout en soutenant l’installation des crèches de Noël dans les mairies ? Peut-on, au nom de la lutte antiraciste, s’allier avec des associations qui sont les émanations de formations intégristes ? Ce sont là des questions concrètes qui sont posées à des militants, collectifs ou organisations qui, en dépit de leur relative faiblesse numérique, possèdent une audience importante et peuvent donc influencer les débats dans un sens progressiste ou réactionnaire.

Évidemment, les polémiques successives sur le voile islamique, le débat sur l’identité nationale ou les attentats islamistes n’ont pas facilité la discussion dans le champ intellectuel – « l’affaire » Kamel Daoud en fut une illustration pathétique – ou dans les milieux militants où des clivages se sont durcis et des ruptures se sont opérées. Pourtant, je pense avec un certain optimisme que nous sommes entrés dans une phase de clarification et de décantation. L’avenir nous le dira avec plus de certitude. Pour ma part, je soutiens toute initiative, même limitée, qui soulignerait la nécessité de l’indépendance de la classe laborieuse et articulerait sur cet axe les luttes antiracistes et anticléricales. Et cela, sans rien céder aux illusions identitaires, aux modes théoriques ou à la tentation de vouloir constituer des « fronts larges » sans rivage à droite. Je ne pense pas qu’il existe de « troisième voie », dans la mesure où il s’agit plutôt de trouver une réelle alternative aux différentes manifestations de l’obscurantisme qui se déploie à l’échelle mondiale, notamment grâce aux nouvelles technologies. Au plan international, ma solidarité – qui n’est jamais inconditionnelle – va, entre autres, aux communistes irakiens qui résistent au sectarisme religieux, aux militants américains qui se démarquent de l’identity politics ou aux anarchistes vénézuéliens qui font face à un régime répressif. Les participants au congrès anti-autoritaire de Saint-Imier [de 1872] proclamaient que « la destruction de tout pouvoir politique est le premier devoir du prolétariat ». Dans cet esprit, je me méfie des alternatives qui mettraient au centre de leurs préoccupations la conquête du pouvoir au profit des « opprimés » – peu importe leur nationalité, religion, couleur, statut, etc. Dans Offense à président, Mezioud Ouldamer notait avec lucidité : « On sait, maintenant que l’Algérie est indépendante, que les esclaves d’hier sont les maîtres d’aujourd’hui. On vérifie du même coup l’étrange dialectique qui pousse l’esclave à être encore plus cruel que le maître lorsqu’il prend sa place. » La question n’est donc pas de changer de maîtres mais de s’en débarrasser pour de bon ou alors, pour citer Daenerys Targaryen : il ne s’agit pas de stopper la roue mais de la briser.

Vous louez le courant révolutionnaire, évoquez votre formation marxiste, publiez chez un éditeur anarchiste et en appelez à Socialisme ou Barbarie, tout en ciblant, page après page, la gauche radicale. Le courant que vous portez a-t-il une existence palpable ?

La conclusion du livre mentionne trois revues révolutionnaires du vingtième siècle : Internationale situationniste, Noir et Rouge ainsi que Socialisme ou Barbarie. L’essai s’appuie notamment sur des textes issus de ces périodiques qui constituent un véritable capital politique que l’on aurait tort de ne pas valoriser ou redécouvrir. Leurs animateurs intervenaient dans la lutte des classes et produisaient des articles dont beaucoup critiquaient sévèrement mais avec lucidité les obstacles (sociaux-démocrates, staliniens, etc.) dressés sur la voie de l’émancipation. La décomposition du mouvement ouvrier et la rétraction du mouvement révolutionnaire ont sans doute conduit à confondre aujourd’hui analyse et invective, débat et polémique. Si certains pensent encore que la situation se caractérise par « la crise historique de la direction du prolétariat », alors cela signifie que les organisations qui prétendent défendre les intérêts de cette classe ont des comptes à rendre. Il est donc tout à fait légitime de prendre au sérieux leurs déclarations, actions ou alliances en se demandant si elles permettent de sortir du marasme ambiant. Une autre méthode consisterait à s’interdire de pointer les dérives et glissements douteux au nom d’une unité sans forme ni contenu. Je ne me reconnais pas dans cette dernière démarche.

En revanche, j’ai évoqué dans le livre deux initiatives qui me paraissaient pertinentes dans le contexte récent en offrant des pistes d’intervention sur les plans économique et politique : Les déserteurs actifs et On bloque tout ! Je ne regrette pas ces allusions, surtout après avoir vécu le climat pesant de l’entre-deux-tours des élections présidentielles, durant lequel on a voulu faire passer les abstentionnistes ou boycotteurs pour des complices du fascisme… Pourtant, le slogan « Ni patrie ni patron ! Ni Le Pen ni Macron ! » était extrêmement juste dans la confusion ambiante. Toujours est-il que, depuis la parution de l’essai en janvier de cette année, j’ai reçu des messages, des commentaires et des invitations à discuter de son contenu de la part de militants révolutionnaires de toutes tendances (autonomes, libertaires, marxistes, syndicalistes, etc.) et de lecteurs de différentes origines ou orientations philosophiques. Ces individus qui, pour beaucoup, se battent au sein de leurs organisations contre des tendances aussi opportunistes que défaitistes, ont une existence bien plus palpable que des complaintes ou saillies publiées sur les réseaux sociaux. Et cela s’inscrit dans une bataille politique qui ne fait que commencer.

Que sont-ils ce « paternalisme » et cet « orientalisme à rebours » que vous voyez dans la gauche critique ?

Au début des années 1980, Sadik Jalal Al-Azm proposait une critique de L’Orientalisme d’Edward Saïd. Al-Azm soulignait le caractère anhistorique de l’orientalisme tel que présenté par Saïd. Selon lui, cette approche conduisait à essentialiser l’opposition entre Occident et Orient, ou encore à privilégier une lecture idéaliste au détriment d’une analyse matérialiste de l’expansionnisme occidental. Al-Azm mettait en lumière l’existence d’un « orientalisme ontologique », en tant que doctrine créée par l’Europe moderne et qui stipule l’existence d’une différence ontologique radicale entre l’Orient et l’Occident. Cet orientalisme – que l’on pourrait qualifier de différentialiste – a laissé son empreinte en Orient, où s’est constitué un discours reprenant les mêmes travers essentialistes qu’en Occident, mais avec une connotation méliorative. C’est ce qu’Al-Azm a appelé « l’orientalisme à rebours ». Il soulignait également la tendance chez certains intellectuels arabes consistant à faire de l’« islam politique populaire » l’instrument du salut national depuis la révolution iranienne. Gilbert Achcar a repris plus tard cette notion pour montrer que l’on retrouvait, avec des nuances, ce courant chez les orientalistes français après 1979. Achcar critiquait notamment François Burgat, pour qui l’islamisme représenterait « le troisième étage de la fusée de la décolonisation ». Pourtant, ce sont les analyses de Burgat plutôt que celles d’Achcar – sans même parler d’Al-Azm ou d’autres matérialistes arabes, comme Georges Tarabichi – qui font parfois autorité jusque dans les milieux radicaux de France par la grâce de certains universitaires, éditeurs, journalistes ou organisations.

Le paternalisme, quant à lui, implique une situation de subordination et d’inégalité dans laquelle les « dominés » – par exemple, des ouvriers ou des colonisés du siècle dernier – faisaient l’objet d’une attitude bienveillante – de patrons ou États – qui cherchaient ainsi à prévenir toute action autonome remettant en question leur tutelle. Cette inclination se retrouve aussi chez certains courants ou individus de gauche, sûrs de leur légitimité à dicter leur attitude aux « dominés », à choisir leurs interlocuteurs parmi ces derniers et à donner de la visibilité à leurs initiatives – mêmes ambiguës ou réactionnaires – du moment que le principe de séparation est respecté, que la frontière entre « eux » et « nous » est rigoureusement maintenue. Mais il existe aussi un « paternalisme à rebours », que dénoncèrent des trotskistes en pointant le silence de certains anticolonialistes français devant l’assassinat de syndicalistes algériens (La Vérité, 3 octobre 1957). Cette attitude – autrement problématique et caractéristique d’un certain anti-impérialisme – consiste donc à applaudir à tout rompre quand les « dominés » paraissent aller dans le bon sens et à éviter la moindre critique publique – y compris quand cela est nécessaire – afin d’éviter ou retarder un procès en paternalisme qui finit pourtant par arriver d’une manière ou d’une autre…

Vous dénoncez le fait que les musulmans soient devenus les « bouc-émissaires » de la société française tout en vous montrant critique à l’endroit de la notion d’« islamophobie ». Pinaillage étymologique ou dossier de fond ?

Les « musulmans » – réels ou présumés – sont l’objet de nombreuses sollicitations contradictoires dans la France de 2017. En tant que consommateurs, ils sont les cibles privilégiées du marketing dit ethnique à travers la niche du halal, pour le grand plaisir des grandes marques et des chaînes de supermarchés. En tant qu’électeurs, ils ont les faveurs des états-majors – toutes tendances confondues – en raison de la croyance dans l’existence d’un « vote musulman » ou de la sensibilité supposée de ce groupe à certaines questions. Qu’ils soient perçus comme consommateurs ou électeurs, l’essentiel est donc qu’ils demeurent « musulmans », ce qui révèle la force de l’assignation identitaire – à coloration confessionnelle de surcroît – et constitue une véritable violence symbolique pour les athées, agnostiques, libres penseurs, hétérodoxes et non pratiquants. Pourtant, on a désigné par le passé ces mêmes personnes avec d’autres mots ou expressions comme « beurs » dans les années 1980, « travailleurs arabes » dans les années 1970, « ouvriers nord-africains » dans les années 1950. Cela ne signifie pas que ces termes étaient plus corrects mais cette évolution souligne autant la démonétisation du référent ouvrier dans les discours publics que le remplacement des idéaux nationalistes, socialistes ou panarabes par l’hégémonie islamiste sur la rive sud de la Méditerranée. Bien sûr, les « musulmans » ne sont pas complètement passifs dans la mise en œuvre des processus décrits plus haut.

De fait, certains courtiers ou entrepreneurs communautaires y voient de nouvelles opportunités afin de satisfaire leurs intérêts personnels ou leur projet de société. Mais cela ne réglera en rien le sort de la grande majorité des « musulmans », qui a plutôt à voir avec les couches de la population française les moins favorisées économiquement. Seule une minorité – plutôt bien dotée en capitaux économiques ou scolaires – pourra accéder à des postes de représentation ou intégrer l’élite dirigeante grâce à la « diversité », qui joue contre l’égalité comme le rappelait Walter Benn Michaels. Le reste sera condamné à la stagnation ou à la relégation – au même titre que les autres composantes des classes populaires de France –, les discriminations en plus. Ces dernières n’ont d’ailleurs pas forcément de rapport direct avec la religion réelle ou supposée des individus mais plutôt avec le pays d’origine ou le statut social. C’est pourquoi je suis extrêmement sceptique devant la volonté de vouloir simplifier les enjeux à travers une grille de lecture exclusivement religieuse sans percevoir l’émergence d’une Muslim misleadership class, pour reprendre l’expression de Nazia Kazi. Cependant, on ne peut occulter les effets de certains discours dans les champs médiatique et politique tendant à fixer l’attention du grand public sur les « musulmans » et venant alimenter les peurs, notamment depuis que le terrorisme islamiste s’est déployé en Europe et en Amérique ou que des pratiques rétrogrades sont devenues plus visibles en France.

Néanmoins, et en toute rigueur, on ne peut fermer les yeux sur les usages ambivalents de la notion d’« islamophobie » par certains acteurs nationaux ou internationaux – je pense notamment à l’Organisation de la coopération islamique –, qui souhaitent amalgamer attaques intolérables contre des personnes et critique légitime des institutions religieuses, discriminations (à l’embauche, au logement, aux loisirs) et instauration du délit de blasphème. Sur cette question, La Lettre aux escrocs de l’islamophobie de Charb demeure toujours pertinente. Je partage aussi la vigilance de libres penseurs internationaux qui ne confondent pas liberté de conscience et liberté de religion, d’autant que mon anticléricalisme ne se dissout pas dans mes convictions antiracistes, bien au contraire. C’est pourquoi je refuse avec la même force la confessionnalisation et la racialisation de la question sociale car leur triomphe définitif signifierait la disparition de toute issue réellement émancipatrice.

Pourquoi ne pas reproduire la fameuse « main tendue » du Parti communiste aux catholiques à l’endroit des musulmans, dont on sait qu’un nombre non négligeable d’entre eux appartient aux classes populaires ?

Ceux que l’on a tendance à désigner à travers le terme « musulmans » ne constituent en rien un groupe social homogène. D’ailleurs, on regroupe parfois derrière ce mot non seulement des personnes qui se déclarent musulmanes mais aussi des individus de « culture musulmane » ou qui auraient un parent musulman. On devine sans trop de difficultés où ce genre de glissements peut nous entraîner – et j’évoque dans le livre la possibilité de formation d’une caste de Musulmans en tant que sous-groupe national. Admettons que ces « musulmans » aient un rapport privilégié avec les classes populaires, en partant du principe que ceux-ci comprennent les descendants des prolétaires maghrébins ou subsahariens auxquels s’ajoutent les populations issues de l’ancien empire ottoman – voire au-delà –, sans oublier les convertis. Ces personnes ont donc des origines géographiques diverses et qui recouvrent également de fortes disparités régionales ou culturelles, ainsi que des rapports différenciés à la société française en raison de l’histoire qui n’est pas seulement coloniale. On peut aussi concevoir qu’il y ait parmi ce groupe des commerçants, artisans, entrepreneurs, hauts fonctionnaires, artistes, policiers, délinquants, etc. A priori, il n’y a donc pas de raison de penser que ce groupe ne soit pas traversé par des clivages économiques, même si certains voudraient en faire un « peuple-classe », à la manière d’Abraham Léon dans sa Conception matérialiste de la question juive. Par ailleurs, au plan individuel, certains « musulmans » sont sans doute plus proches des personnages dépeints par Philip Roth dans Goodbye, Colombus que des caricatures médiatisées à outrance. Alors sur quelles bases et pour quels motifs faudrait-il leur tendre la main ?

La main du Parti communiste a été tendue aux catholiques dans un contexte électoral et en perspective du Front populaire. Il faut relire le discours de Maurice Thorez qui parlait au nom des communistes qui avaient « réconcilié le drapeau tricolore de nos pères et le drapeau rouge de nos espérances » et appelait à voter pour « la France forte » (L’Humanité, 17 avril 1936). L’ensemble était d’une tonalité populiste plutôt qu’ouvriériste, fortement teinté de patriotisme, et mettait une sourdine à l’anticléricalisme du PC. Marceau Pivert avait publié une brochure en réponse à cette « main tendue » du PC. Selon Pivert, dans la lutte contre l’exploitation capitaliste, « il arrive que des catholiques, conservant leurs croyances, soient entraînés aux côtés des masses révolutionnaires. Mais ce n’est pas parce qu’on leur a tendu la main en ménageant le système d’exploitation intellectuelle dont ils sont victimes, c’est au contraire en conduisant une attaque vigoureuse contre leurs exploiteurs : frères en tant qu’exploités mais non pas frères en tant que catholiques ! ». Je ne surprendrais pas vos lecteurs en affirmant ma proximité avec Pivert sur cette question. Dans une perspective anticapitaliste, il n’y a pas lieu de faire dans l’interreligieux à l’instar d’autres groupements interclassistes pour qui les musulmans doivent exister en tant que communauté de croyants afin de dialoguer avec les institutions chrétiennes, juives, etc., et promouvoir un « vivre ensemble » où toutes les religions pourraient s’exprimer dans l’espace public et bénéficier de l’argent du contribuable. Mais cela pose en réalité deux autres questions : qui tend la main à qui ? Et qui nous dit que cette main n’est pas déjà tendue en réalité, notamment en période électorale ?

Vous citez Camus à plusieurs reprises. Tariq Ramadan, que vous critiquez, dit de Camus, dans son livre avec Edgar Morin, qu’il lui donna envie de devenir un « contre-pouvoir, résistant, éthique et toujours constructif ». Il existe donc des convergences inattendues !

J’ai beaucoup de respect pour Edgar Morin, en particulier pour ses engagements politiques de jeunesse quand, en rompant avec le stalinisme, il continuait à défendre l’idéal socialiste – notamment à travers son activité au sein du Comité de liaison et d’action pour la démocratie ouvrière, mais aussi en animant la revue Arguments. Il s’était aussi engagé contre le colonialisme français en lançant le Comité des intellectuels contre la poursuite de la guerre en Afrique du Nord. Au sein de ce comité, il dut faire face à l’hostilité de sartriens, qui, en raison de leur soutien inconditionnel au Front de libération nationale, calomniaient les messalistes dont il était proche et dont il n’a jamais cessé de défendre l’honneur. En ce sens, il était plus proche d’Albert Camus que de Jean-Paul Sartre sur la question algérienne. Pour rappel, Camus avait soutenu le comité pour la libération de Messali Hadj et des victimes de la répression. Il avait aussi protesté contre l’assassinat des syndicalistes messalistes par le FLN. Camus, qui n’était cependant pas indépendantiste, notait dans ses Chroniques algériennes : « Il m’a paru à la fois indécent et nuisible de crier contre les tortures en même temps que ceux qui ont très bien digéré Melouza ou la mutilation des enfants européens. Comme il m’a paru nuisible et indécent d’aller condamner le terrorisme aux côtés de ceux qui trouvent la torture légère à porter. » Rares étaient les anticolonialistes français à dénoncer publiquement le massacre de Melouza, les exactions de l’armée française ou les violences contre les civils. Camus avait également soutenu l’appel de Messali pour la cessation des luttes fratricides entre Algériens et des attentats terroristes. L’œuvre de Camus – de L’Étranger au Premier Homme en passant par Les Justes – est suffisamment importante pour inspirer des individus aux sensibilités variées. Chacun peut y trouver des réflexions stimulantes, à condition de ne pas le lire de travers. De mon point de vue, il peut y avoir convergence avec tous ceux qui se battent sincèrement pour l’émancipation mais sans rien céder au nationalisme ou à l’obscurantisme, sans rester silencieux sur certaines dérives des « opprimés » au nom du soutien inconditionnel, sans se laisser prendre dans des alliances aux contours flous au nom de l’anti-impérialisme ou de la lutte contre la répression étatique. De la même manière, il n’y a pas lieu d’être aujourd’hui sélectif dans sa quête de la vérité ou dans ses indignations, qu’il s’agisse des disparitions tragiques d’Adama Traoré, Liu Shaoyao ou Sarah Halimi.

La « race », comme outil sociologique visant à penser la question du racisme, est une affaire « fumeuse », estimez-vous. Le marxiste caribéen C.L.R. James estimait qu’on ne pouvait « traiter le facteur racial avec négligence », pas plus qu’on ne pouvait le « considérer comme fondamental ». Cette ligne de crête, qui renvoie dos à dos les marxistes paléolithiques et les forcenés de l’identité, n’est-elle pas la meilleure voie d’entre toutes ?

Essayons d’être précis dans les citations pour éviter les faux procès intentés par certains lecteurs, trop pressés d’en découdre en raison de mon nom, mon itinéraire ou mes convictions. Dans le livre, j’ai employé le terme « fumeuse » pour qualifier la notion de « race sociale », employée par Sadri Khiari dans La Contre-révolution coloniale en France. Dans cette logique, penser la conflictualité sociale à travers le prisme racial amène à présenter un champ politique mondial structuré par la confrontation entre un « Pouvoir blanc » et une « Puissance politique indigène ». Le primat du facteur racial conduit à une impasse totale d’un point de vue émancipateur, car cela placerait la confrontation sur le même terrain que celui des identitaires d’extrême droite qui prônent la « remigration », au nom d’une prétendue lutte contre l’« islamisme » ou en réponse au « grand remplacement », et véhiculent des thèses ethno-différentialistes qui pénètrent toutes les strates de la société. Je partage les remarques d’Amin Maalouf qui, dans Les Identités meurtrières, exprimait ses inquiétudes sur le fonctionnement du monde quand des personnes aux appartenances multiples « sont constamment mises en demeure de choisir leur camp, sommées de réintégrer les rangs de leur tribu ». Il ajoutait que c’était de la sorte que l’on fabriquait des « massacreurs ». Dans Les Exécuteurs, Harald Welzer soulignait la vitesse des « processus d’ethnicisation » dans l’ex-Yougoslavie ou de la nazification de la société allemande. De nos jours, des notions comme la « race » et l’« identité » ont été rapidement réappropriées, sans la moindre critique, par certains milieux militants porteurs d’un discours radical – et je ne parle pas ici de discussions savantes dans les colloques ou séminaires universitaires. Il faudrait tout de même réussir à démontrer l’utilité politique de ces outils théoriques dans une perspective révolutionnaire, en particulier dans le contexte français. Notre époque est confuse, confusionniste, et je suis en accord avec Daniel Bensaïd qui avait déclaré son hostilité « à la mythologie des origines pour répondre à la panique identitaire ». Les notions précitées apparaissent porteuses d’ambiguïtés et cela demeure toujours le cas quand on leur cherche des substituts comme le statut d’« afro-descendant » que certains accordent à un individu si, et seulement si, ses ancêtres subsahariens « représentent plus de 6,25 % du total de ses ancêtres », critère suffisant pour influer sur « l’apparence » de cette personne. Une telle précision chiffrée a de quoi interpeller…

Pour sa part, C.L.R. James écrivait dans The Black Jacobins : « En politique, la question des races est subordonnée à celle des classes, et penser l’impérialisme en termes de race est désastreux. Mais négliger le facteur racial comme simplement accessoire est une erreur à peine moins grave que de le rendre fondamental. [1] » James, qui se réclamait de Lénine et Trotski, tentait de dresser un parallèle entre l’échec des dirigeants bolcheviks et celui de Toussaint Louverture, dont le tort aurait été de négliger les préjugés raciaux des exploités noirs en apparaissant trop proche des anciens propriétaires blancs. On comprend clairement la place que James donne à la question raciale en politique : elle est subordonnée à la lutte des classes. En ce sens, il faisait toujours de cette dernière le moteur de l’Histoire, y compris sur un territoire marqué par l’esclavage. Son analyse de l’impérialisme rejoint, dans une certaine mesure, celle de Robert Louzon qui notait au moment du centenaire de la conquête française de l’Algérie : « La colonisation n’est donc pas, en fait, ce qu’elle paraît être à première vue ; elle n’est pas affaire de races et elle est encore bien moins affaire de religion ; elle n’a pour raison ni d’exterminer une race ennemie, ni de convertir des “infidèles” ; elle est simplement l’extension à d’autres parties de la planète du système à fabriquer des prolétaires que la bourgeoisie a commencé à appliquer chez elle dès sa naissance. » (La Révolution prolétarienne, 1er mars 1930.) J’aurais plutôt tendance à penser que l’on manque d’anarchistes, de marxistes et de matérialistes conséquents pour contrer les « forcenés de l’identité », d’où qu’ils viennent.

Vous consacrez de nombreuses pages à Houria Bouteldja, porte-parole du Parti des indigènes de la République et auteure de l’essai Les Blancs, les Juifs et nous. Et affirmez, malgré leur adversité, qu’elle partage « beaucoup en commun » avec Alain Soral. À quoi songez-vous donc ?

Ce sont d’abord des journaux, revues, sites ou éditeurs de la « gauche de la gauche » qui ont, durant de nombreuses années, offert beaucoup d’espaces à la porte-parole de l’organisation que vous mentionnez, le plus souvent avec une grande complaisance et sans la moindre réserve. Là réside le problème : celui d’une alliance « contre-nature » en apparence et qui n’a permis en rien d’améliorer la situation de ceux que certains appellent les descendants de « l’immigration postcoloniale » ou les habitants des « quartiers populaires » pour ne pas parler des exploités dans leur ensemble. Qu’il existe des groupes obsédés par l’« identité », la « race », la « mythologie des origines » ou le pourcentage du « total de ses ancêtres », cela n’est pas nouveau dans l’histoire française – il suffit par exemple de lire Ni droite ni gauche de Zeev Sternhell. Mais que ces groupes soient cooptés et reconnus comme alliés légitimes par un pan non négligeable de la « gauche de la gauche », dans le cadre d’une troublante division du travail politique, cela est autrement dommageable. Il se trouve que depuis la parution de l’essai mentionné dans votre question, certains, à gauche, semblent avoir ouvert les yeux pour découvrir les productions textuelles de ce courant qui suivait, depuis un moment déjà, une pente réactionnaire. Mieux vaut tard que jamais… mais le mal est fait et beaucoup de temps a été perdu au profit de la réaction.

D’autant que ce discours se retrouve désormais repris dans certains milieux radicaux. Ce qui pose d’autres problèmes, plus épineux. Fort heureusement, une résistance à ce glissement généralisé – dû à la stupéfaction, la passivité, la peur, les liens personnels, etc. – a commencé à se faire jour. Quant aux deux personnes citées dans votre question, elles ont en effet beaucoup en commun dans le sens où elles ont cherché à capter l’attention d’une couche non négligeable de consommateurs-spectateurs d’origine maghrébine, des conservateurs de confession musulmane, hostiles au mouvement ouvrier et révolutionnaire, virulents à l’égard de l’homosexualité et du féminisme, obnubilés par les « sionistes » ou sensibles aux thèses conspirationnistes. Ces deux entrepreneurs ont souhaité réussir sur le terrain de la représentation politique des « damnés de l’impérialisme » à la manière d’un ancien humoriste passé de la lutte contre l’extrême droite à la célébration d’un négationniste. Ce qui explique, pour l’une, sa difficulté à condamner fermement l’ex-comique pour ne pas se couper de ce qu’elle pense être sa clientèle, et, pour l’autre, son franc soutien car il n’a pas à s’encombrer d’une posture faussement progressiste afin de rassurer ses alliés de la gauche dite « blanche ». De fait, les progressistes ou révolutionnaires d’origine maghrébine – de nos jours on parle même d’« origine musulmane » ! – ne les intéressent pas, puisque ces derniers les combattent en refusant les ghettos dans lesquels on voudrait les emmurer vivants.

La pensée postcoloniale ou décoloniale a souvent critiqué la notion d’universalisme, comme outil d’un Occident impérial. Comment le sauvez-vous de l’histoire coloniale ?

Si une certaine critique de l’universalisme conduit à promouvoir la tenue d’assemblées dites « non mixtes racisé-e-s » dans les universités ou l’organisation de camps d’été interdits aux « Blanc-he-s », alors cela traduit d’abord la victoire de l’ethno-différentialisme dans certains milieux militants plutôt que celui de l’antiracisme. Chacun chez soi et le marché pour tous : les classes possédantes peuvent ainsi dormir sur les deux oreilles tant qu’il n’existe pas de mouvement d’ampleur remettant en cause la propriété privée. Les études postcoloniales ou décoloniales ont fait l’objet de débats au sein du champ scientifique. On pourrait mentionner la critique formulée par Vivek Chibber pour qui, « au nom de l’anti-eurocentrisme, les études postcoloniales régurgitent un essentialisme culturel que la gauche considérait à raison comme un socle idéologique de la domination impériale » (Le Monde diplomatique, mai 2014). Pour la rédaction de mon essai, j’ai surtout été intéressé par les usages politiques de ces travaux, leur influence sur les milieux radicaux et les interventions publiques d’intellectuels se réclamant de ces courants de pensée qui recouvrent des approches plurielles. Mais quand on consulte, par exemple, The Post-Colonial Studies Reader, on est frappé par les amalgames opérés entre universalisme et homogénéité, universalité et contrôle impérial, universel et européen… Frantz Fanon, qui fait partie des auteurs réappropriés par les courants précités, écrivait pourtant dans Peau noire, masques blancs : « Nous estimons qu’un individu doit tendre à assumer l’universalisme inhérent à la condition humaine. » Cette proposition, qui conserve toute sa validité, propose un débouché politique bien plus enthousiasmant que le mot d’ordre « Separation or Death », autour duquel pouvaient se retrouver la Nation of Islam de Malcom X et l’American Nazi Party.

Malheureusement, l’histoire coloniale est malmenée de toutes parts et fait l’objet de représentations fantasmées d’autant que le rapport à l’Algérie demeure une question aussi centrale que refoulée dans la société française. Cependant, c’est aussi dans le mouvement révolutionnaire algérien que l’on retrouve l’universalisme et l’internationalisme en actes. Après tout, la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen de 1789 figure dans les archives de Messali, tandis que Mohamed Dahou écrivait de son côté : « Nos frères sont au-delà des questions de frontière et de race. Certaines oppositions, comme le conflit avec l’État d’Israël, ne peuvent être résolues que par la révolution dans les deux camps. Il faut dire aux pays arabes : notre cause est commune. Il n’y a pas d’Occident en face de vous. » (Potlatch, 27 juillet 1954). Dahou exprimait sans doute une opinion des plus radicales parmi ses compatriotes, en restant sur le terrain de l’universalisme et de l’internationalisme, en mettant à distance les projets panarabe ou panislamique.

Vous concluez votre ouvrage par l’évocation de Mohamed Saïl, militant communiste libertaire et anticolonialiste, auquel nous avions d’ailleurs consacré un article. Comment peut-il nous aider à mettre en œuvre une politique émancipatrice, capable de toucher les villes et les villages autant que les quartiers ?

En guise de conclusion, j’évoque différentes figures progressistes ou révolutionnaires du passé comme Buenaventura Durruti, Emma Goldman, Ta Thu Thau, Mohamed Saïl, etc. Mon intention était d’abord de rappeler que si le XXe siècle fut marqué par des catastrophes majeures pour l’humanité, il y eut aussi des tentatives de transformer le monde pour répondre à l’alternative historique formulée par Rosa Luxemburg : socialisme ou barbarie. Mais il s’agissait aussi de souligner la nécessité de penser l’unité du projet révolutionnaire à rebours des volontés d’atomiser la révolte sociale contre les injustices et les inégalités. Après tout, pourquoi les imaginaires politiques des descendants de colonisés – sachant que cela recouvre des trajectoires individuelles très diverses – seraient-ils travaillés exclusivement par la question coloniale ? Au nom de quoi ne seraient-ils pas concernés par la révolution espagnole ou la résistance au totalitarisme pour ne citer que ces deux cas ? Le parcours de Saïl montre que des individus ont mené concrètement ces différents combats portés par le mouvement ouvrier et révolutionnaire, en particulier par les libertaires. Son itinéraire montre qu’il a été possible d’articuler anticapitalisme, anticolonialisme et anticléricalisme. Quand Saïl s’adressait en tant qu’anarchiste aux indigènes algériens, il ne mettait pas son drapeau dans sa poche. Il disait même avec franchise : « N’attendez rien d’Allah, les cieux sont vides, et les dieux n’ont été créés que pour servir l’exploitation et prêcher la résignation. Ne recherchez le salut qu’en vous-mêmes car votre libération sera votre œuvre, ou elle ne sera jamais. » (La Voix libertaire, 23 mars 1935.) Que l’on soit d’accord ou non avec cette déclaration, on imagine sans peine la gêne de certains militants – notamment libertaires – si elle était reformulée de la sorte aujourd’hui.

Mais cette gêne traduirait justement la difficulté à concevoir une politique émancipatrice qui ne reposerait pas sur la séparation de principe entre les modes d’intervention en centre-ville, dans les « quartiers populaires » ou les villages. Comme si les habitants de ces zones, au-delà de leurs problématiques spécifiques, n’avaient fondamentalement rien en commun ou ne subissaient pas le même système capitaliste. De nos jours, une politique émancipatrice reposerait sur le refus de l’opposition mortifère entre « Blancs » et « non-Blancs », comme l’a récemment exprimé Martine Storti. Dans le même mouvement, il n’y a pas lieu de s’enthousiasmer pour les ersatz que constituent les déclinaisons « décoloniales » ou « islamiques » du féminisme. Faudrait-il oublier l’audace de Huda Sharawi ou le courage de Katia Bengana [2] ? Faudrait-il occulter l’existence de textes aussi subversifs que la Lettre de Dakar ou L’Algérie brûle ? Dans son Adresse aux révolutionnaires d’Algérie et de tous les pays, l’Internationale situationniste avertissait : « Les prochaines révolutions ne peuvent trouver d’aide dans le monde qu’en s’attaquant au monde, dans sa totalité. Le mouvement d’émancipation des Noirs américains, s’il peut s’affirmer avec conséquence, met en cause toutes les contradictions du capitalisme moderne ; il ne faut pas qu’il soit escamoté par la diversion du nationalisme et capitalisme de couleur des Black Muslims. » Les diversions en tout genre n’ont jamais manqué, comme Karl Marx et Friedrich Engels le notaient avec ironie dans L’Idéologie allemande au sujet des « industriels de la philosophie ». Tout cela signifie l’importance cruciale d’espaces autogérés où s’élabore la critique sociale, où s’organise la solidarité et où s’exprime – aussi – la convivialité, « en mixité révolutionnaire et non-mixité de classe », bien évidemment.

[Source : https://www.revue-ballast.fr/nedjib-sidi-moussa/]


martedì 23 aprile 2024

Intervista a Miquel Amorós per la rivista di ecologia politica della Svizzera romanda di Losanna Moins!, edizione di gennaio 2024

 


 

- Puoi spiegarci perché e come le nocività superino (o addirittura annullino) i benefici del progresso tecno scientifico?

È così perché le forze produttive a partire da un certo momento dello sviluppo scientifico e tecnico, collocabile negli anni Sessanta del secolo scorso, sono diventate eminentemente distruttive. Più importante è il progresso di cui tu parli, maggiori sono gli inconvenienti. In questa fase, i risultati positivi delle innovazioni tecniche non compensano in alcun modo i risultati negativi, di cui non si può nascondere l’enorme portata: spreco, inutilità, crisi strutturale, inquinamento, disastri ambientali, perdita di posti di lavoro, di qualità e di conoscenze, disuguaglianze e anomia sociale, pericoli inerenti alla sua attuazione come l’aumento delle malattie mentali, ecc. La nozione di progresso, caratteristica differenziale dell'ideologia borghese, si basa sull'ipotesi che l'essere umano è un animale che fabbrica strumenti grazie ai quali può dominare le forze della natura. Da questo punto di vista, il progresso è eminentemente dominio tecnologico e, secondo i suoi adulatori progressisti, inevitabile. Ebbene, in un'economia di mercato, tale progresso – in realtà accumulazione di capitale, dominio della merce – richiede la completa artificializzazione del mondo e quindi la sua denaturazione più o meno violenta a seconda della resistenza incontrata. L’opera di artificializzazione è dovuta più alle nuove tecnologie che alle forze repressive statali. La conseguenza diretta di quest’artificializzazione imposta e facilitata dall'elettronica, è infine lo sradicamento totale del genere umano e la sua assoluta dipendenza dal sistema tecnico. Il dominio delle cose ha generato quello degli individui.

- Stiamo osservando una standardizzazione e atomizzazione delle nostre società: quali collegamenti vedi con la potenza sempre crescente delle nostre tecniche?

Le tecniche digitali hanno completato la colonizzazione e l’industrializzazione della vita quotidiana, trasformando così gli esseri umani in abitanti di uno spazio virtuale, automi consumatori e cittadini sottomessi, totalmente controllati e perfettamente sostituibili. Hanno creato l'homo economicus, la creatura completamente subordinata all'economia e asservita alla macchina. Il cosiddetto progresso ha intrappolato gli individui, modellandoli e addestrandoli a piacimento. L'intera società diventa così un'immensa industria automatizzata dove le tecniche mediano tutte le relazioni: sono una sorta di protesi della vita privata delle persone. È la vita staccata dal suolo, ridotta agli imperativi industriali, un’esistenza limitata ai movimenti prevedibili e facilmente calcolabili, cioè macchinabili. Per combattere sono necessari diversi combattenti, ma per consumare un solo consumatore è sufficiente. Atomizzazione e standardizzazione, massificazione e addomesticamento, sono i tratti che meglio riflettono la generalizzazione dello stile di vita docile, consumistico e solitario sotto il regime tecno-capitalista.

- Anche se fermassimo tutto, cosa fare del rimanente del sistema industriale?

Se il principio regolatore della società non fosse la merce, il sistema industriale, che è la materializzazione del suo regno, diventerebbe obsoleto. Ciò non funzionerebbe senza le relazioni sociali mediate dagli oggetti, vale a dire senza i suoi meccanismi riproduttori. Per i rapporti diretti, senza denaro e senza altra astrazione, il sistema va quindi smantellato, tranne che nelle parti che possono essere dirottate per soddisfare dei bisogni reali, senza, però, provocare dipendenze indesiderabili (economiche, tecniche, politiche, militari...), o divisioni insormontabili (tra ricchi e poveri, dirigenti ed esecutori, operai e impiegati, tecnici e operai, agricoltori e proletari urbani, produttori e consumatori, ecc.). Pertanto, proprio perché la tecnica non è mai neutra, essa assume a un dato momento una dimensione liberatrice. Paradossalmente, usate con diligenza sovversiva –sviate ad arte –, le macchine possono servire a distruggere la società che le ha prodotte.

- Come ricostruire una società vitale e desiderabile, per esempio attorno a un'economia di sussistenza? Con quali limiti alle tecniche, materiali o immateriali?

In una società giusta, egualitaria e autogestita, senza Stato, senza classi, una società dove regni un unico interesse, comune a tutti, e dove l’ordine, inscritto nella memoria delle lotte passate, nasca dalla “volontà essenziale”, naturalmente, attraverso l'esperienza.

In una nuova gemeinschaft l’economia non sarà mai una sfera autonoma, separata dall’insieme dell’attività umana. Qualificare quest’attività particolare, strettamente legata ad altre attività comunitarie, come un'economia di sussistenza, significa considerarla da un punto di vista capitalista. In una tale società si utilizzeranno tecniche che non la mettono in pericolo, cioè quelle che ne favoriscono lo sviluppo orizzontale e collettivo, quelle che Ivan Illich definisce conviviali e che Mumford chiama democratiche. Si tratta di tecniche centrate sull'umano e non sul dominio, basate sulla produzione locale, sulla padronanza degli strumenti, sul riciclaggio... L'autore de “Il mito della macchina”, evidenzia pratiche correlate come quella di "autogoverno comunitario, libera comunicazione tra eguali, accesso illimitato al patrimonio comune di conoscenze, protezione da controlli esterni arbitrari e senso della responsabilità morale individuale per comportamenti che riguardino l’insieme della comunità”. Tutto questo ha una lunga storia, dall'organizzazione clanica al sistema dei Comuni e dei Consigli del Medioevo, passando per le varie istituzioni consuetudinarie e le realizzazioni rivoluzionarie: scavatori inglesi (diggers), collettività spagnole, liberi soviet ucraini...

- E in questo nuovo mondo, che fare del desiderio di potenza, visibile ovunque, mai messo in discussione da nessuna parte, sinistra radicale compresa?

Il desiderio o volontà di potenza si diffonde con l'individualismo, pilastro dell'ideologia borghese. Questo rifiuto assoluto dell’autonomia individuale conduce direttamente all’organo ideale dell’accumulazione del potere: lo Stato. La proiezione fuori di sé, cioè l'alienazione, o in altre parole la falsa coscienza degli individui adattati al mondo delle tecno scienze, questo è il grosso problema. Gli antichi greci inventarono l'ostracismo, un sistema di voto segreto (con gusci di ostriche) che prevedeva di bandire chiunque fosse considerato dai cittadini un pericolo per il regime democratico. Nel nostro tempo, tuttavia, basterebbe rafforzare i legami comunitari affinché una società autogovernata sia in grado di impedire l’emergere di gerarchie formali o informali rivelatrici di una volontà di potenza dissimulata. Per concludere: rendere impossibile la formazione di qualsiasi burocrazia capace di dar vita a un apparato parastatale e, di conseguenza, a un'organizzazione meccanica di controllo capace di impadronirsi della volontà di migliaia di uomini e donne forzandoli verso l'industrializzazione. In attesa del rafforzamento delle comunità e della scomparsa delle mentalità colonizzate dall’industrialismo, in altre parole che gli uomini e le donne si reinventino, fatto che richiederà i più grandi sforzi, si può fare appello all’elezione dei delegati all’assemblea; il mandato imperativo, il controllo degli eletti, la rotazione delle cariche rappresentative, la revocabilità, la non rieleggibilità e ogni altro ostacolo al dirigismo possono essere di grande aiuto. Insomma, la democrazia diretta.

 

Miguel Amorós, 20 dicembre 2023




Interview à Miguel Amorós pour le journal suisse romand d’écologie politique de Lausanne Moins!, numéro de janvier 2024.

 

- Pouvez-vous nous expliquer pourquoi et comment les nuisances dépassent (voire annulent) les bénéfices du progrès technoscientifique ?

 

Il est ainsi parce que les forces productives à partir d’un certain moment du développement scientifique et technique, que l’on peut situer dans les années soixante du siècle dernier, deviennent éminemment destructrices. Plus ce progrès dont tu parles est important, plus les inconvénients sont grands. Á ce stade, les résultats positifs des innovations techniques ne compensent en rien les résultats négatifs, dont on ne peut cacher leur énorme ampleur : gaspillage, inutilité, crise structurelle, pollution, catastrophes environnementales, perte d'emplois, de qualité et de connaissances, inégalités et anomie sociale, dangers inhérents à sa mise en œuvre comme l'augmentation des maladies mentales, etc. La notion de progrès, caractéristique différentielle de l'idéologie bourgeoise, repose sur l'hypothèse que l'être humain est un animal qui fabrique des outils grâce auxquels il peut dominer les forces de la nature. Sous ce point de vue, le progrès est éminemment domination technologique et, d’après ses flatteurs progressistes, inévitable. Eh bien, dans une économie marchande, du tel progrès en fait de l’accumulation de capital, du domaine de la marchandise demande l’artificialisation complète du monde donc sa dénaturalisation plus ou moins violente selon la résistance trouvée. Le travail d’artificialisation doit davantage aux nouvelles technologies qu’aux forces répressives étatiques. La conséquence directe de cette artificialisation imposée et facilitée par l’électronique est enfin le déracinement total du genre humain et sa dépendance absolue à l’égard du système technique. La domination des choses a engendré celle des individus.

 

- On observe une uniformisation et une atomisation de nos sociétés : quels liens voyez-vous avec la puissance toujours plus grande de nos techniques ?

 

Les techniques numériques ont achevé la colonisation et l’industrialisation du quotidien, transformant ainsi les êtres humains en habitants d’un espace virtuel, consommateurs automates et en citoyens soumis totalement contrôlés et parfaitement remplaçables. Ils ont réalisé l’homo economicus, la créature complètement subordonnée à l’économie et asservie par la machine. Le soi-disant progrès a piégé les individus et les a façonnés et dressés à volonté. Alors, toute la société devient une industrie immense automatisée où les techniques médiatisent toute relation : elles sont une sorte de prothèse de la vie privée des gens. C’est la vie hors sol réduite aux impératifs industriels, l’existence restreinte aux mouvements prévisibles et aisément calculables, c’est-à-dire, usinables. Pour combattre il faut plusieurs combattants, mais pour consommer un seul consommateur ça suffit. L’atomisation et l’uniformisation, la massification et la domestication, ces sont les traits qui reflètent le mieux la généralisation du style de vie docile, consumériste et solitaire sous le régime techno-capitaliste.

 

- Même si on arrête tout, que faire de ce qui restera du système industriel ?

 

Si le principe régulateur de la société n’était pas la marchandise, le système industriel, qui est la matérialisation de son royaume, deviendrait obsolète. Cela ne fonctionnerait pas sans relations sociales médiatisées par objets, c’est-à-dire, sans ses mécanismes reproducteurs. Pour des relations directes, sans argent et sans toute autre abstraction, il doit donc être démantelé, sauf dans les parties qui peuvent être détournées pour satisfaire des besoins réels mais sans provoquer de dépendances indésirables (économiques, techniques, politiques, militaires...), ou de divisions insurmontables (entre riches et pauvres, dirigeants et exécutants, travailleurs et employés, techniciens et ouvriers, agriculteurs et prolétaires urbains, producteurs et consommateurs...). Ainsi, partant du fait que la technique n’est jamais neutre, elle acquiert par un moment une dimension libératrice. Paradoxalement, utilisées avec une diligence subversive bien détournées les machines peuvent servir à détruire la société qui les ha produites.

 

- Comment rebâtir une société viable et désirable, par exemple autour d'une économie de la subsistance ? Avec quelles limites aux techniques, matérielles ou immatérielles ?

 

Dans une société juste, égalitaire et autogérée, sans État, sans classes, une société où règne un intérêt unique, commun à tous, et où l'ordre, inscrit dans la mémoire des luttes passées, découle de la « volonté essentielle », naturellement, par l'expérience.

Dans une nouvelle gemeinschaft l’économie ne sera jamais une sphère autonome, séparée de l’ensemble de l’activité humaine. Qualifier cette activité particulière, étroitement liée à d’autres activités communautaires, d’économie de subsistance, c’est la considérer d’un point de vue capitaliste. Dans cette société-là seront utilisées des techniques qui ne la mettent pas en danger, c’est-à-dire celles qui favorisent son développement horizontal et collectif, celles qu'Ivan Illich qualifie de conviviales et que Mumford appelle démocratiques. Ce sont des techniques centrées sur l'humain et non sur la domination, basées sur la production locale, sur la maîtrise des outils, sur le recyclage ... L'auteur de “Le mythe de la machine”, souligne des pratiques connexes telles que « l'autonomie gouvernementale communautaire, la libre communication entre égaux, l'accès sans entrave au réservoir commun de connaissances, la protection contre les contrôles externes arbitraires et le sens de la responsabilité morale individuelle pour une conduite qui affecte l’ensemble de la communauté ». Tout cela a une longue histoire, de l'organisation clanique au système des communes et des conseils du Moyen Age, en passant par les différentes institutions coutumières et les réalisations révolutionnaires : creuseurs anglais (diggers), collectivités espagnoles, soviets libres ukrainiens ...

- Et dans ce nouveau monde, que faire du désir de puissance, visible partout, remis en cause nulle part, gauche radicale incluse ?

Le désir ou la volonté de puissance se répand avec l'individualisme, le pilier de l’idéologie bourgeoise. Ce rejet absolu de l’autonomie individuelle mène directement à l’organe idéal de l’accumulation du pouvoir : l’État. La projection hors de soi, c’est-à-dire l’aliénation, ou en d’autres termes, la fausse conscience des individus adaptés au monde des techno sciences, voilà le grand problème. Les Grecs de l’Antiquité ont inventé l’ostracisme, un système de vote secret (avec des coquilles d’huîtres) qui décidait du bannissement de n’importe qui considéré par les citoyens susceptible de devenir un danger pour le régime démocratique. Dans notre temps, il suffirait cependant de renforcer les liens communautaires pour qu’une société autogouvernée soit capable d’empêcher l’émergence de hiérarchies formelles ou informelles révélatrice d’une désir de puissance caché. Pour conclure : rendre impossible la formation d’une bureaucratie quelconque capable d’enfanter un appareil paraétatique et, en conséquence, une organisation mécanique de contrôle capable de s’emparer de la volonté de milliers d’hommes et de femmes et les forcer vers l’industrialisation. En attendant que se produise le renforcement des communautés et que disparaissent les mentalités colonisées par l'industrialisme, autrement dit que les hommes et les femmes se réinventent, ce qui demandera les plus grands efforts, on peut faire appel à l’élection des délégués à l’assemblée ; le mandat impératif, le contrôle des élus, la rotation des postes représentatifs, la révocabilité, la non-rééligibilité et tout autre obstacle au dirigisme peuvent être d’une grande aide. Bref, la démocratie directe.

 

Miguel Amorós, le 20 décembre 2023.