giovedì 26 dicembre 2024

Globalizzazione e geopolitica - Miguel Amorós

 




Nelle classi medie sempre più declinanti della sempre più impotente società europea, persiste ancora l’illusione del cittadino liberale che la macchina statale sia controllabile dai parlamenti. E che grazie a questo controllo politico, lo Stato stesso possa rappresentare la “cittadinanza”, cioè agire secondo i criteri morali della mesocrazia (governo della classe media, NdT), schierandosi a favore di quello che essa ritiene giusto, contro quel che ritiene non lo sia. In questo modo, il mondo è visto come uno scenario, dove il bene generale e il male assoluto si contendono il terreno, e in caso di scontro, la buona coscienza manicheista dei partiti – che agiscono come imprese private – deve mostrare diligenza al momento di stare dalla parte giusta, quella dei buoni. Tuttavia, tutte le parti lasciano molto a desiderare, e non appena si scava più a fondo, emergono contraddizioni che pongono in dubbio la bontà della fazione prescelta, che non sempre può essere placata con alte dosi d’ideologia. Nessuno gioca in modo trasparente quando prevalgono gli interessi privati.

 

Naturalmente siamo inorriditi dagli omicidi; aborriamo le differenze di classe, rifiutiamo qualsiasi tipo di coercizione, odiamo le dittature, detestiamo la burocrazia ed esecriamo il patriarcato. Anche noi ci schieriamo prendiamo posizione ma senza identificarci meccanicamente e in modo contemplativo con i nemici apparenti del nostro nemico reale, vale a dire la classe dominante. Non siamo degli spettatori attenti ai movimenti del contendente con il quale astrattamente simpatizziamo. Agendo in questo modo, non ci opporremmo realmente ai poteri che si spartiscono il mondo. A noi interessa piuttosto chiarire le cause che hanno portato alla situazione in cui ci troviamo, al fine di rivelare la vera natura dei conflitti attuali e scoprire gli obiettivi nascosti perseguiti dalle fazioni ufficialmente in lotta. La causa più importante è evidente: la scomparsa del proletariato come classe cosciente, da cui deriva l'assenza di un movimento rivoluzionario degno di questo nome. Tenendo ciò ben presente, dobbiamo considerare il mondo come totalità, come una realtà globale e storica perfettamente ordinata secondo una strana logica, le cui regole obbediscono ai giochi internazionali di potere e alle vicissitudini del mercato mondiale. A partire da questo, proveremmo a comprendere le principali questioni del nostro tempo, dalle guerre in Ucraina e Gaza, alle elezioni in Venezuela o Messico, dall’ascesa di Trump, all’ideologia woke e all’estrema destra europea, fino alla resistenza del Rojava, al fallimento della primavera araba e all’egemonia cinese.

 

Siamo immersi in un’economia globalizzata, in cui tutte le attività economiche sono interdipendenti, poiché integrate in un tutto. Gli imperativi della crescita governano il mondo e ogni evento dirompente – ad es. una pandemia, una guerra, una crisi finanziaria – colpisce allo stesso modo tutte le parti. L’economia si trasforma ora direttamente in potere, qualcosa di troppo importante per lasciarlo nelle mani di uomini d’affari, proprietari terrieri o politici. Costoro sono solo semplici cinghie di trasmissione dei dettami elaborati da altre cariche di più alto livello, poiché nel sistema globalizzato la proprietà e il traffico su larga scala hanno perso importanza a vantaggio del potere decisionale. Quindi, qualunque sia la classe politica, sempre subalterna, oggi il vertice della classe dirigente è in gran parte costituito da alti dirigenti, burocrati specializzati ed esperti patentati. In questo contesto, il liberalismo, la democrazia parlamentare, i partiti politici, i diritti civili, ecc., sono cose del passato: i principi, i valori e gli obiettivi morali portati avanti dalla propaganda ideologica mancano d’importanza. L'ordine –l'obbedienza – è quello che conta.

 

Alla globalizzazione del commercio e della finanza non è corrisposta un’omogeneizzazione dei regimi politici, dato che l’harakiri non rientrava nei piani delle oligarchie dominanti. A livello locale e regionale, la complessità delle strutture sistemiche e la divergenza d’interessi erano così enormi da rendere difficile qualsiasi progresso in questa direzione. L’eredità storica della “Guerra Fredda”, il passato sotto forma di apparato burocratico, il substrato culturale antimoderno, pesavano come un macigno potendo rallentare la marcia verso la globalizzazione politica. L’ordine liberale s’è limitato al cosiddetto Occidente, lasciando fuori il resto. In ogni caso, il capitalismo sregolatore delle multinazionali era perfettamente compatibile con altre forme di capitalismo come il capitalismo di stato oligarchico, il capitalismo teocratico o il capitalismo di partito. La supremazia del liberalismo capitalista fu apertamente postulata nel 1945 attraverso il predominio economico e militare degli Stati Uniti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il suo apogeo si ebbe nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino, la decomposizione dell’URSS, i trattati di disarmo e la preponderanza mondiale della finanza, dando origine alla cosiddetta globalizzazione, che ebbe come corollario una sorta di “Macdonalizzazione” generalizzata, cioè a un'unificazione universale delle abitudini consumiste, delle mode, dei gusti gastronomici e dei costumi festivi americani. Infine, e soprattutto grazie alla rapidissima espansione della popolazione urbana, la società dello spettacolo è diventata realtà, ma seguendo le linee guida americane, poiché l’Europa aveva perso la sua influenza dopo la fine della “guerra fredda”: i destini dell’intero pianeta non dipendevano più dalle sue decisioni. Il continente aveva smesso di essere autonomo nella difesa: era protetto dall’ombrello americano e dal Trattato Nord Atlantico contro la mancanza di sicurezza. Non lo era in materia di energia e politica estera. Lo abbiamo già sperimentato nelle guerre petrolifere di fine secolo e nella subordinazione al gas russo, e continua a verificarsi nei bombardamenti di Gaza. D’ora in poi il declino europeo non potrà che accentuarsi.

 

L’Europa, o meglio i suoi ex leader sostenuti da una classe media in espansione, aveva optato per un’interdipendenza pacifica con la Russia oligarchica, per lo sviluppo economico e il commercio, concentrandosi più sulla bilancia dei pagamenti, sul cambiamento climatico e sugli immigrati che sulla dissuasione militare. Una scarsa spesa per l’armamento mostrava la sua volontà di non combattere. Tuttavia, la sua superiorità economica andava erodendosi a un ritmo sostenuto per cause demografiche e tecnologiche. Attualmente, l’invecchiamento della popolazione europea rappresenta solo il 7% della popolazione mondiale, mentre nel 1900 era pari al 25%, e la tendenza è al ribasso. D’altro canto, la Cina e le potenze emergenti come l’India hanno recuperato il gap tecnologico che avevano. Non si sono limitate a importare e copiare la tecnologia altrui, come quando erano la fabbrica mondiale, ma hanno cominciato a primeggiare nel settore anche in materia d’innovazione, difesa e aeronautica. Infine, una produttività simile ha reso il peso economico di un paese, e quindi l’influenza politica, sempre più dipendente dal volume della popolazione. E su questo terreno il molto popoloso Oriente superava di gran lunga la Russia, l’Unione Europea o il Nord America messi insieme. Infatti, dopo anni di crescita del Prodotto Interno Lordo ben superiore a quello di Stati Uniti ed Europa, nel 2014 la Cina ha superato gli Stati Uniti in potere d’acquisto. L’ha fatto anche nel settore delle risorse strategiche. Da allora ci troviamo in uno scenario internazionale segnato da tensioni ed equilibri di potere tra le due potenze preminenti con i rispettivi alleati, una potenza in ascesa, attorno alla quale orbita la Russia, e l’altra in declino. Le scaramucce commerciali tra Cina e Stati Uniti, o la cintura di sicurezza del Pacifico, sono solo la punta dell’iceberg. In un quadro globale, qualsiasi conflitto che superi i limiti locali, ad esempio la guerra in Ucraina, è soprattutto un confronto delegato tra entrambe le potenze. La NATO, gli oligarchi ucraini, l'Iran, lo Stato gendarme russo e perfino i nordcoreani saranno gli attori del dramma, ma né la sceneggiatura né il finale sono stati scritti da loro.

 

Nell’attuale fase della globalizzazione, il potere è visibilmente l’elemento base delle relazioni internazionali, e per questo la geopolitica acquista una rilevanza prevalente. La politica estera dei grandi Stati diventa interamente geostrategica e il concetto di “nemico” ritorna nell’arena con maggiore vigore. Data la fine dell’incontestabile egemonia degli Stati Uniti, ciascuna potenza cerca un sufficiente equilibrio di potere accumulando mezzi di lotta e stringendo alleanze per proteggere le proprie aree d’influenza. Evidentemente, senza astenersi dall’intervento militare, se necessario, il che rende problematico questo equilibrio, poiché le altre potenze, per non destabilizzarsi, agiranno di conseguenza. Questa è la vera causa della guerra in Ucraina, che, dopo aver demolito l’edificio di sicurezza del periodo successivo alla Guerra Fredda, ha posto l’Europa al centro della geopolitica, ha significato il ritorno della Russia come aspirante potenza mondiale e ha scatenato un’inquietante corsa agli armamenti. Fino ad allora, i governi europei avevano cercato l’equilibrio di potere attraverso la moltiplicazione dei vincoli economici, allentando le spese militari e concentrandosi sul capitalismo “verde” pomposamente chiamato “transizione energetica”. Tale strategia, di origine tedesca, è culminata in una rischiosa dipendenza dal petrolio e dal gas naturale russi, e in una dipendenza ancora maggiore dal mercato dei pannelli solari, delle turbine eoliche, delle batterie, dei veicoli elettrici, ecc., dominato dalla Cina. A questo punto, l’allarmismo climatico dei governi europei, in particolare socialdemocratici, è pura retorica, poiché in pratica ogni anno si consuma più combustibile fossile, l’energia nucleare trova ogni giorno più sostenitori e i vertici sul clima non si accordano mai sulle misure essenziali. Il cambiamento strategico verso cui l’Unione Europea è stata trascinata dalla guerra è ancora più pericoloso, poiché più che sull’elettrificazione si basa sulla militarizzazione.

 

L’attuale fase sopra menzionata si fonda su un’autentica economia di guerra, strettamente legata all’industria nucleare, bellica e aerospaziale, e, sussidiariamente, sul controllo sociale della popolazione. Queste attività contribuiscono per il 12% al PIL e sono attualmente il motore trainante dell'economia, al punto che alcuni analisti indicano nelle spese militari il mezzo migliore per sostenere il tasso di profitto del capitale. In Spagna, l’aumento di questa spesa del 2% del bilancio statale potrebbe sostituire il turismo di massa come principale motore economico, qualcosa su cui è d’accordo più della metà dell’elettorato. Una ministra del governo socialista ha detto con tutta sincerità che “investire nella difesa è investire nella pace”, il che equivale a dire “se vuoi la pace, prepara la guerra”, cosicché l’allineamento del pacifismo del governo al più rancido appoggio alla Nato è fuori discussione. È chiaro che nella conflittuale scena mondiale, senza una chiara potenza dominante, la guerra è una necessità. È il principale fattore di pacificazione interna e il maggiore stimolo per l’economia, anche se i beneficiari sono soprattutto le corporazioni e i fondi multinazionali. Nel frattempo, i prezzi severi di energia, cibo, trasporti e alloggi hanno un impatto sulle tasche delle classi medie e popolari. Date queste circostanze, tutte le condizioni sono soddisfatte per un’ampia messa in discussione del sistema, ma ciò, sorprendentemente, ha genesi soprattutto nella sfera della destra politica radicalizzata. Il parlamentarismo democratico è stato delegittimato agli occhi di una popolazione frustrata nelle sue attese e delusa dai suoi rappresentanti. Dal discredito della classe politica non emerge né il progressismo postmoderno di sinistra, né l’ambientalismo sovvenzionato, troppo legati all’ordine neoliberale per combatterlo e troppo ambigui nelle loro dichiarazioni per essere credibili. L’estrema destra, che fa appello alla ragione ancor meno dei suoi omologhi di sinistra, si collega invece più efficacemente con le classi “lepenizzate”, scettiche nei confronti delle versioni ufficiali che i media ripetono con insistenza, disincantate dalla politica e infuriate di fronte a un futuro avverso, ma piuttosto sensibili alle pesti emozionali che gli algoritmi delle multinazionali corrispondenti diffondono attraverso i social network.

 

In effetti, le difficoltà economiche delle classi fragilizzate e le accentuate disuguaglianze portate dalla globalizzazione hanno eclissato la sinistra cittadinista e hanno aperto la strada a una corrente politica nazionalista, xenofoba e razzista, favorevole all’innalzamento di barriere doganali alla libera circolazione di merci, persone e capitali, e che trova negli immigrati il suo capro espiatorio. Protezionista, antiliberale, populista e contraria alla guerra, come la sinistra classica, non nasconde la sua critica alla NATO, la sua ostilità verso accademici, intellettuali e giornalisti, il suo rifiuto del sistema dei partiti e le sue preferenze per i regimi autoritari come la Russia putinista. Lo Stato è per lei – e anche per la sinistra, moderata o estrema che sia – il grande portatore di benessere e prosperità, purché la sua gestione favorisca gli imprenditori e i lavoratori autoctoni, la bandiera e la famiglia. Il trionfo di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane, che annuncia un marchio isolazionista alle politiche del paese, favorirà ulteriormente il progresso di questa fazione, che già conta non solo su partiti rilevanti e un quarto dei seggi al Parlamento europeo, ma anche su capi di governo. Ideologicamente confusa, il suo credo è un misto di negazionismo climatico, gesti bellicosi e valori conservatori o di sinistra capovolti (antifemminismo, trans fobia, anti-aborto, anti-vaccini, purismo linguistico, fondamentalismo religioso). In realtà, non si può negare che la filosofia postmoderna in mani di sinistra, demolendo i criteri di verità, ragione e universalità e inondando il discorso mediatico di correttezza politica e fraseologia vuota, ha contribuito sia allo sviluppo dell’estrema destra sia alla crisi del 2008, alla professionalizzazione della politica, alla corruzione, alle genuflessioni dei sindacati, all'informazione unilaterale dei media e alla sua contropartita, all’industria delle fake news, allo sfilacciamento del tessuto sociale o all'alta tecnologia. L’estrema destra offre un’alternativa che, per quanto aberrante sia – e non lo è più di quanto offrono la sinistra e la destra liberali – penetra in ampi settori della popolazione danneggiata, irritata e predisposta.

 

Le prospettive future indicano una stagnazione dell'economia e un calo degli investimenti, con la conseguente inflazione che, insieme alle innovazioni tecnologiche, avrà un impatto negativo sulla popolazione salariata; allo stesso modo, indicherà un fallimento della de-carbonizzazione capitalista e, quindi, una maggiore dipendenza dai combustibili fossili esterni. Presumibilmente c’è da aspettarsi l'arrocco patriottico-tariffario degli Stati Uniti e, di conseguenza, il riavvicinamento alla Russia, più ristalinizzata che mai, il sostegno a Israele e il finale incerto della guerra in Ucraina. Aumenteranno le tensioni geopolitiche, soprattutto con Iran e Cina. L’Unione Europea, la cui “transizione ecologica” dipende dal gigante cinese, sarà costretta ad aumentare la spesa militare a scapito dei servizi pubblici e della stabilità interna, in modo che il suo declino continuerà a peggiorare. Il discorso del dominio sarà più catastrofista, concentrandosi sull’immigrazione, sul mutamento climatico e sulle guerre, i più adatti argomenti di oggi per distogliere l’attenzione dall’inquinamento, dall’agro business e dalla distruzione del territorio. E soprattutto per spaventare la popolazione e, di conseguenza, paralizzarla, cosa che ha funzionato bene durante la pandemia. Si potrebbe dire che ci troviamo in un’impasse storica che inaugura un periodo di prolungata incertezza, dal quale qualsiasi uscita, buona o cattiva, è possibile. È difficile immaginare una soluzione rivoluzionaria pur se scaturita da un’evoluzione per tappe, ma tutto dipenderà dall’orientamento internazionalista e antistatale assunto dalle forze sociali che necessariamente dovranno mobilitarsi.

 

Miguel Amorós, 17 dicembre 2024

 


                    GLOBALIZACIÓN Y GEOPOLÍTICA



 

En las menguantes clases medias de la cada vez más impotente sociedad europea todavía subsiste la ilusión liberal-ciudadanista de que la maquinaria del Estado es controlable por los parlamentos. Y que gracias a ese control político, el mismo Estado puede representar a la “ciudadanía”, es decir, actuar de acuerdo con los criterios morales de la mesocracia, tomando partido por lo que aquella considera justo, en contra de lo que cree que no es de justicia. De esta forma, el mundo es contemplado como un escenario donde el bien general y el mal absoluto se disputan el terreno, y en caso de pelea, la buena conciencia maniquea de los partidos -que actúan como empresas privadas- ha de mostrar diligencia a la hora de situarse en el lado correcto, el de los buenos. Sin embargo, todos los bandos dejan mucho que desear, y  a poco que se profundice afloran contradicciones que arrojan dudas sobre la bondad de la facción elegida, las cuales no siempre se pueden aplacar con altas dosis de ideología. Nadie juega limpio cuando priman los intereses particulares.

 

Por supuesto que nos horrorizan las matanzas; abominamos las diferencias de clase, rechazamos las coacciones del tipo que sean, odiamos las dictaduras, detestamos la burocracia y execramos el patriarcado. También tomamos partido -nos posicionamos-, pero no para identificarnos mecánica y contemplativamente con los enemigos aparentes de nuestro enemigo real, a saber, la clase dirigente. No somos espectadores atentos a los movimientos del contendiente con el que abstractamente nos solidarizamos. Obrando así, no nos oponemos de verdad a los poderes que se reparten el mundo. Nos interesa más dilucidar las causas que han conducido a la situación en la que nos encontramos, para de este modo desvelar la verdadera naturaleza de los conflictos actuales y descubrir los objetivos ocultos perseguidos por las banderías oficialmente en lucha. La causa más importante es obvia: la desaparición del proletariado como clase consciente, de la que deriva la ausencia de un movimiento revolucionario digno de ese nombre. Teniendo esto muy en cuenta, hemos de considerar el mundo como totalidad, como una realidad global e histórica perfectamente ordenada según una extraña lógica, cuyas reglas obedecen a los juegos internacionales de poder y a las vicisitudes del mercado mundial. A partir de ahí, intentaríamos comprender los temas principales de nuestro tiempo, desde las guerras de Ucrania y Gaza, a las elecciones de Venezuela o México, desde el ascenso de Trump, la ideología woke y la extrema derecha europea, hasta la resistencia de Rojava, el fracaso de la primavera árabe y la hegemonía china.

 

Estamos inmersos en una economía mundializada, en la que todas las actividades económicas son interdependientes, puesto que están integradas en un todo. Los imperativos del crecimiento gobiernan el mundo y todo acontecimiento disruptivo -p.e. una pandemia, una guerra, una crisis financiera- afecta por igual a todas las partes. La economía ahora se transforma directamente en poder, algo demasiado importante para dejarlo en manos de empresarios, terratenientes o políticos. Estos son solamente simples correas de transmisión de los dictámenes elaborados en despachos ajenos de más alto nivel, puesto que en el sistema globalizado la propiedad y el trapicheo a gran escala han perdido importancia en beneficio del poder de decisión. Así que, cualquiera que sea la clase política, siempre subalterna, en la actualidad, la cúspide de la clase dominante se compone mayoritariamente de altos ejecutivos, burócratas especializados y expertos patentados. En ese contexto, el liberalismo, la democracia parlamentaria, los partidos políticos, los derechos civiles, etc, son cosas del pasado: los principios, los valores y las metas morales esgrimidos por la propaganda ideológica carecen de importancia. El orden -la obediencia- es lo que cuenta.

 

La globalización del comercio y las finanzas no se vio correspondida por una homogeneización de los regímenes políticos, dado que el harakiri no entraba en los planes de las oligarquías dirigentes. A nivel local y regional, la complejidad de las estructuras sistémicas y la divergencia de intereses eran tan enormes que dificultaban el menor progreso en esa dirección. La herencia histórica de la “guerra fría”, el pasado en forma de aparato burocrático, el substrato cultural antimoderno, pesaban como una losa y podía palos a las ruedas en la marcha hacia la mundialización política. El orden liberal se circunscribió solo al llamado Occidente, quedando fuera el resto. De todas formas, el capitalismo desregulador de las multinacionales era perfectamente compatible con otras formas de capitalismo como por ejemplo el capitalismo oligárquico de Estado, el capitalismo teocrático o el capitalismo de partido. La supremacía del liberalismo capitalista se postuló abiertamente en 1945 a través del predominio económico y militar de los Estados Unidos al acabar la Segunda Guerra Mundial. Su apogeo ocurrió en 1989 con la caída del muro de Berlín, la descomposición de la URSS, los tratados de desarme y la preponderancia mudial de las finanzas, dando lugar a la llamada globalización, que tuvo como corolario una especie de “macdonalización” generalizada, o sea, a una unificación universal de hábitos consumistas, modas, gustos gastronómicos y costumbres festivas americanas. En fin, y sobre todo gracias a la expansión rapidísima de la población urbana, la sociedad del espectáculo se hacía realidad, pero siguiendo pautas estadounidenses, ya que Europa había perdido su influencia tras el final de la “guerra fría”: los destinos del planeta entero ya no dependían de decisiones suyas. El continente había dejado de ser autónomo en defensa: se protegía de las inclemencias securitarias bajo el paraguas americano, el Tratado del Atlántico Norte. Tampoco lo era en materia de energía y en política exterior. Ya lo comprobamos en las guerras del petróleo de finales de siglo y en la supeditación al gas ruso, y se sigue comprobando en los bombardeos de Gaza. En adelante la decadencia europea no hará sino acentuarse.

 

Europa, o mejor dicho, sus otrora dirigentes apoyados en unas expansivas clases medias, había apostado por la interdependencia pacífica con la Rusia oligárquica, por el desarrollo económico y el comercio, centrándose más en la balanza de pagos, el cambio climático y los inmigrantes, que en la disuasión militar. Un exiguo gasto armamentístico transparentó su voluntad de no combatir. No obstante, su superioridad económica fue erosionándose a buen ritmo por causas demográficas y tecnológicas. Actualmente, la envejecida población europea es tan solo el 7% de la mundial cuando en 1900 era el 25%, y tiende a la baja. Por otra parte, China y las potencias emergentes como la India ha recuperado el desfase tecnológico que tenían. No se limitaban a importar y copiar la tecnología de otros, como cuando eran la fábrica mundial, sino que pasaban a liderar el sector incluso en temas de innovación, defensa y aeronáutica. Finalmente, la productividad semejante hizo que el peso económico de un país, y por lo tanto la influencia política, dependiera cada vez más del volumen de población. Y en ese terreno el archipoblado Oriente superaba ampliamente a Rusia, la Unión Europea o América del Norte juntas. De hecho, después de llevar años creciendo el Producto Interior Bruto muy por encima del americano y el europeo, en 2014 China sobrepasó a los Estados Unidos en capacidad adquisitiva. También lo hizo en recursos estratégicos. Desde entonces, nos encontramos en un escenario internacional marcado por las tensiones y equilibrios de poder entre las dos potencias preeminentes con sus aliados respectivos, una en ascenso, alrededor de la cual orbita Rusia, y la otra en declive. Las escaramuzas comerciales entre China y Estados Unidos, o el cinturón de seguridad del Pacífico, son solo la punta del iceberg. Dentro de un marco global, cualquier conflicto que sobrepase los límites locales, pongamos por ejemplo la guerra de Ucrania, es ante todo una confrontación delegada entre ambas potencias. La OTAN, los oligarcas ucranianos, Irán, el Estado gendarme ruso y hasta los norcoreanos serán los actores del drama, pero ni el guión ni el final ha sido escrito por ellos.

 

En la actual fase de la globalización, el poder es visiblemente el elemento básico de las relaciones internacionales, y por eso mismo, la geopolítica adquiere una relevancia prevalente. La política exterior de los grandes Estados deviene enteramente geoestratégica y el concepto de “enemigo” vuelve al ruedo com mayor brío. Dado el fin de la hegemonía incontestable de los Estados Unidos, cada potencia busca el equilibrio de poder suficiente acumulando medios de combate y estableciendo alianzas con el objeto asegurarse sus áreas de influencia. Claro está, sin abstenerse de una intervención militar si resultara preciso, con lo cual dicho equilibrio se vuelve problemático, puesto que las demás potencias, a fin de no desestabilizarse, obrarán en consecuencia. Tal es la causa más verdadera de la guerra de Ucrania, la que, acabando de demoler el edificio securitario del periodo posterior a la guerra fría, ha situado a Europa en el eje central de la geopolítica, ha significado la vuelta de Rusia como aspirante a potencia mundial y ha desencadenado una inquietante carrera de armamentos. Hasta entonces, los gobiernos europeos habían buscado el equilibrio de poder a través de la multiplicación de ataduras económicas, aflojando el gasto militar y centrándose en la denominada pomposamente “transición energética”, es decir, el capitalismo “verde”. Tal estrategia, de origen alemán, culminó en una dependencia arriesgada del petroleo y gas natural rusos, y una dependencia aún mayor del mercado de las placas solares, aerogeneradores, baterías, vehículos eléctricos, etc., dominado por China. A estas alturas el alarmismo climático de los gobiernos europeos, sobre todo socialdemócratas, es pura retórica, puesto que en la práctica se consume cada año más combustible fósil, la energía nuclear encuentra cada día más partidarios y las cumbres del clima nuncan se ponen de acuerdo en las medidas esenciales. El viraje estratégico al que la Unión Europea ha sido arrastrado por la guerra, es mas peligroso si cabe, pues más que en la electrificación, se basa en la militarización.

 

La actual fase antes aludida se apoya en una auténtica economía de guerra, estrechamente relacionada con la industria nuclear, armamentista y aeroespacial, y subsidiariamente, en el control social de la población. Dichas actividades contribuyen al 12 % del PIB y son en estos tiempos el motor de la economía hasta el punto que algunos analistas apuntan a los gastos militares como el  mejor medio de sostener la tasa de ganancia del capital. En España el aumento de dicho gasto hasta un 2% del presupuesto estatal puede llegar a desplazar al turismo de masas como primer propulsor económico, algo con lo que más de la mitad del electorado está de acuerdo. Una ministra del gobierno socialista ha dicho con total sinceridad que “invertir en defensa es invertir en paz”, que es lo mismo que decir “si quieres paz, prepárate para la guerra”, con lo cual la alineación del pacifismo gubernamental con el más rancio otanismo queda fuera de cuestión. Lo cierto es que en la conflictiva escena mundial, sin una clara potencia dominante, la guerra es una necesidad. Es el principal factor de pacificación interna y el mayor estímulo de la economía, aunque los beneficiados en su mayor parte sean las corporaciones y fondos multinacionales. Mientras tanto, las inclemencias en lo relativo a los precios de la energía, los alimentos, el transporte y la vivienda repercuten en los bolsillos de las clases medias y populares. Dadas estas circunstancias, se cumplen todas las condiciones para un amplio cuestionamento del sistema, pero este, sorprendentemente, se origina mayormente en el ámbito de la derecha política radicalizada. El parlamentarismo democrático se ha deslegitimado a los ojos de una población frustrada en sus expectativas y decepcionada con sus representantes. Del descrédito de la clase política no se libra ni el progresismo izquierdista posmoderno, ni el ecologismo subvencionado, demasiado ligados al orden neoliberal como para luchar contra él, y demasiado ambiguos en sus pronunciamientos como para resultar creibles. La extrema derecha, que apela a la razón menos aún que sus homónimos de la izquierda, en cambio, conecta con mayor eficacia con unas clases “lepenizadas”, escépticas con las versiones oficiales que los medios repiten machaconamente, desencantadas con la política y enfurecidas ante un futuro adverso, pero bastante sensibles a las plagas emocionales que los algoritmos de las multinacionales correspondientes propagan por las redes sociales.

 

En efecto, los aprietos económicos de las clases fragilizadas y las acentuadas desigualdades acarreadas por la globalización han eclipsado a la izquierda ciudadanista y abierto camino a una corriente política nacionalista, xenófoba y racista, partidaria de levantar barreras aduaneras a la libre circulación de mercancías, personas y capitales, y que halla en los inmigrantes a su chivo expiatorio. Proteccionista, antiliberal, populista y contraria a la guerra, como el izquierdismo clásico, no oculta sus críticas a la OTAN, su hostilidad hacia académicos, intelectuales y periodistas, su rechazo del sistema de partidos y sus preferencias por los regímenes autoritarios como la Rusia putinista. El Estado es para ella -y también para la izquierda, sea moderada o extrema- el gran proveedor de bienestar y prosperidad, con tal que su gestión favorezca a los empresarios y obreros autóctonos, a la bandera y la familia. El triunfo de Donald Trump en las elecciones presidenciales americanas, que anuncia un marchamo aislacionista a las políticas del país, favorecerá aún más los progresos de dicha facción, que ya cuenta no solo con partidos de peso y la cuarta parte de los escaños del parlamento europeo, sino con jefes de gobierno. Ideológicamente confusa, su credo es una mezcla de negacionismo climático, gestualidad beligerante y valores conservadores o izquierdistas vueltos del revés (antifeminismo, transfobia, antiabortismo, antivacunas, casticismo lingüístico, fundamentalismo religioso). Realmente, no se puede negar que la filosofía posmoderna en manos izquierdistas, al demoler los criterios de verdad, razón y universalidad e inundar de corrección política y fraseología vacía el discurso mediático, ha contribuido tanto al desarrollo la extrema derecha como la crisis de 2008, la profesionalización de la política, la corrupción, las genuflexiones de los sindicatos, la información unilateral de los medios y su contrapartida, la industria fake, el deshilachado del tejido social o la alta tecnología. La extrema derecha ofrece una alternativa que por aberrante que sea -y no lo es más que la que ofrecen la izquierda y la derecha liberales- cala en amplios sectores de población perjudicada, irritada y predispuesta.

 

El panorama futuro apunta a un estancamiento de la economía y una caída de las inversiones, con la consiguiente inflación que, junto con las innovaciones tecnológicas, repercutirá negativamente en la población asalariada; asimismo, apuntará a un fracaso de la descarbonización capitalista, y por lo tanto, a una dependencia mayor de los combustibles fósiles externos. Previsiblemente son de esperar el enroque patriótico-arancelario de los EEUU y, en consecuencia, el acercamiento a Rusia, más reestalinizada que nunca, el sostén a Israel y el incierto final de la guerra de Ucrania. Las tensiones geopolíticas se incrementarán, principalmente con Irán y China. La Unión Europea, cuya “transición ecológica” depende de esta última, se verá abocada a un mayor gasto militar a costa de los servicios públicos y de la estabilidad interna, sin que por ello su declive no deje de agravarse. El discurso de la dominación será más catastrofista, focalizándose en la inmigración, el cambio climático y las guerras, los temas más idóneos hoy para desviar la atención a la contaminación, el agronegocio y la destrucción del territorio. Y por encima de todo, para atemorizar a la población, y, por consiguiente, para paralizarla, algo que funcionó bien durante la pandemia. Se podría decir que estamos en un impasse histórico que inaugura un periodo de incertidumbre prolongada, en donde cualquier salida, buena o mala, es posible. Cuesta imaginar una salida revolucionaria aunque venga de una evolución por etapas, pero todo dependerá de la orientación internacionalista y antiestatal que tomen unas fuerzas sociales que por necesidad habrán de movilizarse.

 

Miguel Amorós, 17 de diciembre de 2024.