Nelle
classi medie sempre più declinanti della sempre più impotente società europea,
persiste ancora l’illusione del cittadino liberale che la macchina statale sia
controllabile dai parlamenti. E che grazie a questo controllo politico, lo
Stato stesso possa rappresentare la “cittadinanza”, cioè agire secondo i
criteri morali della mesocrazia (governo della classe media, NdT), schierandosi
a favore di quello che essa ritiene giusto, contro quel che ritiene non lo sia.
In questo modo, il mondo è visto come uno scenario, dove il bene generale e il
male assoluto si contendono il terreno, e in caso di scontro, la buona
coscienza manicheista dei partiti – che agiscono come imprese private – deve
mostrare diligenza al momento di stare dalla parte giusta, quella dei buoni.
Tuttavia, tutte le parti lasciano molto a desiderare, e non appena si scava più
a fondo, emergono contraddizioni che pongono in dubbio la bontà della fazione
prescelta, che non sempre può essere placata con alte dosi d’ideologia. Nessuno
gioca in modo trasparente quando prevalgono gli interessi privati.
Naturalmente
siamo inorriditi dagli omicidi; aborriamo le differenze di classe, rifiutiamo
qualsiasi tipo di coercizione, odiamo le dittature, detestiamo la burocrazia ed
esecriamo il patriarcato. Anche noi ci schieriamo – prendiamo posizione – ma
senza identificarci meccanicamente e in modo contemplativo con i nemici apparenti
del nostro nemico reale, vale a dire la classe dominante. Non siamo degli spettatori
attenti ai movimenti del contendente con il quale astrattamente simpatizziamo.
Agendo in questo modo, non ci opporremmo realmente ai poteri che si spartiscono
il mondo. A noi interessa piuttosto chiarire le cause che hanno portato alla
situazione in cui ci troviamo, al fine di rivelare la vera natura dei conflitti
attuali e scoprire gli obiettivi nascosti perseguiti dalle fazioni
ufficialmente in lotta. La causa più importante è evidente: la scomparsa del
proletariato come classe cosciente, da cui deriva l'assenza di un movimento
rivoluzionario degno di questo nome. Tenendo ciò ben presente, dobbiamo
considerare il mondo come totalità, come una realtà globale e storica
perfettamente ordinata secondo una strana logica, le cui regole obbediscono ai
giochi internazionali di potere e alle vicissitudini del mercato mondiale. A
partire da questo, proveremmo a comprendere le principali questioni del nostro
tempo, dalle guerre in Ucraina e Gaza, alle elezioni in Venezuela o Messico,
dall’ascesa di Trump, all’ideologia woke e all’estrema destra europea, fino alla
resistenza del Rojava, al fallimento della primavera araba e all’egemonia
cinese.
Siamo
immersi in un’economia globalizzata, in cui tutte le attività economiche sono
interdipendenti, poiché integrate in un tutto. Gli imperativi della crescita
governano il mondo e ogni evento dirompente – ad es. una pandemia, una guerra,
una crisi finanziaria – colpisce allo stesso modo tutte le parti. L’economia si
trasforma ora direttamente in potere, qualcosa di troppo importante per
lasciarlo nelle mani di uomini d’affari, proprietari terrieri o politici. Costoro
sono solo semplici cinghie di trasmissione dei dettami elaborati da altre cariche
di più alto livello, poiché nel sistema globalizzato la proprietà e il traffico
su larga scala hanno perso importanza a vantaggio del potere decisionale.
Quindi, qualunque sia la classe politica, sempre subalterna, oggi il vertice
della classe dirigente è in gran parte costituito da alti dirigenti, burocrati
specializzati ed esperti patentati. In questo contesto, il liberalismo, la
democrazia parlamentare, i partiti politici, i diritti civili, ecc., sono cose
del passato: i principi, i valori e gli obiettivi morali portati avanti dalla
propaganda ideologica mancano d’importanza. L'ordine –l'obbedienza – è quello
che conta.
Alla
globalizzazione del commercio e della finanza non è corrisposta
un’omogeneizzazione dei regimi politici, dato che l’harakiri non rientrava nei
piani delle oligarchie dominanti. A livello locale e regionale, la complessità
delle strutture sistemiche e la divergenza d’interessi erano così enormi da
rendere difficile qualsiasi progresso in questa direzione. L’eredità storica
della “Guerra Fredda”, il passato sotto forma di apparato burocratico, il substrato
culturale antimoderno, pesavano come un macigno potendo rallentare la marcia
verso la globalizzazione politica. L’ordine liberale s’è limitato al cosiddetto
Occidente, lasciando fuori il resto. In ogni caso, il capitalismo sregolatore
delle multinazionali era perfettamente compatibile con altre forme di
capitalismo come il capitalismo di stato oligarchico, il capitalismo teocratico
o il capitalismo di partito. La supremazia del liberalismo capitalista fu
apertamente postulata nel 1945 attraverso il predominio economico e militare
degli Stati Uniti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il suo apogeo si
ebbe nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino, la decomposizione dell’URSS, i
trattati di disarmo e la preponderanza mondiale della finanza, dando origine
alla cosiddetta globalizzazione, che ebbe come corollario una sorta di “Macdonalizzazione”
generalizzata, cioè a un'unificazione universale delle abitudini consumiste,
delle mode, dei gusti gastronomici e dei costumi festivi americani. Infine, e
soprattutto grazie alla rapidissima espansione della popolazione urbana, la
società dello spettacolo è diventata realtà, ma seguendo le linee guida
americane, poiché l’Europa aveva perso la sua influenza dopo la fine della
“guerra fredda”: i destini dell’intero pianeta non dipendevano più dalle sue
decisioni. Il continente aveva smesso di essere autonomo nella difesa: era
protetto dall’ombrello americano e dal Trattato Nord Atlantico contro la mancanza
di sicurezza. Non lo era in materia di energia e politica estera. Lo abbiamo
già sperimentato nelle guerre petrolifere di fine secolo e nella subordinazione
al gas russo, e continua a verificarsi nei bombardamenti di Gaza. D’ora in poi
il declino europeo non potrà che accentuarsi.
L’Europa, o meglio i suoi ex leader sostenuti da una classe media
in espansione, aveva optato per un’interdipendenza pacifica con la Russia
oligarchica, per lo sviluppo economico e il commercio, concentrandosi più sulla
bilancia dei pagamenti, sul cambiamento climatico e sugli immigrati che sulla dissuasione
militare. Una scarsa spesa per l’armamento mostrava la sua volontà di non
combattere. Tuttavia, la sua superiorità economica andava erodendosi a un ritmo
sostenuto per cause demografiche e tecnologiche. Attualmente, l’invecchiamento
della popolazione europea rappresenta solo il 7% della popolazione mondiale,
mentre nel 1900 era pari al 25%, e la tendenza è al ribasso. D’altro canto, la
Cina e le potenze emergenti come l’India hanno recuperato il gap tecnologico
che avevano. Non si sono limitate a importare e copiare la tecnologia altrui,
come quando erano la fabbrica mondiale, ma hanno cominciato a primeggiare nel
settore anche in materia d’innovazione, difesa e aeronautica. Infine, una
produttività simile ha reso il peso economico di un paese, e quindi l’influenza
politica, sempre più dipendente dal volume della popolazione. E su questo
terreno il molto popoloso Oriente superava di gran lunga la Russia, l’Unione
Europea o il Nord America messi insieme. Infatti, dopo anni di crescita del
Prodotto Interno Lordo ben superiore a quello di Stati Uniti ed Europa, nel
2014 la Cina ha superato gli Stati Uniti in potere d’acquisto. L’ha fatto anche
nel settore delle risorse strategiche. Da allora ci troviamo in uno scenario
internazionale segnato da tensioni ed equilibri di potere tra le due potenze
preminenti con i rispettivi alleati, una potenza in ascesa, attorno alla quale
orbita la Russia, e l’altra in declino. Le scaramucce commerciali tra Cina e
Stati Uniti, o la cintura di sicurezza del Pacifico, sono solo la punta
dell’iceberg. In un quadro globale, qualsiasi conflitto che superi i limiti
locali, ad esempio la guerra in Ucraina, è soprattutto un confronto delegato
tra entrambe le potenze. La NATO, gli oligarchi ucraini, l'Iran, lo Stato
gendarme russo e perfino i nordcoreani saranno gli attori del dramma, ma né la
sceneggiatura né il finale sono stati scritti da loro.
Nell’attuale fase della globalizzazione, il potere è visibilmente
l’elemento base delle relazioni internazionali, e per questo la geopolitica
acquista una rilevanza prevalente. La politica estera dei grandi Stati diventa
interamente geostrategica e il concetto di “nemico” ritorna nell’arena con
maggiore vigore. Data la fine dell’incontestabile egemonia degli Stati Uniti,
ciascuna potenza cerca un sufficiente equilibrio di potere accumulando mezzi di
lotta e stringendo alleanze per proteggere le proprie aree d’influenza. Evidentemente,
senza astenersi dall’intervento militare, se necessario, il che rende
problematico questo equilibrio, poiché le altre potenze, per non
destabilizzarsi, agiranno di conseguenza. Questa è la vera causa della guerra
in Ucraina, che, dopo aver demolito l’edificio di sicurezza del periodo
successivo alla Guerra Fredda, ha posto l’Europa al centro della geopolitica,
ha significato il ritorno della Russia come aspirante potenza mondiale e ha
scatenato un’inquietante corsa agli armamenti. Fino ad allora, i governi europei avevano cercato l’equilibrio di
potere attraverso la moltiplicazione dei vincoli economici, allentando le spese
militari e concentrandosi sul capitalismo “verde” pomposamente chiamato “transizione
energetica”. Tale strategia, di origine tedesca, è culminata in una rischiosa
dipendenza dal petrolio e dal gas naturale russi, e in una dipendenza ancora
maggiore dal mercato dei pannelli solari, delle turbine eoliche, delle
batterie, dei veicoli elettrici, ecc., dominato dalla Cina. A questo punto,
l’allarmismo climatico dei governi europei, in particolare socialdemocratici, è
pura retorica, poiché in pratica ogni anno si consuma più combustibile fossile,
l’energia nucleare trova ogni giorno più sostenitori e i vertici sul clima non
si accordano mai sulle misure essenziali. Il cambiamento strategico verso cui
l’Unione Europea è stata trascinata dalla guerra è ancora più pericoloso,
poiché più che sull’elettrificazione si basa sulla militarizzazione.
L’attuale fase
sopra menzionata si fonda su un’autentica economia
di guerra, strettamente legata all’industria nucleare, bellica e aerospaziale,
e, sussidiariamente, sul controllo sociale della popolazione. Queste attività
contribuiscono per il 12% al PIL e sono attualmente il motore trainante
dell'economia, al punto che alcuni analisti indicano nelle spese militari il
mezzo migliore per sostenere il tasso di profitto del capitale. In Spagna, l’aumento
di questa spesa del 2% del bilancio statale potrebbe sostituire il turismo di
massa come principale motore economico, qualcosa su cui è d’accordo più della
metà dell’elettorato. Una ministra del governo socialista ha detto con tutta
sincerità che “investire nella difesa è investire nella pace”, il che equivale
a dire “se vuoi la pace, prepara la guerra”, cosicché l’allineamento del
pacifismo del governo al più rancido appoggio alla Nato è fuori discussione. È
chiaro che nella conflittuale scena mondiale, senza una chiara potenza
dominante, la guerra è una necessità. È il principale fattore di pacificazione
interna e il maggiore stimolo per l’economia, anche se i beneficiari sono
soprattutto le corporazioni e i fondi multinazionali. Nel frattempo, i prezzi severi
di energia, cibo, trasporti e alloggi hanno un impatto sulle tasche delle
classi medie e popolari. Date queste circostanze, tutte le condizioni sono
soddisfatte per un’ampia messa in discussione del sistema, ma ciò,
sorprendentemente, ha genesi soprattutto nella sfera della destra politica
radicalizzata. Il parlamentarismo democratico è stato delegittimato agli occhi
di una popolazione frustrata nelle sue attese e delusa dai suoi rappresentanti.
Dal discredito della classe politica non emerge né il progressismo postmoderno
di sinistra, né l’ambientalismo sovvenzionato, troppo legati all’ordine
neoliberale per combatterlo e troppo ambigui nelle loro dichiarazioni per
essere credibili. L’estrema destra, che fa appello alla ragione ancor meno dei
suoi omologhi di sinistra, si collega invece più efficacemente con le classi
“lepenizzate”, scettiche nei confronti delle versioni ufficiali che i media
ripetono con insistenza, disincantate dalla politica e infuriate di fronte a un
futuro avverso, ma piuttosto sensibili alle pesti emozionali che gli algoritmi
delle multinazionali corrispondenti diffondono attraverso i social network.
In
effetti, le difficoltà economiche delle classi fragilizzate e le accentuate
disuguaglianze portate dalla globalizzazione hanno eclissato la sinistra
cittadinista e hanno aperto la strada a una corrente politica nazionalista,
xenofoba e razzista, favorevole all’innalzamento di barriere doganali alla
libera circolazione di merci, persone e capitali, e che trova negli immigrati
il suo capro espiatorio. Protezionista, antiliberale, populista e contraria
alla guerra, come la sinistra classica, non nasconde la sua critica alla NATO,
la sua ostilità verso accademici, intellettuali e giornalisti, il suo rifiuto
del sistema dei partiti e le sue preferenze per i regimi autoritari come la
Russia putinista. Lo Stato è per lei – e anche per la sinistra, moderata o
estrema che sia – il grande portatore di benessere e prosperità, purché la sua
gestione favorisca gli imprenditori e i lavoratori autoctoni, la bandiera e la
famiglia. Il trionfo di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane, che
annuncia un marchio isolazionista alle politiche del paese, favorirà
ulteriormente il progresso di questa fazione, che già conta non solo su partiti
rilevanti e un quarto dei seggi al Parlamento europeo, ma anche su capi di
governo. Ideologicamente confusa, il suo credo è un misto di negazionismo
climatico, gesti bellicosi e valori conservatori o di sinistra capovolti
(antifemminismo, trans fobia, anti-aborto, anti-vaccini, purismo linguistico,
fondamentalismo religioso). In realtà, non si può negare che la filosofia
postmoderna in mani di sinistra, demolendo i criteri di verità, ragione e
universalità e inondando il discorso mediatico di correttezza politica e
fraseologia vuota, ha contribuito sia allo sviluppo dell’estrema destra sia
alla crisi del 2008, alla professionalizzazione della politica, alla
corruzione, alle genuflessioni dei sindacati, all'informazione unilaterale dei
media e alla sua contropartita, all’industria delle fake news, allo
sfilacciamento del tessuto sociale o all'alta tecnologia. L’estrema destra
offre un’alternativa che, per quanto aberrante sia – e non lo è più di quanto
offrono la sinistra e la destra liberali – penetra in ampi settori della
popolazione danneggiata, irritata e predisposta.
Le
prospettive future indicano una stagnazione dell'economia e un calo degli
investimenti, con la conseguente inflazione che, insieme alle innovazioni
tecnologiche, avrà un impatto negativo sulla popolazione salariata; allo stesso
modo, indicherà un fallimento della de-carbonizzazione capitalista e, quindi,
una maggiore dipendenza dai combustibili fossili esterni. Presumibilmente c’è
da aspettarsi l'arrocco patriottico-tariffario degli Stati Uniti e, di
conseguenza, il riavvicinamento alla Russia, più ristalinizzata che mai, il
sostegno a Israele e il finale incerto della guerra in Ucraina. Aumenteranno le
tensioni geopolitiche, soprattutto con Iran e Cina. L’Unione Europea, la cui
“transizione ecologica” dipende dal gigante cinese, sarà costretta ad aumentare
la spesa militare a scapito dei servizi pubblici e della stabilità interna, in
modo che il suo declino continuerà a peggiorare. Il discorso del dominio sarà
più catastrofista, concentrandosi sull’immigrazione, sul mutamento climatico e sulle
guerre, i più adatti argomenti di oggi per distogliere l’attenzione
dall’inquinamento, dall’agro business e dalla distruzione del territorio. E
soprattutto per spaventare la popolazione e, di conseguenza, paralizzarla, cosa
che ha funzionato bene durante la pandemia. Si potrebbe dire che ci troviamo in
un’impasse storica che inaugura un periodo di prolungata incertezza, dal quale
qualsiasi uscita, buona o cattiva, è possibile. È difficile immaginare una
soluzione rivoluzionaria pur se scaturita da un’evoluzione per tappe, ma tutto
dipenderà dall’orientamento internazionalista e antistatale assunto dalle forze
sociali che necessariamente dovranno mobilitarsi.
Miguel Amorós, 17 dicembre 2024
GLOBALIZACIÓN Y GEOPOLÍTICA
En las
menguantes clases medias de la cada vez más impotente sociedad europea todavía
subsiste la ilusión liberal-ciudadanista de que la maquinaria del Estado es
controlable por los parlamentos. Y que gracias a ese control político, el mismo
Estado puede representar a la “ciudadanía”, es decir, actuar de acuerdo con los
criterios morales de la mesocracia, tomando partido por lo que aquella
considera justo, en contra de lo que cree que no es de justicia. De esta forma,
el mundo es contemplado como un escenario donde el bien general y el mal
absoluto se disputan el terreno, y en caso de pelea, la buena conciencia
maniquea de los partidos -que actúan como empresas privadas- ha de mostrar
diligencia a la hora de situarse en el lado correcto, el de los buenos. Sin
embargo, todos los bandos dejan mucho que desear, y a poco que se profundice afloran
contradicciones que arrojan dudas sobre la bondad de la facción elegida, las
cuales no siempre se pueden aplacar con altas dosis de ideología. Nadie juega
limpio cuando priman los intereses particulares.
Por supuesto
que nos horrorizan las matanzas; abominamos las diferencias de clase,
rechazamos las coacciones del tipo que sean, odiamos las dictaduras, detestamos
la burocracia y execramos el patriarcado. También tomamos partido -nos
posicionamos-, pero no para identificarnos mecánica y contemplativamente con
los enemigos aparentes de nuestro enemigo real, a saber, la clase dirigente. No
somos espectadores atentos a los movimientos del contendiente con el que
abstractamente nos solidarizamos. Obrando así, no nos oponemos de verdad a los
poderes que se reparten el mundo. Nos interesa más dilucidar las causas que han
conducido a la situación en la que nos encontramos, para de este modo desvelar
la verdadera naturaleza de los conflictos actuales y descubrir los objetivos
ocultos perseguidos por las banderías oficialmente en lucha. La causa más
importante es obvia: la desaparición del proletariado como clase consciente, de
la que deriva la ausencia de un movimiento revolucionario digno de ese nombre.
Teniendo esto muy en cuenta, hemos de considerar el mundo como totalidad, como
una realidad global e histórica perfectamente ordenada según una extraña
lógica, cuyas reglas obedecen a los juegos internacionales de poder y a las
vicisitudes del mercado mundial. A partir de ahí, intentaríamos comprender los
temas principales de nuestro tiempo, desde las guerras de Ucrania y Gaza, a las
elecciones de Venezuela o México, desde el ascenso de Trump, la ideología woke
y la extrema derecha europea, hasta la resistencia de Rojava, el fracaso de la
primavera árabe y la hegemonía china.
Estamos
inmersos en una economía mundializada, en la que todas las actividades
económicas son interdependientes, puesto que están integradas en un todo. Los
imperativos del crecimiento gobiernan el mundo y todo acontecimiento disruptivo
-p.e. una pandemia, una guerra, una crisis financiera- afecta por igual a todas
las partes. La economía ahora se transforma directamente en poder, algo
demasiado importante para dejarlo en manos de empresarios, terratenientes o
políticos. Estos son solamente simples correas de transmisión de los dictámenes
elaborados en despachos ajenos de más alto nivel, puesto que en el sistema
globalizado la propiedad y el trapicheo a gran escala han perdido importancia
en beneficio del poder de decisión. Así que, cualquiera que sea la clase
política, siempre subalterna, en la actualidad, la cúspide de la clase
dominante se compone mayoritariamente de altos ejecutivos, burócratas
especializados y expertos patentados. En ese contexto, el liberalismo, la
democracia parlamentaria, los partidos políticos, los derechos civiles, etc,
son cosas del pasado: los principios, los valores y las metas morales
esgrimidos por la propaganda ideológica carecen de importancia. El orden -la
obediencia- es lo que cuenta.
La
globalización del comercio y las finanzas no se vio correspondida por una
homogeneización de los regímenes políticos, dado que el harakiri no entraba en
los planes de las oligarquías dirigentes. A nivel local y regional, la
complejidad de las estructuras sistémicas y la divergencia de intereses eran
tan enormes que dificultaban el menor progreso en esa dirección. La herencia
histórica de la “guerra fría”, el pasado en forma de aparato burocrático, el
substrato cultural antimoderno, pesaban como una losa y podía palos a las
ruedas en la marcha hacia la mundialización política. El orden liberal se
circunscribió solo al llamado Occidente, quedando fuera el resto. De todas
formas, el capitalismo desregulador de las multinacionales era perfectamente
compatible con otras formas de capitalismo como por ejemplo el capitalismo
oligárquico de Estado, el capitalismo teocrático o el capitalismo de partido.
La supremacía del liberalismo capitalista se postuló abiertamente en 1945 a
través del predominio económico y militar de los Estados Unidos al acabar la
Segunda Guerra Mundial. Su apogeo ocurrió en 1989 con la caída del muro de
Berlín, la descomposición de la URSS, los tratados de desarme y la
preponderancia mudial de las finanzas, dando lugar a la llamada globalización,
que tuvo como corolario una especie de “macdonalización” generalizada, o sea, a
una unificación universal de hábitos consumistas, modas, gustos gastronómicos y
costumbres festivas americanas. En fin, y sobre todo gracias a la expansión
rapidísima de la población urbana, la sociedad del espectáculo se hacía
realidad, pero siguiendo pautas estadounidenses, ya que Europa había perdido su
influencia tras el final de la “guerra fría”: los destinos del planeta entero
ya no dependían de decisiones suyas. El continente había dejado de ser autónomo
en defensa: se protegía de las inclemencias securitarias bajo el paraguas
americano, el Tratado del Atlántico Norte. Tampoco lo era en materia de energía
y en política exterior. Ya lo comprobamos en las guerras del petróleo de
finales de siglo y en la supeditación al gas ruso, y se sigue comprobando en
los bombardeos de Gaza. En adelante la decadencia europea no hará sino
acentuarse.
Europa, o
mejor dicho, sus otrora dirigentes apoyados en unas expansivas clases medias,
había apostado por la interdependencia pacífica con la Rusia oligárquica, por
el desarrollo económico y el comercio, centrándose más en la balanza de pagos,
el cambio climático y los inmigrantes, que en la disuasión militar. Un exiguo
gasto armamentístico transparentó su voluntad de no combatir. No obstante, su
superioridad económica fue erosionándose a buen ritmo por causas demográficas y
tecnológicas. Actualmente, la envejecida población europea es tan solo el 7% de
la mundial cuando en 1900 era el 25%, y tiende a la baja. Por otra parte, China
y las potencias emergentes como la India ha recuperado el desfase tecnológico
que tenían. No se limitaban a importar y copiar la tecnología de otros, como
cuando eran la fábrica mundial, sino que pasaban a liderar el sector incluso en
temas de innovación, defensa y aeronáutica. Finalmente, la productividad
semejante hizo que el peso económico de un país, y por lo tanto la influencia
política, dependiera cada vez más del volumen de población. Y en ese terreno el
archipoblado Oriente superaba ampliamente a Rusia, la Unión Europea o América
del Norte juntas. De hecho, después de llevar años creciendo el Producto
Interior Bruto muy por encima del americano y el europeo, en 2014 China
sobrepasó a los Estados Unidos en capacidad adquisitiva. También lo hizo en
recursos estratégicos. Desde entonces, nos encontramos en un escenario
internacional marcado por las tensiones y equilibrios de poder entre las dos
potencias preeminentes con sus aliados respectivos, una en ascenso, alrededor
de la cual orbita Rusia, y la otra en declive. Las escaramuzas comerciales
entre China y Estados Unidos, o el cinturón de seguridad del Pacífico, son solo
la punta del iceberg. Dentro de un marco global, cualquier conflicto que
sobrepase los límites locales, pongamos por ejemplo la guerra de Ucrania, es
ante todo una confrontación delegada entre ambas potencias. La OTAN, los
oligarcas ucranianos, Irán, el Estado gendarme ruso y hasta los norcoreanos
serán los actores del drama, pero ni el guión ni el final ha sido escrito por
ellos.
En la actual
fase de la globalización, el poder es visiblemente el elemento básico de las
relaciones internacionales, y por eso mismo, la geopolítica adquiere una
relevancia prevalente. La política exterior de los grandes Estados deviene
enteramente geoestratégica y el concepto de “enemigo” vuelve al ruedo com mayor
brío. Dado el fin de la hegemonía incontestable de los Estados Unidos, cada
potencia busca el equilibrio de poder suficiente acumulando medios de combate y
estableciendo alianzas con el objeto asegurarse sus áreas de influencia. Claro
está, sin abstenerse de una intervención militar si resultara preciso, con lo
cual dicho equilibrio se vuelve problemático, puesto que las demás potencias, a
fin de no desestabilizarse, obrarán en consecuencia. Tal es la causa más
verdadera de la guerra de Ucrania, la que, acabando de demoler el edificio
securitario del periodo posterior a la guerra fría, ha situado a Europa en el
eje central de la geopolítica, ha significado la vuelta de Rusia como aspirante
a potencia mundial y ha desencadenado una inquietante carrera de armamentos. Hasta
entonces, los gobiernos europeos habían buscado el equilibrio de poder a través
de la multiplicación de ataduras económicas, aflojando el gasto militar y
centrándose en la denominada pomposamente “transición energética”, es decir, el
capitalismo “verde”. Tal estrategia, de origen alemán, culminó en una
dependencia arriesgada del petroleo y gas natural rusos, y una dependencia aún
mayor del mercado de las placas solares, aerogeneradores, baterías, vehículos
eléctricos, etc., dominado por China. A estas alturas el alarmismo climático de
los gobiernos europeos, sobre todo socialdemócratas, es pura retórica, puesto
que en la práctica se consume cada año más combustible fósil, la energía
nuclear encuentra cada día más partidarios y las cumbres del clima nuncan se
ponen de acuerdo en las medidas esenciales. El viraje estratégico al que la
Unión Europea ha sido arrastrado por la guerra, es mas peligroso si cabe, pues
más que en la electrificación, se basa en la militarización.
La
actual fase antes aludida se apoya en una
auténtica economía de guerra, estrechamente relacionada con la industria
nuclear, armamentista y aeroespacial, y subsidiariamente, en el control social
de la población. Dichas actividades contribuyen al 12 % del PIB y son en estos
tiempos el motor de la economía hasta el punto que algunos analistas apuntan a
los gastos militares como el mejor medio
de sostener la tasa de ganancia del capital. En España el aumento de dicho
gasto hasta un 2% del presupuesto estatal puede llegar a desplazar al turismo
de masas como primer propulsor económico, algo con lo que más de la mitad del
electorado está de acuerdo. Una ministra del gobierno socialista ha dicho con
total sinceridad que “invertir en defensa es invertir en paz”, que es lo mismo
que decir “si quieres paz, prepárate para la guerra”, con lo cual la alineación
del pacifismo gubernamental con el más rancio otanismo queda fuera de cuestión.
Lo cierto es que en la conflictiva escena mundial, sin una clara potencia dominante,
la guerra es una necesidad. Es el principal factor de pacificación interna y el
mayor estímulo de la economía, aunque los beneficiados en su mayor parte sean
las corporaciones y fondos multinacionales. Mientras tanto, las inclemencias en
lo relativo a los precios de la energía, los alimentos, el transporte y la
vivienda repercuten en los bolsillos de las clases medias y populares. Dadas
estas circunstancias, se cumplen todas las condiciones para un amplio
cuestionamento del sistema, pero este, sorprendentemente, se origina mayormente
en el ámbito de la derecha política radicalizada. El parlamentarismo
democrático se ha deslegitimado a los ojos de una población frustrada en sus
expectativas y decepcionada con sus representantes. Del descrédito de la clase
política no se libra ni el progresismo izquierdista posmoderno, ni el
ecologismo subvencionado, demasiado ligados al orden neoliberal como para
luchar contra él, y demasiado ambiguos en sus pronunciamientos como para
resultar creibles. La extrema derecha, que apela a la razón menos aún que sus
homónimos de la izquierda, en cambio, conecta con mayor eficacia con unas
clases “lepenizadas”, escépticas con las versiones oficiales que los medios
repiten machaconamente, desencantadas con la política y enfurecidas ante un
futuro adverso, pero bastante sensibles a las plagas emocionales que los
algoritmos de las multinacionales correspondientes propagan por las redes
sociales.
En efecto, los
aprietos económicos de las clases fragilizadas y las acentuadas desigualdades
acarreadas por la globalización han eclipsado a la izquierda ciudadanista y
abierto camino a una corriente política nacionalista, xenófoba y racista,
partidaria de levantar barreras aduaneras a la libre circulación de mercancías,
personas y capitales, y que halla en los inmigrantes a su chivo expiatorio.
Proteccionista, antiliberal, populista y contraria a la guerra, como el
izquierdismo clásico, no oculta sus críticas a la OTAN, su hostilidad hacia
académicos, intelectuales y periodistas, su rechazo del sistema de partidos y
sus preferencias por los regímenes autoritarios como la Rusia putinista. El
Estado es para ella -y también para la izquierda, sea moderada o extrema- el
gran proveedor de bienestar y prosperidad, con tal que su gestión favorezca a
los empresarios y obreros autóctonos, a la bandera y la familia. El triunfo de
Donald Trump en las elecciones presidenciales americanas, que anuncia un
marchamo aislacionista a las políticas del país, favorecerá aún más los
progresos de dicha facción, que ya cuenta no solo con partidos de peso y la
cuarta parte de los escaños del parlamento europeo, sino con jefes de gobierno.
Ideológicamente confusa, su credo es una mezcla de negacionismo climático,
gestualidad beligerante y valores conservadores o izquierdistas vueltos del
revés (antifeminismo, transfobia, antiabortismo, antivacunas, casticismo
lingüístico, fundamentalismo religioso). Realmente, no se puede negar que la
filosofía posmoderna en manos izquierdistas, al demoler los criterios de
verdad, razón y universalidad e inundar de corrección política y fraseología
vacía el discurso mediático, ha contribuido tanto al desarrollo la extrema
derecha como la crisis de 2008, la profesionalización de la política, la
corrupción, las genuflexiones de los sindicatos, la información unilateral de
los medios y su contrapartida, la industria fake,
el deshilachado del tejido social o la alta tecnología. La extrema derecha
ofrece una alternativa que por aberrante que sea -y no lo es más que la que
ofrecen la izquierda y la derecha liberales- cala en amplios sectores de
población perjudicada, irritada y predispuesta.
El panorama
futuro apunta a un estancamiento de la economía y una caída de las inversiones,
con la consiguiente inflación que, junto con las innovaciones tecnológicas,
repercutirá negativamente en la población asalariada; asimismo, apuntará a un
fracaso de la descarbonización capitalista, y por lo tanto, a una dependencia
mayor de los combustibles fósiles externos. Previsiblemente son de esperar el
enroque patriótico-arancelario de los EEUU y, en consecuencia, el acercamiento
a Rusia, más reestalinizada que nunca, el sostén a Israel y el incierto final
de la guerra de Ucrania. Las tensiones geopolíticas se incrementarán,
principalmente con Irán y China. La Unión Europea, cuya “transición ecológica”
depende de esta última, se verá abocada a un mayor gasto militar a costa de los
servicios públicos y de la estabilidad interna, sin que por ello su declive no
deje de agravarse. El discurso de la dominación será más catastrofista,
focalizándose en la inmigración, el cambio climático y las guerras, los temas
más idóneos hoy para desviar la atención a la contaminación, el agronegocio y la
destrucción del territorio. Y por encima de todo, para atemorizar a la
población, y, por consiguiente, para paralizarla, algo que funcionó bien
durante la pandemia. Se podría decir que estamos en un impasse histórico que inaugura un periodo de incertidumbre
prolongada, en donde cualquier salida, buena o mala, es posible. Cuesta
imaginar una salida revolucionaria aunque venga de una evolución por etapas,
pero todo dependerá de la orientación internacionalista y antiestatal que tomen
unas fuerzas sociales que por necesidad habrán de movilizarse.
Miguel Amorós,
17 de diciembre de 2024.