fonte: Malvino il blog di Luigi Castaldi
venerdì 6 marzo 2020
1. L’anno scorso, in Italia, il virus influenzale ha fatto 198 morti, ma i casi gravi sono stati 809, 601 dei quali sono finiti intubati. E tuttavia è stata un’ottima annata, perché il numero dei morti è stato assai inferiore alla media, che tra il 2007 e il 2017 si è attestata intorno ai 460 morti all’anno, con due picchi nel 2015 (675) e nel 2017 (663). Questi, però, sono numeri dell’Istituto Nazionale di Statistica (Istat), che l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ritiene ingannevoli, perché non includono i morti per complicanze polmonari e cardiovascolari causate dall’infezione da virus influenzale, che porterebbero il totale di decessi «diretti» e «indiretti» a una media annuale di circa 8.000 morti.
Quanta copertura mediatica è stata fin qui assicurata al virus che puntualmente, ogni anno, tra dicembre e marzo, fa un numero di morti che è diciotto volte maggiore di quello che abbiamo avuto per attentati e stragi lungo tutto l’arco nei cosiddetti «anni di piombo» (1969-1984), undici volte maggiore di quello dei morti sul lavoro nel solo 2018, sei volte maggiore di quello dei morti per incidenti stradali nel solo 2019 e più del doppio di quello che si ebbe col crollo delle Twin Towers? Se mi si fa passare l’eufemismo, direi non troppa.
Sarà perché a morire d’influenza sono soprattutto soggetti molto anziani e già affetti da gravi patologie? Tenderei a escluderlo, perché i morti sono morti, come tante persone perbene hanno ultimamente tenuto a precisare, redarguendo chi si azzardava a dire che quella da Covid-19 è un’infezione «appena un po’ più grave di un’influenza», e come un’influenza ammazza soprattutto «vecchi e malati»: santo redarguire, perché la vita è sacra, sempre, da neonato e da ultraottantenne (a voler tener da parte chi si allarga sostenendo che lo sia anche da embrione), ed è da bestia far differenza se la si perde perché crivellati dai colpi di una Skorpion brigatista o dilaniati da una bomba neofascista, se per terremoto o tsunami, se da carabiniere ucciso da rapinatore o da rapinatore ucciso da carabiniere. E allora perché su 8.000 vite che il virus influenzale ci strappa ogni anno non si è mai vista una Maratona Mentana o una puntata monotematica di Piazza Pulita?
Sarà perché, a parità di soggetti infettati, ne muoiono più per Covid-19 che per virus influenzale? Se è così, tutto torna, perché pare che l’indice di letalità sia tra lo 0,1 e lo 0,2% per il virus influenzale, ma del 3,4% per il Covid-19. E dico «pare», perché in realtà, anche qui, i numeri potrebbero essere ingannevoli: sicuro come la morte, il numero dei morti; non altrettanto quello degli infetti. Quel 3,4%, infatti, è rapportato ai casi in cui c’è inoppugnabile certezza di infezione da Covid-19 per la positività di un test di laboratorio, mentre quello 0,1-0,2% lo è in relazione a diagnosi cliniche, basate per lo più sui sintomi.
Insomma, quando dico che l’anno scorso, in Italia, abbiamo avuto 8.104.000 casi di sindrome influenzale che hanno fatto circa 8.000 morti, faccio un’affermazione sostanzialmente assai diversa rispetto a quando dico che a tutt’oggi abbiamo 197 morti su 4.636 affetti da Covid-19, perché in realtà non so nulla di quanti essi siano in realtà: sono 4.636 su 23.345 tamponi effettuati, ma potrebbero essere molti di più sugli oltre 60 milioni di italiani, visto che una considerevole percentuale di soggetti infetti è (o è stato) asintomatico o paucisintomatico, guarito spontaneamente come è accertato accada in un gran numero di pazienti affetti da Covid-19, o destinato a guarire spontaneamente senza aver mai saputo di aver avuto a che fare con un coronavirus potenzialmente micidiale. Che su 1.000 affetti da Covid-19 ne muoiano 34, dunque, non c’è alcuna certezza: non possono essere di più, ma potrebbero essere molti di meno, e questo anche a fronte di un potenziale di trasmissibilità dell’infezione, quello che gli epidemiologi indicano con la sigla R0, e che per il Covid-19 è uguale a 2, mentre per il virus influenzale è inferiore.
Di certo c’è solo che a tutt’oggi – cito dal sito dell’Iss, consultato alle 21.49 del 6.3.2020 – «i morti da Covid-19 sono 197», che «l’età media dei pazienti deceduti è 81 anni, in maggioranza uomini e in più di due terzi dei casi affetti da tre o più patologie preesistenti» e che «per tutte le fasce d’età il tasso di letalità da Covid-19 è inferiore a quello registrato in Cina».
Tutto ciò premesso, riproporrei la domanda: perché il Covid-19 sta godendo di una copertura mediatica tanto spropositata rispetto ai suoi numeri? Anzi, la riformulerei in altro modo: data una media di 8.000 morti da influenza e complicanze correlate per ogni arco di tempo compreso tra un 1° dicembre e un 31 marzo (121 giorni), si immagini un tg delle 20.00 di un giorno della prima settimana di marzo del 2019 che apra strillando «oggi abbiamo avuto altri 66 morti da influenza» (8.000 diviso 121 fa appunto 66, e dunque la cosa ci sta tutta); sarebbe informazione o che altro?
Qui mi fermo. Al prossimo post un tentativo di risposta.
domenica 15 marzo 2020
2. Incrociando le affermazioni fatte l’altrieri da Massimo Galli (MG), primario del reparto di Infettivologia dell’Ospedale Sacco di Milano (Circo Massimo, Radio Capital) e da Maria Rita Gismondo (MRG), che presso lo stesso presidio ospedaliero è direttrice del dipartimento di Microbiologia Clinica (L’aria che tira, La7), trovo conferma di quanto scrivevo la scorsa settimana sulla base dei dati noti al momento. Meglio farlo dire a loro, oggi, piuttosto che ripetermi: «il numero reale dei contagiati dal coronavirus è più alto di quello ufficiale» (MG); «almeno il 60% della popolazione ha avuto o avrà contatto con il coronavirus» (MRG); «non scambiamo il numero dei positivi col numero dei malati: il 90% dei positivi non ha sintomi o ha sintomi molto lievi» (MRG); «la percentuale di letalità [fin qui attribuita al virus] è più alta di quella reale, perché stiamo facendo i calcoli solo sui casi sintomatici e non sulla stima globale» (MG) (probabilmente – aggiungeva – anche inferiore allo 0,88% riscontrato nella Corea del Sud, dove i test sono stati effettuati a tappeto e comunque non sull’intera popolazione); «più che la gente, questo virus uccide la sanità» (MRG).
Direi si possa trarne qualche conclusione. Poca roba, sia chiaro, perché del Covid-19, allo stato, «sappiamo ancora troppo poco» (MG, sempre ieri, ma a Ottoemezzo, La7). Proviamo.
Si tratta di un virus aggressivo e con un alto coefficiente di riproduzione (un R0 valutato tra 2,1 e 2,6). L’età media dei soggetti deceduti dopo esserne stati contagiati è di 80,3 anni, diceva, sempre l’altrieri (agenzianova.com), Silvio Brusaferro (SB), presidente dell’Istituto Superiore della Sanità (ISS). Perché non dico «uccisi dal Covid-19», ma uso la perifrasi «deceduti dopo esserne stati contagiati»? Perché proprio SB rivelava che «soltanto due persone non sono risultate al momento portatrici di patologie». Su questo punto, tuttavia, non è il caso di essere precipitosi, perché quelle «due persone» fanno parte di una quota assai ristretta dei 1.266 decessi al 13 marzo («poco più di cento», le cui cartelle cliniche sono arrivate alla sua attenzione «dagli ospedali di tutta Italia»): se il dato fosse significativo, potremmo al più inferire che più del 98% dei decessi non si ha senza presenza di altre patologie, quasi sempre molto serie, spesso associate (dal report dell’ISS del 5 marzo: «Il numero medio di patologie osservate [nei soggetti deceduti] è di 3,4»).
Come è evidente, è qui che nasce la questione che oppone chi sostiene che i decessi siano dovuti al Covid-19 e chi invece ritiene che da solo il virus ammazzi poco o niente. Si tratta della questione che la semplicistica sintesi giornalistica ha reso con le locuzioni «morti da» e «morti con», ma che in realtà esprime due diversi modi di approcciare lo stesso fenomeno: quello microbiologico e quello clinico. Il contenzioso che ne nasce è evidente al grande pubblico solo adesso, perché l’emergenza lo porta in proscenio, ma, dietro le quinte, microbiologi e clinici si sono sempre presi a pugni.
Si prenda il caso dell’influenza stagionale che, come illustravo nel precedente paragrafo di questo «nulla sarà più come prima» / «tutto sarà come prima», ogni anno fa qualche centinaio di morti, per i microbiologi, ma diverse migliaia, per gli epidemiologi, che sono i clinici dei grandi numeri. È del tutto comprensibile, infatti, che il microbiologo tenda a concentrare tutta la sua attenzione sull’agente patogeno, sulla sua morfologia, sulle sue caratteristiche chimico-fisiche, sulle sue modalità d’azione, ecc. Del tutto comprensibile, altresì, che questo lo porti alla costruzione di un modello della sequenza degli eventi che dal contagio porta alla malattia, conferendole una linearità che tende a trascurare tutto ciò che può accelerarla, fino a farla precipitare, o frenarla, fino a interromperla. Non così il clinico, e ancor meno l’epidemiologo, che fanno i conti con le diverse coniugazioni del paradigma: sul campo – nel singolo paziente, in una data popolazione – virus e batteri trovano fattori che esaltano o deprimono la loro azione. Per certi versi, siamo dinanzi alla stessa discrepanza che normalmente, quand’anche trascurabile, si ha tra risultati «in vitro» e «in vivo» nella sperimentazione di un farmaco.
Ecco, dunque, perché oggi i millequattrocentoedispari morti fatti dal Covid-19 fanno molto più rumore degli oltreottomila fatti l’anno scorso dall’A(H1N1)pdm09 e dall’A(H3N2), i virus che sostennero la solita influenza stagionale: stavolta i virologi hanno preso la scena, e il vocione del più borioso, del più arrogante, del più vanesio della categoria – il famigerato Roberto Burioni (RB) – è diventato assordante. È accaduto che la notorietà acquisita grazie alla polemica coi no-vax gli ha causato la tristemente nota sindrome da sovraesposizione mediatica, che ineluttabilmente porta a straparlare, quasi sempre con effetti tragicomici, come in questo caso è avvenuto col dar per certo che «in Italia il virus non c’è», «c’è più pericolo in un meteorite» e neanche dieci giorni dopo uscirsene con un instant book che nel sottotitolo associava il Covid-19 alla «peste».
Le leggi dello spettacolo sono categoriche: perché l’intrattenimento abbia la massima copertura, ogni Burioni dev’essere bilanciato da un Vittorio Sgarbi (VS), e le posizioni in campo, per meglio far presa, devono essere esasperate. È un po’ come col porno, dove si impone che il pene sia lungo almeno quanto un avambraccio e l’eiaculato sia nell’ordine dei litri. E così in campo abbiamo visto le ragioni della microbiologia e quelle dell’epidemiologia, ma mostruosamente distorte nei loro precipitati: l’allarmismo e il negazionismo. Nel caso di Sgarbi, per esempio, affermazioni che nella loro sostanza erano in tutto coincidenti con quelle di MG ed MRG riportate nel primo capoverso di questo post hanno subìto una torsione nello sproposito.
Veniamo al dettaglio. VS afferma che, «sulla base di un unico dato vero, [e cioè] il numero limitato di posti negli ospedali per la terapia intensiva […], si vuole convincere gli italiani che c’è un pericolo che non c’è»: fa eco al «più che la gente, questo virus uccide la sanità» di MG, ma per dargli un di più di forza, di cui francamente non ha bisogno, deve arrivare all’iperbole che un pericolo «non c’è». Si compari questo atteggiamento a quello di Ilaria Capua (IC), che, rimproverata da un burioniano di aver paragonato il Covid-19 al virus influenzale, ha risposto: «Io non minimizzo affatto. [...] Ho lavorato decenni con l’influenza e trovo che ad oggi paragonare [il] Covid-19 [a una] “sindrome simil-influenzale” sia corretto ed esplicativo. Io sinceramente l’influenza l’ho sempre presa sul serio». Come non farlo, con una media di 8.000 morti ogni anno? Morti – sia chiaro – perché il virus influenzale ha trovato condizioni favorevoli soprattutto in pazienti anziani e affetti da altre patologie.
Questo significa che il Covid-19 non può uccidere anche un 39enne? Ovviamente no, ma può ucciderlo anche il virus influenzale e al momento non ci sono evidenze statistiche che segnalino un maggior rischio da Covid-19, perché tra gli 8.000 morti per influenza non mancano i 39enni e soprattutto, molto ma molto più rispetto ai morti da Covid-19, i bambini, e i neonati.
Anche qui, però, c’è da segnalare un paradosso nelle argomentazioni di quanti storcono il muso a sentirsi dire che il Covid-19 impone misure di contenimento, sì, ma non autorizza all’isteria, né a provvedimenti che, per evitare 100.000 contagi, 15.000 ricoveri in terapia intensiva e 6.000 decessi, possono far morire di fame mezza Italia. Da un lato, infatti, pare che essi tengano molto a sottolineare che il virus non ammazza solo anziani carichi di acciacchi (c’è addirittura chi ha proposto di dare enfasi al dato, diffondendo immagini di qualche giovanotto in terapia intensiva, così, tanto per sensibilizzare i meno sensibili), con ciò rivelando, tuttavia, di attribuire un diverso valore alla morte in relazione a che età si muoia. Su ciò potremmo pure chiudere un occhio, solo però facendo nostro il parametro della vita media attesa, sul quale evidentemente essi contano di poter rappresentare agli insensibili più tragica la morte di un giovane che quella di un vecchio. Costoro, però, sono gli stessi che inorridiscono alla sola idea che, con un solo posto in terapia intensiva, si favorisca il giovane, penalizzando il vecchio.
Ma siamo prossimi a questo orrore? Impossibile prevederlo, di fatto i posti in terapia intensiva sono solo 5.300 in tutta Italia, e al momento 1.300 sono occupati da soggetti affetti da Covid-19. Per meglio dire: in gran parte si tratta di soggetti affetti da patologie che hanno favorito la vulnerabilità al Covid-19, rendendo così drammatica la polmonite che esso causa.
E così torniamo al punto di partenza: «più che la gente, questo virus uccide la sanità» (MRG). Con ciò che la sanità rappresenta in termini di protezione che uno stato assicura all’individuo e alla collettività. Ma di questo – e di quanto questo implichi in un momento in cui tanti mettono in discussione la democrazia – al prossimo post.
venerdì 20 marzo 2020
3. Chi definisce «virale» la diffusione di qualcosa che non è un virus, come oggi sempre più spesso accade per tutto ciò che riesce ad ottenere una rapida ed ampia diffusione negli spazi designati alla comunicazione pubblica, mostra di aver fatto propria la «teoria del meme» esposta da Richard Dawkins in The Selfish Gene (1976) e, se lo fa senza mai averne sentito parlare, allo stesso tempo se ne offre a comprova. In questo libro più citato che letto, infatti, viene avanzata l’ipotesi che la tendenza a replicarsi non sia un’esclusiva di quell’unità funzionale del genoma che chiamiamo gene, ma anche di quell’«unità di trasmissione culturale» (o «unità di imitazione») che qui è battezzata «meme», abbreviazione di «mimeme», con rimando al greco μίμημα (imitazione, e dunque anche copia, duplicato, ecc.), ma anche al francese «même» (stesso, medesimo, ecc.): «Proprio come i geni si propagano nel pool genico saltando di corpo in corpo tramite spermatozoi o cellule uovo – scrive Richard Dawkins – così i memi si propagano nel pool memico saltando di cervello in cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione»; e tuttavia l’analogia con la trasmissione del materiale genetico dai genitori ai figli che si ha con la fusione dei gameti non pare soddisfarlo appieno nell’illustrare al lettore come esattamente agisca un «meme», e allora eccolo, e nello stesso capoverso, a proporne un’altra: «Quando si pianta un meme fertile in una mente, il cervello ne viene letteralmente parassitato e si trasforma in un veicolo per la propagazione del meme, proprio come un virus può parassitare il meccanismo genetico di una cellula ospite», chiarendo che «esempi di meme sono melodie, idee, frasi, mode, modi di modellare vasi o costruire archi» e che «la selezione favorisce i memi che sfruttano a proprio vantaggio l’ambiente culturale».
Credo ce ne sia abbastanza per poter dire che anche la stessa «teoria del meme» sia un «meme» e che il largo impiego del termine «virale» dimostri che ha attecchito mica male. Il fatto, poi, che abbia attecchito anche in chi non ha mai letto The Selfish Gene mi pare che evidenzi anche un’altra caratteristica della «viralità» del «meme»: come non c’è bisogno di sapere cosa sia un virus, né come sia fatto, né donde venga, né come agisca, perché, senza volerlo, si sia costretti ad ospitarlo, offrendogli strumenti per replicarsi e contagiare chi ci è prossimo, così possiamo essere vettori e diffusori di un’idea che può arrivare ad assumere la dimensione epidemica del senso comune, anche senza sapere come sia nata, chi l’abbia messa in giro, cosa le dia modo di eludere o addirittura affrontare e abbattere le difese immunitarie del nostro senso critico. In fondo non accade pure col motivetto scemo che ci troviamo a canticchiare senza sapere chi l’abbia scritto, né dove l’abbiamo sentito la prima volta?
Ma c’è altro ancora a dirci della «viralità» del «meme»: come alcuni virus sembrano scomparire dopo essere stati gloriosi protagonisti di una travolgente epidemia, per tornare a farsi vivi solo dopo un certo lasso di tempo, e semmai più aggressivi di prima, in virtù di una mutazione del loro materiale genetico che rende inutile la cosiddetta «immunità di gregge» raggiunta in seguito alla loro prima comparsa, così certe idee trovano modo di avere diffusione molto rapida e molto estesa, per poi trovarsi ad essere messe pesantemente in discussione dal senso critico che nei loro confronti viene acquisito dalla popolazione che hanno «contagiato», e così dar l’impressione che non possano più riattecchire in essa, per poi riuscirci, invece, dopo aver subìto qualche anche minima mutazione che consente loro di ingannare le difese immunitarie che fin lì sono riuscite a tenerle lontane; talvolta, tuttavia, il ritorno dell’epidemia o il revival dell’idea non hanno neppure bisogno di questo riaggiustamento, perché può bastare che l’organismo ospite, individuo o collettività, sia debole, vecchio, affetto da altre patologie, perché il sistema immunitario perda memoria. Se però, come s’è detto, «la selezione favorisce i memi che sfruttano a proprio vantaggio l’ambiente culturale», è a questo che va posta attenzione per dar conto degli immensi danni che può causare un «meme» nei confronti del quale in passato si era riusciti a produrre anticorpi efficaci: è in un ambiente culturale debole, vecchio, malato, che un «meme», già debellato dal senso critico, trova occasione per riattecchire, e questo capita tanto più spesso quanto più a lungo e per più volte ha avuto modo di causare danni in passato.
Un esempio ci è dato dal «meme» della catastrofe naturale (terremoto, peste, carestia, ecc.) come punizione divina, che, da un lato, è altamente contagioso e, dall’altro, causa danni anche più seri dell’evento di cui si serve. Perché le catastrofi naturali sono un dato di fatto, ma il «meme» che ce le presenta come pene per colpe che devono essere espiate, lungi dal farcele affrontare per quel che sono, dando così congrua soluzione al problema che pongono, ci induce a credere che se ne possano neutralizzare gli effetti solo pagando un prezzo altissimo, in grado di placare l’ira della divinità che, anche involontariamente, si è offesa.
Ovviamente non è detto che questo «meme» debba presentarsi proprio nella forma qui descritta, che è quella ancestrale: la catastrofe può essere dovuta anche all’offesa che si è arrecata a un ordine di cose o di valori che, deliberatamente o meno, si è stravolto, e che l’espiazione mira a reintegrare almeno in modo simbolico. Nel caso della peste (e dei suoi surrogati o succedanei), per esempio, la colpa che ha inflitto il castigo è, di caso in caso, la peccaminosa promiscuità di cui il morbo si serve per passare da corpo a corpo, la cancellazione dei confini tra le genti che ne facilita la diffusione, la perdita di un’identità che era fedeltà a una tradizione e al cui posto ora troviamo un volto sfigurato dai bubboni: non si ha piena riparazione, non si ha adeguata espiazione, senza il ripristino, ancorché formale (il sacrificio è innanzitutto simbolo), dell’ordine di cose e di valori che si è infranto. E il sacrificio deve essere, insieme, espiatorio e propiziatorio, non può esaurirsi in misure sanitarie proporzionate al problema, ma deve avere in sé i tratti della compunzione che apre la via alla catarsi morale: non può e non deve bastare che gli appestati stiano nel lazzaretto e gli altri si limitino ad evitare il contagio con la profilassi; la dimensione epidemica del morbo impone che contagiati e no si sentano popolo sotto la stessa guida; che lo «stato di eccezione» le conferisca una legittimità oltre ogni legalità; che sull’altare su cui si consuma il sacrificio brucino garanzie e diritti; che il rito sia emotivamente partecipato, e anzi sia banco di prova per saggiare il tenore emotivo dell’obbedienza; ma soprattutto è necessario che all’esterno ci sia un nemico (senza nemico non si dà «stato di eccezione»), e qualcuno che all’interno si presti all’accusa di favorirlo (poco importa se fondata o no, perché si dà imputazione di intelligenza col nemico con la sola intelligenza che mette in discussione il «meme»); più di tutto, però, è necessaria un’autorità che sia allo stesso tempo sacerdote, medico e soldato, perché sia assicurato un ordinato svolgersi del rituale sacrificale, che insieme deve essere alienazione e spettacolo.
Qui possiamo congedarci da Richard Dawkins e affidarci a un’altra guida, Guy Debord.
domenica 22 marzo 2020
4. Poco meno di 5.000 morti, al momento. Poco più della metà di quanti l’anno scorso morirono d’influenza. In cosa è lecito, e in cosa no, comparare, di là dai numeri, i morti dell’anno scorso a quelli di quest’anno, data l’evidente differenza del modo in cui ce ne fu data notizia allora e ce n’è data oggi?
In entrambi i casi, c’è di mezzo un virus. In entrambi i casi, è controverso in che misura il virus sia assassino di suo e in che misura sia favorito da vecchiaia e altre malattie, sta di fatto che in entrambi i casi la percentuale di morti giovani e senza altre malattie è estremamente basso (sui poco meno di 5.000 di quest’anno il report dell’Iss del 20 marzo ne dà solo 6: almeno in questo – solo in questo, se si vuole – l’influenza dello scorso anno ha fatto molto peggio). Questione estremamente interessante, dunque, questa del «per» e del «con», ma i morti sono morti, sia che per il 2019 si debba andare a cercarne il numero sul sito dell’Iss, sia che per il 2020 ci venga risparmiata la fatica con un martellante aggiornamento minuto per minuto, agonia e cremazione in diretta. Di sicuro c’è che, a voler morire col conforto della generale partecipazione emotiva, non conveniva farlo l’anno scorso: rimandare d’una dozzina di mesi avrebbe assicurato cordoglio istituzionale, milioni e milioni di prefiche a gratis, funerali in diretta e, soprattutto, il palpito di Lili Gruber.
Ma oltre a questa differenza, che tuttavia non è da poco, ce ne sono altre, e sono tante. Del virus influenzale – l’anno scorso erano due, l’A(H1N1)pdm09 e l’A(H3N2) – sappiamo un sacco di cose, mentre del Sars-coV-2 (Covid-19 è l’affezione che induce) sappiamo com’è fatto (struttura, componenti, sequenza genomica), ma troppo poco ancora relativamente a ciò che, cedendo all’antico e irrinunciabile vizio di antropomorfizzare tutto, troviamo giusto chiamare carattere, comportamento, tattica, ecc.
Un’altra differenza, e bella grossa, è che per il virus influenzale abbiamo un vaccino, mentre per questo coronavirus no. A tal riguardo, chi storce il muso a sentire la Capua o la Gismondo correlare il Covid-19 all’influenza dovrebbe chiedersi quanti morti farebbe ogni anno il virus influenzale, se con una copertura vaccinale del 57% ne fa 8.000. Niente, è domanda che pare non abbia alcuna ragion d’essere. L’impressione è che avere a disposizione un vaccino anti-influenzale, che peraltro pochi sanno non rende immuni al 100%, autorizzi a considerare gli 8.000 morti come problema senza soluzione, la cui causa del decesso, dunque, sarebbe da accettare come «normale» causa di morte, routine del morire che non ha niente di particolare per meritarsi un riflettore. In fondo accade pure per i morti sul lavoro, che nel 2018 sono stati 1.218 (limitandoci ai casi ufficialmente dichiarati tali), ma di certo non hanno avuto il quarto d’attenzione che i media hanno finora dedicato ai morti «per» e/o «con» Covid-19: morti che diremmo «strutturali», data l’almeno apparente intangibilità della «struttura», e che in fondo hanno avuto buon gusto e discrezione di non affollare un mese solo e una sola regione, morivano con la «normalità» con cui si muore in una guerra a bassa intensità.
Basterebbero questi elementi a motivare (e diciamo pure giustificare) la spettacolarizzazione dell’epidemia in corso, ma, senza comprendere quale funzione abbia – in generale e nello specifico – lo spettacolo che ce la rappresenta, siamo ancora lontani dal capire perché, e come, il sasso, rotolando, possa diventare valanga, travolgendo tutto e tutti, al punto dal non poter neppure immaginare che dietro la tragedia ci sia un ordito. Sarebbe stato necessario un piano sofisticatissimo, bastava una comparsa fuori posto e addio valanga. Perché è chiaro – e nessuno può negarlo – che da una valanga siamo travolti. Resta solo da capire se si sia lasciato rotolare il sasso nel modo in cui è rotolato per ignavia o in obbedienza alla logica che mette l’emergenza al servizio dello spettacolo, che – è il caso di precisarlo subito, e dando la parola a Guy Debord, la guida che ci accompagnerà in questo paragrafo – «non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini», e che «non può essere compreso come l’abuso di un mondo visivo, il prodotto delle tecniche di diffusione massiva di immagini [ma] piuttosto [come] una Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta [e insomma] di una visione del mondo che si è oggettivata». In tal senso, è del tutto secondario cosa lo spettacolo metta in scena, perché l’interesse che lo sostiene risponde ad un’economia (in senso lato) che ha immutabile ratio intrinseca, in guerra e in pace, quando il re della finanza è l’orso e quando è il toro, quando torna conveniente l’accumulo e quando la redistribuzione.
Se il lettore è disposto a rinunciare al pregiudizio che nello spettacolo vede solo intrattenimento ricreativo, per coglierlo come ri-creazione della realtà, vedrà che siamo nello stesso girone in cui tempo fa, su queste pagine, abbiamo trovato il terrorismo. Lì la guida era Brian Jenkins, unanimamente considerato massimo esperto del problema, e anche lui, come farà Guy Debord, ci chiedeva l’enorme sforzo di mettere da parte le passioni, dicendoci che «terrorism is theater» e che «terrorists want a lot of people watching, not a lot of people dead», sicché le passioni finiscono non solo per celare la natura del problema, ma per esserne parte, e decisiva, se non determinante: qui, nel caso del sasso, con quel che sta tra abbrivio e valanga.
Ci chiede troppo, Guy Debord, quando ci invita a considerare che, «nell’insieme delle sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto dei divertimenti, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante» e che «non è niente altro che il senso della pratica totale di una formazione economico-sociale, del suo impiego del tempo» al punto da poterlo definire come «il momento storico che ci contiene»?
Suona un po’ apodittico, è vero, sarà il caso di chiarire. Lo faccio fare a Mario Perniola, che in due testi (Contro la comunicazione, Einaudi 2004; Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi 2009) ha descritto in modo magistrale le ragioni che fanno dello spettacolo, e della comunicazione massmediatica che ne è il «theater», realtà tanto pervasive da riuscire a sostituirsi, dopo averla distorta e annullata, a quella dei fatti che si è presa cura di rappresentarci. Citare i passaggi salienti dei due testi imporrebbe un larghissimo uso del virgolettato, mi limiterò a una sintesi.
Mario Perniola dice che solo in tempi assai recenti l’umanità s’è posta la domanda sul senso di ciò che viveva individualmente e collettivamente: la risposta era data in partenza dalla condizione sociale, dal sapere tramandato e dai rituali. Il relativo benessere che ha segnato gli ultimi due secoli e lo sviluppo delle scienze sociali hanno consentito, per certi versi imposto, che la domanda fosse formulata e che la risposta, esatta o no, fosse il progresso: si era al mondo per progredire, il motore della storia era razionale e progressivo, ogni regressione era solo episodica, se non apparente.
Via via che ci si allontanava dalla seconda guerra mondiale, che col suo esito ha segnato il trionfo di questa concezione, essa ha cominciato ad andare in crisi: «traumi» e «miracoli» hanno messo in discussione la linearità del processo storico con la loro inspiegabilità e la loro imprevedibilità (il maggio francese del 1968, la rivoluzione iraniana del 1979, la caduta del muro di Berlino del 1989, l’attentato alle Twin Towers del 2001). Stupore, eccitazione, sconcerto: stati d’animo che hanno cercato, e trovato nei media, la soluzione formale della risposta nella postura dello spettatore che si misura con la suspense e il colpo di scena, il deus ex machina e l’happy end, il flash back e il déjà vu. In altri termini, la comunicazione ha dato vita a un simulacro di partecipazione all’evento che, da un lato, consente di sentirsi immersi in esso solo a patto di restarne fuori e, dall’altro, impone che esso si esaurisca nella sua rappresentazione: siamo l’evento in quanto platea rappresentata in scena. Perciò non ha nulla di contraddittorio o di paradossale affermare, come fa Mario Perniola, che «la comunicazione aspira ad essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e tutto ciò che sta in mezzo tra i due opposti. È quindi totalitaria in una misura molto maggiore del totalitarismo politico tradizionale, perché comprende anche e soprattutto l’antitotalitarismo. È globale nel senso che include anche ciò che nega la globalità».
Nel passare a Guy Debord, comunque, è importante chiarire che «comunicazione» e «spettacolo» non sono coincidenti, perché l’una è forma e l’altro è contenuto, come ci illustra il § 24 de La Société du Spectacle: «Se lo spettacolo, esaminato sotto l’aspetto ristretto dei “mezzi di comunicazione di massa”, che sono la sua manifestazione superficiale più soggiogante, può sembrare invadere la società come una semplice strumentazione, questa non è concretamente nulla di neutro, ma la strumentazione stessa è funzionale al suo auto-movimento totale. Se i bisogni sociali dell’epoca, in cui si sviluppano simili tecniche, non possono trovare soddisfazione se non tramite la loro mediazione, se l’amministrazione di questa società e ogni contatto fra gli uomini non possono più esercitarsi se non mediante questa potenza di comunicazione istantanea, è perché questa “comunicazione” è essenzialmente unilaterale; di modo che la sua concentrazione consente di accumulare nelle mani dell’amministrazione del sistema esistente i mezzi che gli permettono di continuare questa amministrazione determinata».
Altrettanto importante è aver chiara la sostanziale univocità degli elementi che in tale contesto sembrano diversificarsi e perfino contrapporsi nell’offrirsi come ventaglio di opzioni: «La falsa scelta nel campo dell’abbondanza spettacolare, scelta che risiede nella giustapposizione di spettacoli concorrenziali e solidali, come nella sovrapposizione dei ruoli (principalmente significati e veicolati da oggetti), che sono contemporaneamente esclusivi e ramificati, si sviluppa in lotte di qualità fantomatiche, destinate ad appassionare l’adesione alla trivialità quantitativa. Così rinascono le false opposizioni arcaiche dei regionalismi o dei razzismi incaricati di trasfigurare in superiorità ontologica fantastica la volgarità delle posizioni gerarchiche nel consumo. Così si ricompone l’interminabile serie dei contrasti derisori, che mobilitano un interesse sottoludico, dallo sport alle elezioni. Laddove ha preso possesso il consumo abbondante, emerge un’opposizione spettacolare principale fra la gioventù e gli adulti; perché non esiste da nessuna parte l’adulto, padrone della propria vita, e la gioventù, la trasformazione di ciò che esiste, non è affatto appannaggio degli uomini che oggi sono giovani, ma del sistema economico, del dinamismo del capitalismo. Queste sono le cose che dominano e che son giovani: che sostituiscono se stesse» (§ 62).
Ancor meglio nei Commentaires sur la Société di Spectacle: «Il potere dello spettacolo, così essenzialmente unitario, centralizzatore per forza di cose, e completamente dispotico nello spirito, si indigna assai spesso vedendo formarsi sotto il suo regno una politica-spettacolo, una giustizia-spettacolo, una medicina-spettacolo o tanti altri “eccessi mediali” così sorprendenti. […] Con una certa frequenza, i padroni della società affermano di essere serviti male dai loro dipendenti mediali; più spesso rimproverano alla plebe degli spettatori la tendenza ad abbandonarsi senza ritegno, in modo quasi bestiale, ai piaceri dei mass media. In questo modo si nasconderà, dietro una moltitudine virtualmente infinita di presunte divergenze mediali, quello che è al contrario il risultato di una convergenza spettacolare voluta con notevole tenacia» (III).
Ma per il prossimo paragrafo, dove vedremo come tutto questo si fa esemplare nella gestione mediatica dell’epidemia di Covid-19, torna utile anche un altro punto: «Si sente dire che ormai la scienza è subordinata a imperativi di redditività economica; ciò è vero da sempre. Il fatto nuovo è che l’economia ha cominciato a fare apertamente guerra agli umani. […] Prima di arrivare a questo punto la scienza godeva di una relativa autonomia. Perciò sapeva pensare il suo briciolo di realtà; e in tal modo aveva potuto contribuire immensamente ad aumentare i mezzi dell’economia. Quando l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo, ha soppresso le ultime tracce dell’autonomia scientifica, inscindibilmente sul piano metodologico e su quello delle condizioni pratiche dell’attività dei “ricercatori”. Non si chiede più alla scienza di capire il mondo o di migliorare qualcosa. Le si chiede di giustificare istantaneamente tutto ciò che si fa» (XIV). In questo frangente, come la monaca di Monza, «la sventurata rispose».