domenica 25 dicembre 2022

2084 - Una riflessione personale sullo stato delle cose

 




Amiche e amici, compagni e compagne,

Scrivo tutto questo di getto, per non dimenticarlo, perché potrebbe essere interessante da condividere o inutile e noioso (è sempre il rischio quando si parla o si scrive). Lo farò in modo erratico com’è nella mia natura, impulsiva ma ragionatrice. Quest’ossimoro apparente mi lega, del resto, al concetto di deriva che mi è stato trasmesso e che ho applicato fin dalla giovinezza al mio pensiero quanto alle mie passeggiate psicogeografiche – un po' per scelta radicale, un po' per carattere.

Ho appena terminato di scrivere 2084 - DemoAcrazia o soluzione finale senza sapere ancora chi vorrà gentilmente pubblicare (editori italiani o francesi sensibili alla radicalità possono contattarmi) questa modesta ma sentita sintesi delle mie riflessioni alla Silvio Pellico (ma anche un po' alla Garcia Marquez, senza la minima pretesa di scrivere bene quanto lui): Le mie prigioni al tempo del colera nella sua versione spettacolare e dello scatenamento della peste emozionale a 360 gradi.

Quello che scarabocchio qui non l'ho scritto tale e quale nel recentissimo saggio di fantacoscienza che ho appena citato e che è stato per me un punto rotta salutare per prendere le distanze da tutte le pazze folle scatenate e da tutti i deliri totalitari in fibrillazione accelerata. Tuttavia, quello che sto per aggiungere è assolutamente al cuore della mia riflessione, fosse pure incompiuta ancor più che erratica.

Come dubitare che il capitalismo sia il nemico centrale contro il quale ci si deve confrontare tutto il giorno (e anche di notte)? Questo mostro a due teste (Stato + Mercato) ci costringe a lottare sia per salvarci la pelle sia per vivere una vita degna di questo nome.

Il problema è che questa è solo la parte visibile (anche se spettacolarmente nascosta e falsificata) dell'iceberg in agguato che aspetta la nave (Niña, Pinta, Santa Maria, Titanic o Potëmkin, secondo le ideologie produttiviste in circolazione sul mercato intellettuale) della comunità umana incompiuta. Senza dubbio il progetto di un rinascimento poetico e sociale resta possibile, ma si rivela difficile perché la società umana è stata sfruttata e condizionata per millenni dal produttivismo, molto prima che il capitalismo patologica fase terminale della soluzione finale produttivista risalisse dalle fabbriche, anziché scendere dal cielo, per inquinare definitivamente una civiltà predatrice. Sia chiaro: senza l’hubris patriarcale/produttivista che l’ha creato, non c’è capitalismo concepibile.

La faccenda è certamente più complessa di quanto io possa dirne, ma l'ambiguità attorno alla questione sociale è storicamente legata, a mio avviso, a un errore essenziale della teoria critica radicale (o che cerca di esserlo), influenzata da un marxismo cui Marx stesso pretendeva di non assoggettarsi, pur producendo il ricchissimo materiale teorico che l'ideologia marxista si è affrettata a recuperare. In un tale contesto, l'enorme qualità critica dell'ideatore di questa ideologia ha evidentemente influenzato anche tutto il pensiero libertario, arricchendolo indubbiamente, pur sviandolo, credo, verso scorciatoie insurrezionaliste a titolo di esorcismo autoritario.

Il superamento del marxismo nel senso del Marx più lucido, ma meglio di quello che lui stesso seppe fare a suo tempo e in seguito i suoi eredi autoproclamati è stato cercato da diversi sinceri rivoluzionari e ha trovato in Wilhelm Reich un appassionato ricercatore fuori circuito e fuori dagli standard. Nonostante qualche delirio collaterale senza grande rilevanza in proposito, Reich ha cercato coraggiosamente di sottrarre le più interessanti scoperte freudiane alla psicanalisi borghese, tanto quanto ha denunciato, da militante comunista della sexpol che è stato, l'abuso della teoria del proletariato perpetuato dalle sue avanguardie rosse di stampo fascista. Dopo la sua incessante ricerca sull'energia vitale e sulla peste emozionale, sul carattere e sull'irruzione della morale sessuale coercitiva, la via radicale rimane aperta sulla scia di diversi pensatori di sensibilità situazionista o di altre radicalità, da Anders e Arendt a Vaneigem, passando per Benjamin, Bookchin, Clastres, Debord, Gimbutas, Graeber, Sahlins, Scott. La dimensione orgastica e acratica della rivoluzione sociale rimane, tuttavia, ancora tutta da esplorare senza attardarsi sull’intellettualismo di un’economia libidinale.

Per superare Marx, pur stimandolo molto e nutrendosi della sua lucidità, credo che un passo fondamentale sia il rifiuto del dogma del distinguo tra struttura e sovrastruttura che compare sempre quando ci s’incammina verso la rivoluzione sociale di cui il Moro sognava più di ogni altra cosa. Marx (come Mauss del resto ci tornerò) mi sembra almeno parzialmente prigioniero dell'idea di struttura economica del reale che relega tutto il resto alla sovrastruttura, perché il materialismo di entrambi era ovviamente pre-reichiano. Questi due grandi esploratori appassionati del sociale, ignoravano la teoria dell'orgasmo che più tardi avrebbe aperto la porta (sistematicamente chiusa in seguito, ripetutamente, dall'irruzione della società dello spettacolo e dalla diffusione planetaria dell'ideologia feticista del consumismo) a una nuova radicalità e coscienza, tratteggiate e represse come un singhiozzo dopo il maggio 68.

In altre parole, per dire le cose come stanno, intendo che la struttura sociale non è tanto economica quanto emozionale, psicogeografica nell’ambito di un materialismo dialettico refrattario alle sue volgarizzazioni. Avere fame è soprattutto un'emozione corporea, che sia fame di cibo o fame sessuale, per attenersi all'essenziale, vuoi al primario, senza dimenticare, tuttavia, l'abbondante esuberanza artistica del creativo e dell’immaginario che rendono particolarmente umani gli umani. Al bisogno si risponde, dunque, prima di tutto emozionalmente, oscillando tra due istinti primari opposti: la solidarietà reciproca e la predazione suprematista. La scienza quando viene è benvenuta, ma i metodi di organizzazione della vita e della società che da essa derivano, vengono dopo, più o meno validi e sempre opinabili per la loro stessa natura scientifica che, appunto, ne limita la portata. Si può precisare, in questo senso, contro ogni regressione primitivista, che la funzione della tecnica (come di ogni sapere e saper fare) va dosata in modo che il suo uso dipenda in ultima analisi dal grado di felicità orgastica che essa rende possibile e non dal PIL (prodotto interno lordo) di una società produttivista artificiale e alienante di cui il capitalismo è la macchina che lava i cervelli e intristisce i cuori.

L'economia e la psicoanalisi generano delle ideologie specifiche della stessa pulsione a soddisfare i bisogni che i corpi individuali e sociali affrontano prima emozionalmente, poi razionalmente. Come delimitare la pertinenza dell'una come dell'altra? Il dono (ecco perché ho tirato fuori anche Mauss), e in particolare il dono di sé che è il dono più intimo e profondo (lo si chiama amore), è alla radice di ogni scambio o piuttosto di ogni sovrapposizione energetica che caratterizza la poesia dell’umano – per dirlo meglio con le parole di Reich, sottraendo “la cosa” a una teologia che ci parla sempre di profitto e guadagno, mai di orgasmo e felicità: l'economia politica.

Quest’ideologia del capitalismo è, infatti, il bersaglio critico di tutta l'opera di Marx – Das Kapital compreso, che ha come sottotitolo Per la critica dell'economia politica, come tutte le grandi opere della maturità marxiana –, non dimentichiamolo. Il capitalismo ha ereditato dalle forme economiche precapitaliste, “strutturalmente” religiose, il denaro come equivalente generale del valore (da millenni il denaro, in quanto ricchezza accumulata, è prezioso come l’oro, è “il grano” che rende ricchi), simbolo circolante di una venerazione della crescita economica che feticizza la merce. Il totemismo della quale evoca il potere del padre della civiltà dominante, il produttivismo, spinto poi al parossismo dal figlio, il capitalismo, con l’ausilio dello spirito santo dell'economia politica.

Di fronte a un essere che si desidera ma anche a un oggetto che si brama, ci sono due possibilità di soddisfazione: una è il dono, atto volontario gratuito inscritto in una proposta di reciprocità che rende amabili e amichevoli, acuendo l'istinto fraterno/sororale; l'altro è il furto, appropriazione privativa, atto imposto dall'istinto predatore che esercita aggressività e astuzia, instaurando il conflitto per il dominio. L’economia politica legalizza e decreta legittimo il furto perpetrato dall’appropriazione privativa produttivista così come la violenza di Stato che la protegge. Contro quest’abuso, del resto, mille forme storiche di riappropriazione testimoniano di una resistenza prerivoluzionaria a livello individuale e locale nella vita quotidiana. Il furto riguarda dunque altrettanto lo Stato che i suoi nemici, il dono presuppone invece una società senza Stato, dei rapporti acratici tra soggetti liberi e uguali. Dove lo scambio commerciale dissimula il furto, cancellando il dono, la frustrazione e la rabbia sono acuite dalla rimozione del desiderio intimo la cui soddisfazione non è affatto garantita dall’avere senza l’essere: una tale amputazione frustra il ladro mentre ferisce il derubato.

Quando hai fame, cerca qualcuno con cui mangiare”, diceva Epicuro con la sua lucidità poetica. Il dono è dunque la condizione della comunità umana in fieri che si manifesta socialmente come mutuo soccorso, solidarietà, condivisione. Ecco perché, a una lettura più reichiana, l'obbligo del controdono non mi sembra logico né soprattutto necessario. La risposta umana a un dono non è un controdono (do ut des) ma un dono autonomo privo di vincolo, una replica mossa dal piacere spontaneo che il dono comporta, perché nell'azione di donare liberamente secondo i propri mezzi si soddisfa il reciproco piacere di dare e ricevere. Exit, dunque, la violenza oggettiva del potlatch tanto quanto la violenza subdola dell'elemosina.

Se ci si riferisce all'atto d'amore come prototipo del dono orgastico, gli amanti si donano ciascuno per il proprio piacere che soddisfa reciprocamente, dando e ricevendo senza gerarchie di alcun genere. D'altro canto, fin dalla sua origine, il produttivismo è un furto/stupro organizzato socialmente e individualmente ed esercitato dal più forte o dal più furbo contro il più debole o ingenuo. Ogni scambio redditizio per una delle parti introduce la sofferenza nella soddisfazione e viceversa, creando il signore e lo schiavo, trasformando l'abbraccio genitale orgastico in dominio/sottomissione fallica, fonte di ogni sadismo e di ogni masochismo, etero, omo e più se affinità, tutte e tutti nello stesso ghetto suprematista.

Tuttavia, alla fine del Medioevo dell'Occidente cristiano, il produttivismo arcaico (inventore fin dall'antichità di molteplici forme sociali, culturali e religiose diverse) ha lasciato il posto al produttivismo moderno, di cui il capitalismo è il modo di produzione che ha trasformato le teologie religiose celesti in una religione terrena. Il capitalismo è nato sulle rovine dei vecchi regimi, grazie alla scoperta di un nuovo mondo da sfruttare e di un industrialismo che ha rivoluzionato il modo di produzione accelerandolo costantemente verso la produzione di valore anziché di felicità. Questa modernizzazione progressiva del produttivismo ha invaso la vita organica, passando da un dominio formale sul lavoro umano al dominio reale del capitale (vedi Il sesto capitolo inedito del Capitale di Marx e le opere di J. Camatte). Una tale mutazione ha comportato persino un condizionamento psicosociale e psicogeografico globale di tutte le relazioni degli umani tra loro e con il vivente, in un universo alienato e reificato, dove la circolazione autonoma della merce ha ridotto la società a un supermercato planetario. Da allora, uomini e donne, animali, piante ed energia – di fatto tutta la natura e la vita organica – non sono più che cose con un prezzo e una circolazione mercantile. Tuttavia, è un dato di fatto: per la "produzione" della felicità l'energia del petrolio, dell'elettricità o di qualsiasi altra pratica industriale non potrà mai sostituirsi in modo soddisfacente all'energia vitale.

Per uscire dal capitalismo e non passare tragicamente da un capitalismo all'altro, bisogna lottare contro il produttivismo. Altrimenti siamo condannati al déjà-vu: Stalin, Franco, Mao, Pinochet, Pol Pot, Ben Laden, Putin, macabre messinscene spettacolarmente opposte al totalitarismo democratico che si nutre degli orrori reazionari e fascisti come ultimo alibi per la sua sconfinata hubris predatrice, assassina ma politicamente corretta.

Sono convinto che la nostra complicità radicale dai caratteri differenti ma non inconciliabili sia troppo importante per non cercare di chiarire le sfumature, i dubbi e infine le differenze, per superarle attraverso un dialogo capace di forgiare un immaginario condiviso. Ecco il motivo per cui mi sono avventurato in questo discorso, ancora una volta erratico.

Con amicizia, dalla mia grotta scaldata dal bue e dall’asinello per risparmiare gas ed elettricità, mentre manchiamo soprattutto, collettivamente, di energia vitale.

Sergio Ghirardi Sauvageon 25/12/2022



2084 - Une réflexion personnelle sur l’état des choses

A mes camarades, amies et amis,

J’écris tout ça d’une traite, pour ne pas l’oublier, tout en sachant que ça peut être intéressant à partager ou inutile et ennuyeux (c’est toujours le risque quand on parle ou qu’on écrit). Je vais le faire de manière erratique comme c’est dans ma nature, impulsive mais raisonnante. Cet oxymore apparent me lie d’ailleurs à la notion de dérive qui m’a été transmise et que j'applique, depuis ma jeunesse, à ma pensée comme à mes promenades psychogéographiques dans la vie – un peu par choix radical, un peu par caractère.

Je viens de terminer d’écrire 2084-DemoAcratie ou solution finale sans savoir encore qui voudra bien publier (tout éditeur italien ou français concerné par une sensibilité radicale peut me contacter) cette synthèse modeste mais sincère de mes réflexions à la Silvio Pellico (mais un peu aussi à la Garcia Marquez, sans la moindre prétention d’écrire aussi bien que lui) : Mes prisons au temps du choléra dans sa version spectaculaire et du déferlement de la peste émotionnelle à 360 degrés.

Ce que je griffonne ici je ne l’ai pas écrit tel quel dans mon essai de conscience-fiction tout récent que je viens d’évoquer et qui a été pour moi un point de routage salutaire afin de prendre les distances de toutes les foules déchainées et de tous les délires totalitaires en fibrillation accélérée. Néanmoins, ce que je veux ajouter est absolument au cœur de ma réflexion, fût-elle inachevée plus encore qu’erratique.

Comment douter que le capitalisme soit l’ennemi central contre lequel on est confronté à longueur de journée (et la nuit aussi) ? Ce monstre bicéphale (État+Marché) nous oblige à nous battre pour sauver notre peau autant que pour vivre une vie digne de ce nom.

Le problème est que cela n’est que la partie visible (même si spectaculairement cachée et falsifiée) de l’iceberg qui guette le navire (Niña, Pinta, Santa Maria, Titanic ou Potemkine, au choix des idéologies productivistes qui circulent sur le marché intellectuel) de la communauté humaine inachevée. Sans doute le projet d’une renaissance poétique et sociale reste-t-il possible, mais il s’avère difficile car la société humaine a été exploitée et conditionnée pendant des millénaires par le productivisme, bien avant que le capitalisme phase terminale pathologique de la solution finale productiviste – ne remonte des usines, plutôt qu’il ne descende du ciel, pour polluer définitivement une civilisation prédatrice. Soyons clairs : sans l’hubris patriarcale/productiviste qui l’a créé, il n’y a pas de capitalisme concevable.

Certes, le sujet est certainement plus complexe que ce que je peux en dire, mais l’ambiguïté autour de la question sociale est historiquement liée, selon moi, à une erreur essentielle de la théorie critique radicale (ou qui cherche à l’être), influencée par un marxisme auquel Marx même prétendait ne pas s’assujettir, tout en produisant la richissime matière théorique que l’idéologie marxiste s’est empressée de récupérer. Dans un tel contexte, l’énorme qualité critique du créateur de cette idéologie a évidemment aussi influencé toute la pensée libertaire, l’enrichissant sans doute, tout en la détournant, je crois, vers des raccourcis insurrectionalistes en guise d’exorcisme autoritaire.

Le dépassement du marxisme dans le sens du Marx le plus lucide, mais mieux que ce que lui-même a pu faire à son époque et surtout ses héritiers autoproclamés par la suite a été recherché par plusieurs révolutionnaires sincères et a trouvé en Wilhelm Reich un chercheur passionné hors circuit et hors norme. Malgré quelques délires collatéraux sans grande importance à ce propos, Reich a cherché bravement à soustraire les découvertes freudiennes les plus intéressantes à la psychanalyse bourgeoise, autant qu’il a dénoncé, en militant communiste de la sexpol qu’il fut, l’abus de la théorie du prolétariat par ses avant-gardes rouges fascisantes. Après ses recherches acharnées sur l’énergie vitale et la peste émotionnelle, sur le caractère et sur l’irruption de la morale sexuelle, la voie radicale reste ouverte dans le sillage de plusieurs penseurs de sensibilité situationniste ou d’autres radicalités, de Anders et Arendt à Vaneigem, en passant par Benjamin, Bookchin, Clastres, Debord, Gimbutas, Graeber, Sahlins, Scott. La dimension orgastique et acratique de la révolution sociale reste cependant encore toute à explorer, sans s’attarder sur l’intellectualisme d’une économie libidinale.

Pour dépasser Marx, tout en l’estimant beaucoup et se nourrissant de sa lucidité, je crois qu’une étape fondamentale est le rejet du dogme de la distinction entre structure et superstructure qui apparaît toujours quand on s’achemine sur la voie de la révolution sociale dont le Moor rêvait plus que tout. Marx (comme Mauss d’ailleurs j’y reviendrai) me semble au moins partiellement prisonnier de l’idée de l’infrastructure économique du réel qui relègue tout le reste à la superstructure, parce que son (leur) matérialisme était évidemment pré-reichien. Tous les deux ces grands explorateurs passionnés du social ignoraient la théorie de l’orgasme qui a ensuite ouvert la porte (systématiquement refermée depuis, à répétition, par l’irruption de la société du spectacle et par la diffusion planétaire de l’idéologie fétichiste du consumérisme) à une radicalité et à une conscience nouvelles, ébauchées et refoulées comme un hoquet depuis mai 68.

En d’autres termes, mettant les pieds dans le plat, je veux dire que la structure sociale n’est pas tant économique qu’émotionnelle, psychogéographique, dans le cadre d’un matérialisme dialectique réfractaire à ses vulgarisations. Avoir faim est avant tout une émotion corporelle, soit-elle faim de nourriture ou faim sexuelle, pour s’en tenir à l’essentiel, voire au primaire, sans pour autant oublier la foisonnante exubérance artistique du créatif et de l’imaginaire qui rendent spécialement humains les humains. D’abord, donc, on répond émotionnellement au besoin, oscillant entre deux instincts primaires opposés : la solidarité mutuelle et la prédation suprématiste. La science est la bienvenue quand elle vient, mais les modes d’organisation de la vie et de la société qui en découlent, viennent après, plus ou moins valables et toujours discutables en raison de leur caractère scientifique même qui, justement, limite leur portée. On peut préciser, en ce sens, contre toute régression primitiviste, que la fonction de la technique (comme de tout savoir et savoir-faire) doit être dosée de façon que son utilisation dépende finalement du degré de bonheur orgastique qu’elle rend possible et non pas du PIB (Produit Intérieur Brut) d’une société productiviste artificielle et aliénante dont le capitalisme est la machine à décerveler qui attriste les cœurs.

L’économie et la psychanalyse génèrent des idéologies spécifiques de la même pulsion d’assouvissement des besoins auxquels les corps individuels et sociaux sont confrontés d’abord émotionnellement, puis rationnellement. Comment délimiter la pertinence de l’une comme de l’autre ? Le don (c’est pourquoi Mauss aussi est de la partie), et en particulier le don de soi qui est le don le plus intime et profond (on appelle ça l’amour), est à la racine de tout échange ou plutôt de toute superposition énergétique qui caractérise la poésie de l’humain – pour mieux le dire avec les mots de Reich, en soustrayant « la chose » à une théologie qui nous parle toujours de profit et de gain, jamais d’orgasme et de bonheur : l’économie politique.

Car cette idéologie du capitalisme est la cible critique de toute l’œuvre de Marx – y compris Das Kapital, qui a pour sous-titre Pour la critique de l’économie politique, comme toutes les œuvres majeures de la maturité marxienne –, ne l’oublions pas.

Le capitalisme a hérité des formes économiques précapitalistes, « structurellement » religieuses, l’argent comme équivalent général de la valeur (depuis des millénaires, l’argent, en tant que richesse accumulée, est aussi précieux que l’or, c’est « le blé » qui fait l’enrichissement), symbole circulant d’une vénération de la croissance économique qui fétichise la marchandise. Le totémisme de celle-ci évoque le pouvoir du père de la civilisation dominante, le productivisme, poussé ensuite au paroxysme par le fils, le capitalisme, avec l’aide du saint esprit de l’économie politique.

Face à un être qu’on désire, mais aussi à un objet qu’on convoite, il y a deux possibilités pour la satisfaction : l’une est le don, acte volontaire et gratuit inscrit dans une proposition de réciprocité qui rend aimables et amiables, aiguisant l’instinct fraternel/sororal ; l’autre est le vol, appropriation privative, acte imposé par l’instinct prédateur qui exerce l’agressivité et la ruse, instaurant le conflit pour la domination. L’économie politique légalise et décrète légitime le vol perpétré par l’appropriation privative productiviste ainsi que la violence étatique qui la protège. Contre cet abus, d’ailleurs, mille formes historiques de réappropriation témoignent d’une résistance prérévolutionnaire à un niveau individuel et local de la vie quotidienne. Le vol concerne, donc, à la fois l’État et ses ennemis, tandis que le don suppose une société sans État, des rapports acratiques entre sujets libres et égaux. Là ou l’échange marchand dissimule le vol, annulant le don, la frustration et la rage sont exacerbées par le refoulement du désir intime dont l’avoir sans l’être ne garantit en rien la satisfaction : une telle amputation frustre le voleur tout en lésant le spolié.

« Quand tu as faim, cherche quelqu’un avec qui manger » disait Epicure avec sa lucidité poétique. Ainsi le don est la condition de la communauté humaine in fieri qui se manifeste socialement comme entraide, solidarité, partage. C’est pourquoi, dans une lecture plus reichienne, l’obligation d’un contredon ne me paraît pas logique ni surtout nécessaire. La réponse humaine à un don n’est pas un contredon (do ut des) mais un don autonome dépourvu d’obligation, une réplique poussée par le plaisir spontané que le don comporte, car dans l’action de donner librement selon ses moyens on satisfait la jouissance réciproque de donner et recevoir. Exit, donc, la violence objective du potlatch autant que la violence sournoise de l’aumône.

Si l’on se réfère à l’acte d’amour comme prototype du don orgastique, les amants se donnent pour leur propre plaisir qui les satisfait réciproquement, donnant et recevant sans hiérarchie d’aucune sorte. En revanche, depuis ses origines, le productivisme est un vol/viol organisé socialement et individuellement, exercé par les plus forts ou les plus rusés contre les plus faibles ou les plus naïfs. Tout échange profitable pour l’une des parties introduit la souffrance dans la satisfaction et inversement, créant le maître et l’esclave, transformant l’étreinte génitale orgastique en domination/soumission phallique, source de tout sadisme et de tout masochisme, hétéro, homo et plus si affinités, tous et toutes dans le même ghetto suprématiste.

Cependant, à la fin du Moyen Âge de l’Occident chrétien, le productivisme archaïque (inventeur depuis l’antiquité de multiples formes sociales, culturelles et religieuses différentes) a laissé la place au productivisme moderne dont le capitalisme est le mode de production qui a transformé les théologies religieuses célestes en une religion terrestre. Le capitalisme est né sur les ruines des anciens régimes, grâce à la découverte d’un nouveau monde à exploiter et d’un industrialisme qui a révolutionné le mode de production en l’accélérant sans cesse vers la production de valeur et non pas de bonheur. Cette modernisation progressive du productivisme a envahi la vie organique passant d’une domination formelle sur le travail humain à la domination réelle du capital (voir Le sixième chapitre inédit du Capital de Marx et les œuvres de J. Camatte). Une telle mutation a comporté jusqu’au conditionnement psychosocial et psychogéographique global de toutes les relations des humains entre eux et avec le vivant, dans un univers aliéné et réifié où la circulation autonome de la marchandise a réduit la société à un supermarché planétaire. Depuis, hommes et femmes, animaux, plantes et énergie – toute la nature en fait et la vie organique – ne sont plus que des choses avec un prix et une circulation marchande. Pourtant, c’est un fait : pour la « production » du bonheur, l’énergie du pétrole, de l’électricité ou de toute autre pratique industrielle, ne pourra jamais se substituer à l’énergie vitale de manière satisfaisante.

Pour sortir du capitalisme et ne pas passer tragiquement d’un capitalisme à l’autre, il faut se battre contre le productivisme. Sinon on est condamné au déjà-vu : Staline, Franco, Mao, Pinochet, Pol Pot, Ben Laden, Poutine, macabres mises en scène spectaculairement opposées au totalitarisme démocratique qui se nourrit des horreurs réactionnaires et fascistes comme alibi ultime pour son hubris prédatrice sans bornes, meurtrière mais politiquement correcte.

Je suis convaincu qu’une complicité radicale, aux caractères différents mais pas inconciliables, est trop importante pour ne pas chercher à éclaircir les nuances, les doutes et finalement les différences, afin de les dépasser par un dialogue capable de forger un imaginaire partagé. C’est pourquoi je me suis aventuré dans ce discours, encore une fois erratique.

Avec amitié, depuis ma grotte chauffée par le bœuf et l’âne pour économiser le gaz et l’électricité, alors que surtout, collectivement, nous manquons d’énergie vitale.

Sergio Ghirardi Sauvageon 25/12/2022