giovedì 26 dicembre 2024

Globalizzazione e geopolitica - Miguel Amorós

 




Nelle classi medie sempre più declinanti della sempre più impotente società europea, persiste ancora l’illusione del cittadino liberale che la macchina statale sia controllabile dai parlamenti. E che grazie a questo controllo politico, lo Stato stesso possa rappresentare la “cittadinanza”, cioè agire secondo i criteri morali della mesocrazia (governo della classe media, NdT), schierandosi a favore di quello che essa ritiene giusto, contro quel che ritiene non lo sia. In questo modo, il mondo è visto come uno scenario, dove il bene generale e il male assoluto si contendono il terreno, e in caso di scontro, la buona coscienza manicheista dei partiti – che agiscono come imprese private – deve mostrare diligenza al momento di stare dalla parte giusta, quella dei buoni. Tuttavia, tutte le parti lasciano molto a desiderare, e non appena si scava più a fondo, emergono contraddizioni che pongono in dubbio la bontà della fazione prescelta, che non sempre può essere placata con alte dosi d’ideologia. Nessuno gioca in modo trasparente quando prevalgono gli interessi privati.

 

Naturalmente siamo inorriditi dagli omicidi; aborriamo le differenze di classe, rifiutiamo qualsiasi tipo di coercizione, odiamo le dittature, detestiamo la burocrazia ed esecriamo il patriarcato. Anche noi ci schieriamo prendiamo posizione ma senza identificarci meccanicamente e in modo contemplativo con i nemici apparenti del nostro nemico reale, vale a dire la classe dominante. Non siamo degli spettatori attenti ai movimenti del contendente con il quale astrattamente simpatizziamo. Agendo in questo modo, non ci opporremmo realmente ai poteri che si spartiscono il mondo. A noi interessa piuttosto chiarire le cause che hanno portato alla situazione in cui ci troviamo, al fine di rivelare la vera natura dei conflitti attuali e scoprire gli obiettivi nascosti perseguiti dalle fazioni ufficialmente in lotta. La causa più importante è evidente: la scomparsa del proletariato come classe cosciente, da cui deriva l'assenza di un movimento rivoluzionario degno di questo nome. Tenendo ciò ben presente, dobbiamo considerare il mondo come totalità, come una realtà globale e storica perfettamente ordinata secondo una strana logica, le cui regole obbediscono ai giochi internazionali di potere e alle vicissitudini del mercato mondiale. A partire da questo, proveremmo a comprendere le principali questioni del nostro tempo, dalle guerre in Ucraina e Gaza, alle elezioni in Venezuela o Messico, dall’ascesa di Trump, all’ideologia woke e all’estrema destra europea, fino alla resistenza del Rojava, al fallimento della primavera araba e all’egemonia cinese.

 

Siamo immersi in un’economia globalizzata, in cui tutte le attività economiche sono interdipendenti, poiché integrate in un tutto. Gli imperativi della crescita governano il mondo e ogni evento dirompente – ad es. una pandemia, una guerra, una crisi finanziaria – colpisce allo stesso modo tutte le parti. L’economia si trasforma ora direttamente in potere, qualcosa di troppo importante per lasciarlo nelle mani di uomini d’affari, proprietari terrieri o politici. Costoro sono solo semplici cinghie di trasmissione dei dettami elaborati da altre cariche di più alto livello, poiché nel sistema globalizzato la proprietà e il traffico su larga scala hanno perso importanza a vantaggio del potere decisionale. Quindi, qualunque sia la classe politica, sempre subalterna, oggi il vertice della classe dirigente è in gran parte costituito da alti dirigenti, burocrati specializzati ed esperti patentati. In questo contesto, il liberalismo, la democrazia parlamentare, i partiti politici, i diritti civili, ecc., sono cose del passato: i principi, i valori e gli obiettivi morali portati avanti dalla propaganda ideologica mancano d’importanza. L'ordine –l'obbedienza – è quello che conta.

 

Alla globalizzazione del commercio e della finanza non è corrisposta un’omogeneizzazione dei regimi politici, dato che l’harakiri non rientrava nei piani delle oligarchie dominanti. A livello locale e regionale, la complessità delle strutture sistemiche e la divergenza d’interessi erano così enormi da rendere difficile qualsiasi progresso in questa direzione. L’eredità storica della “Guerra Fredda”, il passato sotto forma di apparato burocratico, il substrato culturale antimoderno, pesavano come un macigno potendo rallentare la marcia verso la globalizzazione politica. L’ordine liberale s’è limitato al cosiddetto Occidente, lasciando fuori il resto. In ogni caso, il capitalismo sregolatore delle multinazionali era perfettamente compatibile con altre forme di capitalismo come il capitalismo di stato oligarchico, il capitalismo teocratico o il capitalismo di partito. La supremazia del liberalismo capitalista fu apertamente postulata nel 1945 attraverso il predominio economico e militare degli Stati Uniti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il suo apogeo si ebbe nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino, la decomposizione dell’URSS, i trattati di disarmo e la preponderanza mondiale della finanza, dando origine alla cosiddetta globalizzazione, che ebbe come corollario una sorta di “Macdonalizzazione” generalizzata, cioè a un'unificazione universale delle abitudini consumiste, delle mode, dei gusti gastronomici e dei costumi festivi americani. Infine, e soprattutto grazie alla rapidissima espansione della popolazione urbana, la società dello spettacolo è diventata realtà, ma seguendo le linee guida americane, poiché l’Europa aveva perso la sua influenza dopo la fine della “guerra fredda”: i destini dell’intero pianeta non dipendevano più dalle sue decisioni. Il continente aveva smesso di essere autonomo nella difesa: era protetto dall’ombrello americano e dal Trattato Nord Atlantico contro la mancanza di sicurezza. Non lo era in materia di energia e politica estera. Lo abbiamo già sperimentato nelle guerre petrolifere di fine secolo e nella subordinazione al gas russo, e continua a verificarsi nei bombardamenti di Gaza. D’ora in poi il declino europeo non potrà che accentuarsi.

 

L’Europa, o meglio i suoi ex leader sostenuti da una classe media in espansione, aveva optato per un’interdipendenza pacifica con la Russia oligarchica, per lo sviluppo economico e il commercio, concentrandosi più sulla bilancia dei pagamenti, sul cambiamento climatico e sugli immigrati che sulla dissuasione militare. Una scarsa spesa per l’armamento mostrava la sua volontà di non combattere. Tuttavia, la sua superiorità economica andava erodendosi a un ritmo sostenuto per cause demografiche e tecnologiche. Attualmente, l’invecchiamento della popolazione europea rappresenta solo il 7% della popolazione mondiale, mentre nel 1900 era pari al 25%, e la tendenza è al ribasso. D’altro canto, la Cina e le potenze emergenti come l’India hanno recuperato il gap tecnologico che avevano. Non si sono limitate a importare e copiare la tecnologia altrui, come quando erano la fabbrica mondiale, ma hanno cominciato a primeggiare nel settore anche in materia d’innovazione, difesa e aeronautica. Infine, una produttività simile ha reso il peso economico di un paese, e quindi l’influenza politica, sempre più dipendente dal volume della popolazione. E su questo terreno il molto popoloso Oriente superava di gran lunga la Russia, l’Unione Europea o il Nord America messi insieme. Infatti, dopo anni di crescita del Prodotto Interno Lordo ben superiore a quello di Stati Uniti ed Europa, nel 2014 la Cina ha superato gli Stati Uniti in potere d’acquisto. L’ha fatto anche nel settore delle risorse strategiche. Da allora ci troviamo in uno scenario internazionale segnato da tensioni ed equilibri di potere tra le due potenze preminenti con i rispettivi alleati, una potenza in ascesa, attorno alla quale orbita la Russia, e l’altra in declino. Le scaramucce commerciali tra Cina e Stati Uniti, o la cintura di sicurezza del Pacifico, sono solo la punta dell’iceberg. In un quadro globale, qualsiasi conflitto che superi i limiti locali, ad esempio la guerra in Ucraina, è soprattutto un confronto delegato tra entrambe le potenze. La NATO, gli oligarchi ucraini, l'Iran, lo Stato gendarme russo e perfino i nordcoreani saranno gli attori del dramma, ma né la sceneggiatura né il finale sono stati scritti da loro.

 

Nell’attuale fase della globalizzazione, il potere è visibilmente l’elemento base delle relazioni internazionali, e per questo la geopolitica acquista una rilevanza prevalente. La politica estera dei grandi Stati diventa interamente geostrategica e il concetto di “nemico” ritorna nell’arena con maggiore vigore. Data la fine dell’incontestabile egemonia degli Stati Uniti, ciascuna potenza cerca un sufficiente equilibrio di potere accumulando mezzi di lotta e stringendo alleanze per proteggere le proprie aree d’influenza. Evidentemente, senza astenersi dall’intervento militare, se necessario, il che rende problematico questo equilibrio, poiché le altre potenze, per non destabilizzarsi, agiranno di conseguenza. Questa è la vera causa della guerra in Ucraina, che, dopo aver demolito l’edificio di sicurezza del periodo successivo alla Guerra Fredda, ha posto l’Europa al centro della geopolitica, ha significato il ritorno della Russia come aspirante potenza mondiale e ha scatenato un’inquietante corsa agli armamenti. Fino ad allora, i governi europei avevano cercato l’equilibrio di potere attraverso la moltiplicazione dei vincoli economici, allentando le spese militari e concentrandosi sul capitalismo “verde” pomposamente chiamato “transizione energetica”. Tale strategia, di origine tedesca, è culminata in una rischiosa dipendenza dal petrolio e dal gas naturale russi, e in una dipendenza ancora maggiore dal mercato dei pannelli solari, delle turbine eoliche, delle batterie, dei veicoli elettrici, ecc., dominato dalla Cina. A questo punto, l’allarmismo climatico dei governi europei, in particolare socialdemocratici, è pura retorica, poiché in pratica ogni anno si consuma più combustibile fossile, l’energia nucleare trova ogni giorno più sostenitori e i vertici sul clima non si accordano mai sulle misure essenziali. Il cambiamento strategico verso cui l’Unione Europea è stata trascinata dalla guerra è ancora più pericoloso, poiché più che sull’elettrificazione si basa sulla militarizzazione.

 

L’attuale fase sopra menzionata si fonda su un’autentica economia di guerra, strettamente legata all’industria nucleare, bellica e aerospaziale, e, sussidiariamente, sul controllo sociale della popolazione. Queste attività contribuiscono per il 12% al PIL e sono attualmente il motore trainante dell'economia, al punto che alcuni analisti indicano nelle spese militari il mezzo migliore per sostenere il tasso di profitto del capitale. In Spagna, l’aumento di questa spesa del 2% del bilancio statale potrebbe sostituire il turismo di massa come principale motore economico, qualcosa su cui è d’accordo più della metà dell’elettorato. Una ministra del governo socialista ha detto con tutta sincerità che “investire nella difesa è investire nella pace”, il che equivale a dire “se vuoi la pace, prepara la guerra”, cosicché l’allineamento del pacifismo del governo al più rancido appoggio alla Nato è fuori discussione. È chiaro che nella conflittuale scena mondiale, senza una chiara potenza dominante, la guerra è una necessità. È il principale fattore di pacificazione interna e il maggiore stimolo per l’economia, anche se i beneficiari sono soprattutto le corporazioni e i fondi multinazionali. Nel frattempo, i prezzi severi di energia, cibo, trasporti e alloggi hanno un impatto sulle tasche delle classi medie e popolari. Date queste circostanze, tutte le condizioni sono soddisfatte per un’ampia messa in discussione del sistema, ma ciò, sorprendentemente, ha genesi soprattutto nella sfera della destra politica radicalizzata. Il parlamentarismo democratico è stato delegittimato agli occhi di una popolazione frustrata nelle sue attese e delusa dai suoi rappresentanti. Dal discredito della classe politica non emerge né il progressismo postmoderno di sinistra, né l’ambientalismo sovvenzionato, troppo legati all’ordine neoliberale per combatterlo e troppo ambigui nelle loro dichiarazioni per essere credibili. L’estrema destra, che fa appello alla ragione ancor meno dei suoi omologhi di sinistra, si collega invece più efficacemente con le classi “lepenizzate”, scettiche nei confronti delle versioni ufficiali che i media ripetono con insistenza, disincantate dalla politica e infuriate di fronte a un futuro avverso, ma piuttosto sensibili alle pesti emozionali che gli algoritmi delle multinazionali corrispondenti diffondono attraverso i social network.

 

In effetti, le difficoltà economiche delle classi fragilizzate e le accentuate disuguaglianze portate dalla globalizzazione hanno eclissato la sinistra cittadinista e hanno aperto la strada a una corrente politica nazionalista, xenofoba e razzista, favorevole all’innalzamento di barriere doganali alla libera circolazione di merci, persone e capitali, e che trova negli immigrati il suo capro espiatorio. Protezionista, antiliberale, populista e contraria alla guerra, come la sinistra classica, non nasconde la sua critica alla NATO, la sua ostilità verso accademici, intellettuali e giornalisti, il suo rifiuto del sistema dei partiti e le sue preferenze per i regimi autoritari come la Russia putinista. Lo Stato è per lei – e anche per la sinistra, moderata o estrema che sia – il grande portatore di benessere e prosperità, purché la sua gestione favorisca gli imprenditori e i lavoratori autoctoni, la bandiera e la famiglia. Il trionfo di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane, che annuncia un marchio isolazionista alle politiche del paese, favorirà ulteriormente il progresso di questa fazione, che già conta non solo su partiti rilevanti e un quarto dei seggi al Parlamento europeo, ma anche su capi di governo. Ideologicamente confusa, il suo credo è un misto di negazionismo climatico, gesti bellicosi e valori conservatori o di sinistra capovolti (antifemminismo, trans fobia, anti-aborto, anti-vaccini, purismo linguistico, fondamentalismo religioso). In realtà, non si può negare che la filosofia postmoderna in mani di sinistra, demolendo i criteri di verità, ragione e universalità e inondando il discorso mediatico di correttezza politica e fraseologia vuota, ha contribuito sia allo sviluppo dell’estrema destra sia alla crisi del 2008, alla professionalizzazione della politica, alla corruzione, alle genuflessioni dei sindacati, all'informazione unilaterale dei media e alla sua contropartita, all’industria delle fake news, allo sfilacciamento del tessuto sociale o all'alta tecnologia. L’estrema destra offre un’alternativa che, per quanto aberrante sia – e non lo è più di quanto offrono la sinistra e la destra liberali – penetra in ampi settori della popolazione danneggiata, irritata e predisposta.

 

Le prospettive future indicano una stagnazione dell'economia e un calo degli investimenti, con la conseguente inflazione che, insieme alle innovazioni tecnologiche, avrà un impatto negativo sulla popolazione salariata; allo stesso modo, indicherà un fallimento della de-carbonizzazione capitalista e, quindi, una maggiore dipendenza dai combustibili fossili esterni. Presumibilmente c’è da aspettarsi l'arrocco patriottico-tariffario degli Stati Uniti e, di conseguenza, il riavvicinamento alla Russia, più ristalinizzata che mai, il sostegno a Israele e il finale incerto della guerra in Ucraina. Aumenteranno le tensioni geopolitiche, soprattutto con Iran e Cina. L’Unione Europea, la cui “transizione ecologica” dipende dal gigante cinese, sarà costretta ad aumentare la spesa militare a scapito dei servizi pubblici e della stabilità interna, in modo che il suo declino continuerà a peggiorare. Il discorso del dominio sarà più catastrofista, concentrandosi sull’immigrazione, sul mutamento climatico e sulle guerre, i più adatti argomenti di oggi per distogliere l’attenzione dall’inquinamento, dall’agro business e dalla distruzione del territorio. E soprattutto per spaventare la popolazione e, di conseguenza, paralizzarla, cosa che ha funzionato bene durante la pandemia. Si potrebbe dire che ci troviamo in un’impasse storica che inaugura un periodo di prolungata incertezza, dal quale qualsiasi uscita, buona o cattiva, è possibile. È difficile immaginare una soluzione rivoluzionaria pur se scaturita da un’evoluzione per tappe, ma tutto dipenderà dall’orientamento internazionalista e antistatale assunto dalle forze sociali che necessariamente dovranno mobilitarsi.

 

Miguel Amorós, 17 dicembre 2024

 


                    GLOBALIZACIÓN Y GEOPOLÍTICA



 

En las menguantes clases medias de la cada vez más impotente sociedad europea todavía subsiste la ilusión liberal-ciudadanista de que la maquinaria del Estado es controlable por los parlamentos. Y que gracias a ese control político, el mismo Estado puede representar a la “ciudadanía”, es decir, actuar de acuerdo con los criterios morales de la mesocracia, tomando partido por lo que aquella considera justo, en contra de lo que cree que no es de justicia. De esta forma, el mundo es contemplado como un escenario donde el bien general y el mal absoluto se disputan el terreno, y en caso de pelea, la buena conciencia maniquea de los partidos -que actúan como empresas privadas- ha de mostrar diligencia a la hora de situarse en el lado correcto, el de los buenos. Sin embargo, todos los bandos dejan mucho que desear, y  a poco que se profundice afloran contradicciones que arrojan dudas sobre la bondad de la facción elegida, las cuales no siempre se pueden aplacar con altas dosis de ideología. Nadie juega limpio cuando priman los intereses particulares.

 

Por supuesto que nos horrorizan las matanzas; abominamos las diferencias de clase, rechazamos las coacciones del tipo que sean, odiamos las dictaduras, detestamos la burocracia y execramos el patriarcado. También tomamos partido -nos posicionamos-, pero no para identificarnos mecánica y contemplativamente con los enemigos aparentes de nuestro enemigo real, a saber, la clase dirigente. No somos espectadores atentos a los movimientos del contendiente con el que abstractamente nos solidarizamos. Obrando así, no nos oponemos de verdad a los poderes que se reparten el mundo. Nos interesa más dilucidar las causas que han conducido a la situación en la que nos encontramos, para de este modo desvelar la verdadera naturaleza de los conflictos actuales y descubrir los objetivos ocultos perseguidos por las banderías oficialmente en lucha. La causa más importante es obvia: la desaparición del proletariado como clase consciente, de la que deriva la ausencia de un movimiento revolucionario digno de ese nombre. Teniendo esto muy en cuenta, hemos de considerar el mundo como totalidad, como una realidad global e histórica perfectamente ordenada según una extraña lógica, cuyas reglas obedecen a los juegos internacionales de poder y a las vicisitudes del mercado mundial. A partir de ahí, intentaríamos comprender los temas principales de nuestro tiempo, desde las guerras de Ucrania y Gaza, a las elecciones de Venezuela o México, desde el ascenso de Trump, la ideología woke y la extrema derecha europea, hasta la resistencia de Rojava, el fracaso de la primavera árabe y la hegemonía china.

 

Estamos inmersos en una economía mundializada, en la que todas las actividades económicas son interdependientes, puesto que están integradas en un todo. Los imperativos del crecimiento gobiernan el mundo y todo acontecimiento disruptivo -p.e. una pandemia, una guerra, una crisis financiera- afecta por igual a todas las partes. La economía ahora se transforma directamente en poder, algo demasiado importante para dejarlo en manos de empresarios, terratenientes o políticos. Estos son solamente simples correas de transmisión de los dictámenes elaborados en despachos ajenos de más alto nivel, puesto que en el sistema globalizado la propiedad y el trapicheo a gran escala han perdido importancia en beneficio del poder de decisión. Así que, cualquiera que sea la clase política, siempre subalterna, en la actualidad, la cúspide de la clase dominante se compone mayoritariamente de altos ejecutivos, burócratas especializados y expertos patentados. En ese contexto, el liberalismo, la democracia parlamentaria, los partidos políticos, los derechos civiles, etc, son cosas del pasado: los principios, los valores y las metas morales esgrimidos por la propaganda ideológica carecen de importancia. El orden -la obediencia- es lo que cuenta.

 

La globalización del comercio y las finanzas no se vio correspondida por una homogeneización de los regímenes políticos, dado que el harakiri no entraba en los planes de las oligarquías dirigentes. A nivel local y regional, la complejidad de las estructuras sistémicas y la divergencia de intereses eran tan enormes que dificultaban el menor progreso en esa dirección. La herencia histórica de la “guerra fría”, el pasado en forma de aparato burocrático, el substrato cultural antimoderno, pesaban como una losa y podía palos a las ruedas en la marcha hacia la mundialización política. El orden liberal se circunscribió solo al llamado Occidente, quedando fuera el resto. De todas formas, el capitalismo desregulador de las multinacionales era perfectamente compatible con otras formas de capitalismo como por ejemplo el capitalismo oligárquico de Estado, el capitalismo teocrático o el capitalismo de partido. La supremacía del liberalismo capitalista se postuló abiertamente en 1945 a través del predominio económico y militar de los Estados Unidos al acabar la Segunda Guerra Mundial. Su apogeo ocurrió en 1989 con la caída del muro de Berlín, la descomposición de la URSS, los tratados de desarme y la preponderancia mudial de las finanzas, dando lugar a la llamada globalización, que tuvo como corolario una especie de “macdonalización” generalizada, o sea, a una unificación universal de hábitos consumistas, modas, gustos gastronómicos y costumbres festivas americanas. En fin, y sobre todo gracias a la expansión rapidísima de la población urbana, la sociedad del espectáculo se hacía realidad, pero siguiendo pautas estadounidenses, ya que Europa había perdido su influencia tras el final de la “guerra fría”: los destinos del planeta entero ya no dependían de decisiones suyas. El continente había dejado de ser autónomo en defensa: se protegía de las inclemencias securitarias bajo el paraguas americano, el Tratado del Atlántico Norte. Tampoco lo era en materia de energía y en política exterior. Ya lo comprobamos en las guerras del petróleo de finales de siglo y en la supeditación al gas ruso, y se sigue comprobando en los bombardeos de Gaza. En adelante la decadencia europea no hará sino acentuarse.

 

Europa, o mejor dicho, sus otrora dirigentes apoyados en unas expansivas clases medias, había apostado por la interdependencia pacífica con la Rusia oligárquica, por el desarrollo económico y el comercio, centrándose más en la balanza de pagos, el cambio climático y los inmigrantes, que en la disuasión militar. Un exiguo gasto armamentístico transparentó su voluntad de no combatir. No obstante, su superioridad económica fue erosionándose a buen ritmo por causas demográficas y tecnológicas. Actualmente, la envejecida población europea es tan solo el 7% de la mundial cuando en 1900 era el 25%, y tiende a la baja. Por otra parte, China y las potencias emergentes como la India ha recuperado el desfase tecnológico que tenían. No se limitaban a importar y copiar la tecnología de otros, como cuando eran la fábrica mundial, sino que pasaban a liderar el sector incluso en temas de innovación, defensa y aeronáutica. Finalmente, la productividad semejante hizo que el peso económico de un país, y por lo tanto la influencia política, dependiera cada vez más del volumen de población. Y en ese terreno el archipoblado Oriente superaba ampliamente a Rusia, la Unión Europea o América del Norte juntas. De hecho, después de llevar años creciendo el Producto Interior Bruto muy por encima del americano y el europeo, en 2014 China sobrepasó a los Estados Unidos en capacidad adquisitiva. También lo hizo en recursos estratégicos. Desde entonces, nos encontramos en un escenario internacional marcado por las tensiones y equilibrios de poder entre las dos potencias preeminentes con sus aliados respectivos, una en ascenso, alrededor de la cual orbita Rusia, y la otra en declive. Las escaramuzas comerciales entre China y Estados Unidos, o el cinturón de seguridad del Pacífico, son solo la punta del iceberg. Dentro de un marco global, cualquier conflicto que sobrepase los límites locales, pongamos por ejemplo la guerra de Ucrania, es ante todo una confrontación delegada entre ambas potencias. La OTAN, los oligarcas ucranianos, Irán, el Estado gendarme ruso y hasta los norcoreanos serán los actores del drama, pero ni el guión ni el final ha sido escrito por ellos.

 

En la actual fase de la globalización, el poder es visiblemente el elemento básico de las relaciones internacionales, y por eso mismo, la geopolítica adquiere una relevancia prevalente. La política exterior de los grandes Estados deviene enteramente geoestratégica y el concepto de “enemigo” vuelve al ruedo com mayor brío. Dado el fin de la hegemonía incontestable de los Estados Unidos, cada potencia busca el equilibrio de poder suficiente acumulando medios de combate y estableciendo alianzas con el objeto asegurarse sus áreas de influencia. Claro está, sin abstenerse de una intervención militar si resultara preciso, con lo cual dicho equilibrio se vuelve problemático, puesto que las demás potencias, a fin de no desestabilizarse, obrarán en consecuencia. Tal es la causa más verdadera de la guerra de Ucrania, la que, acabando de demoler el edificio securitario del periodo posterior a la guerra fría, ha situado a Europa en el eje central de la geopolítica, ha significado la vuelta de Rusia como aspirante a potencia mundial y ha desencadenado una inquietante carrera de armamentos. Hasta entonces, los gobiernos europeos habían buscado el equilibrio de poder a través de la multiplicación de ataduras económicas, aflojando el gasto militar y centrándose en la denominada pomposamente “transición energética”, es decir, el capitalismo “verde”. Tal estrategia, de origen alemán, culminó en una dependencia arriesgada del petroleo y gas natural rusos, y una dependencia aún mayor del mercado de las placas solares, aerogeneradores, baterías, vehículos eléctricos, etc., dominado por China. A estas alturas el alarmismo climático de los gobiernos europeos, sobre todo socialdemócratas, es pura retórica, puesto que en la práctica se consume cada año más combustible fósil, la energía nuclear encuentra cada día más partidarios y las cumbres del clima nuncan se ponen de acuerdo en las medidas esenciales. El viraje estratégico al que la Unión Europea ha sido arrastrado por la guerra, es mas peligroso si cabe, pues más que en la electrificación, se basa en la militarización.

 

La actual fase antes aludida se apoya en una auténtica economía de guerra, estrechamente relacionada con la industria nuclear, armamentista y aeroespacial, y subsidiariamente, en el control social de la población. Dichas actividades contribuyen al 12 % del PIB y son en estos tiempos el motor de la economía hasta el punto que algunos analistas apuntan a los gastos militares como el  mejor medio de sostener la tasa de ganancia del capital. En España el aumento de dicho gasto hasta un 2% del presupuesto estatal puede llegar a desplazar al turismo de masas como primer propulsor económico, algo con lo que más de la mitad del electorado está de acuerdo. Una ministra del gobierno socialista ha dicho con total sinceridad que “invertir en defensa es invertir en paz”, que es lo mismo que decir “si quieres paz, prepárate para la guerra”, con lo cual la alineación del pacifismo gubernamental con el más rancio otanismo queda fuera de cuestión. Lo cierto es que en la conflictiva escena mundial, sin una clara potencia dominante, la guerra es una necesidad. Es el principal factor de pacificación interna y el mayor estímulo de la economía, aunque los beneficiados en su mayor parte sean las corporaciones y fondos multinacionales. Mientras tanto, las inclemencias en lo relativo a los precios de la energía, los alimentos, el transporte y la vivienda repercuten en los bolsillos de las clases medias y populares. Dadas estas circunstancias, se cumplen todas las condiciones para un amplio cuestionamento del sistema, pero este, sorprendentemente, se origina mayormente en el ámbito de la derecha política radicalizada. El parlamentarismo democrático se ha deslegitimado a los ojos de una población frustrada en sus expectativas y decepcionada con sus representantes. Del descrédito de la clase política no se libra ni el progresismo izquierdista posmoderno, ni el ecologismo subvencionado, demasiado ligados al orden neoliberal como para luchar contra él, y demasiado ambiguos en sus pronunciamientos como para resultar creibles. La extrema derecha, que apela a la razón menos aún que sus homónimos de la izquierda, en cambio, conecta con mayor eficacia con unas clases “lepenizadas”, escépticas con las versiones oficiales que los medios repiten machaconamente, desencantadas con la política y enfurecidas ante un futuro adverso, pero bastante sensibles a las plagas emocionales que los algoritmos de las multinacionales correspondientes propagan por las redes sociales.

 

En efecto, los aprietos económicos de las clases fragilizadas y las acentuadas desigualdades acarreadas por la globalización han eclipsado a la izquierda ciudadanista y abierto camino a una corriente política nacionalista, xenófoba y racista, partidaria de levantar barreras aduaneras a la libre circulación de mercancías, personas y capitales, y que halla en los inmigrantes a su chivo expiatorio. Proteccionista, antiliberal, populista y contraria a la guerra, como el izquierdismo clásico, no oculta sus críticas a la OTAN, su hostilidad hacia académicos, intelectuales y periodistas, su rechazo del sistema de partidos y sus preferencias por los regímenes autoritarios como la Rusia putinista. El Estado es para ella -y también para la izquierda, sea moderada o extrema- el gran proveedor de bienestar y prosperidad, con tal que su gestión favorezca a los empresarios y obreros autóctonos, a la bandera y la familia. El triunfo de Donald Trump en las elecciones presidenciales americanas, que anuncia un marchamo aislacionista a las políticas del país, favorecerá aún más los progresos de dicha facción, que ya cuenta no solo con partidos de peso y la cuarta parte de los escaños del parlamento europeo, sino con jefes de gobierno. Ideológicamente confusa, su credo es una mezcla de negacionismo climático, gestualidad beligerante y valores conservadores o izquierdistas vueltos del revés (antifeminismo, transfobia, antiabortismo, antivacunas, casticismo lingüístico, fundamentalismo religioso). Realmente, no se puede negar que la filosofía posmoderna en manos izquierdistas, al demoler los criterios de verdad, razón y universalidad e inundar de corrección política y fraseología vacía el discurso mediático, ha contribuido tanto al desarrollo la extrema derecha como la crisis de 2008, la profesionalización de la política, la corrupción, las genuflexiones de los sindicatos, la información unilateral de los medios y su contrapartida, la industria fake, el deshilachado del tejido social o la alta tecnología. La extrema derecha ofrece una alternativa que por aberrante que sea -y no lo es más que la que ofrecen la izquierda y la derecha liberales- cala en amplios sectores de población perjudicada, irritada y predispuesta.

 

El panorama futuro apunta a un estancamiento de la economía y una caída de las inversiones, con la consiguiente inflación que, junto con las innovaciones tecnológicas, repercutirá negativamente en la población asalariada; asimismo, apuntará a un fracaso de la descarbonización capitalista, y por lo tanto, a una dependencia mayor de los combustibles fósiles externos. Previsiblemente son de esperar el enroque patriótico-arancelario de los EEUU y, en consecuencia, el acercamiento a Rusia, más reestalinizada que nunca, el sostén a Israel y el incierto final de la guerra de Ucrania. Las tensiones geopolíticas se incrementarán, principalmente con Irán y China. La Unión Europea, cuya “transición ecológica” depende de esta última, se verá abocada a un mayor gasto militar a costa de los servicios públicos y de la estabilidad interna, sin que por ello su declive no deje de agravarse. El discurso de la dominación será más catastrofista, focalizándose en la inmigración, el cambio climático y las guerras, los temas más idóneos hoy para desviar la atención a la contaminación, el agronegocio y la destrucción del territorio. Y por encima de todo, para atemorizar a la población, y, por consiguiente, para paralizarla, algo que funcionó bien durante la pandemia. Se podría decir que estamos en un impasse histórico que inaugura un periodo de incertidumbre prolongada, en donde cualquier salida, buena o mala, es posible. Cuesta imaginar una salida revolucionaria aunque venga de una evolución por etapas, pero todo dependerá de la orientación internacionalista y antiestatal que tomen unas fuerzas sociales que por necesidad habrán de movilizarse.

 

Miguel Amorós, 17 de diciembre de 2024.  

 

 

 

 

 


mercoledì 6 novembre 2024

DECOMPOSIZIONE ASSOLUTA AD ALTI LIVELLI - Miguel Amorós

 


Il disastro causato dalle inondazioni causate dalla “goccia fredda” del 29 ottobre scorso, soprattutto nella parte meridionale dell’area metropolitana valenciana, non ha nulla di naturale. Nella genesi e nello sviluppo della più grande catastrofe avvenuta nella zona, sono confluite quattro cause innaturali, strettamente intrecciate nel modo di abitare, lavorare e gestire la cosa pubblica in un regime capitalista. La prima causa, di origine industriale, è il riscaldamento globale generato dall’emissione di gas serra da parte delle fabbriche, degli impianti di riscaldamento e dei veicoli, causa di fenomeni meteorologici estremi come la d.a.n.a. La seconda, di carattere politico, è la colpevole incompetenza dell'amministrazione statale e regionale, la cui irresponsabile passività e negligenza potrebbe essere tacciata di omicida. La terza, di carattere economico e sociale, è la completa suburbanizzazione della periferia agraria della città di Valencia, cioè la conversione dei comuni di La Huerta in un grande sobborgo-dormitorio e in un polo polivalente logistico, commerciale e industriale. La quarta, conseguenza della precedente, è la motorizzazione generalizzata della popolazione suburbana, obbligata dalla netta separazione che la società di sviluppo ha attuato tra luoghi di lavoro e di residenza.

 

Il riscaldamento globale dovuto al colossale consumo di combustibili fossili da parte dell’attività industriale e della circolazione è stato chiamato “mutamento climatico” dai leader per mascherarne la natura economica. I maquillage ecologici cui ha dato origine l’apparente opposizione delle élite all’aumento della temperatura globale hanno promosso un capitalismo “verde” di scarso effetto nei dintorni delle metropoli, plasmate da un urbanismo selvaggio e da infrastrutture stradali avvolgenti che rendono inoperanti anche le misure più puerili di “de carbonizzazione” (punti di ricarica elettrica, miglioramenti del paesaggio, uso di biciclette, ecc.). Quale sostenibilità può realizzarsi in spazi metropolitani per natura insostenibili? 

 

La plebaglia dominante e la classe politica in generale non sono assolutamente inette in tutti i settori, al contrario, sono abbastanza abili quando si tratta dei loro interessi, chiaramente estranei agli interessi della popolazione che amministrano. La professionalizzazione della gestione del potere ha creato esseri con una psicologia speciale, molto concentrati sulla disputa partitica per parcelle di autorità e con una mancanza di senso della realtà così grande da permettere al loro lato più cialtrone e imbroglione di emergere spudoratamente, consegnando involontariamente allo spettacolo un'immagine di parassiti e di truffatori. Nessuno merita un tal tipo di politici, nemmeno quelli che li votano, ma visto il modo in cui funzionano il sistema dei partiti e i media, non se ne possono avere di altro tipo.

Attualmente l'area metropolitana di Valencia, la AMV degli assassini del territorio, conta quasi un milione di persone, in maggioranza lavoratori, che superano la popolazione della stessa capitale. Questa concentrazione demografica è un fatto dinamico, di origine relativamente recente. Dagli anni Sessanta del secolo scorso si scatenò un triplice processo d’industrializzazione estensiva, urbanizzazione incontrollata e regressione agricola, attraverso il quale la periferia urbana divenne un polo economico di prima importanza, un paradiso per i promotori immobiliari e un’importante fonte di posti di lavoro. La società di sviluppo della peggior specie. Nel caso in questione, i comuni di Horta Sud, che nel 1950 insieme superavano appena i centomila abitanti, oggi, nel 2024, diventati ormai satelliti proletarizzati, raggiungono il mezzo milione. Solo una cittadina come Torrent conta più di 90.000 abitanti. La regione ospita anche 27 poligoni industriali e tre grandi aree commerciali. È attraversata dalla rambla di Chiva, o dal Poio, un torrente che raccoglie contributi della società di sviluppo e scarichi inquinanti di ogni genere, e che sfocia nell'Albufera. Inutile dire che i rendimenti pecuniari del commercio immobiliare hanno riempito molti di loro, mentre edifici, magazzini, strade e persino frutteti erano sparsi nelle zone soggette a inondazioni, e quelli con la concezione più assurda occupavano i bordi o addirittura parti dellalveo poco curato della rambla principale, che raccoglieva l'acqua della Foya de Buñol. Curiosamente, la città di Valencia è stata salvata dall'alluvione grazie alla deviazione canalizzata del Turia realizzata ai tempi di Franco, garantendo una divisione geografica “di classe” che le tangenziali e i corridoi dell'AVE non hanno fatto altro che riaffermare. Da un lato la Valencia gentrificata, quella dei turisti, degli uomini d'affari e dei funzionari, con i prezzi delle case e degli affitti alle stelle; dall'altro, le escrescenze metropolitane prive di servizi pubblici efficaci, abitate prevalentemente da gente modesta e con mezzi limitati. Semplificando: la Valencia delle classi post-borghesi e la non-Valencia delle classi popolari.

 

La crescita dell’AMV ha scoperto problemi di connettività tra periferia e centro, costringendo a una mobilità poco assistita da autobus, metropolitane e treni. Inoltre il collegamento tra comuni è quasi nullo. Nella periferia-dormitorio si vive di fronte alla capitale, non di fronte al vicino. Di conseguenza, la conversione del lavoratore suburbano in un automobilista frenetico è obbligatoria: l’auto è la protesi necessaria del proletariato postmoderno. È uno strumento di lavoro la cui manutenzione è a carico del lavoratore. Il risultato è che tre quarti dei 2,7 milioni di spostamenti giornalieri nell'area metropolitana, sono effettuati con veicoli privati. Il parco auto è ormai impressionante: nel 2022, più di un milione di auto, furgoni e camion erano parcheggiati sull'AMV, e quasi 500.000 erano parcheggiati nella stessa Valencia. Tra 50 e 60 veicoli ogni cento abitanti. Non sorprende quindi che le automobili siano state le macchine più danneggiate dall“inondazione” – 44.000 – e che il loro accumulo ovunque sembri così impressionante.

 

“Solo il popolo salva il popolo” è uno slogan spontaneo che ha fatto fortuna all’inizio della tragedia. La totale assenza di reazione amministrativa è stata felicemente compensata dalla presenza di migliaia di volontari arrivati da tutta la Spagna che hanno svolto i compiti più urgenti: pulizia dal fango degli oggetti danneggiati, messa in salvo dei locali, assistenza agli anziani e malati, distribuzione di acqua e cibo... Adolescenti della capitale, insegnanti, vicini sinistrati, cuochi, vigili del fuoco, medici, infermieri, hanno improvvisato gruppi di lavoro, mense, farmacie mobili, punti di distribuzione, alloggi e perfino un ospedale da campo per rispondere alle emergenze del momento. Quando lo Stato ha fallito, quando la marmaglia burocratica che prende decisioni sbagliate si è sottratta alle colpe accusandosi a vicenda, quando le bufale hanno inondato i social network, sono emersi la società civile e il volontariato, senza altra motivazione che la solidarietà e l’empatia con le vittime. Le quali sono sopravvissute nei primi cinque giorni senza nessun altro aiuto oltre a quello. Il che ci porta a credere che non appena il popolo si auto-organizza e si libera dagli ostacoli in condizioni meno estreme, lo Stato e la classe politica diventano superflui. Nessuno ne ha davvero bisogno. Lorrore, la disumanità e la politica tenebrosa vanno di pari passo. Anche seguendo i parametri di verità tipici della società dello spettacolo, questa malvagia confraternita si mostra reale, visto che è apparsa in televisione.

 Miguel Amorós

Appunti per la mia partecipazione al programma Contratertulia trasmesso da Ágora Sol Radio, il 5 novembre


DESCOMPOSICIÓN ABSOLUTA A NIVELES ALTOS

 

El desastre causado por las inundaciones provocadas por la “gota fría” del 29 de octubre pasado, especialmente en la parte sur del Área Metropolitana Valenciana, no tiene nada de natural. En la génesis y desarrollo de la mayor catástrofe habida en la zona han confluido cuatro causas antinaturales muy imbricadas en los modos de habitar, trabajar y administrar la cosa pública bajo un régimen capitalista. La primera, de origen industrial, es el calentamiento global generado por la emisión de gases de efecto invernadero de las fábricas, calefacciones y vehículos, causante de fenómenos meteorológicos extremos como la d.a.n.a. La segunda, de carácter político, es la incompetencia culpable de la administración estatal y autonómica, cuya irresponsable pasividad y negligencia podría tacharse de homicida. La tercera, de características económicas y sociales, es la suburbanización completa de la periferia agraria de la ciudad de Valencia, o sea, la conversión de los municipios de la Huerta en un gran suburbio-dormitorio y en una zona poligonera logística, comercial e industrial. La cuarta, consecuencia de la anterior, es la motorización generalizada de la población suburbial, forzada por la tajante separación que el desarrollismo ha implantado entre los lugares de trabajo y de residencia.

 

El calentamiento global debido a la quema colosal de combustibles fósiles por parte de la actividad industrial y la circulación, ha sido llamado “cambio climático” por los dirigentes para disimular su naturaleza económica. Los maquillajes ecológicos a que ha dado lugar la aparente oposición de las élites al aumento global de temperatura han promocionado un capitalismo “verde” de poco efecto en las coronas de las metrópolis, modeladas por un urbanismo salvaje y unas infraestructuras viarias envolventes que vuelven inoperantes incluso las medidas “descarbonizadoras” más pueriles (puntos de recarga eléctrica, ajardinamientos, uso de bicicletas, etc). ¿Qué sostenibilidad puede darse en espacios metropolitanos insostenibles por esencia? 

 

La gentuza gobernante y la clase política en general no es absolutamente inepta en todos los terrenos, al contrario, es bastante capaz en lo que concierne a sus propios intereses, ajenos claro está a los intereses de la población que administran. La profesionalización de la gestión del poder ha fabricado seres con una psicología especial, muy centrada en la disputa partidista por parcelas de autoridad y con una falta de sentido de la realidad tan grande que permite aflorar sin pudor su lado más canalla y fullero, librando involuntariamente al espectáculo una imagen de parásito y estafador. Nadie se merece ese tipo de políticos, ni siquiera los que les votan, pero dada la manera de funcionar el sistema de partidos y los medios de comunicación, no pueden haber de otra clase.

 

En la actualidad, el área metropolitana de Valencia, la AMV de los asesinos del territorio, apelotona a cerca de un millón de personas, mayoritariamente trabajadores, sobrepasando la población de la misma capital. Esta concentración poblacional es un hecho dinámico, de origen relativamente reciente. A partir de los años sesenta del pasado siglo se desencadenó un proceso triple de industrialización extensiva, urbanización descontrolada y regresión agrícola, por el cual la periferia urbana se convirtió en un foco económico de primera magnitud, paraíso de los promotores inmobiliarios e importante fuente de empleos. Desarrollismo de la peor especie. Para el caso que nos ocupa, los municipios de la Horta Sud, que en 1950 apenas superaban todos juntos los cien mil habitantes, hoy, en 2024, ya satelizados y proletarizados, alcanzan el medio millón. Solamente un pueblo como Torrent, sobrepasa los 90.000 habitantes. La comarca alberga además 27 polígonos industriales y tres grandes superficies comerciales. Es atravesada por la rambla de Chiva, o del Poio, una torrentera que recoge aportaciones de Desarrollismo y toda clase de vertidos contaminantes, yendo a parar a la Albufera. Ni qué decir tiene que los rendimientos pecuniarios del negocio inmobiliario colmataron a muchos de ellos, mientras edificios, naves, calles e incluso huertos se repartían por las zonas inundables, y los de concepción más insensata ocupaban los bordes o incluso partes del mal cuidado cauce de la rambla principal, que recogía aguas de la Foya de Buñol. Curiosamente, la ciudad de Valencia se ha salvado de la riada gracias al desvío canalizado del Turia construido en tiempos de Franco, garantizando una división geográfica “de clase” que las autopistas de circunvalación y los corredores del AVE no han hecho más que reafirmar. A un lado, la Valencia gentrificada, la de los turistas, hombres de negocios y funcionarios, con el precio de la vivienda y el alquiler por los cielos; al otro, las excrecencias metropolitanas carentes de servicios públicos eficaces, habitadas mayoritariamente por gente modesta de medios escasos. Simplificando: la Valencia de las clases posburguesas y la no-Valencia de las clases populares.

 

El crecimiento de la AMV destapó problemas de conectividad entre el extrarradio y el centro, obligando a una movilidad deficientemente asistida por autobuses, metro y trenes. Además, la conexión entre municipios es casi nula. En la periferia-dormitorio se vive de cara a la capital, no de cara al vecino. En consecuencia, la conversión del trabajador de las afueras en automovilista frenético es obligatoria: el coche es la prótesis necesaria del proletariado posmoderno. Es un instrumento de trabajo cuyo mantenimiento corre de su cuenta. Como resultado, de los 2’7 millones de desplazamientos diarios que hay en la corona metropolitana, las tres cuartas partes se hacen en vehículo privado. El parque de automóviles es ahora impresionante: en 2022 por la AMV aparcaban más de un millón de turismos, furgonetas y camiones, y cerca de 500.000 lo hacían en la propia Valencia. Entre 50 y 60 vehículos por cada cien habitantes. No sorprende entonces que los coches hayan sido las máquinas más siniestradas por la “barrancada” -44.000- y que su amontonamiento por todas partes parezca tan impresionante. 

 

“Solo el pueblo salva al pueblo” es un eslogan espontáneo que ha hecho fortuna al comienzo de la tragedia. La ausencia total de reacción administrativa había sido felizmente suplida por la presencia de miles de voluntarios llegados de cualquier parte de España que realizaron las tareas más urgentes: limpieza de barro y enseres estropeados, achique de locales, atención a ancianos y enfermos, reparto de agua y alimentos... Adolescentes de la capital, enseñantes, vecinos afectados, cocineros, bomberos, médicos, enfermeros, improvisaron grupos de trabajo, comedores, farmacias ambulantes, puntos de reparto, alojamiento y hasta un hospital de campaña para responder a las urgencias del momento. Cuando el Estado fallaba, cuando la chusma burocrática que toma decisiones equivocadas escurría el bulto acusándose unos a otros, cuando los bulos inundaban las redes sociales, emergía la sociedad civil, el voluntariado, sin más motivación que la solidaridad y la empatía con los damnificados. Los primeros cinco días estos han sobrevivido sin más ayuda que la de aquél. Lo que nos induce a creer que a poco que el pueblo se autoorganice y se libere de trabas en condiciones menos extremas, el Estado y la clase política sobran. Realmente nadie los necesita. El horror, la inhumanidad y la política parda van de la mano. Incluso según los parámetros de verdad típicos de la sociedad del espectáculo, esa confraternidad malhechora es real, puesto que ha salido por la tele.

 

Miguel Amorós

Notas para mi participación en el programa Contratertulia que emite Ágora Sol Radio, habido el 5 de noviembre.

 

 

DÉCOMPOSITION ABSOLUE À DES NIVEAUX ÉLEVÉS




 

Le désastre causé par les inondations provoquées par la « goutte froide » du 29 octobre dernier, en particulier dans la partie sud de l’aire métropolitaine de Valence, n'a rien de naturel. Dans la genèse et le développement de la plus grande catastrophe de la région, quatre causes non naturelles ont convergé, qui sont étroitement liées aux modes de vie, de travail et d'administration des affaires publiques en régime capitaliste. La première, d'origine industrielle, est le réchauffement climatique généré par l'émission de gaz à effet de serre par les usines, les systèmes de chauffage et les véhicules, provoquant des phénomènes météorologiques extrêmes tels que la d.a.n.a. (Dépression Isolée/Aislada dans des Niveaux Élevés/Altos). La deuxième, de nature politique, est l'incompétence coupable des administrations de l'État et des régions, dont la passivité et la négligence irresponsables pourraient être qualifiées au sens juridique d'homicides. La troisième, de nature économique et sociale, est la suburbanisation complète de la périphérie agricole de la ville de Valence, c'est-à-dire la conversion des municipalités de la Huerta en une grande banlieue-dortoir et en une zone polygonale logistique, commerciale et industrielle. La quatrième, conséquence de la précédente, est la motorisation généralisée de la population suburbaine, forcée par la séparation nette que le développement forcené a établi entre les lieux de travail et les lieux de résidence.

Le réchauffement climatique dû à la combustion colossale d’énergies fossiles par l'activité industrielle et la circulation a été baptisé « changement climatique » par les dirigeants pour masquer sa nature économique. L'habillage écologique qui a donné lieu à l'apparente opposition des élites à la hausse globale des températures a promu un capitalisme « vert » dont le principal effet est d’en avoir très peu sur les couronnes des métropoles. Celles-ci façonnées par un urbanisme sauvage et la mise en place d’infrastructures routières en tenaille rendent dérisoires les mesures de « dé carbonisation » les plus puériles (bornes de recharge électrique, aménagements paysagers, usage du vélo, etc.). Quelle « durabilité » peut avoir dans ces  espaces métropolitains  essentiellement non durables ?

La racaille dirigeante et la classe politique en général ne sont pas absolument inaptes et ineptes dans tous les domaines ; bien au contraire, elles font montre d’une grande réactivité et d’une remarquable inventivité quand cela concerne leurs propres intérêts mais très loin des intérêts des personnes qu'elles administrent. La professionnalisation de la gestion du pouvoir a façonné des officiants dotées d'une psychologie particulière : entièrement focalisées sur la lutte partisane pour la conquête de parcelles d'autorité avec un tel manque du sens des réalités que leur côté le plus voyou et le plus fourbe émerge au grand jours, affichant contre leur gré leur image de truand et de parasite sans vergogne. Le spectacle n’obéit qu’au spectacle. Personne ne mérite ce genre d'hommes politiques, pas même ceux qui votent pour eux, mais compte tenu du fonctionnement du système des partis et des médias, il ne peut y en avoir d'autres.

Actuellement, l'aire métropolitaine de Valence, l'AMV des assassins du territoire, abrite près d'un million de personnes, en majorité des travailleurs, dépassant ainsi la population de la capitale régionale elle-même. Cette concentration de population est un fait dynamique, d'origine relativement récente. À partir des années 1960, un triple processus d'industrialisation extensive, d'urbanisation sauvage et de régression de la surface agricole s'est enclenché, faisant de la périphérie urbaine un pôle économique majeur, un paradis pour les promoteurs immobiliers et un important gisement d'emplois. Un développement de la pire espèce. En l'occurrence, les communes de l'Horta Sud, qui en 1950 dépassaient à peine les cent mille habitants, atteignent aujourd'hui, en 2024, déjà satellisés (tournant autour de la métropole) et prolétarisées, le demi-million d'habitants. Une seule commune, Torrent, compte déjà plus de 90 000 habitants. La contrée compte également 27 zones industrielles et trois grandes surfaces commerciales. Elle est traversée par le ravin de Chiva (autrement dit du Poio), un torrent qui recueille les eaux de plusieurs petits ravins et toutes sortes de déchets polluants et qui se jette dans l'Albufera. Il va sans dire que la rentabilité de l'activité immobilière a rempli nombre de ces ravins tandis que les bâtiments, les entrepôts, les rues et même les vergers étaient répartis dans des zones inondables. Ceux dont la conception et la construction étaient la plus insensée, occupaient les bords ou même des parties du lit mal entretenu du canal principal, qui recueillait les eaux de la Foya de Buñol. Curieusement, la ville de Valence a été épargnée par les inondations. La déviation canalisée du Turia, construite à l'époque franquiste, a initié une division géographique « de classe » que les rocades et l’emprise des lignes ferroviaires à grande vitesse n'ont fait qu’amplifier. D'un côté, la Valence gentrifiée des touristes, des hommes d'affaires et des fonctionnaires, avec des prix de l'immobilier et des loyers élevés ; de l'autre, les excroissances métropolitaines dépourvues de services publics efficaces, habitées en majorité par des personnes modestes et sans grands moyens. En clair : la Valence des classes post-bourgeoises et la non-Valence des classes populaires.

La croissance de l'AMV(aire métropolitaine de Valence) a entrainé de gros problèmes de transport collectif entre les banlieues et le centre d’une part et entre les banlieues elles-mêmes d’autre part. Dans les banlieues, les gens vivent face à la capitale et non face à leurs voisins. Par conséquent, la conversion du travailleur de banlieue en automobiliste frénétique est obligatoire : la voiture est la prothèse nécessaire du prolétariat postmoderne. C'est un instrument de travail dont l'entretien est à sa charge. Ainsi, sur les 2,7 millions de déplacements quotidiens dans l'agglomération, les trois quarts sont effectués en voiture particulière. Le parc automobile est aujourd'hui impressionnant : en 2022, plus d'un million de voitures, camionnettes et camions étaient stationnés dans l'AMV, dont près de 500 000 à Valence même. Entre 50 et 60 véhicules pour cent habitants. Il n'est donc pas étonnant que les voitures soient les engins les plus touchés par la « barrancada » - plus de 100 000 - et que leurs empilements un peu partout semblent si impressionnants.

« Seul le peuple peut sauver le peuple » est le slogan spontané qui s'est imposé dès le début de la tragédie. L'absence totale de réponse administrative a été heureusement compensée par la présence de milliers de volontaires venus de toute l'Espagne pour accomplir les tâches les plus urgentes : nettoyer la boue et les affaires souillées, renflouer les locaux, s'occuper des personnes âgées et des malades, distribuer de l'eau et de la nourriture... Des adolescents de la capitale, des enseignants, des voisins sinistrés, des cuisiniers, des pompiers, des médecins, des infirmières, des mécaniciens, des paysans, ont improvisé des groupes de travail, des cantines, des pharmacies mobiles, des points de distribution, des logements et même un hôpital de campagne pour répondre aux urgences du moment. Quand l'État a failli, quand la racaille bureaucratique qui prend les mauvaises décisions se cherche des excuses, quand les canulars inondent, à leur tour, les réseaux sociaux, la société civile émerge. De nombreux volontaires, sans autre motivation que la solidarité et l'empathie avec les victimes se sont mis à la tâche. Pendant les cinq premiers jours, les naufragés ont survécu sans autre aide que celle-là. Cela nous amène à penser qu'à partir du moment où les gens s'organisent et se libèrent des obstacles et ce d’autant plus dans des conditions moins extrêmes, l'État et la classe politique sont superflus. Personne n'en a vraiment besoin. L'horreur, l'inhumanité et la politique bidon vont de pair. D’après l’spectacle cette confrérie maléfique est bien réelle puisque elle sort à la télévision.

Miguel Amorós

Notes pour ma participation à l'émission Contratertulia diffusée par Ágora Sol Radio, le 5 novembre dernier


sabato 2 novembre 2024

BREVE NOTA SULLA TURISTIZZAZIONE COMPULSIVA di Miquel Amorós

 






 

La turistizzazione o turistificazione è il processo di trasformazione incontrollata dei luoghi costieri, rurali o urbani attraverso il loro collegamento al turismo di massa. Il lavoratore della società produttivista cerca la sua identità e il significato della vita non nel lavoro o negli hobby, ma nel tempo libero industriale, che abbonda nei centri disneyficati delle città. Quella che oggi viene ancora impropriamente chiamata città non è altro che la massima espressione del dominio del capitale sullo spazio abitato in extenso. Sempre più spesso, inoltre, un tale capitale proviene dall’industria del tempo libero, cioè dal turismo. Da questo punto di vista, l’attuale slogan di protesta “La città è in vendita”, significa in termini esatti che gli agglomerati urbani, sottoposti a grandi flussi di visitatori, sono diventati un puro mercato immobiliare, spinto al limite, dove lo spazio è la merce, l’abitazione, un bene, mentre l'abitante è la fastidiosa eccezione. Tali agglomerati, mercificati da ogni parte, sono diventati estremamente nocivi e ostili per il vicinato stanziale, considerato poco redditizio. Si tratta di luoghi da visitare e fotografare, da comprare e vendere, ma non da vivere. Ciò che è redditizio adesso è ciò che non si ferma. La chiave del profitto è la temporalità breve, il movimento, e chi si muove più delle classi medie e operaie del Nord nei loro periodi di svago programmato? Infine, un aumento eccessivo della domanda di alloggi attraverso piattaforme virtuali ha attratto come una calamita investimenti speculativi di ogni tipo (soprattutto da parte di promotori nascosti dietro società temporanee, fondi avvoltoio e denaro nero); di conseguenza, il costo sproporzionato degli alloggi e gli alti prezzi degli affitti soprattutto nei centri storici e nei quartieri un tempo popolari delle conurbazioni dove si accumulano le visite e, soprattutto, l'espulsione della popolazione verso i ghetti periferici, hanno trasformato il problema dell’alloggio nella questione sociale per eccellenza. Per questi motivi il turismo urbano di massa, così legato alla speculazione, è stato messo nel mirino delle proteste di quartiere. Tuttavia, le proposte sottoposte a un’amministrazione produttivista che non ha la volontà di contraddire gli interessi che stanno alla base del mercato turistico e tanto meno di creare un’offerta sufficiente di affitti e di edilizia sociale, hanno il difetto d’ignorare che la valorizzazione compulsiva ed esponenziale del territorio urbano è una caratteristica tipica del capitalismo finanziario contemporaneo. Pertanto, le prospettive della lotta per un’edilizia rispettosa dei metodi capitalisti non sono molto promettenti. La critica dell'industria del turismo su cui s’intende basarsi deve tenere maggiormente conto delle forme particolarmente devastanti del capitalismo nella sua fase tardiva.

 


Il turismo è il fenomeno più caratteristico della predazione culturale e sociale della società capitalista globalizzata e la quarta industria dell’economia mondiale. Questa “industria senza fumo” è quindi un settore strategico di prim’ordine, per cui gli interessi acquisiti sono quasi impossibili da sradicare. Le stesse persone che ner sono vittime dipendono in gran parte da loro. Quando i turisti sbarcano, non si può più tornare indietro. Dagli anni Sessanta del secolo scorso, l’economia spagnola ha seguito un modello di sviluppo sostenuto quasi esclusivamente dall’edilizia a ruota libera e dal turismo di massa, al quale è stato dedicato un ministero. Il cambio di regime non ha portato all’abbandono del modello, anzi il governo “democratico” ne ha incoraggiato l’estensione all’intero Paese. Nonostante siano evidenti, ancora oggi, l'inquinamento, il degrado ambientale, la banalizzazione del territorio, la museificazione dei centri antichi, la distruzione del tessuto sociale dei quartieri e delle città, i lavori di merda, la proliferazione della cultura trash, ecc ormai per la classe dirigente, che lo si esprima per bocca di imprenditori, esperti o politici, il turismo continua a essere la risposta a tutti i problemi, una sorta di salvagente; come durante il regime franchista, è considerato come il “passaporto per lo sviluppo”.

Dopo l’impunità dei successivi tsunami immobiliari, appare che l’obiettivo dichiarato di ogni amministrazione, indipendentemente dal suo colore politico o ecologico, consiste nel porre il Paese, la comunità autonoma o il comune, come “leader di destinazione”, esprimendo al massimo una fonte di reddito per pochi sempre più importante. Da più di sessant'anni, cioè dal momento del decollo, non ce n'è mai stato altro. Rispetto alla tradizionale attività agricola, commerciale o industriale, in via di sparizione, l'attività turistica rappresenta il modo più veloce per ottenere enormi profitti con un investimento minimo. Di fronte ad ogni crisi globale – nel 1973, 1992, 2008, 2020 – si riafferma la mentalità dello sviluppo e la specializzazione turistica, ormai con le dovute considerazioni prive di sostenibilità, avanza a passi da gigante nell’Europa meridionale e in particolare nella penisola iberica. Alla fine del secolo, le nuove leggi fondiarie e la riforma della Legge sui litorali tradussero la nuova normativa del tutto edificabile, mentre i voli low cost rendevano i viaggi accessibili a tutte le tasche. Alla fine del percorso legislativo, tutto era suscettibile di essere catturato da promotori speculativi e convertito in merce turistica: tutto diventava turismo. Il turismo ha trasformato la scena sociale in un proprio spazio, dando origine a una forma di gentrificazione più cannibalistica.

 

La differenziazione tra aree d’invio e di accoglienza dei turisti è dovuta a una divisione internazionale dell’attività economica: finanza, tecnologia e mobilità da un lato, evasione e intrattenimento industrializzato dall'altro. Tra gli strati sociali modesti – dipendenti pubblici, impiegati, operai, studenti, pensionati – si espande uno stile di vita iperconsumistico dedito allo spostamento ossessivo, negli altri, convertiti in “destinazioni”, la de-capitalizzazione delle attività tradizionali costringe all’immersione nel mercato del lavoro volatile e mal retribuito creato dall’ondata barbarica invasiva. Ogni volta che il turismo s’impone in un territorio, sia esso urbano o rurale, l’economia, la politica e le abitudini che vi prevalevano fino ad allora vengono destrutturate, lasciandolo immerso in un’industria globale che le vecchie élite non controllano più. Inizia una situazione di dipendenza economica che tende all'assoluto, mentre si accelera il trasferimento sub culturale di comportamenti importati, più efficace quanto più questi sono mediocri e febbrili. In questo senso possiamo dire che il turismo di massa è allo stesso tempo degradante e neocolonialista. Lasciamo da parte la storia della turistizzazione del Mediterraneo, dal primitivo impulso alberghiero degli anni '60 del secolo scorso e la costruzione di isolati residenziali negli anni '80 – epoca dell'ascesa postfordista delle classi medie europee – passando attraverso le diverse modalità con cui la crescita del settore ha portato all'accelerazione della fine degli anni '90 dovuta al modello low cost – momento di radicale “democratizzazione” dell'attività: turismo rurale, verde, cittadino, crocieristico, religioso, congressuale, dell'ubriachezza, gastronomico, sportivo, ecc. Ci concentreremo sull’ultima fase della turistizzazione, quella più nociva, ovvero il turismo urbano.

 

Il turismo urbano si è sviluppato in modo preoccupante dalla crisi del 2008, quando il turismo “sole e spiaggia” ha raggiunto il suo apice e il relax delle vacanze ha lasciato il posto a “nuovi prodotti turistici”, soprattutto quelli basati sullo scatto sfrenato di selfie con cui creare un’identità virtuale. Contemporaneamente, i portali digitali debuttano con un turismo “collaborativo”, che presto si rivela come uno schermo per i fondi d’investimento internazionali che si rifugiano nelle aree a tema parco delle metropoli con il loro patrimonio confezionato, la nuova materia prima dell’industria. Quest’ultima fase è segnata dalla digitalizzazione, che facilita molto l’organizzazione individuale del viaggio in tempo reale mentre la permanenza di una folla festante si ripercuote sui social network. In brevissimo tempo si passa da un’economia di servizi vari a una monocultura industriale netta, sfruttata principalmente attraverso piattaforme e applicazioni. La domanda di alloggi esplode e le case in affitto vengono “hotelizzate”, o più chiaramente diventano pensioni. Questa trasformazione del consueto appartamento residenziale in ostello turistico toglie dal mercato una quantità di alloggi di tal entità che gli effetti sul prezzo sono letali. Il modo di vivere è profondamente modificato man mano che le conurbazioni si articolano attorno al turismo di massa e all’accaparramento immobiliare, rendendo lo spazio urbano inaccessibile per la popolazione lavoratrice. Allo stesso tempo, l’“urbanizzazione” o la de-naturalizzazione della città si è diffusa poiché la popolazione nativa è stata espulsa dai quartieri originari. Tuttavia, i primi sintomi di turismo-fobia si sono manifestati solo nel 2017, quando la sovra saturazione dei visitatori nei servizi, nei trasporti e nei luoghi pubblici è diventata più che palpabile e il deterioramento del patrimonio collettivo e lo svuotamento dei quartieri sono diventati irreversibili. Inoltre, il cambiamento climatico, favorendo la destagionalizzazione del turismo – obiettivo della classe politico-imprenditoriale autoctona – ha esteso gli effetti della massificazione ben oltre l’estate. Tuttavia, il grande squilibrio tra domanda e offerta, responsabile di un eccesso senza precedenti di capacità di trasporto turistico, si è verificato quando la pandemia è stata superata. La valanga di stranieri e nazionali ha spinto una parte considerevole dei capitali nel mercato degli affitti, mentre un diritto costituzionale fortemente concordato è rimasto lettera morta. Una nuova tappa della turistizzazione peninsulare lascia alle spalle i vecchi modelli di sviluppo che ipocritamente lottavano per un turismo di “qualità” elitista, manifestandosi invece come dichiarato sostegno della massima suburbanizzazione delle classi popolari.

 

Il turismo è per ora il motore dell'economia spagnola e tutto indica che continuerà a esserlo in futuro. Fattore di maggior peso nella bilancia dei pagamenti, negli investimenti e nell'accumulazione di capitali, ha dietro di sé potenti interessi tentacolari, particolarmente radicati nella finanza e nello Stato. Qualsiasi lotta che proponga una regolamentazione restrittiva del fenomeno turistico, una “decrescita” o un ripopolamento dei centri urbani, deve sapere che si trova di fronte al capitalismo più corsaro, all’amministrazione più sottomessa e allo Stato più incondizionato. Di conseguenza, deve mettere in atto una strategia antistatale e anticapitalista il cui asse è la questione dell’affitto. Ovviamente i contestatori devono appropriarsi del vecchio spazio pubblico e agire a partire da esso. Giocare sul proprio terreno. Tutto il resto sarà fatto di posture e discorsi del tipo “turismo responsabile”, “pianificazione sostenibile dello spazio turistico” o “gestione equilibrata delle risorse per il turismo”.

 

Miquel Amorós, 1 novembre 2024



BREVE APUNTE SOBRE LA TURISTIZACIÓN COMPULSIVA

 

Turistización o turistificación es el proceso de transformación descontrolada de lugares costeros, rurales o urbanos mediante su vinculación al turismo de masas. El asalariado de la sociedad desarrollista busca su identidad y el sentido de la vida no en el trabajo o las aficciones, sino en el ocio industrial, que abunda en los centros disneyficados de las ciudades. Lo que hoy impropiamente se sigue llamando ciudad no es más que la máxima expresión del dominio del capital en el espacio habitado in extenso. Y cada vez con mayor frecuencia, dicho capital proviene de la industria del ocio, es decir, del turismo. El actual eslogan contestatario de “La ciudad está en venta”, bajo esa óptica, significa en términos exactos que las aglomeraciones urbanas sometidas a grandes flujos de visitantes, se han convertido en puro mercado inmobiliario, tensionado al límite, donde el espacio es la mercancía, la vivienda, un activo, y el habitante, la molesta excepción. Tales aglomerados, mercantilizados por todos lados, se han vuelto extremadamente nocivos y hostiles al vecindario fijo, considerado poco rentable. Son lugares para visitar y fotografiar, para comprar y vender, pero no para vivir. Lo rentable ahora es lo que no para quieto. La clave de la ganancia es la temporalidad breve, el movimiento, y ¿quién se mueve más que las clases medias y trabajadoras del Norte en sus periodos de ocio programado? En fin, un excesivo aumento de la demanda de hospedaje a través de plataformas virtuales ha atraído como un imán a inversiones especulativas de todo tipo (especialmente de promotores ocultos tras empresas temporales, de fondos buitre y de dinero negro); como consecuencia, el desmesurado importe de la vivienda y el elevado precio de los alquileres -especialmente en los centros históricos y los barrios antaño populares de las conurbaciones donde se acumulan las visitas- y por encima de todo, la expulsión de la población hacia guetos periféricos, han convertido el problema habitacional en la cuestión social por excelencia. Por esos motivos, el turismo de masas urbano, tan ligado a la especulación, se ha visto colocado en el punto de mira de las protestas vecinales. Sin embargo, las propuestas elevadas a una administración desarrollista sin voluntad de contrariar los intereses que subyacen en el mercado turístico y menos aún, de crear una oferta suficiente de alquiler y vivienda social, pecan de ignorar que la valorización compulsiva y exponencial del suelo urbano es un rasgo típico del capitalismo financiero contemporáneo. Así pues, las perspectivas de la lucha por la vivienda respetuosas con los modos capitalistas son poco halagüeñas. La crítica de la industria turística en la que pretende basarse ha de tener más en cuenta las formas especialmente devastadoras de capitalismo en su fase tardía.

 

El turismo es el fenómeno de depredación cultural y social más característico de la sociedad capitalista globalizada y la cuarta industria de la economía mundial. Esta “industria sin humo” es pues un sector estratégico de primer orden, por lo cual los intereses creados son casi imposibles de erradicar. Los mismos afectados en gran medida dependen de ellos. Cuando desembarcan los turistas, no hay vuelta atrás. Desde los años sesenta del siglo pasado, la economía española ha seguido un modelo desarrollista apoyado casi exclusivamente en la construcción a mansalva y el turismo de masas, al que se consagraba un ministerio. El cambio de régimen no acarreó el abandono del modelo, antes bien el gobierno “democrático” propició su extensión a todo el país. A pesar de resultar evidentes la contaminación, la degradación del medio ambiente, la banalización del territorio, la museificación de los centros antiguos, la destrucción del tejido social de barrios y pueblos, los trabajos de mierda, la proliferación de la cultura basura, etc., a día de hoy, para la clase dirigente, tanto si se expresa por boca de empresarios, de expertos o de políticos, el turismo continúa siendo la respuesta a todos los problemas, una especie de salvavidas, y, como durante el franquismo, es tenido por el “pasaporte al desarrollo”. Tras la impunidad de los sucesivos tsunamis inmobiliarios, aparece el objetivo confeso de toda administración, cualquiera que sea su color político o ecológico, que consiste en posicionar el país, la comunidad autonómica o el municipio, como “destino-líder”, exprimiendo al máximo una fuente de ingresos para pocos cada vez más importante. Desde hace más de sesenta años, o sea, desde la época del despegue, nunca ha sido otro. Frente a la tradicional actividad agraria, comercial o industrial, en vías de desaparición, el negocio turístico se yergue como la manera más rápida de obtener pingües beneficios con una mínima inversión. Ante cada crisis global -en 1973, 1992, 2008, 2020- la mentalidad desarrollista se reafirma y la especialización turística, ahora con las debidas consideraciones vacías a la sostenibilidad, avanza a pasos agigantados en el sur de Europa, y en particular, en la Península Ibérica. Al acabar el siglo, las nuevas leyes del suelo y la reforma de la Ley de Costas traducían la nueva norma del todo edificable, mientras que los vuelos low cost ponían el viaje al alcance de todos los bolsillos. Al final del recorrido legislador, cualquier cosa era susceptible de ser capturada por promotores especuladores y convertida en mercancía turística: todo se volvía turismo. El turismo transformaba el escenario social en espacio suyo, dando lugar a una forma más caníbal de gentrificación.

 

La diferenciación entre zonas emisoras y zonas receptoras de turistas obedece a una división internacional de la actividad económica: finanzas, tecnología y movilidad por un lado, evasión y entretenimiento industrializado por el otro. En unas se expande en las capas sociales modestas -funcionarios, oficinistas, obreros, estudiantes, jubilados- un estilo de vida hiperconsumista y adicto al desplazamiento obsesivo; en las otras, convertidas en “destinos”, la descapitalización de las actividades tradicionales obliga a la inmersión en el mercado del trabajo volátil y mal pagado creado por la oleada bárbara invasora. Siempre que el turismo se impone en un territorio, urbano o campestre, se desestructura la economía, la política y los hábitos que imperaban hasta entonces en él, quedando este inmerso en una industria global que la viejas élites ya no controlan. Empieza una situación de dependencia económica que tiende a lo absoluto, al tiempo que se acelera el trasvase subcultural de conductas importadas, más efectivo cuando más mediocres y febriles sean aquellas. En ese sentido podemos decir que el turismo de masas es a la vez degradante y neocolonialista. Dejaremos de lado la historia de la turistización del Mediterráneo, desde el primitivo impulso hotelero de los años 60 del siglo pasado y la construcción de bloques residenciales de los 80 -momento del auge posfordista de las clases medias europeas- pasando por las diferentes modalidades que el crecimiento de la industria ha dado lugar por la aceleración de finales de los 90 debida al modelo low cost -momento de la “democratización” radical de la actividad: turismo rural, verde, de adosados, de cruceros, religioso, de congresos, de borrachera, gastronómico, deportivo, etc. Nos centraremos en la última fase de la turistización, la más nociva, a saber, el turismo urbano.

 

El turismo urbano se desarrolla de forma preocupante a partir de la crisis de 2008, cuando el turismo de “sol y playa” ha tocado techo y la relajación vacacional cede plaza a “nuevos productos turísticos”, especialmente los basados en la realización desenfrenada de selfies con los que confeccionar una identidad virtual. Simultáneamente, los portales digitales debutan con un turismo “colaborativo”, que pronto se revela como pantalla de fondos de inversión internacionales refugiándose en las áreas parquetematizadas de las metrópolis con su patrimonio empaquetado, la nueva materia prima de la industria. Esta última fase viene marcada por la digitalización, que facilita enormemente en tiempo real la organización individual del viaje y la estancia de una multitud jaranera afecta a las redes sociales. Se produce en muy poco tiempo el tránsito de una economía de servicios varios a un monocultivo industrial neto explotado principalmente a través de plataformas y aplicaciones. La demanda de alojamiento se dispara y la vivienda de alquiler se “hoteliza”, o más claramente se convierte en hospedería. Esta reconversión del piso residencial de siempre en albergue de turistas sustrae del mercado una cantidad de alojamientos de tal magnitud que los efectos sobre el precio son letales. La forma de habitar se modifica profundamente a medida que las conurbaciones se articulan alrededor del turismo masivo y del acaparamiento inmobiliario, volviéndose el espacio urbano inasequible para la población trabajadora. A su vez, la “urbanalización” o desnaturalización de la urbe se ha ido generalizando a medida que la población autóctona iba siendo expulsada de sus barriadas originales. Aún así, los primeros síntomas de turismofobia no se produjeron hasta 2017, cuando se hacía más que palpable la sobresaturación de visitantes en los servicios, el transporte y los lugares públicos, y se hacía irreversible el deterioro del patrimonio colectivo y el vaciado de los barrios. Además, el cambio climático, al favorecer la desestacionalización del turismo -la meta de la clase político-empresarial nativa- extendía los efectos de la masificación mucho más allá del veraneo. Sin embargo, el gran desajuste entre oferta y demanda responsable de un desbordamiento sin precedentes de la capacidad de carga turística, ocurrió al superarse la pandemia. La avalancha de foráneos y nacionales empujó a una parte considerable de capitales al mercado del alquiler; mientras tanto, un derecho constitucional muy consensuado quedaba en letra muerta. Una nueva etapa en la turistización peninsular deja atrás a los viejos modelos desarrollistas que pugnaban hipócritamente por un turismo “de calidad” elitista, mientras se manifiesta como partidaria declarada de la máxima suburbanización de las clases populares.

 

El turismo es por ahora el motor de la economía española y todo indica que lo seguirá siendo en el futuro. Factor de mayor peso en la balanza de pagos, en la inversión y en la acumulación de capitales, tiene detrás poderosos intereses tentaculares, particularmente muy arraigados en las finanzas y el Estado. Cualquier lucha que se plantee una regulación restrictiva del fenómeno turístico, un “decrecimiento” o una repoblación de los centros urbanos, ha de saber que tiene enfrente al capitalismo más corsario, a la administración más sumisa y al Estado más incondicional. Por consiguiente, ha de desplegar una estrategia antiestatal y anticapitalista cuyo eje sea la cuestión del alquiler. Como es obvio, los contestatarios han de apropiarse del antiguo espacio público y actuar desde él. Jugar en su propio terreno. Todo lo demás será pose y palabrería del estilo “turismo responsable”, “planificación sostenible del espacio turístico” o “gestión equilibrada de recursos para el turismo.”

 

Miquel Amorós, 1 de noviembre de 2024.

  

 Petit aperçu sur la touristisation compulsive



La touristisation ou touristification est le processus de transformation incontrôlée de lieux côtiers, ruraux ou urbains lié au tourisme de masse. Le salarié de la société développementiste recherche son identité et le sens de sa vie non pas dans le travail ou dans les hobbies, mais dans des loisirs industriels, qui abondent dans les centres villes disneyfiés. Ce que l'on appelle aujourd'hui encore improprement la ville n'est rien d'autre que l'expression ultime de la domination du capital sur l'espace habité in extenso. Et ce capital provient de plus en plus de l'industrie des loisirs, c'est-à-dire du tourisme. De ce point de vue, le slogan contestataire actuel « La ville est à vendre » souligne précisément le fait que les agglomérations urbaines soumises à d'importants flux de visiteurs sont devenues un pur marché immobilier, tendu à l'extrême, où l'espace est une marchandise, le logement un actif financier, et l'habitant une exception dérangeante. De tels agglomérats, marchandisés dans tous leurs aspects parts, sont devenus extrêmement nocifs et hostiles à l’habitat permanent, jugé non rentable. Ce sont des lieux à visiter et à photographier, à acheter et à vendre, mais pas à vivre. La rentabilité est engendrée aujourd’hui par ce qui ne reste pas immobile. La clé du profit réside dans la temporalité brève, dans le mouvement.  Et qui bouge le plus sinon les classes moyennes et travailleuses du Nord durant leurs séquences de loisirs programmés ? Finalement, l'augmentation excessive de la demande d’hébergements par le biais de plateformes numériques a attiré comme un véritable aimant des investissements spéculatifs de toutes sortes (en particulier ceux de promoteurs occultes dissimulés derrière des sociétés temporaires, de fonds vautour et d'argent sale). Par conséquent, le coût exorbitant du logement et les loyers élevés – notamment dans les centres historiques et les quartiers autrefois populaires des conurbations qui attirent un grand nombre de visiteurs – et par-dessus tout, l'expulsion de la population vers les ghettos périphériques, ont fait du problème du logement la question sociale majeure. C’est pourquoi, le tourisme de masse urbain, si étroitement associé à la spéculation, est devenu la cible des protestations de quartier. Néanmoins, les propositions faites à une administration développementiste peu encline à contrarier les intérêts du marché touristique – et encore moins à créer une offre suffisante de location et de logement social – témoignent d’une ignorance coupable du fait que la valorisation compulsive et exponentielle du foncier urbain caractérise le capitalisme financier contemporain. De ce fait, les perspectives des luttes pour le logement qui respectent les critères capitalistes ne sont pas très réjouissantes. La critique de l'industrie touristique dont elles se réclament doit davantage prendre en compte les formes particulièrement dévastatrices du capitalisme dans son stade avancé.

Le tourisme est le processus le plus caractéristique de la prédation culturelle et sociale de la société capitaliste globalisée, et une des plus grands industries de l'économie mondiale. Ainsi, cette « industrie sans fumée » occupe une place stratégique de premier plan. C'est la raison pour laquelle les intérêts particuliers sont presque impossibles à éradiquer. Dans une large mesure, les personnes concernées en dépendent largement. Lorsque les touristes débarquent, il n'y a pas de retour en arrière possible. Depuis les années 1960, l'économie espagnole a suivi un modèle développementiste axé presque exclusivement sur la construction à tout va et le tourisme de masse, auquel un ministère se consacrait désormais. Le changement de régime n'a pas entrainé l'abandon du modèle ; bien au contraire, le gouvernement « démocratique » a favorisé son expansion à l'ensemble du pays. Malgré l'évidence de la pollution, de la dégradation de l'environnement, de l’uniformisation du territoire, de la muséification des centres villes historiques, de la destruction du tissu social des quartiers et des villages, des boulots de merde, de la prolifération de la culture poubelle, etc., le tourisme reste aujourd’hui la solution à tous les problèmes. Une sorte de bouée de sauvetage pour la classe dirigeante, que ce soit par la voix des entrepreneurs, des experts ou des politiciens. Et, comme sous le franquisme, il est perçu comme le "passeport pour le développement". Derrière l'impunité des tsunamis immobiliers successifs se dégage l'objectif avoué de toute administration. Peu importe sa couleur politique ou écologique, il s’agit de faire du pays, de la communauté autonome ou de la commune une "destination-phare", en tirant le meilleur parti d'une source de revenus de plus en plus importante pour quelques-uns. Il n'en a jamais été autrement, depuis plus de soixante ans, c'est-à-dire depuis le début du décollage économique du pays. Comparée à l’activité agricole, commerciale ou industrielle traditionnelle, en voie de disparition, le business touristique apparaît comme le moyen le plus rapide d'obtenir d'énormes profits avec un minimum d'investissement. Face à chaque crise mondiale – 1973, 1992, 2008, 2020 – la mentalité développementiste se réaffirme et la spécialisation touristique – désormais flanquée de creuses exigences de durabilité – progresse à pas de géant dans le sud de l'Europe, et en particulier dans la péninsule ibérique. À la fin du siècle, les nouvelles lois foncières et la réforme de la loi littorale révélaient les nouvelles normes du tout-à-bâtir, tandis que les vols low-cost rendaient le voyage accessible à tous. Au terme du parcours législatif, tout pouvait être capté par des promoteurs spéculateurs et transformé en marchandise touristique : tout devenait tourisme. Ce dernier a transformé le paysage social en un espace à part entière, donnant lieu à une forme de gentrification plus féroce.

La différenciation entre zones émettrices et zones réceptrices de touristes obéit au partage international de l'activité économique : finances, technologie et mobilité d'un côté, évasion et divertissement industrialisé de l'autre. Dans les premières, un mode de vie hyper-consumériste, additif et compulsif dans les déplacements se propage dans les couches sociales modestes – fonctionnaires, employés de bureau, ouvriers, étudiants, retraités. Dans les deuxièmes, converties en « destinations », la décapitalisation des activités traditionnelles contraint les habitants à se soumettre au marché du travail précaire et mal payé créé par la vague barbare envahissante.  Chaque fois que le tourisme s'installe sur un territoire, qu’il soit urbain ou rural, il désorganise l'économie, la politique et les habitudes qui prévalaient jusque-là, le territoire étant immergé dans une industrie mondialisée que les anciennes élites ne maîtrisent plus. Apparaît alors une situation de dépendance économique qui tend vers l’absolue, qui accélère le transfert sous-culturel de comportements importés, d'autant plus efficace qu'ils sont médiocres et fébriles. En ce sens, on peut affirmer que le tourisme de masse est à la fois dégradant et néocolonialiste. Nous laisserons de côté l'histoire de la touristisation de la Méditerranée, depuis l'impulsion hôtelière primitive des années 1960 et la construction des blocs résidentiels des années 1980 – lors de l'ascension postfordiste des classes moyennes européennes –, en passant par les diverses modalités engendrées par la croissance de l'industrie, accélérée à la fin des années 1990 avec son modèle low-cost et  la "démocratisation" radicale de l'activité : tourisme rural, vert, de proximité, de croisière, religieux, de congrès, de beuverie, gastronomique, sportif, etc. Notre attention se portera sur la dernière étape de la touristisation, la plus néfaste, à savoir le tourisme urbain.

Le tourisme urbain se développe de façon préoccupante à partir de la crise de 2008. À ce moment-là, le tourisme « soleil et plage » trouve ses limites et la détente estivale cède la place à de « nouveaux produits touristiques », notamment ceux qui se concentrent sur la prise effrénée de selfies pour se créer une identité virtuelle. Parallèlement, les plateformes numériques font leurs apparitions avec le tourisme « collaboratif ». Celui-ci forme bientôt un paravent pour des fonds d'investissement internationaux qui se concentrent dans les zones des métropoles converties en parcs thématisés, avec leur patrimoine emballé, nouvelle matière première de l'industrie. Cette dernière étape est caractérisée par la numérisation, qui facilite considérablement en temps réel l'organisation individuelle du voyage et le séjour d'un grand nombre de bringueurs adeptes des réseaux sociaux. Le passage d'une économie de services variés à une simple mono-activité industrielle principalement exploitée via les plateformes et les applications, se réalise très rapidement. La demande de logement explose et l’immobilier locatif s’"hôtélise", ou plus clairement se transforme en hôtellerie. Cette reconversion de l'appartement résidentiel traditionnel en hébergement touristique retire du marché une quantité de logements si importante que les effets sur les prix sont fatals. La façon d'habiter se transforme profondément à mesure que les conurbations s'organisent autour du tourisme de masse et de l'accaparement immobilier, rendant l'espace urbain inabordable pour la population laborieuse. En retour, l'"urbanalisation" ou dénaturation de la ville se généralise au fur et à mesure que la population autochtone est expulsée de ses quartiers d'origine. Malgré cela, les premiers symptômes de tourisme-phobie ne sont apparus qu'en 2017, lorsque la sursaturation des visiteurs dans les services, les transports et les lieux publics est devenue évidente, et que la détérioration du patrimoine collectif et le dépeuplement des habitants des quartiers sont devenus irréversibles. De plus, le changement climatique favorisant la désaisonnalisation du tourisme – objectif de la classe politico-entrepreneuriale locale – a prolongé les effets de surpopulation bien au-delà de l'été. Cependant, l’énorme écart entre l'offre et la demande, responsable d'un débordement sans précédent de la capacité d'accueil touristique, est survenue après la pandémie. La ruée de touristes étrangers et nationaux a entraîné une quantité considérable de capitaux vers le marché locatif ; en même temps, un droit constitutionnel très consensuel restait lettre morte. La nouvelle étape dans la touristisation péninsulaire abandonne les anciens modèles de développement qui bataillaient hypocritement pour un tourisme élitiste de « qualité » Elle soutient désormais sans ambiguïté une banlieurisation maximale des classes populaires.

Le tourisme est actuellement le moteur de l'économie espagnole et tout indique qu'il le restera à l'avenir. Facteur majeur de la balance des paiements, de l'investissement et de l'accumulation de capitaux, il est soutenu par de forts intérêts tentaculaires, particulièrement ancrés dans la finance et l'État. Toute lutte qui vise une régulation restrictive du phénomène touristique, une « décroissance » ou un repeuplement des centres urbains doit prendre en considération qu'elle fait face au capitalisme le plus flibustier, à l'administration la plus soumise et à l'État le plus inconditionnel. Elle doit par conséquent adopter une stratégie antiétatique et anticapitaliste, en mettant l’accent sur la question des loyers. Les contestataires doivent bien sûr s’emparer de l'ancien espace public et agir à partir de lui. Jouer sur son propre terrain. Tout le reste ne sera que simples postures et baratin du style « tourisme responsable », « planification durable des espaces touristiques » ou « gestion équilibrée des ressources pour le tourisme ».

Miquel Amorós, le 1er novembre 2024