La
turistizzazione o turistificazione è il processo di trasformazione
incontrollata dei luoghi costieri, rurali o urbani attraverso il loro
collegamento al turismo di massa. Il lavoratore della società produttivista
cerca la sua identità e il significato della vita non nel lavoro o negli hobby,
ma nel tempo libero industriale, che abbonda nei centri disneyficati delle
città. Quella che oggi viene ancora impropriamente chiamata città non è altro
che la massima espressione del dominio del capitale sullo spazio abitato in extenso. Sempre più spesso, inoltre, un
tale capitale proviene dall’industria del tempo libero, cioè dal turismo. Da
questo punto di vista, l’attuale slogan di protesta “La città è in vendita”,
significa in termini esatti che gli agglomerati urbani, sottoposti a grandi
flussi di visitatori, sono diventati un puro mercato immobiliare, spinto al limite,
dove lo spazio è la merce, l’abitazione, un bene, mentre l'abitante è la
fastidiosa eccezione. Tali agglomerati, mercificati da ogni parte, sono
diventati estremamente nocivi e ostili per il vicinato stanziale, considerato poco
redditizio. Si
tratta di luoghi da visitare e fotografare, da comprare e vendere, ma non da
vivere. Ciò che è redditizio adesso è ciò che non si ferma. La chiave del
profitto è la temporalità breve, il movimento, e chi si muove più delle classi
medie e operaie del Nord nei loro periodi di svago programmato? Infine, un
aumento eccessivo della domanda di alloggi attraverso piattaforme virtuali ha
attratto come una calamita investimenti speculativi di ogni tipo (soprattutto
da parte di promotori nascosti dietro società temporanee, fondi avvoltoio e
denaro nero); di conseguenza, il costo sproporzionato degli alloggi e gli alti
prezzi degli affitti –
soprattutto nei centri storici e nei quartieri un tempo popolari delle
conurbazioni dove si accumulano le visite – e, soprattutto, l'espulsione della
popolazione verso i ghetti periferici, hanno trasformato il problema dell’alloggio
nella questione sociale per eccellenza. Per questi motivi il turismo urbano di
massa, così legato alla speculazione, è stato messo nel mirino delle proteste
di quartiere. Tuttavia, le proposte sottoposte a un’amministrazione produttivista
che non ha la volontà di contraddire gli interessi che stanno alla base del
mercato turistico e tanto meno di creare un’offerta sufficiente di affitti e di
edilizia sociale, hanno il difetto d’ignorare che la valorizzazione compulsiva
ed esponenziale del territorio urbano è una caratteristica tipica del
capitalismo finanziario contemporaneo. Pertanto, le prospettive della lotta per un’edilizia
rispettosa dei metodi capitalisti non sono molto promettenti. La critica dell'industria
del turismo su cui s’intende basarsi deve tenere maggiormente conto delle forme
particolarmente devastanti del capitalismo nella sua fase tardiva.
Il turismo è
il fenomeno più caratteristico della predazione culturale e sociale della
società capitalista globalizzata e la quarta industria dell’economia mondiale. Questa
“industria senza fumo” è quindi un settore strategico di prim’ordine, per cui
gli interessi acquisiti sono quasi impossibili da sradicare. Le stesse persone che
ner sono vittime dipendono in gran parte da loro. Quando i turisti sbarcano,
non si può più tornare indietro. Dagli anni Sessanta del secolo scorso,
l’economia spagnola ha seguito un modello di sviluppo sostenuto quasi
esclusivamente dall’edilizia a ruota libera e dal turismo di massa, al quale è
stato dedicato un ministero. Il cambio di regime non ha portato all’abbandono
del modello, anzi il governo “democratico” ne ha incoraggiato l’estensione
all’intero Paese. Nonostante siano evidenti, ancora oggi, l'inquinamento, il degrado
ambientale, la banalizzazione del territorio, la museificazione dei centri
antichi, la distruzione del tessuto sociale dei quartieri e delle città, i
lavori di merda, la proliferazione della cultura trash, ecc ormai per la classe
dirigente, che lo si esprima per bocca di imprenditori, esperti o politici, il
turismo continua a essere la risposta a tutti i problemi, una sorta di
salvagente; come durante il regime franchista, è considerato come il
“passaporto per lo sviluppo”.
Dopo
l’impunità dei successivi tsunami immobiliari, appare che l’obiettivo
dichiarato di ogni amministrazione, indipendentemente dal suo colore politico o
ecologico, consiste nel porre il Paese, la comunità autonoma o il comune, come
“leader di destinazione”, esprimendo al massimo una fonte di reddito per pochi sempre
più importante. Da più di sessant'anni, cioè dal momento del decollo, non ce
n'è mai stato altro. Rispetto alla tradizionale attività agricola, commerciale
o industriale, in via di sparizione, l'attività turistica rappresenta il modo
più veloce per ottenere enormi profitti con un investimento minimo. Di fronte
ad ogni crisi globale – nel 1973, 1992, 2008, 2020 – si riafferma la mentalità dello
sviluppo e la specializzazione turistica, ormai con le dovute considerazioni
prive di sostenibilità, avanza a passi da gigante nell’Europa meridionale e in
particolare nella penisola iberica. Alla fine del secolo, le nuove leggi
fondiarie e la riforma della Legge sui litorali tradussero la nuova normativa del
tutto edificabile, mentre i voli low cost rendevano i viaggi accessibili
a tutte le tasche. Alla fine del percorso legislativo, tutto era suscettibile
di essere catturato da promotori speculativi e convertito in merce turistica:
tutto diventava turismo. Il turismo ha trasformato la scena sociale in un
proprio spazio, dando origine a una forma di gentrificazione più
cannibalistica.
La
differenziazione tra aree d’invio e di accoglienza dei turisti è dovuta a una
divisione internazionale dell’attività economica: finanza, tecnologia e
mobilità da un lato, evasione e intrattenimento industrializzato dall'altro. Tra
gli strati sociali modesti – dipendenti pubblici, impiegati, operai, studenti,
pensionati – si espande uno stile di vita iperconsumistico dedito allo
spostamento ossessivo, negli altri, convertiti in “destinazioni”, la de-capitalizzazione
delle attività tradizionali costringe all’immersione nel mercato del lavoro
volatile e mal retribuito creato dall’ondata barbarica invasiva. Ogni volta che
il turismo s’impone in un territorio, sia esso urbano o rurale, l’economia, la
politica e le abitudini che vi prevalevano fino ad allora vengono
destrutturate, lasciandolo immerso in un’industria globale che le vecchie élite
non controllano più. Inizia una situazione di dipendenza economica che tende
all'assoluto, mentre si accelera il trasferimento sub culturale di comportamenti
importati, più efficace quanto più questi sono mediocri e febbrili. In questo
senso possiamo dire che il turismo di massa è allo stesso tempo degradante e
neocolonialista.
Lasciamo da parte la storia
della turistizzazione del Mediterraneo, dal primitivo impulso alberghiero degli
anni '60 del secolo scorso e la costruzione di isolati residenziali negli anni
'80 – epoca dell'ascesa postfordista delle classi medie europee – passando
attraverso le diverse modalità con cui la crescita del settore ha portato
all'accelerazione della fine degli anni '90 dovuta al modello low cost – momento
di radicale “democratizzazione” dell'attività: turismo rurale, verde, cittadino,
crocieristico, religioso, congressuale, dell'ubriachezza, gastronomico,
sportivo, ecc. Ci concentreremo sull’ultima fase della turistizzazione, quella
più nociva, ovvero il turismo urbano.
Il turismo
urbano si è sviluppato in modo preoccupante dalla crisi del 2008, quando il
turismo “sole e spiaggia” ha raggiunto il suo apice e il relax delle vacanze ha
lasciato il posto a “nuovi prodotti turistici”, soprattutto quelli basati sullo
scatto sfrenato di selfie con cui creare un’identità virtuale. Contemporaneamente,
i portali digitali debuttano con un turismo “collaborativo”, che presto si
rivela come uno schermo per i fondi d’investimento internazionali che si
rifugiano nelle aree a tema parco delle metropoli con il loro patrimonio
confezionato, la nuova materia prima dell’industria. Quest’ultima fase è
segnata dalla digitalizzazione, che facilita molto l’organizzazione individuale
del viaggio in tempo reale mentre la
permanenza di una folla festante si ripercuote sui social network. In brevissimo
tempo si passa da un’economia di servizi vari a una monocultura industriale
netta, sfruttata principalmente attraverso piattaforme e applicazioni. La
domanda di alloggi esplode e le case in affitto vengono “hotelizzate”, o più
chiaramente diventano pensioni. Questa trasformazione del consueto appartamento
residenziale in ostello turistico toglie dal mercato una quantità di alloggi di
tal entità che gli effetti sul prezzo sono letali. Il modo di vivere è
profondamente modificato man mano che le conurbazioni si articolano attorno al
turismo di massa e all’accaparramento immobiliare, rendendo lo spazio urbano
inaccessibile per la popolazione lavoratrice. Allo stesso tempo,
l’“urbanizzazione” o la de-naturalizzazione della città si è diffusa poiché la
popolazione nativa è stata espulsa dai quartieri originari. Tuttavia, i primi sintomi di turismo-fobia si sono
manifestati solo nel 2017, quando la sovra saturazione dei visitatori nei
servizi, nei trasporti e nei luoghi pubblici è diventata più che palpabile e il
deterioramento del patrimonio collettivo e lo svuotamento dei quartieri sono
diventati irreversibili. Inoltre, il cambiamento climatico, favorendo la destagionalizzazione
del turismo – obiettivo della classe politico-imprenditoriale autoctona – ha
esteso gli effetti della massificazione ben oltre l’estate. Tuttavia, il grande
squilibrio tra domanda e offerta, responsabile di un eccesso senza precedenti
di capacità di trasporto turistico, si è verificato quando la pandemia è stata
superata. La valanga di stranieri e nazionali ha spinto una parte considerevole
dei capitali nel mercato degli affitti, mentre un diritto costituzionale
fortemente concordato è rimasto lettera morta. Una nuova tappa della turistizzazione
peninsulare lascia alle spalle i vecchi modelli di sviluppo che ipocritamente
lottavano per un turismo di “qualità” elitista, manifestandosi invece come
dichiarato sostegno della massima suburbanizzazione delle classi popolari.
Il turismo è
per ora il motore dell'economia spagnola e tutto indica che continuerà a
esserlo in futuro. Fattore di maggior peso nella bilancia dei pagamenti, negli
investimenti e nell'accumulazione di capitali, ha dietro di sé potenti
interessi tentacolari, particolarmente radicati nella finanza e nello Stato.
Qualsiasi lotta che proponga una regolamentazione restrittiva del fenomeno
turistico, una “decrescita” o un ripopolamento dei centri urbani, deve sapere
che si trova di fronte al capitalismo più corsaro, all’amministrazione più
sottomessa e allo Stato più incondizionato. Di conseguenza, deve mettere in
atto una strategia antistatale e anticapitalista il cui asse è la questione
dell’affitto. Ovviamente i contestatori devono appropriarsi del vecchio spazio
pubblico e agire a partire da esso. Giocare sul proprio terreno. Tutto il resto
sarà fatto di posture e discorsi del tipo “turismo responsabile”,
“pianificazione sostenibile dello spazio turistico” o “gestione equilibrata
delle risorse per il turismo”.
Miquel Amorós, 1 novembre 2024
BREVE APUNTE SOBRE LA TURISTIZACIÓN COMPULSIVA
Turistización o turistificación es el proceso de
transformación descontrolada de lugares costeros, rurales o urbanos mediante su
vinculación al turismo de masas. El asalariado de la sociedad desarrollista
busca su identidad y el sentido de la vida no en el trabajo o las aficciones,
sino en el ocio industrial, que abunda en los centros disneyficados de las
ciudades. Lo que hoy impropiamente se sigue llamando ciudad no es más que la
máxima expresión del dominio del capital en el espacio habitado in extenso.
Y cada vez con mayor frecuencia, dicho capital proviene de la industria del
ocio, es decir, del turismo. El actual eslogan contestatario de “La ciudad está
en venta”, bajo esa óptica, significa en términos exactos que las
aglomeraciones urbanas sometidas a grandes flujos de visitantes, se han
convertido en puro mercado inmobiliario, tensionado al límite, donde el espacio
es la mercancía, la vivienda, un activo, y el habitante, la molesta excepción.
Tales aglomerados, mercantilizados por todos lados, se han vuelto
extremadamente nocivos y hostiles al vecindario fijo, considerado poco
rentable. Son lugares para visitar y fotografiar, para comprar y vender, pero
no para vivir. Lo rentable ahora es lo que no para quieto. La clave de la
ganancia es la temporalidad breve, el movimiento, y ¿quién se mueve más que las
clases medias y trabajadoras del Norte en sus periodos de ocio programado? En
fin, un excesivo aumento de la demanda de hospedaje a través de plataformas
virtuales ha atraído como un imán a inversiones especulativas de todo tipo
(especialmente de promotores ocultos tras empresas temporales, de fondos buitre
y de dinero negro); como consecuencia, el desmesurado importe de la vivienda y
el elevado precio de los alquileres -especialmente en los centros históricos y
los barrios antaño populares de las conurbaciones donde se acumulan las
visitas- y por encima de todo, la expulsión de la población hacia guetos
periféricos, han convertido el problema habitacional en la cuestión social por
excelencia. Por esos motivos, el turismo de masas urbano, tan ligado a la
especulación, se ha visto colocado en el punto de mira de las protestas
vecinales. Sin embargo, las propuestas elevadas a una administración
desarrollista sin voluntad de contrariar los intereses que subyacen en el
mercado turístico y menos aún, de crear una oferta suficiente de alquiler y
vivienda social, pecan de ignorar que la valorización compulsiva y exponencial
del suelo urbano es un rasgo típico del capitalismo financiero contemporáneo.
Así pues, las perspectivas de la lucha por la vivienda respetuosas con los
modos capitalistas son poco halagüeñas. La crítica de la industria turística en
la que pretende basarse ha de tener más en cuenta las formas especialmente
devastadoras de capitalismo en su fase tardía.
El turismo es el fenómeno de depredación cultural y
social más característico de la sociedad capitalista globalizada y la cuarta
industria de la economía mundial. Esta “industria sin humo” es pues un sector
estratégico de primer orden, por lo cual los intereses creados son casi
imposibles de erradicar. Los mismos afectados en gran medida dependen de ellos.
Cuando desembarcan los turistas, no hay vuelta atrás. Desde los años sesenta
del siglo pasado, la economía española ha seguido un modelo desarrollista apoyado
casi exclusivamente en la construcción a mansalva y el turismo de masas, al que
se consagraba un ministerio. El cambio de régimen no acarreó el abandono del
modelo, antes bien el gobierno “democrático” propició su extensión a todo el
país. A pesar de resultar evidentes la contaminación, la degradación del medio
ambiente, la banalización del territorio, la museificación de los centros
antiguos, la destrucción del tejido social de barrios y pueblos, los trabajos
de mierda, la proliferación de la cultura basura, etc., a día de hoy, para la
clase dirigente, tanto si se expresa por boca de empresarios, de expertos o de
políticos, el turismo continúa siendo la respuesta a todos los problemas, una
especie de salvavidas, y, como durante el franquismo, es tenido por el
“pasaporte al desarrollo”. Tras la impunidad de los sucesivos tsunamis
inmobiliarios, aparece el objetivo confeso de toda administración, cualquiera
que sea su color político o ecológico, que consiste en posicionar el país, la
comunidad autonómica o el municipio, como “destino-líder”, exprimiendo al
máximo una fuente de ingresos para pocos cada vez más importante. Desde hace
más de sesenta años, o sea, desde la época del despegue, nunca ha sido otro.
Frente a la tradicional actividad agraria, comercial o industrial, en vías de
desaparición, el negocio turístico se yergue como la manera más rápida de
obtener pingües beneficios con una mínima inversión. Ante cada crisis global
-en 1973, 1992, 2008, 2020- la mentalidad desarrollista se reafirma y la especialización
turística, ahora con las debidas consideraciones vacías a la sostenibilidad,
avanza a pasos agigantados en el sur de Europa, y en particular, en la
Península Ibérica. Al acabar el siglo, las nuevas leyes del suelo y la reforma
de la Ley de Costas traducían la nueva norma del todo edificable, mientras que
los vuelos low cost ponían el viaje al alcance de todos los bolsillos.
Al final del recorrido legislador, cualquier cosa era susceptible de ser
capturada por promotores especuladores y convertida en mercancía turística:
todo se volvía turismo. El turismo transformaba el escenario social en espacio
suyo, dando lugar a una forma más caníbal de gentrificación.
La diferenciación entre zonas emisoras y zonas receptoras
de turistas obedece a una división internacional de la actividad económica:
finanzas, tecnología y movilidad por un lado, evasión y entretenimiento
industrializado por el otro. En unas se expande en las capas sociales modestas
-funcionarios, oficinistas, obreros, estudiantes, jubilados- un estilo de vida
hiperconsumista y adicto al desplazamiento obsesivo; en las otras, convertidas
en “destinos”, la descapitalización de las actividades tradicionales obliga a
la inmersión en el mercado del trabajo volátil y mal pagado creado por la
oleada bárbara invasora. Siempre que el turismo se impone en un territorio,
urbano o campestre, se desestructura la economía, la política y los hábitos que
imperaban hasta entonces en él, quedando este inmerso en una industria global
que la viejas élites ya no controlan. Empieza una situación de dependencia
económica que tiende a lo absoluto, al tiempo que se acelera el trasvase
subcultural de conductas importadas, más efectivo cuando más mediocres y
febriles sean aquellas. En ese sentido podemos decir que el turismo de masas es
a la vez degradante y neocolonialista. Dejaremos de lado la historia de la
turistización del Mediterráneo, desde el primitivo impulso hotelero de los años
60 del siglo pasado y la construcción de bloques residenciales de los 80
-momento del auge posfordista de las clases medias europeas- pasando por las
diferentes modalidades que el crecimiento de la industria ha dado lugar por la
aceleración de finales de los 90 debida al modelo low cost -momento de
la “democratización” radical de la actividad: turismo rural, verde, de
adosados, de cruceros, religioso, de congresos, de borrachera, gastronómico,
deportivo, etc. Nos centraremos en la última fase de la turistización, la más
nociva, a saber, el turismo urbano.
El turismo urbano se desarrolla de forma preocupante a
partir de la crisis de 2008, cuando el turismo de “sol y playa” ha tocado techo
y la relajación vacacional cede plaza a “nuevos productos turísticos”,
especialmente los basados en la realización desenfrenada de selfies con
los que confeccionar una identidad virtual. Simultáneamente, los portales
digitales debutan con un turismo “colaborativo”, que pronto se revela como
pantalla de fondos de inversión internacionales refugiándose en las áreas
parquetematizadas de las metrópolis con su patrimonio empaquetado, la nueva
materia prima de la industria. Esta última fase viene marcada por la
digitalización, que facilita enormemente en tiempo real la organización
individual del viaje y la estancia de una multitud jaranera afecta a las
redes sociales. Se produce en muy poco tiempo el tránsito de una economía de
servicios varios a un monocultivo industrial neto explotado principalmente a
través de plataformas y aplicaciones. La demanda de alojamiento se dispara y la
vivienda de alquiler se “hoteliza”, o más claramente se convierte en
hospedería. Esta reconversión del piso residencial de siempre en albergue de
turistas sustrae del mercado una cantidad de alojamientos de tal magnitud que
los efectos sobre el precio son letales. La forma de habitar se modifica
profundamente a medida que las conurbaciones se articulan alrededor del turismo
masivo y del acaparamiento inmobiliario, volviéndose el espacio urbano
inasequible para la población trabajadora. A su vez, la “urbanalización” o
desnaturalización de la urbe se ha ido generalizando a medida que la población
autóctona iba siendo expulsada de sus barriadas originales. Aún así, los
primeros síntomas de turismofobia no se produjeron hasta 2017, cuando se hacía
más que palpable la sobresaturación de visitantes en los servicios, el
transporte y los lugares públicos, y se hacía irreversible el deterioro del
patrimonio colectivo y el vaciado de los barrios. Además, el cambio climático,
al favorecer la desestacionalización del turismo -la meta de la clase
político-empresarial nativa- extendía los efectos de la masificación mucho más
allá del veraneo. Sin embargo, el gran desajuste entre oferta y demanda
responsable de un desbordamiento sin precedentes de la capacidad de carga turística,
ocurrió al superarse la pandemia. La avalancha de foráneos y nacionales empujó
a una parte considerable de capitales al mercado del alquiler; mientras tanto,
un derecho constitucional muy consensuado quedaba en letra muerta. Una nueva
etapa en la turistización peninsular deja atrás a los viejos modelos
desarrollistas que pugnaban hipócritamente por un turismo “de calidad”
elitista, mientras se manifiesta como partidaria declarada de la máxima
suburbanización de las clases populares.
El turismo es por ahora el motor de la economía española
y todo indica que lo seguirá siendo en el futuro. Factor de mayor peso en la
balanza de pagos, en la inversión y en la acumulación de capitales, tiene
detrás poderosos intereses tentaculares, particularmente muy arraigados en las
finanzas y el Estado. Cualquier lucha que se plantee una regulación restrictiva
del fenómeno turístico, un “decrecimiento” o una repoblación de los centros
urbanos, ha de saber que tiene enfrente al capitalismo más corsario, a la
administración más sumisa y al Estado más incondicional. Por consiguiente, ha
de desplegar una estrategia antiestatal y anticapitalista cuyo eje sea la
cuestión del alquiler. Como es obvio, los contestatarios han de apropiarse del
antiguo espacio público y actuar desde él. Jugar en su propio terreno. Todo lo
demás será pose y palabrería del estilo “turismo responsable”, “planificación
sostenible del espacio turístico” o “gestión equilibrada de recursos para el
turismo.”
Miquel Amorós, 1 de noviembre de 2024.