venerdì 12 settembre 2025

Il rock nel suo contesto

 



Oggi, a più di quarant'anni dalla creazione della Rock and Roll Hall of Fame di Cleveland e di MTV, è luogo comune affermare che il rock è morto. I loro resti sono al massimo oggetto di archeologi musicali, pezzi da museo o materiali di fusione con altri stili più adatti al consumo giovanile. Il rock non rappresenta affatto la musica delle generazioni attuali; non è un elemento significativo della loro vita quotidiana, né un'arma della loro ribellione. Infatti, il pop contemporaneo non è fatto dai giovani; è fatto per i giovani. Chi sceglie la musica che i giovani vogliono ascoltare, non sono loro, ma i manager dell'industria musicale. In breve, se ci atteniamo esclusivamente ai paesi del capitalismo tecnologico di massa, non esiste più una cultura o una sottocultura specificamente giovanile staccata dalla cultura dominante, come negli anni Sessanta, né un vero e proprio divario generazionale rappresentato dalla musica pop, che si chiama techno, hip hop, house, dance, K-pop, trap o reggaeton. Oggi la giovinezza è un fenomeno universale, oggetto di un mercato enorme: la cosiddetta cultura giovanile è quella dominante. La caratterizzazione delle generazioni è sempre più imprecisa. Con la moltiplicazione della loro capacità di consumo, la durata della giovinezza si è allungata e il confine con l'età adulta si è spostato ben oltre i ventiquattro anni stabiliti dalle Nazioni Unite. Dopotutto, il sistema dominante è stato riconfigurato ideologicamente, incorporando le abitudini, i valori e gli atteggiamenti dei giovani degli anni Sessanta nel suo capitale culturale. Grazie a Internet e ai social media, l'adolescenza è stata resa eterna nel mercato e l'età adulta gravemente svalutata. Se l'esperienza non era più di moda, l'età non era più un argomento di vendita. Nello stesso processo di alienazione, le differenze basate sull'età sono state cancellate. Il divario generazionale si è colmato, non grazie alla comunicazione e alla definizione di obiettivi comuni, ma perché gli adulti vogliono rimanere giovani a tutti i costi e ai giovani non importa di loro e del passato.

Il testo "Rock for Beginners" analizza il rock nei suoi esordi e nel suo apogeo, collegandolo alle circostanze storiche – sociali e culturali – che ne hanno determinato lo sviluppo, l'espansione e l'universalizzazione. Il rock appartiene al suo tempo, un tempo in cui il piacere era sovversivo e il sesso tabù, e perde il suo vero significato al di fuori di esso. Gli anni del dopoguerra furono anni di prosperità che permisero l'emergere nelle città di uno spazio giovanile autonomo, in una certa misura lontano dalle pressioni economiche. Paradossalmente, e nel caso specifico degli Stati Uniti, dove tutto è cominciato, fu un periodo in cui insoddisfazione, noia e decadenza politica penetrarono profondamente i giovani di ogni classe sociale, una situazione che li portò a cercare rifugio nel mondo delle emozioni, dell'erotismo, della cannabis e della musica nera. Il risultato di tutto ciò fu il rock. Un'espressione musicale che, radicandosi ed espandendosi accanto al soul e al folk, e opponendosi alla guerra e alla discriminazione razziale, facilitò il cammino verso la coscienza e l'utopia. "I tempi stanno cambiando", canterà Dylan. Il divario generazionale portato alla luce era solo l'inizio di un nuovo tipo di conflitto di classe, in cui il poetico, il ludico e il gratuito assumevano maggiore importanza. Divertirsi era trasgressivo, così come portare i capelli lunghi, fare l'amore o fumare marijuana: modi irriverenti di esercitare la libertà e di affrontare l'ipocrita puritanesimo del sistema. Secondo questo punto di vista non abituale e innovativo, la rivoluzione nel "primo mondo" sarebbe una festa, un gioco comunitario pacifista, una danza cerimoniale senza fine. Jerry Garcia, chitarrista dei Grateful Dead, rilevava che, più che di una protesta, si trattava di una celebrazione.

Un flusso costante d’invenzioni e miglioramenti tecnici – il giradischi, gli amplificatori, il microfono, il basso elettrico Fender, il transistor, il disco da sette pollici, la Hit Parade e così via – contribuì a far entrare la musica pop nella vita quotidiana e accendendo l'interesse per la musica nera, dove il ritmo era l'elemento dominante. L'accentuazione ritmica l’ha reso più ballabile, e proprio di questo si trattava. Le prime tracce di quello che molto più tardi sarebbe diventato il rock si trovano nel fraseggio pianistico sovrapposto a un ritmo quattro per quattro scandito dal sassofono nel brano di Roy Milton del 1945 "R.M. Blues". Questo tipo di musica ha finito per essere chiamato "Rhythm & Blues" in quanto rifiuto della sua definizione come "musica razziale" (race music) ed è stato la base su cui si è sviluppato il rock & roll per tutti i primi anni '50. L'R'n'B non era una musica omogenea e si può dire che ogni grande città avesse il suo stile. É così che il rock'n'roll è apparso simultaneamente in diversi luoghi – New Orleans, Chicago, Memphis, Los Angeles – con caratteristiche distinte mutuate dal Rhythm 'n' blues, più o meno mescolato al boogie, all'hillbilly, al country, allo swing o al blues elettrico, dando la precedenza al pianoforte e al sassofono tenore, così come alle chitarre e alla batteria o alle armonie vocali e alla coreografia. Il successo di questa "musica brutale, laida, degenerata e viziosa che non ho mai amato ascoltare", secondo Frank Sinatra, ha rivoluzionato lo "Show Business", cancellato i confini tra la musica "bianca" e quella degli afroamericani, ma allo stesso tempo ha portato all'espansione dell'industria musicale, con conseguenze negative sulla ribellione giovanile. La distrazione, divertirsi con i fiori tra i capelli, una sessualità disinibita, non erano un segno di disobbedienza se tutto questo rientrava nell’ingranaggio industriale, come nel caso del twist e degli altri balli alla moda. L’affluenza evasiva dei concerti e dei festival potrebbe essere il più gran segno di accordo con il dominio.

Circostanze particolari hanno fatto sì che il rock si è rifatto a nuovo in Inghilterra e da lì, grazie soprattutto ai Beatles e ai Rolling Stones, ha "invaso" gli Stati Uniti, proiettandosi poi in tutto il mondo attraverso i dischi e la televisione. Milioni di giovani hanno sentito che "la loro anima era stata psichedelizzata", come dicevano i Chambers Brothers in "Time Has Come Today". Un fenomeno di massa di tale portata fu immediatamente sfruttato dal capitale come produttore di profitti e dalla politica come nuova cultura permissiva dell'ordine. Fuori controllo, potrebbe diventare una minaccia per l'ordine e, opportunamente canalizzato, un importante fattore di rinnovamento. Dopo l'impeachment di Nixon e la sospensione del percorso repressivo americano, evento che ha lasciato dietro di sé una serie di morti e di belle canzoni, i ministeri della Cultura e l'industria dello spettacolo hanno optato per la modernizzazione (la sospensione della minaccia di espulsione di John Lennon potrebbe fungere da data). I canali e le televisioni offrirono al rock ampi spazi. Apparecchiature hi-fi sofisticate furono messe al servizio dei nuovi melomani. In un modo o nell'altro, il rock si è installato sul divano. Per tutti gli anni Settanta, il rock è diventato sempre più teatrale, più sinfonico, più narcisistico e sempre meno sovversivo. Più Queen, più Bowie, più Pink Floyd e più New Wave. Ci furono reazioni: il punk, il rap delle origini, l'heavy metal e il reggae erano alternative importanti, ma non hanno mai fatto debordare i loro ghetti senza essere recuperati, ma tutto ciò è un'altra storia.

La perdita di autenticità del rock avvenne prima, quando è entrato negli studi di registrazione. Era musica da ascoltare alla radio, nei jukebox, in auto o alle feste, ma soprattutto da ascoltare dal vivo in spazi ristretti. Le sessioni di registrazione in genere non duravano a lungo. Gli Animals hanno registrato "House of the Rising Sun" in una sola ripresa. I Led Zeppelin realizzarono il loro primo album in un giorno. Tuttavia, il muro di suono di Phil Spector e il registratore a quattro tracce degli Abbey Road Studios hanno cambiato la prospettiva. In seguito, l'ingegneria del suono ha introdotto numerose modifiche ed effetti speciali impossibili da riprodurre dal vivo. Con eccezioni come Jimi Hendrix, gli artisti suonavano meno bene dal vivo. Infatti, molte canzoni non furono mai eseguite in pubblico così com’erano su disco.

L'industria discografica e la televisione ignoravano le esibizioni nei club e nelle sale, favorendo così la trasformazione della musica in merce e degli artisti in idoli. Le esibizioni in playback in televisione hanno anticipato la spettacolarizzazione dei video musicali promozionali, che, con l'aiuto di YouTube, sarebbero diventati lo strumento più efficace per instillare nei giovani gli obiettivi, i desideri e i valori della dominazione. I concerti in massa nei campi da calcio o in grandi spazi recintati, con i loro impianti audio super-potenti e i loro grandi schermi, più propizi alla celebrità e alla passività, accentuarono il declino. Il rock poteva facilmente attrarre decine di migliaia di persone nello stesso posto, ma non per scatenare una rivolta, bensì per addormentarle. Non sorprende che l'autenticità sia stata concomitante all'autodistruzione: Lou Reed, Syd Barret, Sly Stone, Brian Wilson... Infine, la gioventù è stata confinata in macro-discoteche e stadi dove DJ alla moda suonavano musica senza musicisti, con mix, drum machines e semplici vinili. Con la tecnologia digitale alle porte, il rock, anche nelle sue forme più conservatrici “orientate” verso gli adulti – per esempio come Status Quo, Dire Straits o Foreigner – era destinato al fallimento. Si è aperta un'altra era, in cui la musica è passata dai LP analogici alla codifica binaria dei CD, e tutto è diventato più matematico, più regolare, più prevedibile e più noioso. Oggi, tutti i suoni strumentali sono elaborati da "architetti" meccanici e ricostituiti in un copia-incolla in grado di simulare una band dal vivo. La performance – a parte gli orpelli visivi di luci e ballerini – è puro karaoke.

La sconfitta delle rivolte anticapitaliste in tutto il mondo si è riflessa culturalmente nella postmodernità, una fase caratterizzata dalla decadenza delle ideologie progressiste, dalla perdita di valore del passato, dalla diffidenza verso il futuro, dal consumo di massa, dalla riduzione della vita a immagine e dall'individualismo estremo. In questo periodo, la categoria “gioventù” non spiegava nulla. La festa, il divertimento, l’animazione e lo spettacolo sono diventati percorsi universali, per tutti i pubblici, perfettamente integrati nella società e incoraggiati dalle istituzioni. Perdendo la loro specificità, i giovani hanno cessato di fungere da riferimento identitario distinto. Non rappresentano più un pericolo. Non solo per la loro presunta perennità, per la diffusione capillare di cliché giovanili, ma anche per l'inclusione dei giovani nel mercato del lavoro, per la loro sottomissione forzata alle leggi economiche nelle condizioni più precarie possibili. Cioè, per la loro proletarizzazione. La durezza delle crisi economiche ha distrutto le loro possibilità di autonomia e, di conseguenza, la loro imprevedibilità. I giovani non erano altro che un elemento neutro in un mercato in cui tutto, e ovviamente la musica, segue le regole stabilite dalla logica spettacolare del denaro. Un mercato importante che li ha catturati e ha offerto loro prodotti etichettati come propri. La musica, ad esempio, qualsiasi genere musicale, perché ognuno ha i suoi gusti particolari e tutte le canzoni sono disponibili online. In un certo senso, tutti gli stili – più esplicitamente nel gangsta rap, l'hip-hop mainstream o il reggaeton – si caratterizzano per l'esaltazione sessista del consumismo. La musica non cambierà certo il mondo.

Gli anni Ottanta del secolo scorso hanno segnato l'inizio della globalizzazione, una fase in cui commercio e finanza si sarebbero fusi con la cultura, il piacere gregario, la nostalgia e la musica pop. Il lavoro dei gruppi di produttori prevaleva sulle personalità isolate dei musicisti; l'arrangiamento normativo ha trionfato sull'improvvisazione, il collage sull'originalità, l’affare sicuro sulla creatività... Nessun dettaglio sarebbe stato trascurato da quella che à chiamata "la produzione". Sintetizzatori, sequencers e video saranno strumenti di una maggiore legittimazione dello spettacolo. Alla fine, i gusti, le mode e gli stili dei giovani saranno in gran parte gestiti attraverso vari canali e piattaforme di streaming. Tuttavia, il pubblico giovane diventerà inevitabilmente una riserva di manodopera sotto pressione, le cui prospettive d’impiego e di vita saranno più che problematiche e, musicalmente parlando, difficili da formulare. L'enorme contrasto tra lo stile di vita frivolo, feticista e accelerato del messaggio commerciale e la reale povertà di coloro che non riescono a salire sul treno edonistico offre un buon richiamo alla realtà e, si spera, a un gusto musicale migliore. La disillusione aprirà nuove crepe e genererà nuovi conflitti che, in generale, tenteranno, come sta accadendo ora, di fare andare il dominio altrove con la sua musica. Così sia.

Miguel Amorós, Presentazione del libro "Breve storia sociale del rock" il 6 settembre 2025 al Petit Festival de Puylaurens, in Occitania.





LE ROCK DANS SON CONTEXTE

 

Aujourd'hui, plus de quarante ans après la création du Rock and Roll Hall of Fame à Cleveland et de MTV, il est banal de dire que le rock est mort. Leurs vestiges sont tout au plus l'objet d'archéologues musicaux, de pièces de musée ou de matériaux de fusion avec d'autres styles mieux adaptés à la consommation des jeunes. Il ne représente pas du tout la musique des générations d'aujourd'hui ; ce n'est pas un élément significatif de leur vie quotidienne, ni une arme de leur rébellion. En fait, la pop contemporaine n'est pas faite par les jeunes, elle est faite pour les jeunes. Ceux qui choisissent la musique qu'ils veulent écouter ne sont pas eux, mais les managers de l'industrie musicale. Bref, si l'on s'en tient exclusivement aux pays du capitalisme technologique de masse, il n'y a plus de culture ou de sous-culture spécifiquement jeune détachée de la culture dominante, comme dans les années soixante, ni de véritable fossé générationnel représenté par la musique pop, qu'on l'appelle techno, hip hop, house, dance, K-pop, trap ou reggaeton. À l'heure actuelle, la jeunesse est un fait universel, objet d'un immense marché: la culture dite de la jeunesse est celle qui domine. La caractérisation des générations est de plus en plus imprécis. Au fur et à mesure que leur capacité de consommation s'est multipliée, la durée de la période de jeunesse s'est allongée et la frontière avec l'âge adulte s'est éloignée bien au-delà des 24 ans fixés par l'ONU. Après tout le système dominant a été reconfiguré idéologiquement, intégrant les habitudes, les valeurs et les attitudes de la jeunesse des années soixante dans son capital culturel. Grâce à Internet et aux réseaux sociaux, l'adolescence s'est éternisée dans le marché et la vie adulte a été sérieusement dévaluée. Si l'expérience n'était plus à la mode, l'âge cessait d’être un argument de vente. Dans le même processus d'aliénation, les différences âgistes ont été effacées. Le fossé entre les générations s’est comblé, mais non pas à cause de la communication et de l'établissement d'objectifs communs, mais parce que les adultes veulent rester jeunes à tout prix et les jeunes s’en foutent d’eux et du passé.

Le texte « Rock pour les débutants »  parle du rock dans ses débuts et son apogée, en le mettant en rapport avec les circonstances historiques - sociales et culturelles - qui ont déterminé son développement, son expansion et son universalisation. Le rock appartient à son époque, celle où le plaisir était subversif et le sexe tabou, et perd son vrai sens en dehors d’elle. Les années d'après-guerre ont été des années de prospérité qui ont permis la parution dans les villes d’un espace de jeunesse autonome, dans une certaine mesure à l’écart de la pression économique. Paradoxalement, et dans le cas spécifique des États-Unis, où tout a commencé, c'était une époque où l'insatisfaction, l'ennui et la décadence politique pénétraient profondément les jeunes de toutes les classes, une situation qui les a amenés à chercher refuge dans le monde des émotions, de l'érotisme, du cannabis et de la musique noire. Le résultat de tout cela a été le rock. Une expression musicale qui, en s'enracinant et en se déployant en compagnie de la musique soul et du folk, et en s’opposant à la guerre et à la ségégation raciale, a facilité le chemin de la conscience et de l'utopie. « Les temps changent », chantera Dylan. La séparation entre les générations mise au grand jour n'était que le début d'un conflit de classe d'un type nouveau, où le poétique, le ludique et le gratuit acquéraient une plus grande importance. S'amuser était transgressif, tout comme porter les cheveux longs, faire l'amour ou fumer de la marijuana, des façons irrévérencieuses d'exercer la liberté et de se confronter au puritanisme hypocrite du système. Selon ce point de vue inhabituel et novateur, la révolution dans le « premier monde » serait une fête, un jeu communautaire pacifiste, une danse cérémonielle sans fin. Jerry Garcia, le guitariste des Grateful Dead, soulignait que, plus qu'une protestation, c'était une célébration.

Une série constante d'inventions et d'améliorations techniques – le tourne-disque, les amplificateurs, le microphone, la basse électrique Fender, le transistor, le disque de sept pouces, le Hit Parade, etc. – ont favorisé la pénétration de la musique pop dans la vie quotidienne et ont suscité l'intérêt pour la musique noire, où le rythme était la partie dominante. L'accentuation rythmique l'a rendu plus dansant et c'est bien de cela qu'il s'agissait. Les premières traces de ce qui deviendra bien plus tard le rock se retrouvent dans le phrasé pianistique superposé à un rythme quatre par quatre marqué par le saxophone de la pièce « R.M. Blues », composée en 1945 par Roy Milton. Ce type de musique a fini par être appelé « Rhythm & Blues » en tant que rejet de sa dénomination de « musique raciale » (race music) et a été la base sur laquelle le rock & roll a été construit tout au long du début des années cinquante du XXe siècle. Le R'n'b n'était pas une musique homogène et on peut dire que chaque grande ville avait son propre style. C'est ainsi que le rock'n'roll apparaît simultanément dans plusieurs lieux – Nouvelle-Orléans, Chicago, Memphis, Los Angeles – avec des caractéristiques distinctes empruntées au rhythm'n'blues plus ou moins mêlé de boogie, de hillbilly, de country, de swing ou de blues électrique, donnant la prépondérance au piano et au saxophone ténor, ainsi qu'aux guitares et à la batterie ou aux harmonies vocales et à la chorégraphie. Le succès de cette « musique brutale, laide, dégénérée et vicieuse que je n'ai pas aimé écouter », selon Frank Sinatra, a révolutionné le « Show Business », effacé les frontières entre la musique « blanche » et celle des Afro-Américains, mais en même temps conduit à l'expansion de l'industrie de la musique, ce qui a eu des conséquences négatives pour la rébellion de la jeunesse. La distraction, passer des bons moments, les fleurs dans les cheveux, la sexualité décomplexée, n'étaient pas un signe de désobéissance si tout ça entrait dans l'engrenage industriel, comme c’était le cas du twist et des autres danses à la mode. L'affluence évasive des concerts et des festivals pourrait être le plus grand signe d'accord avec la domination.

Des circonstances particulières ont fait que le rock s'est refait à nouveau à l’Angleterre et de là, grâce surtout aux Beatles et aux Rolling Stones, il a « envahi » les États-Unis pour plus tard se projeter dans le monde entier à travers des disques et de la télévision. Des milions de jeunes ont ressenti que “leur âme avait été psychédélisée” comme ont dit les Chambers Brothers dans “Time has come today.” Un phénomène de masse d'une telle ampleur a été immédiatement exploité, en tant que producteur de profits, par le capital, et en tant que nouvelle culture permissive de l'ordre, par la politique. Hors de contrôle, il pourrait devenir une menace pour l’ordre et, bien canalisée, un facteur de renouvellement important. Une fois que Nixon a été destitué et que la voie répressive américaine a été suspendue, événement qui a laissé derrière lui une série de morts et de bonnes chansons, les ministères de la Culture et l’industrie du spectacle optent pour la modernisation (la suspension de la menace d’expulsion de John Lennon en pourrait servir de date.) Les chaînes et les televiseurs acordèrent au rock de grands espaces. Un equipement hi-fi sophistiqué a été mis au service des nouveaux mélomanes. D’une manière ou d’une autre le rock s’est installé sur le canapé. Tout au long des annés soixante-dix le rock devient de plus en plus théâtral, plus symphonique, plus narcissique et de moins en moins subversif. Plus Queen, plus Bowie, plus Pink Floyd et plus New Wave. Il y a eu de réactions: le punk, le rap des débuts, le heavy metal et le reggae étaient des alternatives importantes mais elles n’ont fait jamais déborder leurs ghettos sans être récupérés, mais tout cela est une autre histoire.

La perte d'authenticité du rock s'est produite plus tôt, lorsqu'il est entré dans les studios d'enregistrement. C'était de la musique à écouter à la radio, aux juke-box, à l’interieur de la voiture ou dans les parties, mais surtout, à entendre en direct dans des espaces pas trop grands. Les séssions d’enregistrement ne duraient généralement pas longtemps. Les Animals ont enregistré “House of the Rising Sun” en une seule prise. Led Zeppelin a fait son premier album en une journée. Cependant, le wall of sound de Phil Spector et l’enregistreur de quatre pistes d’Abbey Road Studios ont changé la perspective. Après cela, l'ingénierie sonore a introduit de multiples modifications et effets spéciaux impossibles à jouer en direct. À des exceptions comme Jimi Hendrix, les artistes sonnaient moins bien en live. En fait, beaucoup de chansons n’ont jamais été interpretées en public tel comme elles étaient en disque. Le commerce de la vente de disques et la télévision ignoraient les représentations dans les clubs et les salles, favorisant du mëme coup la conversion de la musique en marchandise et des artistes en idoles. Les performances en playback à la télévision ont anticipé le traitement spectaculaire des clips vidéo promotionnels, qui, avec l'aide de YouTube, deviendraient l'outil le plus efficace lorsqu'il s'agit d'inculquer aux jeunes les objectifs, les désirs et les valeurs de domination. Les concerts multitudinaires dans des terrains de foot ou dans des grands espaces clôturés, avec leur équipement sonore hiperpuissant et leurs grands écrans, plus propices a la védéttisme et à la passivité, accentuent le déclin. Le rock pouvait attirer facilement au même endroit à douzaines de milliers de personnes mais pas pour les emeuter, mais pour les endormir. Il n’est pas surprenant que l’authenticité ait côtoyé l’autodestrution: Lou Reed, Syd Barret, Sly Stone, Brian Wilson... Enfin, la jeunesse a été confinée dans les macrodiscothèques et stades oú les DJ’s à la mode diffusaient de la musique sans musiciens à partir de mixes, de boîtes à rythmes et de simples vinyles. Avec la technologie numérique qui frappe aux portes, le rock, même sous les formes les plus conservatrices « orientées » vers les adultes -comme par exemple Status Quo, Dire Straits ou Foreigner- était condamné. Une autre ère a été inaugurée où la musique est passée des microsillons analogiques au codage en langage binaire des CD et tout est devenu plus mathématique, plus régulier, plus prévisible et plus ennuyeux. Aujourd'hui, tous les sons instrumentaux sont traités par des « architectes » á la machine et reconstitués en un copier-coller capable de simuler un groupe jouant en direct. La performance – mis à part l'attirail visuel de lumières et de danseurs – est du pur karaoké.

La défaite des révoltes anticapitalistes dans le monde s'est reflétée culturellement dans la postmodernité, une étape caractérisée par la décadence des idéologies progressistes, la perte de valeur du passé, la méfiance envers l'avenir, la consommation de masse, la réduction de la vie à l'image et l'individualisme extrême. Dans celle-ci, la catégorie « jeunesse » n'expliquait rien. La fête, le divertissement, l’animation, le spectacle, sont devenues des voies universelles, pour tous les publics, parfaitement intégrées dans la société et encouragées par les institutions. En perdant sa spécificité, la jeunesse a cessé de servir de référence identitaire distincte. Elle n’est plus un danger. Mais pas seulement à cause de leur pérennité supposée, à cause de la généralisation des clichés juvénilistes, mais aussi à cause de l'inclusion des jeunes sur le marché du travail, à cause de leur soumission forcée aux lois économiques dans les conditions les plus précaires que l'on pouvait attendre. C'est-à-dire à cause de leur prolétarisation. La dureté des crises économiques a réduit à néant leurs possibilités d'autonomie et par conséquent leur imprevisibilité. La jeunesse n'était plus qu'un élément neutre d'un marché, où tout, et bien sûr la musique, suit les règles fixées par la logique spectaculaire de l'argent. Un marché important qui l'a attrapée et lui a offert des produits étiquetés comme les siens. La musique, par exemple, n'importe quel type de musique, puisque chacun a son goût particulier et toutes les chansons sont disponibles online. En quelque sorte tous les styles -plus explicitement dans le gansta rap, le hip-hop mainstream ou le reggaeton- se caractérisent par l'exaltation sexiste du consommerisme. La musique ne changera certainement pas le monde.

Les années quatre-vingt du siècle dernier ont marqué le début de la mondialisation, une étape où le commerce et la finance allaient s'amalgamer avec la culture, le plaisir grégaire, la nostalgie et la musique pop. Le travail des bandes de producteurs l’emportait sur la personnalité isolée des musiciens; L’agencement normatif a trionphé de l’improvisation, le collage de l’originalité, l’affaire sûr de la créativité... Aucun détail ne sera laissé dehors de ce qu’on appelle “la production”. Les synthétiseurs, les séquencieurs et les vidéos seront des instruments d'une plus grande légitimation du spectacle. À la fin, les goûts, les modes et les styles des jeunes seront très largement régis à travers diverses chaînes et plate-formes de streaming. Néanmoins, le jeune public ne pourra pas éviter d'être une réserve de main-d'œuvre pressurée, dont les perspectives d'emploi et de vie seront plus que problématiques, et, musicalement parlant, peu formulables. L'énorme contraste entre le mode de vie frivole, fétichiste et accéléré du message marchand et la pauvreté réelle de ceux qui ne peuvent pas prendre le train hédoniste fournit un bon rappel à la réalité et on espère qu’un meilleur goût musical. Le desabusement ouvrira de nouvelles fissures et générera de nouveaux conflits qui, en général, vont essayer, comme c'est le cas maintenant, de faire aller la domination ailleurs avec sa musique. Qu'il en soit ainsi.

Miguel Amorós, Présentation du livre « Brève, histoire sociale du rock » le 6 septembre 2025 au Petit Festival de Puylaurens, en Occitanie.

 

venerdì 29 agosto 2025

Operazione Piombo impunito - Eduardo Galeano

 














Questo articolo dello scrittore Eduardo Galeano è stato pubblicato sul manifesto del 15 gennaio 2009, durante l’operazione militare israeliana Piombo Fuso che durò dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, con l’obiettivo di colpire Hamas nella Striscia di Gaza, e fece 1.400 morti. Di ciò che è scritto quasi niente sembra superato.

Per giustificarsi, il terrorismo di stato fabbrica terroristi: semina odio e raccoglie pretesti. Tutto indica che questa macelleria di Gaza, che secondo gli autori vuole sconfiggere i terroristi, riuscirà a moltiplicarli.

Dal 1948 i palestinesi vivono una condanna all’umiliazione perpetua. Senza permesso non possono nemmeno respirare. Hanno perso la loro patria, la loro terra, l’acqua, la libertà, tutto. Non hanno nemmeno il diritto di eleggere i propri governanti. Quando votano chi non devono, vengono castigati. Gaza viene castigata. Si è trasformata in una trappola per topi senza uscita da quando Hamas vinse limpidamente le elezioni nell’anno 2006. Qualcosa di simile era accaduto nel 1932, quando il Partito Comunista aveva trionfato nelle elezioni in Salvador. Inzuppati nel sangue, i salvadoregni espiarono la loro cattiva condotta e da allora vivono sottomessi a dittature militari. La democrazia è un lusso che non tutti meritano.

SONO FIGLI dell’impotenza i razzi caserecci che i militanti di Hamas, rinchiusi a Gaza, sparano con mira pasticciona sopra le terre che erano state palestinesi e che l’occupazione israeliana ha usurpato. E la disperazione, al limite della pazzia suicida, è la madre delle spacconate che negano il diritto all’esistenza di Israele, urla senza alcuna efficacia, mentre una molto efficace guerra di sterminio sta negando, da anni, il diritto all’esistenza della Palestina.

Già non ne resta molta, di Palestina. Passo dopo passo Israele la sta cancellando dalla mappa. I coloni invadono e dietro di loro i soldati modificano la frontiera. I proiettili sacralizzano il furto, in legittima difesa. Non c’è guerra aggressiva che non dica d’essere guerra difensiva. Hitler invase la Polonia per evitare che la Polonia invadesse la Germania. Bush invase l’Iraq per evitare che l’Iraq invadesse il mondo. In ognuna delle sue guerre difensive Israele ha inghiottito un altro pezzo di Palestina e il pasto continua. Il divorare si giustifica con i titoli di proprietà che la Bibbia ha assegnato, per i duemila anni di persecuzioni che il popolo ebreo ha sofferto e per il panico causato dai palestinesi che hanno davanti.

ISRAELE È IL PAESE che non adempie mai alle raccomandazioni e nemmeno alle risoluzioni delle Nazioni unite, che non si adegua mai alle sentenze dei tribunali internazionali, che si fa beffe delle leggi internazionali ed è anche il solo paese che ha legalizzato la tortura dei prigionieri.

Chi gli ha regalato il diritto di negare tutti i diritti? Da dove viene l’impunità con cui Israele sta eseguendo la mattanza di Gaza? Il governo spagnolo non avrebbe potuto bombardare impunemente il Paese Basco per sconfiggere l’Eta, né il governo britannico avrebbe potuto radere al suolo l’Irlanda per liquidare l’Ira. Forse la tragedia dell’Olocausto comprende una polizza di impunità eterna? O quella luce verde proviene dalla potenza più potente, che ha in Israele il più incondizionato dei suoi vassalli?

L’ESERCITO ISRAELIANO, il più moderno e sofisticato del mondo, sa chi uccide. Non uccide per errore. Uccide per orrore. Le vittime civili si chiamano danni collaterali, secondo il dizionario di altre guerre imperiali. A Gaza, su ogni dieci danni collaterali tre sono bambini. E sono migliaia i mutilati, vittime della tecnologia dello squartamento umano che l’industria militare sta saggiando con successo in questa operazione di pulizia etnica.

E come sempre, è sempre lo stesso: a Gaza, cento a uno. Per ogni cento palestinesi morti, un israeliano. Gente pericolosa, avverte l’altro bombardamento, quello a carico dei mezzi di manipolazione di massa, che ci invitano a credere che una vita israeliana vale quanto cento vite palestinesi. Questi media ci invitano a credere che sono umanitarie anche le duecento bombe atomiche di Israele e che una potenza nucleare chiamata Iran è stata quella che ha annichilito Hiroshima e Nagasaki.

È la cosiddetta comunità internazionale, ma esiste? È qualcosa di più di un club di mercanti, banchieri e guerrieri? È qualcosa di più di un nome d’arte che gli Stati uniti si mettono quando fanno teatro?

Davanti alla tragedia di Gaza l’ipocrisia mondiale brilla una volta di più. Come sempre l’indifferenza, i discorsi inutili, le dichiarazioni vuote, le declamazioni altisonanti, i comportamenti ambigui rendono omaggio alla sacra impunità. Davanti alla tragedia di Gaza i paesi arabi si lavano le mani. Come sempre. E come sempre i paesi europei se le fregano.

LA VECCHIA EUROPA, tanto capace di bellezza e di perversione, sparge una lacrima o due mentre segretamente celebra questo colpo maestro. Perché la caccia agli ebrei è sempre stata un’abitudine europea, ma da mezzo secolo questo debito storico viene fatto pagare ai palestinesi, che pure sono semiti e non sono mai stati, e non sono, antisemiti. Essi stanno pagando, in sangue contante e sonante, un conto altrui.

(Questo articolo è dedicato ai miei amici ebrei assassinati dalle dittature latinoamericane sostenute da Israele)


fonte: https://ilmanifesto.it/operazione-piombo-impunito 

giovedì 21 agosto 2025

Quando il mercato domina, il territorio muore - Del territorio, della sua suburbanizzazione e della sua difesa - Miguel Amoròs

 





Da quando la Rivoluzione Industriale ha portato alla progressiva urbanizzazione della società, si può affermare che la storia sociale è la storia del processo di urbanizzazione. Nelle fasi finali di questo processo, la caratteristica più distintiva della società odierna è l'enorme aumento delle aree urbane e periurbane. Oggi, più della metà della popolazione mondiale vive in agglomerati urbani. Questa percentuale raggiunge il 74% in Europa e l'84% negli Stati Uniti. La crescita è continua, persistente e accelerata, quindi è ragionevole supporre che, tra qualche decennio, il 5 o 6% del territorio concentrerà quasi l'intera popolazione del pianeta, mentre il resto, svuotato, continuerà a orbitare attorno alle zone abitate, mantenendo con loro un rapporto di totale dipendenza. È quel che Henri Lefebvre definì negli anni '70 come "società urbana", ovvero una società completamente urbanizzata. La città industriale, eminentemente borghese, orientata al mercato interno, perde i suoi confini e si disperde sul territorio, trasformandosi in un sistema informe di agglomerati urbani collegati da autostrade e treni metropolitani, connessi tramite internet ai flussi transnazionali di capitale. Questo tipo d’insediamento, in cui lo spazio pubblico diventa un semplice spazio di circolazione e lo spazio decisionale si virtualizza, è oggi l'unità spaziale significativa che rivendica  l'intero territorio per estendersi. Non si tratta di una città in declino, ma di un fenomeno completamente nuovo. Negli Stati Uniti è stata chiamata "area metropolitana". Il boom residenziale che l’ha resa possibile è stato facilitato dalla motorizzazione privata. L'automobile utilitaria ha innescato un processo di suburbanizzazione delle periferie che si è verificato in modo esplosivo in Europa a partire dagli ultimi anni '50 e in America più di dieci anni prima. Negli anni '80, con l'avvio dell'informatizzazione e lo sviluppo delle attività aeroportuali, si può già parlare chiaramente di metropolitanizzazione. Si tratta di una realtà inedita, prodotta dalla transizione dalla città-fabbrica, con la sua morfologia diffusa ma definita, alla metropoli finanziaria, iperespansiva, ormai confusa nello spazio, o, che è lo stesso, dalla città dei produttori al non-luogo dei passanti e dei consumatori.

L'era delle città è finita, ha affermato con enfasi Françoise Choay. Il tipico oblio del suddetto metropolitano impone un eterno presente: le metropoli odierne emergono dalla tabula rasa del passato, non dalla storia. Con l'accumularsi delle conurbazioni metropolitane, si è completata la transizione da un'economia industriale urbana a base nazionale a un'economia di servizi metropolitana e internazionalizzata. La primitiva opposizione tra città e campagna è stata risolta a favore delle metropoli, che Saskia Sassen chiama impropriamente "città globali", poiché, pur essendo globali, non sono più città: la città è scomparsa e la campagna ha cessato di essere una realtà differenziata, sia a causa dell'industrializzazione delle mansioni, sia per la mentalità urbana e lo stile di vita standardizzato dei suoi residenti sparsi. Non esiste più veramente una campagna: la campagna è ormai un fatto urbano o succedaneo dell'urbano. Negli anni '60 è stato coniato il concetto di urban field. Finalmente, le regioni metropolitane, omogenee, trasparenti, indistinguibili le une dalle altre, non sono altro che la traduzione spaziale del postfordismo e della globalizzazione, o, per dirla in altro modo, corrispondono allo spazio più appropriato per la riproduzione del capitale nella sua fase globalizzata. Costituiscono la concretizzazione denazionalizzata della società capitalista globale. Grazie alle infrastrutture di trasporto – grazie soprattutto agli aeroporti e al calo del costo dei container – e successivamente, grazie alla digitalizzazione, lo spazio del capitale si modifica radicalmente e si adatta, disintegrando i livelli locali e nazionali, vestigia della precedente fase capitalista, fino ad acquisire le necessarie dimensioni globali e l'immagine distintiva, il logo o "marchio", ovvero la pseudo-identità. Contribuiscono altri processi complementari: motorizzazione privata, clusterizzazione, gentrificazione, musealizzazione, turisticizzazione, litoralizzazione, esclusione sociale, ecc. Oggi più che mai lo spazio urbano non appartiene a chi lo abita, ma a chi specula con esso – la stessa classe di sempre rappresentata dai costruttori immobiliari, dai proprietari dei terreni e dei fondi d’investimento – e lo plasma secondo i propri interessi.

Poiché la povertà e il mal vivere non sono stati sradicati; anzi, i salari sono stagnanti, la precarietà, il lavoro spazzatura e la disuguaglianza si sono diffusi, la conflittualità non è scomparsa, ma è stata deviata in diverse maniere. Il confronto forzato, quando si verifica, non arriva mai a generalizzarsi, sia nello spazio che nel tempo, né tanto meno ad approfondirsi. I metodi classici della lotta di classe e i concetti ideologici che la giustificavano, un tempo funzionali alla città manifatturiera, diventano inefficaci in un quadro spaziale espressamente progettato per favorire comportamenti conformisti e sottomessi: quello della metropoli-impresa. La difficoltà di comunicazione diretta dovuta alla distanza, l'entropia sociale e i complessi meccanismi di contenimento tecnologico-poliziesco favoriscono la rassegnazione, mentre la ripetizione egoistica dei vecchi schemi naufraga inevitabilmente nell'impotenza. La demagogia non serve più nemmeno ai demagoghi. Quando l'economia, grazie alle innovazioni tecniche, abbraccia la totalità dell'attività umana, i suoi valori tendono a diventare universali, condizionando tutti i comportamenti in direzione del mercato. Agli effetti della delocalizzazione industriale, della deregolamentazione e della razzializzazione del mercato del lavoro, del turismo e della comunicazione unilaterale, del sindacalismo e dell'associazionismo sovvenzionati, ecc., si somma un senso di sradicamento, solitudine e mancanza di amore, un ripiegamento sulla sfera privata e sui consumi quotidiani, un presentismo amnesico, un cieco seguire le mode, una sottomissione volontaria all'ordine costituito e, infine, una proliferazione di comportamenti nevrotici e psicopatologici, che rendono gli individui vulnerabili e, di conseguenza, timorosi e facilmente manipolabili. Come conseguenza di questo "nuovo tipo di cittadinanza", gli antagonismi sono più difficili da formulare e ancora più difficili da assimilare, ma ciò non impedisce la loro manifestazione laddove i controlli sistemici falliscono e la strada riappare come luogo d’incontro, si supera l'isolamento e i professionisti della rappresentanza fittizia falliscono.

La concentrazione metropolitana squilibra profondamente il territorio circostante, spopolandolo, assorbendone tutte le risorse e scaricandovi i rifiuti, inquinandolo e degradandolo. La porzione urbana consuma tre quarti dell'energia disponibile e il 20% dell'acqua, produce due miliardi e mezzo di tonnellate di rifiuti l’anno ed è responsabile di oltre il 70% delle emissioni di gas serra. L'impatto ambientale – l'"impronta" urbana – è formidabile e apre un nuovo terreno di lotta che chiamiamo difesa del territorio. Per comprendere meglio la nozione di difesa, sarebbe utile spiegare innanzitutto il concetto di territorio. In linea di principio, il territorio è più del semplice spazio concreto in cui s’insedia una popolazione, quindi non equivale, ad esempio, a paesaggio, appezzamento di terreno, ambiente naturale o dominio rurale: l'area urbanizzata è solo uno dei suoi elementi costitutivi. Non è uno spazio geografico, ma sociale, con le sue tradizioni, la sua cultura e la sua storia. E oggi, lo spazio mercantile. È una vera e propria costruzione socio-storica frutto dell'azione umana nel tempo, più o meno simbiotica con l'ambiente. E proprio quando la simbiosi tra le sue componenti si rompe, sorgono aspri conflitti e scontri. Ricordiamo le rivolte rurali, le guerre contadine e le rivoluzioni. Il superamento della contraddizione campagna-città causata dall'industrializzazione fu possibile convertendo il territorio in luogo dell'economia e, di conseguenza, adattando la prima alle esigenze della seconda, il che oggi significa suburbanizzazione. Così, la campagna fu svuotata e contemporaneamente parcellizzata, regolamentata e specializzata; ridisegnata con piani e articolata attraverso reti stradali che la resero più accessibile, sfruttabile e urbanizzabile. Nel suo nuovo aspetto, la campagna rifletteva il nuovo ordine socio-politico emanato dalle metropoli. In quest'ordine, i principali sconfitti continuarono a essere le classi salariate urbane, relegate nei sobborghi dormitorio, come quelli che il mondo anglosassone chiama commuters. Grazie all'alta tecnologia, le risorse territoriali hanno acquisito un'importanza crescente nella riproduzione del capitale, man mano che si è fatta chiara la consapevolezza che la produzione industriale, in particolare quella energetica, dipendeva da esse. Nella fase estrattivista del capitalismo, tali risorse hanno conferito ai territori non urbani lo status di "strategici", poiché da essi dipendeva la crescita economica. Ciò ha trasformato qualsiasi protesta in queste aree in un problema di Stato, da risolvere con metodi repressivi. Di conseguenza, la difesa del territorio, e la lotta anti-sviluppo in generale, hanno finito per occupare il centro della questione sociale. Il paradosso è che la maggior parte delle forze di difesa del territorio sono più urbane che rurali. Per certi versi, per certi aspetti, la difesa del territorio non urbano è una lotta urbana.

L'anti-sviluppo è evidentemente de urbanizzante e decentralizzatore. Pretende di riequilibrare e riabilitare il territorio per integrarne nuovamente le parti su basi di reciprocità. I primi autori a sollevare la questione del decentramento della città industriale e della sua fusione con la natura e la campagna, molto prima dell'esplosione urbana, furono gli anarchici Reclus e Kropotkin. Entrambi fecero appello a un "senso della natura" alla guida della costruzione di una nuova società senza classi. Il ritorno alla natura consisterebbe in una dispersione urbana a bassa intensità di tutte le attività monopolizzate dalla città, in modo da verificare una compenetrazione reciprocamente vantaggiosa. Creando una rete di piccole industrie, mulini, cascate, strade e fattorie agricole collettivizzate attorno alle città recuperate sotto il regime comunista libertario, il risultato sarebbe una regione urbano-rurale integrata, estranea all'economia capitalista, poiché sarebbe priva di un centro di governo e sarebbe governata da principi di uguaglianza, solidarietà e giustizia. Questa idea fu ripresa e sviluppata, in parte o integralmente, da vari autori critici nei confronti delle nuove realtà suburbane: Geddes, Mumford, Bookchin, Hall, Oyón, Harvey.... Dai tempi di Reclus e del principio delle trincee, le cose si sono complicate. Il problema principale di una simile trasformazione sociale è che le aree metropolitane sono progettate esclusivamente per la riproduzione di capitali, con i luoghi di produzione, lavoro, alloggi, forniture e svago lontani tra loro, le loro arterie stradali affollate, i loro turisti, la loro atmosfera inquinata, le loro piattaforme digitali, ecc., rendendole inutilizzabili per scopi di socializzazione. In queste condizioni, l'autogestione non sarebbe altro che l'autogestione popolare del capitale. Per realizzare un progetto territoriale emancipatore su larga scala, non capitalista, e quindi per creare un quadro spaziale appropriato, queste aree dovranno prima essere smantellate. La futura insostenibilità e l'attuale potenziale esplosivo delle metropoli contribuiranno a questo compito, ma tenderanno a provocare una dispersione caotica che dovrà essere superata. Chiaramente, la trasformazione rivoluzionaria della società dipenderà dalla formazione di un soggetto politico collettivo capace di organizzarsi e di confrontarsi con l'ordine attuale e con lo Stato. Non si tratta di trovare una formula e di farla attuare silenziosamente da una manciata di volontari laboriosi, in modo che l'esempio si diffonda, nel peggiore dei casi, sotto l'ombrello dell'attività politica convenzionale. Si tratta di mobilitare e auto-organizzare un settore significativo della popolazione, e di far convergere le proprie lotte fino a superare le barriere capitaliste. Le strategie per il cambiamento devono iniziare da lì.

Il movimento operaio del passato ci ha fornito esempi pratici di autorganizzazione per la lotta sociale: corporazioni, cooperative, sindacati unici, consigli operai, comitati di quartiere... Si trattava per lo più di forme associative urbane, episodiche nella durata, artificiali, basate sull'adesione volontaria e sulla permanenza di interessi di classe. Il villaggio, d'altra parte, ci offre una forma di convivenza auto-organizzata, senza tempo, organica, fondata su legami di vicinato e radici territoriali: la comunità di villaggio. Si tratta più di uno stile di vita comunitario legato alla terra che di un rapporto contrattuale basato su alleanze e accordi. Il villaggio comunitario è la più antica forma di organizzazione sociale. In Europa, emerse nel nono secolo, governato da un organo amministrativo e giudiziario attraverso il quale tutti gli abitanti del villaggio prendevano decisioni – l'assemblea comunale – e sostenuta dalla gestione collettiva dei beni comunali e dalla raccolta in campi aperti. Questo sistema ricevette nomi diversi a seconda della località: consiglio (concilium) o cabildo aperto nella penisola iberica, finage in Francia, Gemeindeversammlung in area tedesca, contado in Italia, ecc. Era uno strumento di democrazia diretta e di totale partecipazione: come si legge nel documento fondatore di un concilio leonese: "Noi tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, alti e bassi, tutti insieme, che siamo abitanti, villici e infanti...". L'autogoverno è esistito anche in grandi centri e città, dando origine a comuni e municipalità statutarie. La sovranità popolare era regolata dalla consuetudine (diritto consuetudinario) che implicava un complesso sistema di relazioni, con infinite varianti derivanti dalle vicissitudini locali. Il declino delle assemblee consiliari fu direttamente correlato allo sviluppo dello Stato, alle divisioni interne e all'uso diffuso del diritto civile basato sul diritto romano. La ricerca di una società senza Stato s’ispirerà al sistema comunale, sua eredità sconosciuta. L'efficacia economica dei beni comuni residuali è stata recentemente studiata dalla studiosa Elinor Ostrom, che ha attentamente ignorato gli sforzi obbligatori e le implicazioni politiche del loro ripristino, gestione e usufrutto. La riorganizzazione sociale del territorio in margine al capitalismo è soprattutto politica e, in quanto tale, sarà comunitaria e frutto di una lunga lotta, o non sarà.

La difesa del territorio è l'attuale paradigma della lotta anticapitalista, ereditata dalla passata lotta di classe. Avviene sia all'interno sia all'esterno della metropoli, mostrando tre aspetti interrelati tra loro, l’urbano, il rurale e l’ecologico, ognuno con le sue sfaccettature negatrici e creative, i suoi momenti violenti o pacifici e i suoi rispettivi livelli, locale e globale. Comprende quindi diverse questioni che attualmente emergono in relazione all'edilizia abitativa, ai trasporti, all'immigrazione, alle abitudini patriarcali, al prezzo dell'energia, alla problematica del parcheggio nei quartieri storici, alla perdita di terreni coltivabili, alla dipendenza alimentare, allo spopolamento rurale e alla distruzione del paesaggio. La sfida attraverso l'azione capace di abbandonare il capitalismo è la confluenza di tutte le lotte in una sola. Ciò sarà impossibile senza una rinascita della società civile al di fuori dello Stato e contro la tecnologia colonialista del capitale. La resistenza richiede radicamento nel territorio, spazi propri, connessioni e progetti. Mi riferisco a infrastrutture alternative, tessuto sociale autonomo, esempi pratici di autosufficienza, tentativi autogestiti... Pertanto, il lato guerriero e demolitore della difesa corre parallelo a quello costruttivo e organizzativo. La negazione richiede il suo opposto, e viceversa. La creatività deve essere accompagnata dall'attacco.

Miguel Amorós, 5 agosto 2025.

Materiali per la discussione



Cuando el mercado domina,

el territorio muere

Del territorio, su suburbialización y su defensa

Desde que la revolución industrial provocó la urbanización progresiva de la sociedad, se puede decir que la historia social es la historia del proceso urbanizador. En la recta final del proceso, la característica más distinguible de la sociedad actual es el enorme incremento de las áreas urbanas y periurbanas. Hoy en día, más de la mitad de la población mundial vive en aglomeraciones urbanas. En Europa alcanza el 74%, y el 84% en los Estados Unidos. El crecimiento es continuo, persistente y acelerado, por lo que cabe suponer que, en pocas décadas, el 5 o 6% del territorio concentre a casi toda la población del planeta, mientras que el resto, vaciado, quedará orbitando alrededor de las aglomeraciones y manteniendo con ellas una relación de total dependencia. Es lo que Henri Lefebvre definió en los pasados setenta como “sociedad urbana”, es decir, sociedad completamente urbanizada. La ciudad industrial, eminentemente burguesa, volcada al mercado interior, pierde sus límites y se dispersa por el territorio para transformarse en un sistema informe de conurbaciones enlazadas por autopistas y trenes metropolitanos, conectado por internet a los flujos transnacionales de capital. Tal clase de asentamiento, donde el espacio público se convierte en simple espacio circulatorio y el espacio de la decisión se virtualiza, es ahora la unidad espacial significativa que reclama todo el territorio para desparramarse. No se trata de una ciudad deteriorada, sino de un hecho completamente nuevo. En Estados Unidos lo llamaron “área metropolitana.” El "boom" residencial que lo hizo posible fue facilitado por la motorización privada. El automóvil utilitario desencadenó un proceso de suburbanización de las afueras que se dio de manera explosiva en Europa a partir de los años cincuenta del siglo pasado, y en América, más de diez años antes. En los años ochenta, con los inicios de la informatización y del desarrollo empresarial aeroportuario, ya podemos hablar claramente de metropolitanización. Es una realidad inédita producida por el paso de la ciudad fabril, de morfología difusa pero clara, a la metrópolis financiera hiperexpansiva, ya desdibujada en el espacio, o lo que es lo mismo, de la ciudad de los productores al no-lugar de transeúntes y los consumidores.

La era de las ciudades ha terminado, afirmó rotundamente Françoise Choay. La desmemoria típica del súbdito metropolitano impone un eterno presente: las actuales metrópolis surgen de la tabula rasa con el pasado, no de la historia. Con el amontonamiento de conurbaciones metropolitanas se ha completado la transición de una economía industrial urbana, de base nacional, a una economía de servicios metropolitana, internacionalizada. La primitiva oposición ciudad-campo se ha resuelto en favor de las metrópolis, a las que impropiamente Saskia Sassen llama “ciudades globales” puesto que si bien son globales, ya no son ciudades: la ciudad se ha desvanecido y el campo ha dejado de ser una realidad diferenciada, tanto por la industrialización de las tareas, como por la mentalidad urbana y el estilo de vida estándar de su escaso vecindario. Realmente no hay campo: el campo es ya un hecho urbano o subsidiario de lo urbano. En los sesenta se acuñó el concepto de urban field. En fin, las regiones metropolitanas, homogéneas, transparentes, indistinguibles unas de otras, no son más que la traducción espacial del posfordismo y la globalización, o dicho de otro modo, se corresponden con el espacio más adecuado para la reproducción del capital en su fase mundializada. Constituyen la concreción desnacionalizada de la sociedad capitalista global. Gracias a las infraestructuras del transporte -gracias sobre todo a los aeropuertos y al abaratamiento de los contenedores- y posteriormente, gracias a la digitalización, el espacio del capital se modifica radicalmente y adapta desintegrando los niveles locales y nacionales, vestigios de la fase capitalista anterior, hasta adquirir las dimensiones mundiales necesarias y la imagen diferencial, el logo o la "marca", es decir, la seudo-identidad. Otros procesos complementarios contribuyen: motorización privada, clusterización, gentrificación, museificación, turistización, litoralización, exclusión social, etc. Hoy más que nunca, el espacio urbano no es de quien lo habita, sino de quien especula con él, la clase de siempre representada por los promotores inmobiliarios, los propietarios de suelo y los fondos de inversión, y es esta quien lo modela en función de su interés.

Dado que la pobreza y el malvivir no se han erradicado; bien al contrario, los salarios se han estancado, la precariedad, el empleo basura y la desigualdad se han extendido, la conflictividad no ha desaparecido, pero ha sido abducida de diferentes maneras. La forzosa confrontación, cuando llega a producirse, jamás llega a generalizarse, tanto en el espacio como en el tiempo, y ni mucho menos profundizarse. Los métodos clásicos de la lucha de clases y los conceptos ideológicos que la justificaban, antaño funcionales en la ciudad manufacturera, se vuelven ineficaces en un marco espacial delineado expresamente para fomentar conductas conformistas y sumisas, el de la metrópolis-empresa. La difícil comunicación directa debido a las distancias, la entropía social y los complejos mecanismos de contención tecnológico-policiales favorecen la resignación, mientras la repetición interesada de los viejos esquemas naufraga inevitablemente en la impotencia. La demagogia no sirve ya ni a los demagogos. Cuando la economía, gracias a las innovaciones técnicas abraza la totalidad de la actividad humana, sus valores tienden a universalizarse condicionando a todos los comportamientos en la dirección del mercado. A los efectos de la deslocalización industrial, de la desregulación y racialización del mercado laboral, del turismo y la comunicación unilateral, del sindicalismo y asociacionismo subvencionados, etc., se suma un sentimiento de desarraigo, soledad y desamor, una la retirada en lo privado y el consumo cotidiano, un presentismo amnésico, un seguidismo ciego de las modas, una sumisión voluntaria al orden establecido, y, por último, una proliferación de conductas neuróticas y sicopatológicas, todo lo cual vuelve a los individuos vulnerables, y en consecuencia, asustadizos y fácilmente manipulables. De resultas de este “nuevo tipo de ciudadanía”, los antagonismos son más difíciles de formular y más aún de asimilar, pero no impide su manifestación allá donde fallan los controles sistémicos, reaparece la calle como lugar de encuentro, se supera el aislamiento y fracasan los profesionales de la representación espuria.

La concentración metropolitana desequilibra profundamente el territorio circundante, puesto que lo despuebla, a la par que absorbe todos sus recursos y deposita en él sus residuos, contaminándolo y degradándolo. La porción urbana consume las tres cuartas partes de la energía disponible y el 20% de agua, produce al año dos mil quinientos millones de toneladas de basura y es responsable de más del 70% de las emisiones de gases de efecto invernadero. El impacto ambiental -la “huella” urbana- es formidable y abre un nuevo escenario de lucha al que denominamos defensa del territorio. Para mejor entender la noción de defensa convendría explicar antes el concepto de territorio. En principio, territorio es algo más que el espacio concreto donde se asienta una población, por lo que no equivale por ejemplo a paisaje, solar, medio natural o dominio rural: la parte urbanizada es solo uno de los elementos constitutivos. No es espacio geográfico, sino espacio social, con tradición propia, cultura e historia. Y hoy en día, espacio mercantil. Realmente es una construcción socio-histórica resultado de la acción humana a lo largo del tiempo más o menos simbiótica con el medio. Y precisamente, cuando la simbiosis entre sus componentes se rompe, se originan fuertes disputas y enfrentamientos. Recordemos los levantamientos rurales, las guerras campesinas y las revoluciones. La superación de la contradicción campo-ciudad causada por la industrialización fue resuelta con la conversión del territorio en territorio de la economía, y en consecuencia, con la adaptación del primero a las exigencias de la segunda, que hoy significa suburbanización. Así pues, el campo se fue vaciando a la vez que parcelando, reglamentando y especializando; rediseñado con planes y articulado mediante redes viarias que lo volvían más accesible, explotable y urbanizable. En su nuevo aspecto, el campo reflejaba el nuevo orden socio-político emanado de las metrópolis. En tal orden los principales perdedores seguían siendo las clases urbanas asalariadas, relegadas a las periferias-dormitorio, en calidad de lo que el mundo anglosajón denomina commuters. Gracias a la alta tecnología, los recursos territoriales han ido adquiriendo una importancia cada vez mayor en la reproducción del capital a medida en que se ha tenido plenamente conciencia de que la producción industrial -sobre todo energética- dependía de aquellos. En la fase extractivista del capitalismo, tales recursos conferían a un territorio no urbano la categoría de “estratégico”, puesto que el crecimiento económico dependía de ellos, lo que convertía toda protesta en esos ámbitos en un problema de Estado, a resolver con métodos represivos. Por consiguiente, la defensa del territorio, y la lucha antidesarrollista en general, terminó ocupando el centro de la cuestión social. La paradoja es que los efectivos mayores de la defensa de la tierra son más urbanos que rurales. De alguna forma, bajo ciertos aspectos, la defensa del territorio no urbano es una lucha urbana.

El antidesarrollismo es evidentemente desurbanizador y descentralizador. Pretende reequilibrar y rehabilitar el territorio para volver de nuevo a integrar sus partes sobre bases de reciprocidad. Los primeros autores que plantearon el tema de la desconcentración de la ciudad industrial y la fusión con la naturaleza y el campo, muy anteriores a la explosión urbana, fueron los anarquistas Reclus y Kropotkin. Ambos apelaron a un “sentimiento de la naturaleza” que guiase la construcción de una nueva sociedad sin clases. La vuelta a la naturaleza consistiría en una dispersión urbana de baja intensidad de todas las actividades acaparadas por la urbe, de forma que se diera una interpenetración ventajosa para todas las partes. Al conformarse, alrededor de las ciudades recuperadas en régimen comunista libertario, una red de pequeñas industrias, molinos, saltos de agua, caminos y explotaciones agrícolas colectivizadas, el resultado sería una región integrada urbano-rural ajena a la economía capitalista, puesto que carecería de centro dirigente y estaría regida por principios de igualdad, solidaridad y justicia. La idea fue recogida y desarrollada, parcial o totalmente, por distintos autores críticos con las nuevas realidades suburbanas: Geddes, Mumford, Bookchin, Hall, Oyón, Harvey... Desde la época de Reclus y el príncipe de las trincheras, las cosas se han complicado. El problema principal para una transformación social de ese tipo consiste en que las áreas metropolitanas están concebidas exclusivamente para la reproducción de capitales, con los lugares de producción, trabajo, vivienda, abastecimiento y ocio alejados unos de otros, sus vías arteriales repletas, sus turistas, su atmósfera contaminada, sus plataformas digitales, etc., algo que las hace inaprovechables para menesteres socializadores. En esas condiciones, la autogestión no sería entonces más que la autogestión popular del capital. Para llevar a cabo un proyecto territorial emancipador de envergadura, no capitalista, y así pues, para crear un marco espacial apropiado, habrá primero que desmantelar dichas áreas. La inviabilidad futura y el presente potencial explosivo de las metrópolis ayudará en la tarea, pero tenderá a provocar una dispersión caótica que habrá que superar. Evidentemente, la transformación revolucionaria de la sociedad dependerá de la formación de un sujeto político colectivo capaz de organizarse y enfrentarse con el orden vigente y hacer frente al Estado. No es cuestión de encontrar una fórmula y que la practiquen tranquilamente un puñado de esforzados voluntarios con el fin de que el ejemplo cunda, a lo peor, bajo el paraguas de una actividad política convencional. Se trata de que un sector importante de la población se movilice y auto-organice, y de que sus luchas confluyan hasta abrirse camino entre las barreras capitalistas. Las estrategias de cambio deberán partir de ahí.

El pasado movimiento obrero nos proporcionó ejemplos prácticos de auto-organización para la lucha social: gremios, cooperativas, sindicatos únicos, consejos obreros, comités de barriada...  Eran formas asociativas mayoritariamente urbanas, de duración episódica, artificiales, basadas en la adhesión voluntaria y la permanencia del interés de clase. La aldea, en cambio, nos ofrece una forma auto-organizativa para la convivencia, intemporal, orgánica, fundada en los lazos vecinales y las raíces territoriales: la comunidad aldeana. Es más un estilo de vida en común ligado a la tierra, que una relación contractual basada en la alianza y el acuerdo. La aldea comunitaria es la forma más antigua de organización social. En Europa surgió en el siglo IX, gobernada por un órgano administrativo y judicial a través del cual todos los aldeanos tomaban decisiones -la asamblea comunal- y sustentada por la gestión colectiva de bienes comunales y la recolección en campos abiertos. Tal régimen recibió distintos nombres según el lugar: concejo -concilium- o cabildo abierto en la Península Ibérica, finage en Francia, Gemeindeversammlung en el área alemana, contado en Italia, etc. Era un instrumento de democracia directa y de participación total: tal como reza el documento constitutivo de un concejo leonés: “Nosotros todos, varones y mujeres, jóvenes y viejos, máximo y mínimos, todos conjuntamente, que somos habitantes, villanos e infanzones...” La auto-gobernanza también se dio en pueblos grandes y ciudades, dando lugar a comunas y municipios forales. La soberanía popular se regulaba por la costumbre -por el derecho consuetudinario- lo cual implicaba un complejo sistema de relaciones, con infinitas variantes derivadas de las vicisitudes locales. La decadencia de las asambleas concejiles estuvo emparentada directamente con el desarrollo del Estado, las divisiones internas y la generalización del derecho civil basado en el romano. La búsqueda de una sociedad sin Estado tendrá mucho que inspirarse en el régimen comunal, su patrimonio desconocido. La eficacia económica de los bienes comunes residuales fue estudiada recientemente por la académica Elinor Ostrom, que tuvo buen cuidado en ignorar los esfuerzos preceptivos y las implicaciones políticas de la reimplantación, gestión y usufructo de los mismos. La reorganización social del territorio al margen del capitalismo es sobre todo política y como tal, será comunitaria y fruto de una larga lucha o no será.

La defensa del territorio es el paradigma actual del combate anticapitalista heredero de la pasada lucha de clases. Ocurre tanto dentro de la metrópolis como fuera, mostrando tres aspectos relacionados entre sí, el urbano, el rural y el ecológico, cada uno con sus facetas negadora y creadora, sus momentos violentos o pacíficos, y sus respectivos niveles, local y global. Abarca pues cuestiones diversas que ahora mismo se presentan en torno a la vivienda, al transporte, la inmigración, los hábitos patriarcales, al precio de la energía, la parquetematización de los barrios históricos, la pérdida de superficie cultivable, la dependencia alimentaria, la despoblación de los campos o la destrucción del paisaje. El reto para la acción en pos de la salida del capitalismo es la confluencia de todas las luchas en una. Eso será imposible sin una resurgencia de la sociedad civil al margen del Estado y en contra la tecnología colonialista del capital. La resistencia necesita raíces en el territorio, espacios propios, conexiones, obras. Me refiero a infraestructuras alternativas, tejido social autónomo, ejemplos prácticos de autosuficiencia, tanteos autogestionarios... Así pues, el lado guerrero y desmantelador de la defensa corre paralelo al lado constructivo y organizador. La negación requiere su contrario, y viceversa. El hecho creativo ha de acompañarse con el ataque.

Miguel Amorós, 5 de agosto de 2025.

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