Questioni da affrontare il 27 novembre, al Centro Culturale Bruegel di Bruxelles e il 28 al Gruppo di ricerca per una strategia economica alternativa
Le
definizioni (come le correnti politiche) di comunismo e anarchismo sono
molteplici e sarebbe impossibile fare una sintesi di tutta questa diversità in
un pomeriggio. Ciononostante, potresti condividere con noi la tua nozione di
anarchismo e di comunismo?
Malatesta
diceva che comunismo e anarchia erano la stessa cosa. Niente a che vedere con
il sistema da caserma dei leninisti, mero travestimento del capitalismo burocratico
di Stato. Lo definirei un regime di convivenza sociale senza Stato e senza
classi, basato sul rifiuto della divisione del lavoro e sulla proprietà comune
dei mezzi di produzione, sulla loro gestione collettiva e sulla distribuzione
del prodotto sociale secondo i bisogni. Nato dal libero accordo, il comunismo
libertario dovrebbe fornire a tutti le condizioni idonee per il massimo
sviluppo materiale, morale e individuale. Si tratta quindi di un ideale etico
irraggiungibile con la forza, poiché richiede, come condizione essenziale, la
comprensione e la volontà della maggioranza liberamente espressa. Per molti, me
compreso, l'anarchismo sarebbe la via per raggiungere questo fine, naturalmente
per vie solidali e universalistiche, non con procedimenti parlamentari né postulati
religiosi. Nel mio caso, intendo l'anarchismo come la dottrina caratteristica
del socialismo antiautoritario che, per molto tempo, ha accompagnato buona
parte del proletariato rivoluzionario, finché non è entrato in crisi, forse
definitiva, a causa delle capitolazioni durante la Rivoluzione spagnola. Da
allora in poi, non si può più parlare di anarchismo, con le sue diverse
sfumature, ma piuttosto di anarchismi, ideologie diverse con lo stesso nome ma
estranee l'una all'altra.
I loro punti di convergenza, le loro divergenze e il loro rispettivo
potenziale anticapitalista?
Evidentemente
tra coloro che si definiscono anarchici, esistono profondi disaccordi
metodologici e grandi differenze strategiche, derivanti dalle diverse
interpretazioni della realtà e dalle pratiche divergenti attraverso le quali
perseguire gli obiettivi finali. I disaccordi si cristallizzarono in
ideologie, in formule, spesso accompagnate da comportamenti settari, come
quello insurrezionalista, quello municipalista, quello sindacalista, quello
primitivista, quello specificista, quello post-anarchico, ecc.
Oggi,
l'anarchismo è soprattutto uno stato d'animo diffuso presente in qualsiasi
conflitto come richiesta di orizzontalità e uguaglianza, rifiuto della
mediazione, domanda di autogestione e rivendicazione di azione diretta. Il
potenziale anticapitalista dell'anarchismo moderno si materializzerà nella
misura in cui il contesto sociale favorirà il radicamento nelle masse ribelli delle
sue idee imperiture, intese non come utopia, ma come “la verità immediata di un
tempo relativamente prossimo” (Ricardo Mella).
Che cos'è una metropoli?
In Europa,
tre quarti della popolazione vive in aree urbane estese. Nel mondo, ci sono più
di cinquecento agglomerati con oltre un milione di abitanti, che non possono
essere propriamente definiti città. L'era delle città compatte in simbiosi con
la campagna circostante è finita. Da tempo la campagna ha cessato di essere
un'entità distinta. Debord annunciò nel 1967 che “il momento presente è quello dell'autodistruzione dell'ambiente urbano”. La metropoli – o “post-città”, come la chiama Françoise Choay – è un
tipo d’insediamento informe frutto dell'espansione illimitata della città
industriale, che ha assorbito le popolazioni vicine e creato nuove periferie
fino a sub urbanizzare l'intero territorio circostante. Quest’unificazione
dello spazio è stata inizialmente resa possibile dallo sviluppo dei trasporti,
dai combustibili fossili a basso costo e da nuovi materiali da costruzione. Etimologicamente, metropoli in greco significa “città madre”; tuttavia, la
realtà è molto lontana dalla maternità: è una mostruosità divoratrice di spazio che
concentra il potere in una società completamente urbanizzata. Negli anni Novanta, la globalizzazione
finanziaria e la digitalizzazione l'hanno consolidata come dominio totalitario
della merce e motore dello sviluppo capitalistico. È un non-luogo di
conurbazioni giustapposte, risultato non del superamento dell’opposizione campagna-città, ma del crollo simultaneo di entrambi i poli.
Non rappresenta un progetto di coesistenza, nemmeno a livello della classe
dominante; al contrario, è una realtà completamente mercantile. Costituisce un
agglomerato discontinuo e diffuso, privo di valori e di cultura, senza vita
autentica, collegato solo da vie di circolazione. La comunicazione è stata marginalizzata dalla connettività. Non importa la
convivialità ma il suo prezzo. In realtà, la metropoli non è fatta per i
suoi abitanti, ma per i passanti, siano essi visitatori, sviluppatori o
investitori. La sua base economica non risiede più nell'industria, ma nei
servizi, nel turismo, nei grandi eventi e nell'innovazione. Pur conservando
centri storici, questi sono stati trasformati in musei, poiché la metropoli
manca di un vero centro: il centrale è diventato periferico e la periferia sta
diventando sempre più centrale. Anche le piazze e le strade pubbliche non
offrono traccia di coerenza organica; l'infrastruttura stradale è il suo unico
elemento unificante. Il paesaggio ricostruito dalle forze dello sviluppo
riproduce modi di vivere confinati – precari, motorizzati e mercificati fin nel
più piccolo dettaglio: le metropoli generano automaticamente relazioni sociali
capitaliste in ogni angolo. Si può dire che costituiscano lo spazio ideale per
la riproduzione del capitale nella fase iper-tecnologica dell'economia
globalizzata.
Approfondimenti sulla Metropoli.
Il
passaggio da un'economia basata sulla produzione a un'economia basata sui
servizi, seguito dalla transizione da un capitalismo nazionale a un altro
globale, ha consolidato il ruolo delle metropoli sugli Stati. Tra la classe
dirigente, l'ideologia keynesiana è stata superata dal pensiero neoliberale,
nemico giurato dell'intervento statale. La promessa di abbondanza è riemersa
nei mercati finanziari con il credito dilagante e il debito in espansione,
alimentando turbo consumismo, iniziative immobiliari e ogni sorta di bolle
speculative. Tuttavia, la consapevolezza della natura finita delle risorse
primarie, in particolare quelle energetiche (ad esempio, il picco del
petrolio), unita alla crisi ambientale causata dallo sviluppo ad oltranza (ad
esempio, il riscaldamento globale, l'enorme produzione di rifiuti,
l'inquinamento, lo spreco di risorse), ha imposto una considerazione della “sostenibilità” del processo, ovvero il pagamento del
prezzo del degrado ambientale. Così, il capitalismo ha fatto uso del linguaggio
ecologico e ha inaugurato una fase verde che lo Stato ha dovuto promuovere e
sostenere. Lo Stato ha così riacquistato il suo ruolo di un tempo in
un'economia da “decarbonizzare” in un periodo di “transizione energetica”. La metropoli si è evoluta di conseguenza, ricorrendo a un'urbanistica
light con piste ciclabili, zone pedonali, raccolta differenziata dei rifiuti,
punti di ricarica elettrica, “corridoi” verdi, tram e soluzioni digitali come le
smart city. Ha “reinventato” il territorio, obbedendo alla logica più attuale – più tecnologica – della
mercificazione.
Qual è il suo rapporto con il “capitale territoriale”?
Si
parla di “capitale territoriale” quando il territorio è stato completamente
trasformato in “attivo”, ossia in capitale. Alla Conferenza di Rio del 1992, i
leader mondiali lo definirono come la nuova configurazione del territorio
emersa dall'unione dell’economia con l’ambiente ossia del cosiddetto “sviluppo
sostenibile”. Il concetto è stato associato alla fase “verde” del capitalismo,
quando il territorio si situava al centro del triangolo
società-economia-ambiente. Una volta migliorata la sua accessibilità, il
territorio diventa uno spazio multi-sfruttabile: è una cava di terreni
edificabili, un supporto per grandi infrastrutture, una sede per l'industria
agroalimentare, una riserva paesaggistica, una destinazione turistica, un sito
per l’ozio industrializzato, una fonte di energia rinnovabile e materiali
strategici, ecc., il che gli conferisce un peso sempre crescente nell'economia
globale. In breve, il territorio è la materia prima del capitalismo nella sua
ultima fase estrattivista.
È possibile superare il capitalismo senza de-urbanizzare la campagna o
ruralizzare la città e, di conseguenza, senza distruggere le metropoli?
Ovviamente,
non è possibile. Liquidare la globalizzazione implica la fine della sua
organizzazione spaziale. Di fronte alle crisi successive, le metropoli, oltre a
essere invivibili, diventano in ultima analisi insostenibili. Sono altamente
vulnerabili ai disastri e così enormi da risultare impossibili da gestire collettivamente.
Il
principale ostacolo a una trasformazione sociale basata su un rapporto
armonioso con la natura saranno le stesse conurbazioni, adatte solo alla
riproduzione dei rapporti capitalistici, che dovranno necessariamente essere
smantellate. La de-globalizzazione avrà sempre un aspetto desurbanizzante e
ruralizzante. La semplice attuazione di un'economia domestica senza mercato –
che si chiami naturale, sostanziale o morale – implicherà collettività
coordinate di piccole dimensioni, con colture locali e produzione industriale
su piccola scala. Ancor più, l'autogestione non sarebbe efficace in quartieri
eccessivamente grandi, dove un'agorà comunitaria è impossibile. Tuttavia, la desurbanizzazione non
significa abolizione dello spazio urbano; al massimo, significa abolizione
della proprietà privata capitalista. Comporta un duplice movimento di
spopolamento e ripopolamento, di decentralizzazione e deconcentrazione, i cui
effetti sono la decongestione dello spazio sovra urbanizzato, la sua
rivitalizzazione e il recupero del suo funzionamento organico...
Paradossalmente, la desurbanizzazione è un ritorno alla città vera e propria.
Perché il territorio è obiettivamente il luogo centrale della lotta
anticapitalista (e non il luogo del lavoro)?
Centrale non
significa unico, né territorio significa esclusivamente campagna.
Tuttavia, quando la massima produzione di profitto, da cui dipende la crescita
economica, avviene attraverso lo sfruttamento intensivo di un territorio
precedentemente “ordinato”, allora la sua difesa è al cuore della lotta
anticapitalista (cioè, dell'attuale lotta di classe). Infatti, con la
diminuzione dei profitti del settore produttivo, acquisiscono maggiore
rilevanza quelli che David Harvey chiama “circuiti secondari di accumulazione”.
Gli antagonismi si dispiegano in tutta la loro portata solo in questi circuiti – che si tratti del problema abitativo e
del deterioramento dei servizi pubblici, della resistenza alla costruzione di
centrali nucleari, treni ad alta velocità o linee elettriche ad alta tensione,
o del sabotaggio di organismi geneticamente modificati o di grandi progetti
inutili. Di conseguenza, la questione sociale si manifesta principalmente come
questione territoriale. Al contrario, data la perdita di centralità dei lavoratori industriali e la
sparizione degli scioperi selvaggi, la lotta sindacale, pur necessaria, non
infrange le regole del gioco dell’ideologia dello sviluppo. L'obiettivo non è abbandonare il
capitalismo, ma negoziare il valore della forza lavoro con strumenti di
mercato. Ancor meno probabile è che venga infranto dall'operaismo politico,
così profondamente radicato nello Stato. Di conseguenza, il conflitto sindacale non
può essere l'asse attorno al quale ruotano le aspirazioni emancipatrici. Se si
vuole farla finita con il regime capitalista, la principale questione
strategica risiede nella capacità di bloccare la crescita dell’economia prendendo
di mira soluzioni alternative. In questo senso, la difesa del territorio, per
quanto limitata, è essenzialmente anti-sviluppo e
anticapitalista, poiché si scontra con il principale motore dell'economia
attuale, lo sfruttamento industriale del patrimonio, della conoscenza e delle
risorse territoriali e, in misura maggiore o minore, propone alternative
concrete.
Quale tipo di territorio (e di città) sarebbe economicamente abitabile e
sostenibile (in un quadro anticapitalista)?
Sin
dall'inizio, gli anarchici Élisée Reclus e Peter Kropotkin proposero la
decentralizzazione della città borghese e l'eliminazione dei suoi quartieri
miserabili. Entrambi facevano appello a un “sentimento di naturalezza” che
innescasse il ritorno a un ordine naturale ottimizzato, che consisterebbe in
una dispersione a bassa intensità di tutte le attività monopolizzate dalla
città in espansione. Formando una rete di piccole industrie, ospedali, scuole,
mulini, cascate, strade, ferrovie e collettività agricole attorno alle città,
il risultato sarebbe un'area urbano-rurale integrata, senza un'autorità
centrale, orientata al comunismo. Le loro idee furono riprese e sviluppate da
altri autori, in particolare Patrick Geddes e Lewis Mumford, che partivano
dalla “pianificazione regionale”. Per raggiungere un equilibrio territoriale,
stimolare una vita intensa e creativa, eliminare lo spreco di energia e cibo e
fermare l'espansione metropolitana, sostenevano un uso razionale del
territorio. Ciò si concretizzava in proposte come le cinture agricole, la
produzione energetica decentralizzata, la distribuzione equilibrata della
popolazione in unità abitative ben attrezzate, re localizzazione delle
industrie vicino alle materie prime e un trasporto pubblico efficiente. Riforme a controcorrente, di sensibilità
comune ma senza prospettive di realizzazione, poiché non erano sostenute da
forti movimenti di quartiere radicati in zone di territorio liberate, ma
dipendenti dall'altruismo dei dirigenti. Finalmente, il discredito dell'idea di
progresso ha portato a un rinnovato apprezzamento per il comune medievale, in
particolare per il suo funzionamento aperto codificato in atti di autogoverno,
la regolamentazione della vita sociale attraverso la consuetudine e la nozione
di bene comune. Ciò ha aperto nuove prospettive alter metropolitane nei
movimenti auto-organizzati capaci di sopravvivere alle tentazioni elettorali,
all'accorpamento senza principi e al fascino dei sussidi.
Domande del team organizzatore per ulteriori discussioni dopo la conferenza
Definizione e periodizzazione della nuova fase del capitalismo
(territoriale)?
La
scarsità e la finitezza delle risorse hanno portato all'accaparramento d’immobili,
terreni, acque e minerali, mentre la crisi climatica spingeva allo sviluppo
industriale delle energie presumibilmente “rinnovabili” e degli agro
carburanti. Diventando estrattivo, il capitalismo globale si aggrappa al territorio
come a un salvagente, sottraendo il maggior numero di “zone sacrificali” alla tutela ambientale. Il crollo
finanziario del 2008 ha posto fine al neoliberismo puro e ha riaffermato la
funzione stabilizzatrice dello Stato. Il crollo finanziario del 2008 ha posto
fine all'era neoliberale e ha riaffermato la funzione stabilizzatrice dello
Stato. D'altro canto, l'ascesa del capitalismo asiatico, unita alle insormontabili
difficoltà di crescita del capitalismo europeo e nordamericano, ha sbilanciato
la globalizzazione a suo favore, minacciando l'egemonia occidentale a tutti i
livelli. Sono emersi forti disaccordi ai vertici. Il principale pericolo per lo
status quo economico, militare e politico dell'Occidente – la superiore
competitività cinese – richiedeva soluzioni geopolitiche, non “verdi”; monopoli, non libera concorrenza;
autarchia, non frontiere aperte – tutte soluzioni che avrebbero posto fine al
neoliberismo. Per ora, sta vincendo il settore che favorisce il protezionismo,
i cartelli tecnologici, la ritirata nazionalista e il riarmo generale. Con l’imporsi della potenza militare in politica estera, la globalizzazione così
come concepita dal pensiero unico non è più accettabile. Allo stesso modo, l'avanzata del negazionismo climatico e la difesa
dell’impiego industriale implicano il declino dell'ecologismo di Stato. Al giorno
d’oggi, la fazione più aggressiva della classe dominante ha smesso di credere
nel progresso e nella sostenibilità e ha poca fiducia nel mercato globale: Preferisce che le industrie rimangano
nazionali nonostante la loro bassa competitività (è a questo che servono i
dazi), che all'energia nucleare venga data una seconda possibilità e che le sue
sfere di influenza siano mantenute con la forza, se necessario. Sa che
l'economia è in declino e che lo stato sociale si sta riducendo irreversibilmente,
quindi preservare il capitalismo richiederà di sacrificare il programma
ambientale e una fascia crescente della popolazione. Il suo catastrofismo è
legato alla fine di un ciclo nella civiltà capitalista piuttosto che a una
"transizione ecologica" guidata da un consorzio privato-statale.
L'ideologia verde, ancora ottimista, è soppiantata da una decrescita sui
generis che gli strateghi della transizione chiamano “post-crescita”. Nonostante tutto, il neoliberismo
politico, incentrato sui cittadini e post-crescita sta perdendo terreno a
favore di un dispotismo progressista, identitario, autoritario e violento,
tipico di un regime proto-fascista e post-globalizzazione.
Quale sarebbe il soggetto della lotta (e il “soggetto rivoluzionario”)
nelle condizioni attuali?
Un
soggetto politico è più di un’informe “moltitudine” interclassista: è una
comunità di lotta strutturata. La sua formazione va associata agli scontri
contro l'autorità da parte dei settori della popolazione danneggiati o esclusi
dai mercati e, parallelamente, allo sviluppo di una socialità di quartiere
legata alla ricostruzione di spazi di vita meno condizionati dal denaro. Se lo
Stato si ritirerà quanto basta e i suoi sostenitori diventassero una minoranza,
gli individui si sentirebbero obbligati a organizzare la vita collettiva,
mentre si genererebbero nel processo volontà di segregazione, desiderio di
autonomia e spirito di classe. Una classe senza un partito che cerchi di
servirsene, né altra funzione storica se non quella che una coscienza di
rottura potrebbe fornirle. I fronti di lotta sono diversi – urbani,
rurali, ecologici – e la sfida con cui le forze sociali mobilitate si
confrontano risiede nella loro capacità di convergere senza rinunciare alla
democrazia diretta né abbandonare i loro obiettivi finali. Purtroppo, le classi medie, sebbene impoverite, tendono a mantenere la
propria mentalità e ad agire in accordo con essa, diventando facili prede delle
illusioni populiste della reazione e, di conseguenza, un ostacolo maggiore per
l'autonomia e la coscienza.
Critica della concezione marxista del rapporto tra lo sviluppo delle forze
produttive e l’emancipazione.
In verità lo sviluppo delle forze produttive ha reso quasi
impossibile l’emancipazione sociale. La ragione illuminata al servizio della
verità si è da tempo trasformata in ragione strumentale al servizio del potere.
Questo sviluppo può aver dato origine a una classe operaia industriale
sediziosa nelle sue fasi iniziali, ma nelle fasi successive, nonostante la
generalizzazione del lavoro salariato, la base sociale per la lotta per
l'emancipazione si è ridotta. La macchina ha inesorabilmente soppresso la forza
lavoro e condizionato tutta la vita sociale, ponendola nelle mani di esperti.
La tecnologia e il consumismo hanno portato alla declassazione della
popolazione lavoratrice e alla perdita della coscienza di classe, cancellando
ogni aspirazione rivoluzionaria dal loro immaginario collettivo. In Occidente,
la società di classi contrapposte ha ceduto il passo a una società oligarchica
basata su classi medie salariate. La disintegrazione della sfera sovietica ha
portato al capitalismo monopolistico di Stato. La base materiale
dell'emancipazione non ha prosperato da nessuna parte: la principale forza
produttiva, che non è il lavoro ma l'alta tecnologia, è diventata sempre più
distruttiva, quindi inutile ai fini della liberazione e quindi impossibile da
autogestire.
In che consiste la “coscienza territoriale”?
Ellul una
volta disse che “ciò che è in gioco è il nostro habitat
sociale e ambientale”. Nelle regioni che aspirano a costituirsi
in Stati, il concetto di territorialità si confonde spesso con il patriottismo
identitario. Tuttavia, più in generale, l'espressione “coscienza del territorio” si riferisce ai legami intellettuali che
la popolazione mantiene con il proprio habitat, legami compromessi dalla sua
intensa artificializzazione, responsabile dell'insieme di sindromi psicologiche
definite “psicastenia” o, più comunemente, “malessere urbano”. Non si tratta, quindi, semplicemente di un insieme di legami affettivi,
né di una “consapevolezza ambientale” filantropica, ma piuttosto del ritmo lento della vita in spazi aperti, non
toccati dagli imperativi capitalistici, ritmo che favorisce forme di convivenza
sociale integrata. Alcuni, come Sergio Ghirardi, utilizzano il
concetto di “coscienza di specie”, che definirei come la protesta spirituale
del vicinato (urbano e rurale) di fronte alle minacce di devastazione totale
insite nella fase estrattivista del tardo capitalismo che, a medio termine,
suppone l'estinzione della specie umana.
Qual è la differenza tra le lotte territoriali e le lotte urbane?
Non
c'è differenza. Il diritto alla città è anche diritto al territorio. Il
territorio è, in linea di principio, lo spazio concreto in cui una popolazione
è insediata e, di conseguenza, è più che un semplice paesaggio, terreno edificabile,
campagna o ambiente naturale. Anche le aree urbane ne fanno parte. È spazio
geografico e sociale, una porzione della natura plasmata dall'azione umana nel
corso della storia. Ha un passato, possiede tradizioni proprie e include
relazioni sociali. Nell'era del turbo capitalismo, i territori non
metropolitani si stanno sub urbanizzando, quindi tutti i conflitti hanno parecchio
in comune, essendo allo stesso tempo territoriali e urbani. Inoltre, dato lo
spopolamento delle aree rurali, le forze che difendono il territorio sono per
lo più metropolitane.
A proposito dello Stato: è necessario per superare il capitalismo o è un
freno?
Per
coloro che propugnano un'organizzazione sociale orizzontale, senza burocrazia,
dirigenti, carceri o forze dell'ordine, non c'è dubbio che lo Stato è più che
un freno, un grandissimo nemico. Essi vogliono rafforzare la società civile
lottando per un funzionamento autonomo, cioè in margine alle istituzioni. Lo
Stato è lo Stato della classe dominante, quindi il volto politico del
capitalismo e, in quanto monopolizzatore della violenza, il suo braccio armato.
Qualunque sia la sua forma e qualunque cosa dica la sua propaganda mediatica,
lo Stato è lo sfruttamento politicamente organizzato della maggioranza della
popolazione da parte di una classe minoritaria. Dato che lo Stato può
sopravvivere al capitalismo, ma non viceversa, l'abolizione di quest'ultimo non
porta necessariamente all'abolizione dell’altro. Si deve cominciare
dall'abolizione dello Stato. Cominciare dallo smascherarne le macchinazioni.
Grazie alle trappole partecipative e al conformismo dominante, lo Stato assorbe
tutte le energie del dissenso e ne coopta facilmente i rappresentanti. Quando
un movimento popolare penetra nei meccanismi statali, ne rimane intrappolato.
Il movimento secerne uno strato burocratico che agisce in suo nome e, man mano
che consolida il suo potere decisionale – alterando la vecchia struttura di
potere e facendosi governo – si distacca sempre di più dal movimento, formando
una nuova classe separata. Chi delega, abdica. La classe statale si emancipa
dalla società e si proclama sua rappresentante, imponendo un cambiamento di
apparenze. Per quanto il dominio possa variare nella forma, rimarrà lo stesso
nel contenuto.
Qual è la tua definizione di Stato? In che modo essa differisce dalla
concezione spinoziana o hegeliana?
Lo
Stato è una struttura verticale separata e opposta alla società civile, che
organizza unilateralmente attraverso uno strato di funzionari. Bakunin diceva
che lo Stato era il male, la stessa Chiesa secolarizzata, una forma storica di
società che aveva fatto il suo tempo. García Calvo avrebbe sottolineato: “lo
Stato è l'epifania di Dio stesso”, un'idea astratta e metafisica, convertita in
un ordinamento giuridico che riduce la gente alla categoria di suddito, oltre
la quale non c'è altro che rinuncia e sottomissione. La concezione di Spinoza è
una variante liberale della nozione di contratto. A un certo punto, attraverso
un patto, la moltitudine concorda sulla composizione di uno Stato “di civiltà”
che, in conformità con la legge, imponga la ragione e il buon senso come guida
di condotta, protegga le libertà “naturali” e salvaguardi tutti dal caos
derivante dalle passioni anarchiche prevalenti nello “stato di natura”. La
Repubblica olandese costituirebbe l'esempio tangibile dell'ideale spinoziano.
Hegel, da parte sua, considerava lo Stato come la realizzazione effettiva del
diritto, immagine della ragione e culmine della libertà civile. Era il punto
finale di un'evoluzione storica che il filosofo incarnava nella monarchia
prussiana. Entrambe le nozioni di Stato riflettono diverse fasi storiche del
dominio dell'economia sulla società e, quindi, dello sviluppo della borghesia,
la classe dell’economia, commerciante e corsara in un caso, industriale
nell'altro. Il diciassettesimo secolo per Spinoza, il diciannovesimo per Hegel. Salvo
pochi casi eccezionali – Morelly, Godwin, Fourier – i pensatori avanzati della
borghesia in ascesa non hanno mai considerato la possibilità di una società
organizzata non soggetta ad autorità esterne. Nella fase declinante, gli
ideologi civici, da buoni filistei, rifuggono da Hegel, cioè da Marx e Bakunin,
in altre parole dalla lotta di classe e dal rifiuto dello Stato, e
occasionalmente riscoprono la teologia politica di Spinoza, cioè lo Stato
liberale idealizzato della vecchia borghesia, e utilizzano le loro riflessioni
per fornire prospettive politiche alle fazioni della classe media che essi
rappresentano.
Miguel Amorós, Novembre 2025
Las luchas territoriales ¿son la palanca de la superación del
capitalismo?
Preguntas a abordar el
27 de noviembre en el Centre Culturel
Bruegel de Bruselas y planteadas el 28 en el Groupe de Recherche pour une
Stratégie Économique Alternative
Las definiciones (como las corrientes políticas) de comunismo y de
anarquismo son múltiples y sería imposible hacer una síntesis de toda esa
diversidad en una tarde. No obstante, ¿Podrías compartir con nosotros tu noción
de anarquismo y de comunismo?
Malatesta dijo que
comunismo y anarquía eran los mismo. Nada que ver con el sistema cuartelero de
los leninistas, simple disfraz del capitalismo burocrático de Estado. Yo lo
definiría como un régimen de convivencia social sin Estado y sin clases, basado
en el rechazo de la división del trabajo y en la posesión en común de los
medios de producción, en su gestión colectiva y en la distribución del producto
social en función de las necesidades. Nacido del libre acuerdo, el comunismo
libertario debería de proporcionar a todos las condiciones idóneas para un
máximo desarrollo material, moral e individual. Se trata pues de un ideal ético
inalcanzable por la fuerza, ya que tiene como condición ineludible la
comprensión y el deseo de la mayoría expresado libremente. Para muchos, entre
los que me incluyo, el anarquismo sería el modo de lograr este fin,
naturalmente por vías solidarias y universalistas, no con procedimientos
parlamentarios ni postulados religiosos. En mi caso, entiendo el anarquismo
como la característica doctrinal propia del socialismo antiautoritario que,
durante mucho tiempo, acompañó a buena parte del proletariado revolucionario,
hasta entrar en crisis, puede que final, por culpa de las capitulaciones
habidas durante la revolución española. A partir de ahí ya no se puede hablar
de anarquismo, con sus diferentes matices, sino de anarquismos, ideologías
diversas con el mismo nombre, pero ajenas unas con otras.
¿Sus puntos de encuentro, sus divergencias y el potencial
anticapitalista respectivo?
Evidentemente, entre
los que se autodenominan anarquistas existen profundos desacuerdos
metodológicos y grandes diferencias estratégicas, derivadas de la forma
variable de interpretar la realidad y de la praxis divergente con la que
caminar hacia los objetivos finales. Las discordancias cristalizaron en
ideologías, en fórmulas, a menudo acompañadas de comportamientos sectarios,
como por ejemplo, la insurreccionalista, la municipalista, la sindicalista, la
primitivista, la especifista, la postanarquista, etc. Actualmente, el
anarquismo es sobre todo un estado de ánimo difuso presente en cualquier
conflicto como exigencia de horizontalidad e igualdad, rechazo de la mediación,
demanda de autogestión y reivindicación de la acción directa. El potencial
anticapitalista del anarquismo moderno se materializará en la medida en que la
coyuntura social favorezca el arraigo en las masas rebeldes de sus ideas no
vencidas, entendidas no como utopía, sino como “la verdad inmediata de un
tiempo relativamente próximo” (Ricardo Mella).
¿Qué es una metrópolis?
En Europa las tres
cuartas partes de la población vive en zonas urbanas extensas. En el mundo
existen más de quinientas aglomeraciones superiores al millón de habitantes, a
las que en propiedad no se puede llamar ciudades. Pasó el tiempo de las
ciudades compactas en simbiosis con el entorno agrario. El campo hace mucho que
dejó de ser una realidad diferenciada. Debord anunció en 1967 que "el
momento presente es el de la autodestrucción del medio urbano." La
metrópolis -o “posciudad”, tal como la llama Françoise Choay- es un tipo de
asentamiento informe fruto de la expansión ilimitada de la ciudad industrial,
que ha ido absorbiendo poblaciones limítrofes y creando nuevas barriadas hasta
suburbanizar todo el territorio circundante. Tal unificación del espacio fue
posible en un primer lugar, gracias al desarrollo del transporte, al
combustible fósil barato y a los nuevos materiales de construcción.
Etimológicamente, metrópolis en griego significa “ciudad madre”; en cambio, la
realidad dista mucho de la maternidad: es un engendro devorador de espacio que
concentra el poder en una sociedad totalmente urbanizada. En los noventa del
siglo pasado, la globalización financiera y la digitalización la consolidaron
como dominio totalitario de la mercancía y motor del desarrollo capitalista. Es
un no-lugar de conurbaciones yuxtapuestas, que no resulta de la superación de
la oposición campo-ciudad, sino del hundimiento simultáneo de ambos polos. No
representa un proyecto de convivencia, ni siquiera a nivel de clase dominante;
bien al contrario, es una realidad totalmente mercantil. Constituye un
aglomerado discontinuo y difuso, sin valores ni cultura, sin auténtica vida,
conectado únicamente por vías de circulación. La comunicación ha sido marginada
por la conectividad. Lo que importa no es la convivencialidad, sino su precio.
En realidad, la metrópolis no está hecha para los habitantes, sino para los
transeúntes, bien sean visitantes, promotores o inversores. Su base económica
ya no radica en la industria, sino en los servicios, el turismo, los grandes
eventos y la innovación. Aunque conserve centros históricos, estos han sido
museificados, puesto que la metrópolis carece de centro real: en ella lo
central se ha vuelto periférico y la periferia deviene cada vez más céntrica. Tampoco
las plazas públicas o las calles proporcionan un resto de coherencia orgánica;
las infraestructuras viarias son sus únicos ejes vertebradores. El paisaje
reconstruido por las fuerzas desarrollistas reproduce maneras de vivir en
confinamiento, precarias, motorizadas y mercantilizadas hasta en los menores
detalles: las metrópolis generan en cualquier rincón relaciones sociales
capitalistas de forma automática. Se puede decir que constituyen el espacio
idóneo para la reproducción de capitales en la etapa hipertecnológica de la
economía mundializada.
Más sobre la metrópolis.
El paso de una economía
productiva a otra de servicios, seguido de la transición de un capitalismo
nacional a otro global, consagró el papel de las metrópolis por encima de los
Estados. Entre la clase dirigente, la ideología keynesiana retrocedió ante el
pensamiento neoliberal, enemigo acérrimo del intervencionismo estatal. La
promesa de abundancia reemergía en los mercados financieros con el crédito a
espuertas y la expansión de la deuda, propiciando turboconsumismo, aventuras
inmobiliarias y toda clase de burbujas especulativas. No obstante, la
constatación de la finitud de los recursos primarios, sobre todo energéticos
(p.e. el “pico” del petróleo), sumada a la crisis medioambiental provocada por
el desarrollismo a ultranza (p.e. calentamiento global, producción descomunal
de residuos, contaminación, despilfarro de recursos) obligaron a considerar la
"sostenibilidad" del proceso, es decir, el pago de la factura de la
degradación. Entonces, el capitalismo echó mano del lenguaje ecológico e inauguró
una fase verde que el Estado debía promocionar y sostener. El Estado recobraba
así el papel de antaño en una economía a “descarbonificar” por un periodo de
“transición energética”. La metrópolis evolucionaba en consecuencia recurriendo
a un urbanismo light con sus carriles bici, islas peatonales, recogida
selectiva de basura, puntos de recarga eléctrica, "corredores"
verdes, tranvías y remedios digitales como las smart cities. “Reinventaba” el
territorio obedeciendo a la lógica más al día -más tecnológica- de la mercantilización.
¿Qué relación guarda con el “capital territorial”?
Hablamos de “capital
territorial” cuando el territorio se ha transformado completamente en
"activo", o sea, en capital. En la Conferencia de Río de 1992 los
dirigentes mundiales lo definieron como la nueva configuración del territorio
que se desprendía de la unión de la economía con el medio ambiente, o sea, del
denominado “desarrollo sostenible”. El concepto venía asociado al momento
“verde” del capitalismo, cuando el territorio se situaba en el centro del
triángulo sociedad-economía-medio ambiente. Una vez mejorada su accesibilidad,
este se convierte en un espacio multiexplotable: es una cantera de suelo
edificable, un soporte de grandes infraestructuras, una oportunidad para la
industria agroalimentaria, una reserva paisajística, un destino turístico, un
área para el ocio industrializado, una fuente de energía renovable y de
materiales estratégicos, etc, todo lo cual le concede un peso cada vez mayor en
la economía global. En fin, el territorio es la materia prima del capitalismo
en su último periodo extractivista.
¿Es posible superar el capitalismo sin desurbanizar el campo ni
ruralizar la ciudad, y por consiguiente, sin destruir las metrópolis?
Obviamente no es
posible. Liquidar la globalización conlleva el fin de su organización espacial.
Frente a las sucesivas crisis, las metrópolis además de invivibles, terminan
siendo inviables. Son muy vulnerables ante los desastres y tan enormes que
resultan imposibles de gestionar comunalmente. El gran escollo con que se va a
encontrar una transformación social fundada en la vinculación armónica con la
naturaleza serán las mismas conurbaciones, aptas solamente para la reproducción
de relaciones capitalistas, a las que forzosamente habrá que desmantelar. La
desmundialización siempre tendrá un aspecto desurbanizador y ruralizante. La
simple implantación de una economía doméstica sin mercado -llámese natural,
sustantiva o moral- implicará colectividades coordinadas de dimensiones
reducidas, con cultivos próximos y producción industrial a pequeña escala. Con
mayor razón, la autogestión no sería operativa en vecindarios demasiado
grandes, donde el ágora es imposible. Ahora bien, desurbanizar no significa
abolir el espacio urbano, a lo sumo, abolir la propiedad privada capitalista.
Entraña un doble movimiento de despoblamiento y repoblación, de
descentralización y desconcentración, cuyos efectos al respecto son la
descongestión del espacio sobreurbanizado, su revitalización, la recuperación
de su funcionamiento orgánico... Paradójicamente, la desurbanización es una
vuelta a la verdadera ciudad.
¿Por qué el territorio es objetivamente el lugar central de la lucha
anticapitalista (y no el lugar de trabajo)?
Central no quiere decir
único, ni territorio significa exclusivamente campo. Sin embargo, cuando la
mayor producción de beneficios, de la que depende el crecimiento económico, se
da en la explotación intensiva de un territorio previamente “ordenado”, entonces
su defensa viene a ser el centro de la lucha anticapitalista (o sea, de la
actual lucha de clases). En efecto, a medida que la productividad global se
ralentiza y que las ganancias decrecen, lo que David Harvey llama
"circuitos secundarios de acumulación" adquieren una superior
relevancia. Los antagonismos se despliegan en toda su magnitud solo en esos
circuitos, -bien sea en el problema de la vivienda y el deterioro de los
servicios públicos, bien en la resistencia a la construcción de centrales
nucleares, trenes de gran velocidad o líneas de alta tensión, bien en el
sabotaje a los transgénicos o los grandes proyectos inútiles. En consecuencia,
la cuestión social se manifiesta principalmente como cuestión territorial. Al
contrario, dada la pérdida de centralidad de los trabajadores de la industria y
la desaparición de las huelgas salvajes, la lucha sindical, aunque necesaria,
no rompe con las reglas de juego del desarrollismo. No se impone como objetivo
salir del capitalismo, sino negociar el valor de la fuerza de trabajo con
papeles en el mercado. Menos todavía lo quiebra el obrerismo político, tan
aferrado al Estado. Por consiguiente, el conflicto laboral no puede ser el eje
sobre el que pivoten las aspiraciones emancipatorias. Si se quiere acabar con el
régimen capitalista, la cuestión estratégica principal reside en la capacidad
de bloquear el crecimiento de la economía con la mirada puesta en las
alternativas de salida. En ese sentido, la defensa del territorio, por limitada
que sea, es antidesarrollista y anticapitalista por esencia, ya que se encara
con el principal impulsor de la economía en estos momentos, la explotación
industrial del patrimonio, los saberes y los recursos territoriales, y en mayor
o menor medida, propone alternativas prácticas.
¿Qué tipo de territorio (y ciudad) sería económicamente habitable,
viable (en el marco anticapitalista)?
Tempranamente, los
anarquistas Elisée Reclus y Piotr Kropotkin plantearon la desconcentración de
las ciudad burguesa y la eliminación de sus barrios miserables. Ambos apelaron
a un “sentimiento de la naturaleza” que guiase la vuelta a un orden natural optimizado,
el cual consistiría en una dispersión de baja intensidad de todas las
actividades acaparadas por la urbe expansiva. Al conformarse alrededor de las
ciudades una red de pequeñas industrias, hospitales, escuelas, molinos, saltos
de agua, caminos, ferrocarriles y colectividades agrícolas, el resultado sería
una región integrada urbano-rural, sin centro dirigente, encauzada hacia el
comunismo. Sus ideas fueron recogidas y desarrolladas por otros autores, entre
los que destacaría a Patrick Geddes y Lewis Mumford, que partían de
la“planificación regional”. Con el fin de conseguir un equilibrio territorial,
estimular una vida intensa y creativa, eliminar el despilfarro de energía y
alimentos y detener la expansión metropolitana, propugnaban un uso racional del
territorio. Este se concretaba en propuestas como la de cinturones agrícolas,
producción descentralizada de energía, reparto equilibrado de la población en
unidades convivenciales bien equipadas, reinstalación de las industrias cerca
de la materia prima y transporte público eficaz. Reformas a contracorriente, de
sentido común pero sin perspectivas de realización, puesto que no eran
respaldadas por fuertes movimientos vecinales arraigados en porciones de
territorio liberadas, sino que dependían del altruismo de los dirigentes.
Finalmente, el descrédito de la idea de progreso trajo la revalorización de la
comuna medieval, particularmente de su funcionamiento abierto codificado en
actas de auto-gobierno, de la regulación de la vida social por la costumbre y
de la noción de bien común. Así se han abierto nuevas perspectivas
altermetropolitanas en los movimientos auto-organizados capaces de sobrevivir a
las tentaciones electoralistas, a la amalgama sin principios y al cebo de las
subvenciones.
Preguntas del equipo organizador para profundizar después de la
conferencia
Definición y periodización de la nueva fase del capitalismo
(territorial)?
La
escasez y finitud de los recursos está dando lugar al acaparamiento de
inmuebles, tierras, aguas y minerales, mientras que la crisis climática impulsa
al desarrollo industrial de las energías supuestamente “renovables” y de los
agrocarburantes. Al volverse extractivista, el capitalismo global se agarra al
territorio como tabla de salvación, apartando de la protección ambiental el
mayor número de “zonas de sacrificio.” El desplome financiero de 2008 puso fin
al neoliberalismo puro y reafirmó la función estabilizadora del Estado. Por
otro lado, el auge del capitalismo asiático, combinado con las dificultades
insalvables de crecimiento del capitalismo europeo y norteamericano, decantaba
la globalización a su favor, amenazando la hegemonía occidental a todos los
niveles. En las altas esferas se produjeron fuertes discrepancias. El principal
peligro para el statu quo económico, militar y político de Occidente -la
competitividad superior china- exigía soluciones geopolíticas, no
"verdes"; monopolios, no libre competencia; autarquía, no apertura de
fronteras, todo lo cual ponía fin al neoliberalismo. Por ahora, gana el sector
favorable al proteccionismo, los cárteles tecnológicos, el repliegue
nacionalista y el rearme general. Al imponerse el poderío armamentístico en la
política exterior, la globalización tal como la concebía el pensamiento
"único" ya no es de recibo. Asimismo, el avance del negacionismo
climático y la defensa del empleo industrial señalan el declive del ecologismo
de Estado. A día de hoy, la fracción más agresiva de la clase dominante ha
dejado de creer en el progreso y la sostenibilidad, y confía poco en el mercado
global: prefiere que las industrias se queden en casa a pesar de su baja
competitividad (para eso están los aranceles), que la energía nuclear tenga una
segunda oportunidad y que sus áreas de influencia se sostengan por la fuerza si
es preciso. Sabe que la economía declina y que el “estado del bienestar” se
estrecha irreversiblemente, por la que la conservación del capitalismo exigirá
el sacrificio del programa ecológico y de una parte creciente de la población.
Su catastrofismo tiene que ver con un final de ciclo en la civilización
capitalista más que con una "transición ecológica" dirigida por un
consorcio privado-estatal. La ideología verde, todavía optimista, está siendo
desplazada por un decrecentismo sui generis que los estrategas transicionistas
denominan “poscrecimiento”. A pesar de todo, el neoliberalismo político,
ciudadanista y poscrecentista, pierde terreno ante un progresivo despotismo de
corte identitario, autoritario y violento, típico de un régimen protofascista y
posglobalización.
¿Cuál sería el sujeto de la lucha (y el “sujeto revolucionario”) en las
actuales condiciones?
Un sujeto político es
más que una informe “multitud” interclasista: es una comunidad de lucha
estructurada. Su formación va asociada a los enfrentamientos contra la
autoridad de los sectores de población perjudicados o excluidos por los
mercados, y, paralelamente, al desarrollo de una sociabilidad vecinal ligada a
la reconstrucción de espacios de vida menos condicionados por el dinero. Si el
Estado se retirara lo suficiente y sus partidarios quedasen en minoría, los
individuos se sentirían obligados a organizar la vida colectiva, generándose en
el proceso voluntad de segregación, deseo de autonomía y espíritu de clase.
Clase sin partido que pretenda servirse de ella, ni más función histórica que
la que una conciencia rupturista le pueda proporcionar. Los frentes de lucha
son diversos -urbanos, rurales, ecológicos- y el reto con el que se enfrentan
las fuerzas sociales movilizadas reside en su capacidad de confluir sin
renunciar a la democracia directa, ni soslayar sus objetivos finales.
Desgraciadamente, las clases medias, aunque depauperadas, tienden a conservar
su mentalidad y a actuar de acuerdo con ella, por lo que son presa fácil de los
espejismos populistas de la reacción, y consecuentemente, un obstáculo mayor
para la autonomía y la conciencia.
Crítica de la concepción marxista sobre la relación entre el desarrollo
de las fuerzas productivas y la emancipación.
En verdad, el
desarrollo de las fuerzas productivas ha vuelto casi imposible la emancipación
social. Hace tiempo que la razón ilustrada al servicio de la verdad se trastocó
en razón instrumental al servicio del poder. Tal desarrollo pudo originar la
formación de una clase obrera industrial sediciosa en sus fases iniciales, pero
en etapas posteriores, a pesar de la generalización del trabajo asalariado, la
base social del combate por la emancipación se restringía. La máquina suprimía
inexorablemente la fuerza de trabajo y condicionaba toda la vida social,
poniéndola en manos de los expertos. La tecnología y el consumismo provocaron
un desclasamiento de la población trabajadora y la pérdida de la conciencia de
clase, borrando de su imaginario toda aspiración revolucionaria. En Occidente,
la sociedad de clases enfrentadas desembocó en una sociedad oligárquica
reclinada en clases medias asalariadas. La descomposición del área soviética
derivó en un capitalismo monopolista de Estado. La base material de la emancipación
no prosperó en ningún lado: la principal fuerza productiva, que no es el
trabajo sino la alta tecnología, era cada vez más destructora, luego inservible
para fines liberadores, y por lo tanto, imposible de ser autogestionada.
¿Qué es la “conciencia territorial”?
Dijo Ellul en su
momento, que “lo que está en juego es nuestro entorno social y ambiental.” En
las regiones que aspirar a constituirse en Estado, a menudo la idea territorial
se confunde con el patriotismo identitario. Sin embargo, de manera más general,
la expresión “conciencia del territorio” alude a las ligaduras intelectuales
que la población mantiene con su hábitat, comprometidas por una
artificialización intensiva del mismo, responsable esta del conjunto de
síndromes sicológicos definidos como "psicastenia", o más comúnmente,
como "mal urbano." No se trata pues de un conjunto de vínculos
simplemente afectivos, ni de una filantrópica “conciencia ambiental”, sino que
tiene que ver con el ritmo de vida pausado de los espacios abiertos, ajenos a
los imperativos capitalistas, impulsor de formas de convivencia social
integrada. Algunos como Sergio Ghirardi utilizan el concepto de “conciencia de
especie”, que yo definiría como la protesta espiritual del vecindario (urbano y
rural) ante las amenazas de devastación total contenidas en la fase
extractivista del capitalismo tardío, algo que supone a medio plazo la
extinción de la especie humana.
¿Cuál es la diferencia entre las luchas territoriales y las luchas
urbanas?
No hay diferencia. El
derecho a la ciudad es también derecho al territorio. Territorio es en
principio el espacio concreto donde se asienta una población, y, por
consiguiente, es algo más que paisaje, solar, campo o medio natural. Las áreas
urbanas también forman parte de él. Es espacio geográfico y social, una porción
de la naturaleza modelada por la acción humana a lo largo de la historia. Es
dueño de un pasado, tiene tradición propia y contiene relaciones sociales. En
el momento turbocapitalista, el territorio no metropolitano se halla
suburbanizado, por lo que todos los conflictos tienen bastante en común, ya que
son a la vez territoriales y urbanos. Es más, dada la despoblación de las zonas
rurales, los efectivos de la defensa del territorio son mayoritariamente
metropolitanos.
Con relación al Estado ¿Es este necesario para superar el capitalismo o
un freno?
Para quienes propugnan
una organización social horizontal, sin burocracia, ni dirigentes, ni cárceles,
ni fuerzas de orden, no cabe duda de que el Estado es, más que un freno, un
grandísimo enemigo. Ellos quieren reforzar la sociedad civil luchando por un
funcionamiento autónomo, o sea, al margen de las instituciones. Por otra parte,
el Estado es el Estado de la clase dominante, luego la cara política del
capitalismo y, en tanto que monopolizador de la violencia, su brazo armado.
Cualquiera que sea su modalidad y diga lo que diga su propaganda mediática, el
Estado es la explotación políticamente organizada de la mayoría de la población
por una clase minoritaria. Teniendo en cuenta que el Estado puede sobrevivir al
capitalismo y no lo contrario, la abolición de este no conduce necesariamente a
la de aquel. Hay que empezar por suprimir el Estado. Comenzar desvelando sus
artimañas. Gracias a las trampas participativas y al conformismo dominante, el
Estado absorbe todas las energías de la contestación y coopta con facilidad a
sus representantes. Cuando un movimiento popular penetra en los mecanismos
estatales, queda atrapado por ellos. El movimiento segrega una capa burocrática
que actúa en su nombre, y que, a medida que va acaparando la decisión -a medida
que altera la vieja estructura de poder y se hace gobierno- va divorciándose de
él, constituyendo una nueva clase separada. Quien delega, abdica. La clase del
Estado se emancipa de la sociedad y se proclama representante de la misma,
forzando un cambio de apariencias. Pero aunque la dominación varíe en la forma,
se mantendrá en el contenido.
¿Cuál es tu definición de Estado? ¿En qué se diferencia de la concepción
espinozista o hegeliana?
El Estado es una
estructura vertical separada y opuesta a la sociedad civil, a la que organiza
unilateralmente a través de una capa de funcionarios. Bakunin dijo que el
Estado era el mal, la mismísima Iglesia secularizada, una forma histórica de
sociedad que agotó su tiempo. Garcia Calvo puntualizaría: “el Estado es la
epifanía de Dios mismo”, una idea abstracta, metafísica, convertida en un
ordenamiento jurídico que reduce la gente a la categoría de súbdito tras la
cual no hay más que renuncia y sumisión. La concepción de Spinoza es una
variante liberal de la noción de contrato. En algún momento, mediante un pacto,
la multitud acuerda la composición de un Estado “de civilidad” que, conforme a
la ley, imponga la razón y el sentido común como guía de conducta, proteja las
libertades “naturales” y salvaguarde a todos de ese caos producto de las
pasiones anárquicas imperantes en el “estado de naturaleza”. La república
holandesa constituiría el ejemplo tangible del ideal espinozista. Hegel, por su
parte, consideraba al Estado como realización efectiva del derecho, imagen de
la razón y culminación de la libertad civil. Era el punto final de una
evolución histórica que el filósofo concretaba en la monarquía prusiana. Ambas
ideas de Estado reflejan etapas históricas diferentes del dominio de la
economía sobre la sociedad, y por lo tanto, del desarrollo de la burguesía, la
clase de la economía, comerciante y corsaria en un caso, industrial en el otro.
Siglo XVII para Spinoza, siglo XIX para Hegel. Salvo en algún caso excepcional
-Morelly, Godwin, Fourier- los pensadores avanzados de la fase ascendente de la
burguesía, nunca se plantearon la posibilidad de una sociedad organizada no
sometida a una autoridad exterior. En su fase descendente, los ideólogos
ciudadanistas, como buenos filisteos, huyen de Hegel, es decir de Marx y de
Bakunin, o sea, de la lucha de clases y del rechazo al Estado, y de vez en
cuando descubren la teología política de Spinoza, es decir, al Estado liberal
idealizado de la vieja burguesía, y utilizan sus reflexiones con el fin de
proporcionar perspectivas políticas a cualquiera de las facciones mesocráticas
que representen.
Miguel Amorós Noviembre de 2025