venerdì 12 dicembre 2025

Le lotte territoriali sono la leva per superare il capitalismo? di Miguel Amorós

 

  


 Questioni da affrontare il 27 novembre, al Centro Culturale Bruegel di Bruxelles e il 28 al Gruppo di ricerca per una strategia economica alternativa

 

Le definizioni (come le correnti politiche) di comunismo e anarchismo sono molteplici e sarebbe impossibile fare una sintesi di tutta questa diversità in un pomeriggio. Ciononostante, potresti condividere con noi la tua nozione di anarchismo e di comunismo?

Malatesta diceva che comunismo e anarchia erano la stessa cosa. Niente a che vedere con il sistema da caserma dei leninisti, mero travestimento del capitalismo burocratico di Stato. Lo definirei un regime di convivenza sociale senza Stato e senza classi, basato sul rifiuto della divisione del lavoro e sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, sulla loro gestione collettiva e sulla distribuzione del prodotto sociale secondo i bisogni. Nato dal libero accordo, il comunismo libertario dovrebbe fornire a tutti le condizioni idonee per il massimo sviluppo materiale, morale e individuale. Si tratta quindi di un ideale etico irraggiungibile con la forza, poiché richiede, come condizione essenziale, la comprensione e la volontà della maggioranza liberamente espressa. Per molti, me compreso, l'anarchismo sarebbe la via per raggiungere questo fine, naturalmente per vie solidali e universalistiche, non con procedimenti parlamentari né postulati religiosi. Nel mio caso, intendo l'anarchismo come la dottrina caratteristica del socialismo antiautoritario che, per molto tempo, ha accompagnato buona parte del proletariato rivoluzionario, finché non è entrato in crisi, forse definitiva, a causa delle capitolazioni durante la Rivoluzione spagnola. Da allora in poi, non si può più parlare di anarchismo, con le sue diverse sfumature, ma piuttosto di anarchismi, ideologie diverse con lo stesso nome ma estranee l'una all'altra.

I loro punti di convergenza, le loro divergenze e il loro rispettivo potenziale anticapitalista?

Evidentemente tra coloro che si definiscono anarchici, esistono profondi disaccordi metodologici e grandi differenze strategiche, derivanti dalle diverse interpretazioni della realtà e dalle pratiche divergenti attraverso le quali perseguire gli obiettivi finali. I disaccordi si cristallizzarono in ideologie, in formule, spesso accompagnate da comportamenti settari, come quello insurrezionalista, quello municipalista, quello sindacalista, quello primitivista, quello specificista, quello post-anarchico, ecc.

Oggi, l'anarchismo è soprattutto uno stato d'animo diffuso presente in qualsiasi conflitto come richiesta di orizzontalità e uguaglianza, rifiuto della mediazione, domanda di autogestione e rivendicazione di azione diretta. Il potenziale anticapitalista dell'anarchismo moderno si materializzerà nella misura in cui il contesto sociale favorirà il radicamento nelle masse ribelli delle sue idee imperiture, intese non come utopia, ma come “la verità immediata di un tempo relativamente prossimo” (Ricardo Mella).

Che cos'è una metropoli?

In Europa, tre quarti della popolazione vive in aree urbane estese. Nel mondo, ci sono più di cinquecento agglomerati con oltre un milione di abitanti, che non possono essere propriamente definiti città. L'era delle città compatte in simbiosi con la campagna circostante è finita. Da tempo la campagna ha cessato di essere un'entità distinta. Debord annunciò nel 1967 che il momento presente è quello dell'autodistruzione dell'ambiente urbano. La metropoli – o post-città, come la chiama Françoise Choay – è un tipo d’insediamento informe frutto dell'espansione illimitata della città industriale, che ha assorbito le popolazioni vicine e creato nuove periferie fino a sub urbanizzare l'intero territorio circostante. Quest’unificazione dello spazio è stata inizialmente resa possibile dallo sviluppo dei trasporti, dai combustibili fossili a basso costo e da nuovi materiali da costruzione. Etimologicamente, metropoli in greco significa “città madre”; tuttavia, la realtà è molto lontana dalla maternità: è una mostruosità divoratrice di spazio che concentra il potere in una società completamente urbanizzata. Negli anni Novanta, la globalizzazione finanziaria e la digitalizzazione l'hanno consolidata come dominio totalitario della merce e motore dello sviluppo capitalistico. È un non-luogo di conurbazioni giustapposte, risultato non del superamento dellopposizione campagna-città, ma del crollo simultaneo di entrambi i poli. Non rappresenta un progetto di coesistenza, nemmeno a livello della classe dominante; al contrario, è una realtà completamente mercantile. Costituisce un agglomerato discontinuo e diffuso, privo di valori e di cultura, senza vita autentica, collegato solo da vie di circolazione. La comunicazione è stata marginalizzata dalla connettività. Non importa la convivialità ma il suo prezzo. In realtà, la metropoli non è fatta per i suoi abitanti, ma per i passanti, siano essi visitatori, sviluppatori o investitori. La sua base economica non risiede più nell'industria, ma nei servizi, nel turismo, nei grandi eventi e nell'innovazione. Pur conservando centri storici, questi sono stati trasformati in musei, poiché la metropoli manca di un vero centro: il centrale è diventato periferico e la periferia sta diventando sempre più centrale. Anche le piazze e le strade pubbliche non offrono traccia di coerenza organica; l'infrastruttura stradale è il suo unico elemento unificante. Il paesaggio ricostruito dalle forze dello sviluppo riproduce modi di vivere confinati – precari, motorizzati e mercificati fin nel più piccolo dettaglio: le metropoli generano automaticamente relazioni sociali capitaliste in ogni angolo. Si può dire che costituiscano lo spazio ideale per la riproduzione del capitale nella fase iper-tecnologica dell'economia globalizzata.

Approfondimenti sulla Metropoli.

Il passaggio da un'economia basata sulla produzione a un'economia basata sui servizi, seguito dalla transizione da un capitalismo nazionale a un altro globale, ha consolidato il ruolo delle metropoli sugli Stati. Tra la classe dirigente, l'ideologia keynesiana è stata superata dal pensiero neoliberale, nemico giurato dell'intervento statale. La promessa di abbondanza è riemersa nei mercati finanziari con il credito dilagante e il debito in espansione, alimentando turbo consumismo, iniziative immobiliari e ogni sorta di bolle speculative. Tuttavia, la consapevolezza della natura finita delle risorse primarie, in particolare quelle energetiche (ad esempio, il picco del petrolio), unita alla crisi ambientale causata dallo sviluppo ad oltranza (ad esempio, il riscaldamento globale, l'enorme produzione di rifiuti, l'inquinamento, lo spreco di risorse), ha imposto una considerazione della sostenibilità del processo, ovvero il pagamento del prezzo del degrado ambientale. Così, il capitalismo ha fatto uso del linguaggio ecologico e ha inaugurato una fase verde che lo Stato ha dovuto promuovere e sostenere. Lo Stato ha così riacquistato il suo ruolo di un tempo in un'economia da decarbonizzare in un periodo di transizione energetica. La metropoli si è evoluta di conseguenza, ricorrendo a un'urbanistica light con piste ciclabili, zone pedonali, raccolta differenziata dei rifiuti, punti di ricarica elettrica, corridoi verdi, tram e soluzioni digitali come le smart city. Ha reinventato il territorio, obbedendo alla logica più attuale – più tecnologica – della mercificazione.

Qual è il suo rapporto con il “capitale territoriale”?

Si parla di “capitale territoriale” quando il territorio è stato completamente trasformato in “attivo”, ossia in capitale. Alla Conferenza di Rio del 1992, i leader mondiali lo definirono come la nuova configurazione del territorio emersa dall'unione dell’economia con l’ambiente ossia del cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Il concetto è stato associato alla fase “verde” del capitalismo, quando il territorio si situava al centro del triangolo società-economia-ambiente. Una volta migliorata la sua accessibilità, il territorio diventa uno spazio multi-sfruttabile: è una cava di terreni edificabili, un supporto per grandi infrastrutture, una sede per l'industria agroalimentare, una riserva paesaggistica, una destinazione turistica, un sito per l’ozio industrializzato, una fonte di energia rinnovabile e materiali strategici, ecc., il che gli conferisce un peso sempre crescente nell'economia globale. In breve, il territorio è la materia prima del capitalismo nella sua ultima fase estrattivista.

È possibile superare il capitalismo senza de-urbanizzare la campagna o ruralizzare la città e, di conseguenza, senza distruggere le metropoli?

Ovviamente, non è possibile. Liquidare la globalizzazione implica la fine della sua organizzazione spaziale. Di fronte alle crisi successive, le metropoli, oltre a essere invivibili, diventano in ultima analisi insostenibili. Sono altamente vulnerabili ai disastri e così enormi da risultare impossibili da gestire collettivamente. Il principale ostacolo a una trasformazione sociale basata su un rapporto armonioso con la natura saranno le stesse conurbazioni, adatte solo alla riproduzione dei rapporti capitalistici, che dovranno necessariamente essere smantellate. La de-globalizzazione avrà sempre un aspetto desurbanizzante e ruralizzante. La semplice attuazione di un'economia domestica senza mercato – che si chiami naturale, sostanziale o morale – implicherà collettività coordinate di piccole dimensioni, con colture locali e produzione industriale su piccola scala. Ancor più, l'autogestione non sarebbe efficace in quartieri eccessivamente grandi, dove un'agorà comunitaria è impossibile. Tuttavia, la desurbanizzazione non significa abolizione dello spazio urbano; al massimo, significa abolizione della proprietà privata capitalista. Comporta un duplice movimento di spopolamento e ripopolamento, di decentralizzazione e deconcentrazione, i cui effetti sono la decongestione dello spazio sovra urbanizzato, la sua rivitalizzazione e il recupero del suo funzionamento organico... Paradossalmente, la desurbanizzazione è un ritorno alla città vera e propria.

Perché il territorio è obiettivamente il luogo centrale della lotta anticapitalista (e non il luogo del lavoro)?

Centrale non significa unico, né territorio significa esclusivamente campagna. Tuttavia, quando la massima produzione di profitto, da cui dipende la crescita economica, avviene attraverso lo sfruttamento intensivo di un territorio precedentemente “ordinato”, allora la sua difesa è al cuore della lotta anticapitalista (cioè, dell'attuale lotta di classe). Infatti, con la diminuzione dei profitti del settore produttivo, acquisiscono maggiore rilevanza quelli che David Harvey chiama “circuiti secondari di accumulazione”. Gli antagonismi si dispiegano in tutta la loro portata solo in questi circuiti che si tratti del problema abitativo e del deterioramento dei servizi pubblici, della resistenza alla costruzione di centrali nucleari, treni ad alta velocità o linee elettriche ad alta tensione, o del sabotaggio di organismi geneticamente modificati o di grandi progetti inutili. Di conseguenza, la questione sociale si manifesta principalmente come questione territoriale. Al contrario, data la perdita di centralità dei lavoratori industriali e la sparizione degli scioperi selvaggi, la lotta sindacale, pur necessaria, non infrange le regole del gioco dell’ideologia dello sviluppo. L'obiettivo non è abbandonare il capitalismo, ma negoziare il valore della forza lavoro con strumenti di mercato. Ancor meno probabile è che venga infranto dall'operaismo politico, così profondamente radicato nello Stato. Di conseguenza, il conflitto sindacale non può essere l'asse attorno al quale ruotano le aspirazioni emancipatrici. Se si vuole farla finita con il regime capitalista, la principale questione strategica risiede nella capacità di bloccare la crescita dell’economia prendendo di mira soluzioni alternative. In questo senso, la difesa del territorio, per quanto limitata, è essenzialmente anti-sviluppo e anticapitalista, poiché si scontra con il principale motore dell'economia attuale, lo sfruttamento industriale del patrimonio, della conoscenza e delle risorse territoriali e, in misura maggiore o minore, propone alternative concrete.

Quale tipo di territorio (e di città) sarebbe economicamente abitabile e sostenibile (in un quadro anticapitalista)?

Sin dall'inizio, gli anarchici Élisée Reclus e Peter Kropotkin proposero la decentralizzazione della città borghese e l'eliminazione dei suoi quartieri miserabili. Entrambi facevano appello a un “sentimento di naturalezza” che innescasse il ritorno a un ordine naturale ottimizzato, che consisterebbe in una dispersione a bassa intensità di tutte le attività monopolizzate dalla città in espansione. Formando una rete di piccole industrie, ospedali, scuole, mulini, cascate, strade, ferrovie e collettività agricole attorno alle città, il risultato sarebbe un'area urbano-rurale integrata, senza un'autorità centrale, orientata al comunismo. Le loro idee furono riprese e sviluppate da altri autori, in particolare Patrick Geddes e Lewis Mumford, che partivano dalla “pianificazione regionale”. Per raggiungere un equilibrio territoriale, stimolare una vita intensa e creativa, eliminare lo spreco di energia e cibo e fermare l'espansione metropolitana, sostenevano un uso razionale del territorio. Ciò si concretizzava in proposte come le cinture agricole, la produzione energetica decentralizzata, la distribuzione equilibrata della popolazione in unità abitative ben attrezzate, re localizzazione delle industrie vicino alle materie prime e un trasporto pubblico efficiente. Riforme a controcorrente, di sensibilità comune ma senza prospettive di realizzazione, poiché non erano sostenute da forti movimenti di quartiere radicati in zone di territorio liberate, ma dipendenti dall'altruismo dei dirigenti. Finalmente, il discredito dell'idea di progresso ha portato a un rinnovato apprezzamento per il comune medievale, in particolare per il suo funzionamento aperto codificato in atti di autogoverno, la regolamentazione della vita sociale attraverso la consuetudine e la nozione di bene comune. Ciò ha aperto nuove prospettive alter metropolitane nei movimenti auto-organizzati capaci di sopravvivere alle tentazioni elettorali, all'accorpamento senza principi e al fascino dei sussidi.

Domande del team organizzatore per ulteriori discussioni dopo la conferenza

Definizione e periodizzazione della nuova fase del capitalismo (territoriale)?

La scarsità e la finitezza delle risorse hanno portato all'accaparramento d’immobili, terreni, acque e minerali, mentre la crisi climatica spingeva allo sviluppo industriale delle energie presumibilmente “rinnovabili” e degli agro carburanti. Diventando estrattivo, il capitalismo globale si aggrappa al territorio come a un salvagente, sottraendo il maggior numero di zone sacrificali alla tutela ambientale. Il crollo finanziario del 2008 ha posto fine al neoliberismo puro e ha riaffermato la funzione stabilizzatrice dello Stato. Il crollo finanziario del 2008 ha posto fine all'era neoliberale e ha riaffermato la funzione stabilizzatrice dello Stato. D'altro canto, l'ascesa del capitalismo asiatico, unita alle insormontabili difficoltà di crescita del capitalismo europeo e nordamericano, ha sbilanciato la globalizzazione a suo favore, minacciando l'egemonia occidentale a tutti i livelli. Sono emersi forti disaccordi ai vertici. Il principale pericolo per lo status quo economico, militare e politico dell'Occidente – la superiore competitività cinese – richiedeva soluzioni geopolitiche, non verdi; monopoli, non libera concorrenza; autarchia, non frontiere aperte – tutte soluzioni che avrebbero posto fine al neoliberismo. Per ora, sta vincendo il settore che favorisce il protezionismo, i cartelli tecnologici, la ritirata nazionalista e il riarmo generale. Con limporsi della potenza militare in politica estera, la globalizzazione così come concepita dal pensiero unico non è più accettabile. Allo stesso modo, l'avanzata del negazionismo climatico e la difesa dell’impiego industriale implicano il declino dell'ecologismo di Stato. Al giorno d’oggi, la fazione più aggressiva della classe dominante ha smesso di credere nel progresso e nella sostenibilità e ha poca fiducia nel mercato globale: Preferisce che le industrie rimangano nazionali nonostante la loro bassa competitività (è a questo che servono i dazi), che all'energia nucleare venga data una seconda possibilità e che le sue sfere di influenza siano mantenute con la forza, se necessario. Sa che l'economia è in declino e che lo stato sociale si sta riducendo irreversibilmente, quindi preservare il capitalismo richiederà di sacrificare il programma ambientale e una fascia crescente della popolazione. Il suo catastrofismo è legato alla fine di un ciclo nella civiltà capitalista piuttosto che a una "transizione ecologica" guidata da un consorzio privato-statale. L'ideologia verde, ancora ottimista, è soppiantata da una decrescita sui generis che gli strateghi della transizione chiamano post-crescita. Nonostante tutto, il neoliberismo politico, incentrato sui cittadini e post-crescita sta perdendo terreno a favore di un dispotismo progressista, identitario, autoritario e violento, tipico di un regime proto-fascista e post-globalizzazione.

Quale sarebbe il soggetto della lotta (e il “soggetto rivoluzionario”) nelle condizioni attuali?

Un soggetto politico è più di un’informe “moltitudine” interclassista: è una comunità di lotta strutturata. La sua formazione va associata agli scontri contro l'autorità da parte dei settori della popolazione danneggiati o esclusi dai mercati e, parallelamente, allo sviluppo di una socialità di quartiere legata alla ricostruzione di spazi di vita meno condizionati dal denaro. Se lo Stato si ritirerà quanto basta e i suoi sostenitori diventassero una minoranza, gli individui si sentirebbero obbligati a organizzare la vita collettiva, mentre si genererebbero nel processo volontà di segregazione, desiderio di autonomia e spirito di classe. Una classe senza un partito che cerchi di servirsene, né altra funzione storica se non quella che una coscienza di rottura potrebbe fornirle. I fronti di lotta sono diversi – urbani, rurali, ecologici – e la sfida con cui le forze sociali mobilitate si confrontano risiede nella loro capacità di convergere senza rinunciare alla democrazia diretta né abbandonare i loro obiettivi finali. Purtroppo, le classi medie, sebbene impoverite, tendono a mantenere la propria mentalità e ad agire in accordo con essa, diventando facili prede delle illusioni populiste della reazione e, di conseguenza, un ostacolo maggiore per l'autonomia e la coscienza.

Critica della concezione marxista del rapporto tra lo sviluppo delle forze produttive e l’emancipazione.

In verità lo sviluppo delle forze produttive ha reso quasi impossibile l’emancipazione sociale. La ragione illuminata al servizio della verità si è da tempo trasformata in ragione strumentale al servizio del potere. Questo sviluppo può aver dato origine a una classe operaia industriale sediziosa nelle sue fasi iniziali, ma nelle fasi successive, nonostante la generalizzazione del lavoro salariato, la base sociale per la lotta per l'emancipazione si è ridotta. La macchina ha inesorabilmente soppresso la forza lavoro e condizionato tutta la vita sociale, ponendola nelle mani di esperti. La tecnologia e il consumismo hanno portato alla declassazione della popolazione lavoratrice e alla perdita della coscienza di classe, cancellando ogni aspirazione rivoluzionaria dal loro immaginario collettivo. In Occidente, la società di classi contrapposte ha ceduto il passo a una società oligarchica basata su classi medie salariate. La disintegrazione della sfera sovietica ha portato al capitalismo monopolistico di Stato. La base materiale dell'emancipazione non ha prosperato da nessuna parte: la principale forza produttiva, che non è il lavoro ma l'alta tecnologia, è diventata sempre più distruttiva, quindi inutile ai fini della liberazione e quindi impossibile da autogestire.

In che consiste la “coscienza territoriale”?

Ellul una volta disse che ciò che è in gioco è il nostro habitat sociale e ambientale. Nelle regioni che aspirano a costituirsi in Stati, il concetto di territorialità si confonde spesso con il patriottismo identitario. Tuttavia, più in generale, l'espressione coscienza del territorio si riferisce ai legami intellettuali che la popolazione mantiene con il proprio habitat, legami compromessi dalla sua intensa artificializzazione, responsabile dell'insieme di sindromi psicologiche definite psicastenia o, più comunemente, malessere urbano. Non si tratta, quindi, semplicemente di un insieme di legami affettivi, né di una consapevolezza ambientale filantropica, ma piuttosto del ritmo lento della vita in spazi aperti, non toccati dagli imperativi capitalistici, ritmo che favorisce forme di convivenza sociale integrata. Alcuni, come Sergio Ghirardi, utilizzano il concetto di “coscienza di specie”, che definirei come la protesta spirituale del vicinato (urbano e rurale) di fronte alle minacce di devastazione totale insite nella fase estrattivista del tardo capitalismo che, a medio termine, suppone l'estinzione della specie umana.

Qual è la differenza tra le lotte territoriali e le lotte urbane?

Non c'è differenza. Il diritto alla città è anche diritto al territorio. Il territorio è, in linea di principio, lo spazio concreto in cui una popolazione è insediata e, di conseguenza, è più che un semplice paesaggio, terreno edificabile, campagna o ambiente naturale. Anche le aree urbane ne fanno parte. È spazio geografico e sociale, una porzione della natura plasmata dall'azione umana nel corso della storia. Ha un passato, possiede tradizioni proprie e include relazioni sociali. Nell'era del turbo capitalismo, i territori non metropolitani si stanno sub urbanizzando, quindi tutti i conflitti hanno parecchio in comune, essendo allo stesso tempo territoriali e urbani. Inoltre, dato lo spopolamento delle aree rurali, le forze che difendono il territorio sono per lo più metropolitane.

A proposito dello Stato: è necessario per superare il capitalismo o è un freno?

Per coloro che propugnano un'organizzazione sociale orizzontale, senza burocrazia, dirigenti, carceri o forze dell'ordine, non c'è dubbio che lo Stato è più che un freno, un grandissimo nemico. Essi vogliono rafforzare la società civile lottando per un funzionamento autonomo, cioè in margine alle istituzioni. Lo Stato è lo Stato della classe dominante, quindi il volto politico del capitalismo e, in quanto monopolizzatore della violenza, il suo braccio armato. Qualunque sia la sua forma e qualunque cosa dica la sua propaganda mediatica, lo Stato è lo sfruttamento politicamente organizzato della maggioranza della popolazione da parte di una classe minoritaria. Dato che lo Stato può sopravvivere al capitalismo, ma non viceversa, l'abolizione di quest'ultimo non porta necessariamente all'abolizione dell’altro. Si deve cominciare dall'abolizione dello Stato. Cominciare dallo smascherarne le macchinazioni. Grazie alle trappole partecipative e al conformismo dominante, lo Stato assorbe tutte le energie del dissenso e ne coopta facilmente i rappresentanti. Quando un movimento popolare penetra nei meccanismi statali, ne rimane intrappolato. Il movimento secerne uno strato burocratico che agisce in suo nome e, man mano che consolida il suo potere decisionale – alterando la vecchia struttura di potere e facendosi governo – si distacca sempre di più dal movimento, formando una nuova classe separata. Chi delega, abdica. La classe statale si emancipa dalla società e si proclama sua rappresentante, imponendo un cambiamento di apparenze. Per quanto il dominio possa variare nella forma, rimarrà lo stesso nel contenuto.

Qual è la tua definizione di Stato? In che modo essa differisce dalla concezione spinoziana o hegeliana?

Lo Stato è una struttura verticale separata e opposta alla società civile, che organizza unilateralmente attraverso uno strato di funzionari. Bakunin diceva che lo Stato era il male, la stessa Chiesa secolarizzata, una forma storica di società che aveva fatto il suo tempo. García Calvo avrebbe sottolineato: “lo Stato è l'epifania di Dio stesso”, un'idea astratta e metafisica, convertita in un ordinamento giuridico che riduce la gente alla categoria di suddito, oltre la quale non c'è altro che rinuncia e sottomissione. La concezione di Spinoza è una variante liberale della nozione di contratto. A un certo punto, attraverso un patto, la moltitudine concorda sulla composizione di uno Stato “di civiltà” che, in conformità con la legge, imponga la ragione e il buon senso come guida di condotta, protegga le libertà “naturali” e salvaguardi tutti dal caos derivante dalle passioni anarchiche prevalenti nello “stato di natura”. La Repubblica olandese costituirebbe l'esempio tangibile dell'ideale spinoziano. Hegel, da parte sua, considerava lo Stato come la realizzazione effettiva del diritto, immagine della ragione e culmine della libertà civile. Era il punto finale di un'evoluzione storica che il filosofo incarnava nella monarchia prussiana. Entrambe le nozioni di Stato riflettono diverse fasi storiche del dominio dell'economia sulla società e, quindi, dello sviluppo della borghesia, la classe dell’economia, commerciante e corsara in un caso, industriale nell'altro. Il diciassettesimo secolo per Spinoza, il diciannovesimo per Hegel. Salvo pochi casi eccezionali – Morelly, Godwin, Fourier – i pensatori avanzati della borghesia in ascesa non hanno mai considerato la possibilità di una società organizzata non soggetta ad autorità esterne. Nella fase declinante, gli ideologi civici, da buoni filistei, rifuggono da Hegel, cioè da Marx e Bakunin, in altre parole dalla lotta di classe e dal rifiuto dello Stato, e occasionalmente riscoprono la teologia politica di Spinoza, cioè lo Stato liberale idealizzato della vecchia borghesia, e utilizzano le loro riflessioni per fornire prospettive politiche alle fazioni della classe media che essi rappresentano.

 

Miguel Amorós, Novembre 2025


 

Las luchas territoriales ¿son la palanca de la superación del capitalismo?



Preguntas a abordar el 27 de noviembre en el  Centre Culturel Bruegel de Bruselas y planteadas el 28 en el Groupe de Recherche pour une Stratégie Économique Alternative

 

Las definiciones (como las corrientes políticas) de comunismo y de anarquismo son múltiples y sería imposible hacer una síntesis de toda esa diversidad en una tarde. No obstante, ¿Podrías compartir con nosotros tu noción de anarquismo y de comunismo?

Malatesta dijo que comunismo y anarquía eran los mismo. Nada que ver con el sistema cuartelero de los leninistas, simple disfraz del capitalismo burocrático de Estado. Yo lo definiría como un régimen de convivencia social sin Estado y sin clases, basado en el rechazo de la división del trabajo y en la posesión en común de los medios de producción, en su gestión colectiva y en la distribución del producto social en función de las necesidades. Nacido del libre acuerdo, el comunismo libertario debería de proporcionar a todos las condiciones idóneas para un máximo desarrollo material, moral e individual. Se trata pues de un ideal ético inalcanzable por la fuerza, ya que tiene como condición ineludible la comprensión y el deseo de la mayoría expresado libremente. Para muchos, entre los que me incluyo, el anarquismo sería el modo de lograr este fin, naturalmente por vías solidarias y universalistas, no con procedimientos parlamentarios ni postulados religiosos. En mi caso, entiendo el anarquismo como la característica doctrinal propia del socialismo antiautoritario que, durante mucho tiempo, acompañó a buena parte del proletariado revolucionario, hasta entrar en crisis, puede que final, por culpa de las capitulaciones habidas durante la revolución española. A partir de ahí ya no se puede hablar de anarquismo, con sus diferentes matices, sino de anarquismos, ideologías diversas con el mismo nombre, pero ajenas unas con otras.

¿Sus puntos de encuentro, sus divergencias y el potencial anticapitalista respectivo?

Evidentemente, entre los que se autodenominan anarquistas existen profundos desacuerdos metodológicos y grandes diferencias estratégicas, derivadas de la forma variable de interpretar la realidad y de la praxis divergente con la que caminar hacia los objetivos finales. Las discordancias cristalizaron en ideologías, en fórmulas, a menudo acompañadas de comportamientos sectarios, como por ejemplo, la insurreccionalista, la municipalista, la sindicalista, la primitivista, la especifista, la postanarquista, etc. Actualmente, el anarquismo es sobre todo un estado de ánimo difuso presente en cualquier conflicto como exigencia de horizontalidad e igualdad, rechazo de la mediación, demanda de autogestión y reivindicación de la acción directa. El potencial anticapitalista del anarquismo moderno se materializará en la medida en que la coyuntura social favorezca el arraigo en las masas rebeldes de sus ideas no vencidas, entendidas no como utopía, sino como “la verdad inmediata de un tiempo relativamente próximo” (Ricardo Mella).

¿Qué es una metrópolis?

En Europa las tres cuartas partes de la población vive en zonas urbanas extensas. En el mundo existen más de quinientas aglomeraciones superiores al millón de habitantes, a las que en propiedad no se puede llamar ciudades. Pasó el tiempo de las ciudades compactas en simbiosis con el entorno agrario. El campo hace mucho que dejó de ser una realidad diferenciada. Debord anunció en 1967 que "el momento presente es el de la autodestrucción del medio urbano." La metrópolis -o “posciudad”, tal como la llama Françoise Choay- es un tipo de asentamiento informe fruto de la expansión ilimitada de la ciudad industrial, que ha ido absorbiendo poblaciones limítrofes y creando nuevas barriadas hasta suburbanizar todo el territorio circundante. Tal unificación del espacio fue posible en un primer lugar, gracias al desarrollo del transporte, al combustible fósil barato y a los nuevos materiales de construcción. Etimológicamente, metrópolis en griego significa “ciudad madre”; en cambio, la realidad dista mucho de la maternidad: es un engendro devorador de espacio que concentra el poder en una sociedad totalmente urbanizada. En los noventa del siglo pasado, la globalización financiera y la digitalización la consolidaron como dominio totalitario de la mercancía y motor del desarrollo capitalista. Es un no-lugar de conurbaciones yuxtapuestas, que no resulta de la superación de la oposición campo-ciudad, sino del hundimiento simultáneo de ambos polos. No representa un proyecto de convivencia, ni siquiera a nivel de clase dominante; bien al contrario, es una realidad totalmente mercantil. Constituye un aglomerado discontinuo y difuso, sin valores ni cultura, sin auténtica vida, conectado únicamente por vías de circulación. La comunicación ha sido marginada por la conectividad. Lo que importa no es la convivencialidad, sino su precio. En realidad, la metrópolis no está hecha para los habitantes, sino para los transeúntes, bien sean visitantes, promotores o inversores. Su base económica ya no radica en la industria, sino en los servicios, el turismo, los grandes eventos y la innovación. Aunque conserve centros históricos, estos han sido museificados, puesto que la metrópolis carece de centro real: en ella lo central se ha vuelto periférico y la periferia deviene cada vez más céntrica. Tampoco las plazas públicas o las calles proporcionan un resto de coherencia orgánica; las infraestructuras viarias son sus únicos ejes vertebradores. El paisaje reconstruido por las fuerzas desarrollistas reproduce maneras de vivir en confinamiento, precarias, motorizadas y mercantilizadas hasta en los menores detalles: las metrópolis generan en cualquier rincón relaciones sociales capitalistas de forma automática. Se puede decir que constituyen el espacio idóneo para la reproducción de capitales en la etapa hipertecnológica de la economía mundializada.

Más sobre la metrópolis.

El paso de una economía productiva a otra de servicios, seguido de la transición de un capitalismo nacional a otro global, consagró el papel de las metrópolis por encima de los Estados. Entre la clase dirigente, la ideología keynesiana retrocedió ante el pensamiento neoliberal, enemigo acérrimo del intervencionismo estatal. La promesa de abundancia reemergía en los mercados financieros con el crédito a espuertas y la expansión de la deuda, propiciando turboconsumismo, aventuras inmobiliarias y toda clase de burbujas especulativas. No obstante, la constatación de la finitud de los recursos primarios, sobre todo energéticos (p.e. el “pico” del petróleo), sumada a la crisis medioambiental provocada por el desarrollismo a ultranza (p.e. calentamiento global, producción descomunal de residuos, contaminación, despilfarro de recursos) obligaron a considerar la "sostenibilidad" del proceso, es decir, el pago de la factura de la degradación. Entonces, el capitalismo echó mano del lenguaje ecológico e inauguró una fase verde que el Estado debía promocionar y sostener. El Estado recobraba así el papel de antaño en una economía a “descarbonificar” por un periodo de “transición energética”. La metrópolis evolucionaba en consecuencia recurriendo a un urbanismo light con sus carriles bici, islas peatonales, recogida selectiva de basura, puntos de recarga eléctrica, "corredores" verdes, tranvías y remedios digitales como las smart cities. “Reinventaba” el territorio obedeciendo a la lógica más al día -más tecnológica- de la mercantilización.

¿Qué relación guarda con el “capital territorial”?

Hablamos de “capital territorial” cuando el territorio se ha transformado completamente en "activo", o sea, en capital. En la Conferencia de Río de 1992 los dirigentes mundiales lo definieron como la nueva configuración del territorio que se desprendía de la unión de la economía con el medio ambiente, o sea, del denominado “desarrollo sostenible”. El concepto venía asociado al momento “verde” del capitalismo, cuando el territorio se situaba en el centro del triángulo sociedad-economía-medio ambiente. Una vez mejorada su accesibilidad, este se convierte en un espacio multiexplotable: es una cantera de suelo edificable, un soporte de grandes infraestructuras, una oportunidad para la industria agroalimentaria, una reserva paisajística, un destino turístico, un área para el ocio industrializado, una fuente de energía renovable y de materiales estratégicos, etc, todo lo cual le concede un peso cada vez mayor en la economía global. En fin, el territorio es la materia prima del capitalismo en su último periodo extractivista.

¿Es posible superar el capitalismo sin desurbanizar el campo ni ruralizar la ciudad, y por consiguiente, sin destruir las metrópolis?

Obviamente no es posible. Liquidar la globalización conlleva el fin de su organización espacial. Frente a las sucesivas crisis, las metrópolis además de invivibles, terminan siendo inviables. Son muy vulnerables ante los desastres y tan enormes que resultan imposibles de gestionar comunalmente. El gran escollo con que se va a encontrar una transformación social fundada en la vinculación armónica con la naturaleza serán las mismas conurbaciones, aptas solamente para la reproducción de relaciones capitalistas, a las que forzosamente habrá que desmantelar. La desmundialización siempre tendrá un aspecto desurbanizador y ruralizante. La simple implantación de una economía doméstica sin mercado -llámese natural, sustantiva o moral- implicará colectividades coordinadas de dimensiones reducidas, con cultivos próximos y producción industrial a pequeña escala. Con mayor razón, la autogestión no sería operativa en vecindarios demasiado grandes, donde el ágora es imposible. Ahora bien, desurbanizar no significa abolir el espacio urbano, a lo sumo, abolir la propiedad privada capitalista. Entraña un doble movimiento de despoblamiento y repoblación, de descentralización y desconcentración, cuyos efectos al respecto son la descongestión del espacio sobreurbanizado, su revitalización, la recuperación de su funcionamiento orgánico... Paradójicamente, la desurbanización es una vuelta a la verdadera ciudad.

¿Por qué el territorio es objetivamente el lugar central de la lucha anticapitalista (y no el lugar de trabajo)?

Central no quiere decir único, ni territorio significa exclusivamente campo. Sin embargo, cuando la mayor producción de beneficios, de la que depende el crecimiento económico, se da en la explotación intensiva de un territorio previamente “ordenado”, entonces su defensa viene a ser el centro de la lucha anticapitalista (o sea, de la actual lucha de clases). En efecto, a medida que la productividad global se ralentiza y que las ganancias decrecen, lo que David Harvey llama "circuitos secundarios de acumulación" adquieren una superior relevancia. Los antagonismos se despliegan en toda su magnitud solo en esos circuitos, -bien sea en el problema de la vivienda y el deterioro de los servicios públicos, bien en la resistencia a la construcción de centrales nucleares, trenes de gran velocidad o líneas de alta tensión, bien en el sabotaje a los transgénicos o los grandes proyectos inútiles. En consecuencia, la cuestión social se manifiesta principalmente como cuestión territorial. Al contrario, dada la pérdida de centralidad de los trabajadores de la industria y la desaparición de las huelgas salvajes, la lucha sindical, aunque necesaria, no rompe con las reglas de juego del desarrollismo. No se impone como objetivo salir del capitalismo, sino negociar el valor de la fuerza de trabajo con papeles en el mercado. Menos todavía lo quiebra el obrerismo político, tan aferrado al Estado. Por consiguiente, el conflicto laboral no puede ser el eje sobre el que pivoten las aspiraciones emancipatorias. Si se quiere acabar con el régimen capitalista, la cuestión estratégica principal reside en la capacidad de bloquear el crecimiento de la economía con la mirada puesta en las alternativas de salida. En ese sentido, la defensa del territorio, por limitada que sea, es antidesarrollista y anticapitalista por esencia, ya que se encara con el principal impulsor de la economía en estos momentos, la explotación industrial del patrimonio, los saberes y los recursos territoriales, y en mayor o menor medida, propone alternativas prácticas.

¿Qué tipo de territorio (y ciudad) sería económicamente habitable, viable (en el marco anticapitalista)?

Tempranamente, los anarquistas Elisée Reclus y Piotr Kropotkin plantearon la desconcentración de las ciudad burguesa y la eliminación de sus barrios miserables. Ambos apelaron a un “sentimiento de la naturaleza” que guiase la vuelta a un orden natural optimizado, el cual consistiría en una dispersión de baja intensidad de todas las actividades acaparadas por la urbe expansiva. Al conformarse alrededor de las ciudades una red de pequeñas industrias, hospitales, escuelas, molinos, saltos de agua, caminos, ferrocarriles y colectividades agrícolas, el resultado sería una región integrada urbano-rural, sin centro dirigente, encauzada hacia el comunismo. Sus ideas fueron recogidas y desarrolladas por otros autores, entre los que destacaría a Patrick Geddes y Lewis Mumford, que partían de la“planificación regional”. Con el fin de conseguir un equilibrio territorial, estimular una vida intensa y creativa, eliminar el despilfarro de energía y alimentos y detener la expansión metropolitana, propugnaban un uso racional del territorio. Este se concretaba en propuestas como la de cinturones agrícolas, producción descentralizada de energía, reparto equilibrado de la población en unidades convivenciales bien equipadas, reinstalación de las industrias cerca de la materia prima y transporte público eficaz. Reformas a contracorriente, de sentido común pero sin perspectivas de realización, puesto que no eran respaldadas por fuertes movimientos vecinales arraigados en porciones de territorio liberadas, sino que dependían del altruismo de los dirigentes. Finalmente, el descrédito de la idea de progreso trajo la revalorización de la comuna medieval, particularmente de su funcionamiento abierto codificado en actas de auto-gobierno, de la regulación de la vida social por la costumbre y de la noción de bien común. Así se han abierto nuevas perspectivas altermetropolitanas en los movimientos auto-organizados capaces de sobrevivir a las tentaciones electoralistas, a la amalgama sin principios y al cebo de las subvenciones.

 

Preguntas del equipo organizador para profundizar después de la conferencia

Definición y periodización de la nueva fase del capitalismo (territorial)?

La escasez y finitud de los recursos está dando lugar al acaparamiento de inmuebles, tierras, aguas y minerales, mientras que la crisis climática impulsa al desarrollo industrial de las energías supuestamente “renovables” y de los agrocarburantes. Al volverse extractivista, el capitalismo global se agarra al territorio como tabla de salvación, apartando de la protección ambiental el mayor número de “zonas de sacrificio.” El desplome financiero de 2008 puso fin al neoliberalismo puro y reafirmó la función estabilizadora del Estado. Por otro lado, el auge del capitalismo asiático, combinado con las dificultades insalvables de crecimiento del capitalismo europeo y norteamericano, decantaba la globalización a su favor, amenazando la hegemonía occidental a todos los niveles. En las altas esferas se produjeron fuertes discrepancias. El principal peligro para el statu quo económico, militar y político de Occidente -la competitividad superior china- exigía soluciones geopolíticas, no "verdes"; monopolios, no libre competencia; autarquía, no apertura de fronteras, todo lo cual ponía fin al neoliberalismo. Por ahora, gana el sector favorable al proteccionismo, los cárteles tecnológicos, el repliegue nacionalista y el rearme general. Al imponerse el poderío armamentístico en la política exterior, la globalización tal como la concebía el pensamiento "único" ya no es de recibo. Asimismo, el avance del negacionismo climático y la defensa del empleo industrial señalan el declive del ecologismo de Estado. A día de hoy, la fracción más agresiva de la clase dominante ha dejado de creer en el progreso y la sostenibilidad, y confía poco en el mercado global: prefiere que las industrias se queden en casa a pesar de su baja competitividad (para eso están los aranceles), que la energía nuclear tenga una segunda oportunidad y que sus áreas de influencia se sostengan por la fuerza si es preciso. Sabe que la economía declina y que el “estado del bienestar” se estrecha irreversiblemente, por la que la conservación del capitalismo exigirá el sacrificio del programa ecológico y de una parte creciente de la población. Su catastrofismo tiene que ver con un final de ciclo en la civilización capitalista más que con una "transición ecológica" dirigida por un consorcio privado-estatal. La ideología verde, todavía optimista, está siendo desplazada por un decrecentismo sui generis que los estrategas transicionistas denominan “poscrecimiento”. A pesar de todo, el neoliberalismo político, ciudadanista y poscrecentista, pierde terreno ante un progresivo despotismo de corte identitario, autoritario y violento, típico de un régimen protofascista y posglobalización.

¿Cuál sería el sujeto de la lucha (y el “sujeto revolucionario”) en las actuales condiciones?

Un sujeto político es más que una informe “multitud” interclasista: es una comunidad de lucha estructurada. Su formación va asociada a los enfrentamientos contra la autoridad de los sectores de población perjudicados o excluidos por los mercados, y, paralelamente, al desarrollo de una sociabilidad vecinal ligada a la reconstrucción de espacios de vida menos condicionados por el dinero. Si el Estado se retirara lo suficiente y sus partidarios quedasen en minoría, los individuos se sentirían obligados a organizar la vida colectiva, generándose en el proceso voluntad de segregación, deseo de autonomía y espíritu de clase. Clase sin partido que pretenda servirse de ella, ni más función histórica que la que una conciencia rupturista le pueda proporcionar. Los frentes de lucha son diversos -urbanos, rurales, ecológicos- y el reto con el que se enfrentan las fuerzas sociales movilizadas reside en su capacidad de confluir sin renunciar a la democracia directa, ni soslayar sus objetivos finales. Desgraciadamente, las clases medias, aunque depauperadas, tienden a conservar su mentalidad y a actuar de acuerdo con ella, por lo que son presa fácil de los espejismos populistas de la reacción, y consecuentemente, un obstáculo mayor para la autonomía y la conciencia.

Crítica de la concepción marxista sobre la relación entre el desarrollo de las fuerzas productivas y la emancipación.

En verdad, el desarrollo de las fuerzas productivas ha vuelto casi imposible la emancipación social. Hace tiempo que la razón ilustrada al servicio de la verdad se trastocó en razón instrumental al servicio del poder. Tal desarrollo pudo originar la formación de una clase obrera industrial sediciosa en sus fases iniciales, pero en etapas posteriores, a pesar de la generalización del trabajo asalariado, la base social del combate por la emancipación se restringía. La máquina suprimía inexorablemente la fuerza de trabajo y condicionaba toda la vida social, poniéndola en manos de los expertos. La tecnología y el consumismo provocaron un desclasamiento de la población trabajadora y la pérdida de la conciencia de clase, borrando de su imaginario toda aspiración revolucionaria. En Occidente, la sociedad de clases enfrentadas desembocó en una sociedad oligárquica reclinada en clases medias asalariadas. La descomposición del área soviética derivó en un capitalismo monopolista de Estado. La base material de la emancipación no prosperó en ningún lado: la principal fuerza productiva, que no es el trabajo sino la alta tecnología, era cada vez más destructora, luego inservible para fines liberadores, y por lo tanto, imposible de ser autogestionada.

¿Qué es la “conciencia territorial”?

Dijo Ellul en su momento, que “lo que está en juego es nuestro entorno social y ambiental.” En las regiones que aspirar a constituirse en Estado, a menudo la idea territorial se confunde con el patriotismo identitario. Sin embargo, de manera más general, la expresión “conciencia del territorio” alude a las ligaduras intelectuales que la población mantiene con su hábitat, comprometidas por una artificialización intensiva del mismo, responsable esta del conjunto de síndromes sicológicos definidos como "psicastenia", o más comúnmente, como "mal urbano." No se trata pues de un conjunto de vínculos simplemente afectivos, ni de una filantrópica “conciencia ambiental”, sino que tiene que ver con el ritmo de vida pausado de los espacios abiertos, ajenos a los imperativos capitalistas, impulsor de formas de convivencia social integrada. Algunos como Sergio Ghirardi utilizan el concepto de “conciencia de especie”, que yo definiría como la protesta espiritual del vecindario (urbano y rural) ante las amenazas de devastación total contenidas en la fase extractivista del capitalismo tardío, algo que supone a medio plazo la extinción de la especie humana.

¿Cuál es la diferencia entre las luchas territoriales y las luchas urbanas?

No hay diferencia. El derecho a la ciudad es también derecho al territorio. Territorio es en principio el espacio concreto donde se asienta una población, y, por consiguiente, es algo más que paisaje, solar, campo o medio natural. Las áreas urbanas también forman parte de él. Es espacio geográfico y social, una porción de la naturaleza modelada por la acción humana a lo largo de la historia. Es dueño de un pasado, tiene tradición propia y contiene relaciones sociales. En el momento turbocapitalista, el territorio no metropolitano se halla suburbanizado, por lo que todos los conflictos tienen bastante en común, ya que son a la vez territoriales y urbanos. Es más, dada la despoblación de las zonas rurales, los efectivos de la defensa del territorio son mayoritariamente metropolitanos.

Con relación al Estado ¿Es este necesario para superar el capitalismo o un freno?

Para quienes propugnan una organización social horizontal, sin burocracia, ni dirigentes, ni cárceles, ni fuerzas de orden, no cabe duda de que el Estado es, más que un freno, un grandísimo enemigo. Ellos quieren reforzar la sociedad civil luchando por un funcionamiento autónomo, o sea, al margen de las instituciones. Por otra parte, el Estado es el Estado de la clase dominante, luego la cara política del capitalismo y, en tanto que monopolizador de la violencia, su brazo armado. Cualquiera que sea su modalidad y diga lo que diga su propaganda mediática, el Estado es la explotación políticamente organizada de la mayoría de la población por una clase minoritaria. Teniendo en cuenta que el Estado puede sobrevivir al capitalismo y no lo contrario, la abolición de este no conduce necesariamente a la de aquel. Hay que empezar por suprimir el Estado. Comenzar desvelando sus artimañas. Gracias a las trampas participativas y al conformismo dominante, el Estado absorbe todas las energías de la contestación y coopta con facilidad a sus representantes. Cuando un movimiento popular penetra en los mecanismos estatales, queda atrapado por ellos. El movimiento segrega una capa burocrática que actúa en su nombre, y que, a medida que va acaparando la decisión -a medida que altera la vieja estructura de poder y se hace gobierno- va divorciándose de él, constituyendo una nueva clase separada. Quien delega, abdica. La clase del Estado se emancipa de la sociedad y se proclama representante de la misma, forzando un cambio de apariencias. Pero aunque la dominación varíe en la forma, se mantendrá en el contenido.

¿Cuál es tu definición de Estado? ¿En qué se diferencia de la concepción espinozista o hegeliana?

El Estado es una estructura vertical separada y opuesta a la sociedad civil, a la que organiza unilateralmente a través de una capa de funcionarios. Bakunin dijo que el Estado era el mal, la mismísima Iglesia secularizada, una forma histórica de sociedad que agotó su tiempo. Garcia Calvo puntualizaría: “el Estado es la epifanía de Dios mismo”, una idea abstracta, metafísica, convertida en un ordenamiento jurídico que reduce la gente a la categoría de súbdito tras la cual no hay más que renuncia y sumisión. La concepción de Spinoza es una variante liberal de la noción de contrato. En algún momento, mediante un pacto, la multitud acuerda la composición de un Estado “de civilidad” que, conforme a la ley, imponga la razón y el sentido común como guía de conducta, proteja las libertades “naturales” y salvaguarde a todos de ese caos producto de las pasiones anárquicas imperantes en el “estado de naturaleza”. La república holandesa constituiría el ejemplo tangible del ideal espinozista. Hegel, por su parte, consideraba al Estado como realización efectiva del derecho, imagen de la razón y culminación de la libertad civil. Era el punto final de una evolución histórica que el filósofo concretaba en la monarquía prusiana. Ambas ideas de Estado reflejan etapas históricas diferentes del dominio de la economía sobre la sociedad, y por lo tanto, del desarrollo de la burguesía, la clase de la economía, comerciante y corsaria en un caso, industrial en el otro. Siglo XVII para Spinoza, siglo XIX para Hegel. Salvo en algún caso excepcional -Morelly, Godwin, Fourier- los pensadores avanzados de la fase ascendente de la burguesía, nunca se plantearon la posibilidad de una sociedad organizada no sometida a una autoridad exterior. En su fase descendente, los ideólogos ciudadanistas, como buenos filisteos, huyen de Hegel, es decir de Marx y de Bakunin, o sea, de la lucha de clases y del rechazo al Estado, y de vez en cuando descubren la teología política de Spinoza, es decir, al Estado liberal idealizado de la vieja burguesía, y utilizan sus reflexiones con el fin de proporcionar perspectivas políticas a cualquiera de las facciones mesocráticas que representen.

    Miguel Amorós Noviembre de 2025