Ripubblico questo testo che ho trovato così importante e ricco di spunti di
riflessione nuovi e geniali come era tipico di David Graeber, che ho sempre
considerato un fratello nelle idee e che è purtroppo venuto a mancare il 2
settembre, e ringrazio il blog di Franco Senia da cui l'ho copiato
1. In principio c'era la parola
Per secoli ci siamo raccontati una storia semplice riguardo le origini
della disuguaglianza sociale. Per la maggior parte della loro storia, gli
esseri umani avevano vissuto in piccole bande egualitarie di
cacciatori-raccoglitori. Poi arrivò l'agricoltura, che portò con sé la
proprietà privata, e quindi l'ascesa delle città, cosa che significò anche
l'emergere della civiltà propriamente detta. Civiltà ha significato molte cose
cattive (guerre, tasse, burocrazia, patriarcato, schiavitù...) ma ha reso anche
possibile la letteratura scritta, la scienza, la filosofia, e molte altre
grandi conquiste umane.
Quasi ciascuno di noi conosce questa storia nella sua versione più estesa.
E questo succede almeno dai tempi in cui Jean-Jacques Rousseau ha cominciato a
tracciare il quadro d'insieme di quello che pensiamo e della direzione presa
dalla storia umana. Ciò è importante in quanto la narrativa definisce anche il
nostro senso di possibilità politica. La maggior parte di noi vede la civiltà,
e quindi la disuguaglianza, come se fosse una tragica necessità. Alcuni sognano
di poter tornare ad una qualche utopia del passato, sognano di trovare un
equivalente industriale del "comunismo primitivo", oppure
anche, in casi estremi, di distruggere ogni cosa e poter tornare così ad essere
nuovamente raccoglitori. Ma non c'è nessuno in grado di sfidare quella che è la
struttura di base della storia. Solo che in questa narrazione c'è un problema
fondamentale. È falsa!
Le prove schiaccianti fornite dall'archeologia, dall'antropologia e dalle
discipline affini, hanno cominciato a dare un'idea abbastanza chiara di ciò a
cui hanno davvero assomigliato gli ultimi 40mila anni di storia umana, e quasi
in nessun tutto questo sembra possa somigliare a quello che ha raccontato la
narrativa convenzionale. Infatti, la nostra specie non ha affatto trascorso la
maggior parte della sua storia in piccole bande; l'agricoltura non ha segnato
alcuna soglia irreversibile concernente l'evoluzione sociale; le prime città
sono state assai spesso fortemente egualitarie. Eppure, anche se i ricercatori
sono gradualmente arrivati ad avere un certo consenso su tali questioni,
rimangono stranamente riluttanti ad annunciare le loro scoperte al pubblico - o
persino di annunciarle a studiosi di altre discipline - e ancor meno sembrano
propensi a riflettere sulle implicazioni politiche più ampie. Come risultato,
tutti quegli scrittori che stanno riflettendo sulle "grandi
questioni" della storia umana - Jared Diamond, Francis Fukuyama, Ian
Morris, ed altri - continuano a considerare la questione di Rousseau ("Qual
è l'origine della disuguaglianza sociale?") come se fosse un punto di
partenza, e lasciano suppore che la storia, in senso più ampio, dovrà
cominciare con una qualche sorta di perdita dell'innocenza primordiale.
Semplicemente, continuare ad inquadrare la questione in tal modo significa
partire da una serie di assunti, secondo i quali:
1
- Esiste una cosa chiamata "ineguaglianza", 2 - Che questo è un
problema, e che 3
- C'è stato un tempo in cui non esisteva.
Naturalmente, in seguito al collasso finanziario del 2008, e a partire
dagli sconvolgimenti che ne sono conseguiti, il "problema della
disuguaglianza sociale" è stato posto al centro del dibattito
politico. Sembra esserci un consenso, fra la classe intellettuale e quella
politica, sul fatto che i livelli di disuguaglianza sociale siano andati fuori
controllo, e che da questo derivino la più parte dei problemi del mondo, in un
modo o nell'altro. Sottolineare questo, viene visto come una sfida alla
struttura del potere globale, ma la cosa va paragonata al modo in cui simili
problemi sono stati affrontati una generazione prima. Oggi, diversamente da
allora - quando si faceva uso di termini come "capitale" o
come "potere di classe" - la parola "uguaglianza"
viene praticamente concepita perché possa condurre alle mezze misure ed al
compromesso. Possiamo anche riuscire ad immaginare di rovesciare il capitalismo
e di spezzare il potere dello Stato, ma è molto difficile immaginare di
eliminare la "disuguaglianza". In realtà, non è affatto ovvio
che cosa questo potrebbe significare, dal momento che le persone non sono tutte
uguali e sembra non esserci nessuno che vorrebbe che lo fossero.
"Disuguaglianza" è un modo di inquadrare i problemi
sociali in una maniera che sia adeguata per i riformisti tecnocratici, quel
genere di persone che hanno assunto da subito che qualsiasi visione reale di
trasformazione sociale è stata da tempo eliminata dal tavolo politico. È una
cosa che ci permette di armeggiare con i numeri, di discutere del coefficiente Gini e delle soglie di
disfunzione, aggiustare il regime fiscale e i meccanismi di protezione sociale,
persino arrivare a scioccare l'opinione pubblica per mezzo di cifre in grado di
mostrare fino a che punto stiano andando male le cose («riuscite ad
immaginarlo? Lo 0,1% della popolazione mondiale controlla più del 50% della
ricchezza!»), e tutto questo avviene senza che venga affrontato nessuno di
quei fattori che le persone attualmente ritengono siano causa di "disuguaglianza":
per esempio, il fatto che alcuni riescono a trasformare la loro ricchezza in
potere sugli altri; oppure che altre persone finiscano per sentirsi dire che i
loro bisogni non sono importanti, e che le loro vite non hanno alcun valore
intrinseco. E quest'ultima cosa - ci dovremmo credere - è solo l'effetto
inevitabile della disuguaglianza e dell'inuguaglianza, l'inevitabile risultato
dovuto al fatto di vivere in una qualsiasi grande, complessa, urbana,
tecnologicamente sofisticata società. È questo il vero messaggio politico che
viene continuamente ripetuto, attraverso l'infinita evocazione di
un'immaginaria età dell'innocenza, prima dell'invenzione della disuguaglianza:
se vogliamo sbarazzarci completamente di un simile problema, dobbiamo
sbarazzarci in qualche modo del 99,9% della popolazione mondiale e tornare ad
essere nuovamente delle sparute bande di raccoglitori. Diversamente, la cosa
migliore in cui possiamo sperare per noi riguarda la dimensione, la taglia,
dello stivale che colpirà le nostre facce, per sempre, oppure, forse, la
possibilità di ritagliare un po' di spazio di manovra in più, grazie al quale
alcuni di noi potranno evitare di essere colpiti, almeno temporaneamente.
Sembra che ora la scienza sociale ufficiale sia stata mobilitata per
rafforzare questo senso di disperazione. Quasi mensilmente, ci confrontiamo con
delle pubblicazioni che cercano di proiettare nell'età della pietra quella che
è la nostra ossessione riguardo la distribuzione della proprietà, ponendoci
alla falsa ricerca di "società egualitarie", definite in una
maniera secondo la quale esse non avrebbero potuto esistere al di fuori di
alcune piccole bande di raccoglitori (e possibilmente, neppure così). Perciò,
quello che faremo in questo saggio sono due cose. In primo luogo, impiegheremo
un po' di tempo a selezionare quello che passa per essere un'opinione informata
su tali argomenti, per far vedere come si gioca a questo gioco, e come anche gli
studiosi contemporanei apparentemente più sofisticati finiscano per riprodurre
la medesima saggezza convenzionale che esisteva in Francia ed in Scozia,
diciamo, nel 1760. Dopo di che, cercheremo di stabilire le basi iniziali di una
narrazione completamente differente. In questo modo, si tratta principalmente
di svolgere un lavoro di pulizia del terreno. Le domande con le quali abbiamo a
che fare sono enormi, e le questioni sono talmente importanti che occorreranno
anni di ricerca e di dibattito, solo per cominciare a capire pienamente quali
sono le implicazioni. Ma su una cosa insistiamo. Abbandonare la storia della
perdita di un'innocenza primordiale non significa abbandonare i sogni di
un'emancipazione umana - vale a dire, di una società nella quale nessuno può
trasformare i propri diritti in proprietà e in un modo di rendere schiavi gli
altri, e nella quale a nessuno può essere detto che la sua vita e i suoi
bisogni non contano. Al contrario. La storia umana diventa un posto molto più
interessante, che contiene molti più momenti di speranza di quanti siamo stati
portati ad immaginare, una volta che abbiamo imparato a liberarci dalle nostre
catene concettuali e a percepire cosa esiste realmente.
2. Gli autori contemporanei sulle origini della disuguaglianza sociale;
ovvero, l'eterno ritorno di Jean-Jacques Rousseau
Mentre si alza il sipario sulla storia umana - diciamo, più o meno
duecentomila anni fa, con l'apparire dell'anatomicamente moderno Homo sapiens -
vediamo la nostra specie che vive in piccole e mobili bande che vanno dai venti
ai quaranta individui. Sono alla ricerca di territori ottimali per la caccia e
la raccolta, inseguendo branchi, raccogliendo noci e bacche. Nel momento in cui
le risorse scarseggiano, oppure insorgono tensioni sociali, reagiscono andando
avanti, e andando altrove. Per questi primi esseri umani - possiamo pensare a
loro come all'infanzia dell'umanità - la vita è piena di pericoli, ma anche di
possibilità. I beni materiali sono pochi, ma il mondo è un luogo incontaminato
ed invitante. La maggior parte degli uomini lavora solo per poche ore al
giorno, e le piccole dimensioni dei gruppi sociali consentono loro di mantenere
una sorta di facile cameratismo, senza strutture formali di dominio. Rousseau,
scrivendo nel XVIII secolo, si riferiva a questo come a «lo Stato della
Natura», ma al giorno d'oggi si presume che esso abbia compreso la maggior
parte della storia attuale della nostra specie. Si assume inoltre che essa sia
stata l'unica era nella quale gli esseri umani si siano impegnati a vivere in
vere e proprie società di uguali, senza classi, caste, leader ereditari, o
governi centralizzati.
Ma purtroppo questo felice stato di cose è dovuto arrivare alla fine. La
nostra versione convenzionale della storia del mondo colloca questo momento a
circa diecimila anni fa, alla fine dell'ultima era glaciale.
In quel momento, troviamo i nostri immaginari attori umani sparsi per i
continenti del mondo, mentre stanno cominciando a coltivare i loro raccolti e
ad allevare le loro greggi. Quale che siano state le ragioni locali (su questo
c'è un dibattito), gli effetti sono di enorme importanza, e sono
fondamentalmente uguali ovunque. Le dislocazioni territoriali e la proprietà
privata dei beni diventano importanti in modi che erano prima di allora
sconosciuti, e insieme a questo avvengono faide sporadiche e guerre. La
coltivazione garantisce un surplus di cibo, che consente ad alcuni di
accumulare ricchezza ed influenza al di là del loro immediato gruppo familiare.
Altri fanno uso della loro libertà rispetto alla ricerca del cibo per
sviluppare nuove abilità, come l'invenzione di armi più sofisticate, strumenti,
veicoli, e fortificazioni, oppure per dedicarsi alla politica e a religioni
organizzate. Di conseguenza, questi "agricoltori neolitici"
prendono ben presto le misure ai loro vicini cacciatori-raccoglitori, e si
risolvono ad eliminarli o ad assorbirli all'interno di un nuovo e superiore -
sebbene meno uguale - stile di vita.
Per rendere le cose ancora più difficoltose, o almeno così dice la storia,
l'agricoltura assicura una crescita globale della popolazione. Man mano che la gente
si sposta verso concentrazioni sempre più ampie, i nostri inconsapevoli
antenati fanno un altro irreversibile passo verso la disuguaglianza, e così,
circa 6.000 anni fa, appaiono le città - e il nostro destino è segnato. Insieme
alle città arriva la necessità di un governo centralizzato. Nuove classi di
burocrati, preti, e guerrieri-politici si installano in uffici permanenti al
fine di mantenere l'ordine e garantire il regolare afflusso di rifornimenti e
di servizi pubblici. Le donne, che prima godevano di ruoli importanti negli
affari umani, vengono sequestrate, oppure imprigionate negli harem. I
prigionieri di guerra vengono ridotti a schiavi. È arrivata la disuguaglianza
in piena regola, e non c'è modo di eliminarla. Eppure, ci assicurano sempre i contastorie,
non sempre è tutto male quello che riguarda l'ascesa della civiltà urbana.
Viene inventata la scrittura, dapprima per tenere la contabilità dello Stato,
ma poi questo permette che avvengano degli enormi progressi nella scienza,
nella tecnologia, e nelle arti. Al prezzo dell'innocenza, siamo diventati i
nostri noi stessi moderni, ed ora possiamo limitarci a guardare con pietà e
gelosia tutte quelle poche società "tradizionali" o "primitive"
che in qualche modo hanno perso il treno.
È questa la storia che, come abbiamo detto, forma le fondamenta di tutto il
dibattito contemporaneo sulla disuguaglianza, Se dico che un esperto in
relazioni internazionali, o uno psicologo clinico, desidera riflettere su tali
argomenti, è probabile che egli dia per scontato che per la più parte della
storia umana abbiamo vissuto facendo parte di piccole bande egalitarie, o che
l'ascesa delle città ha significato anche quella dello Stato. E la stessa cosa
è vera anche per i libri più recenti che cercano di dare uno sguardo all'ampio
spettro della preistoria, al fine di trarre delle conclusioni politiche
rilevanti per la vita contemporanea. Si prenda,
di Francis Fukuyama, "The Origins of Political Order: From
Prehuman Times to the French Revolution":
«Nelle sue fasi iniziali, l'organizzazione politica umana è simile alla
società, a livello di banda, che si può osservare nei primati superiori come
gli scimpanzé. Questa può essere considerata come una forma predefinita di
organizzazione sociale... Rousseau ha sottolineato che l'origine della
disuguaglianza politica risiede nello sviluppo dell'agricoltura, e in questo
aveva in gran misura ragione. Dal momento che le società a livello di banda
sono pre-agricole, in esse non esiste nessuna proprietà privata in senso
moderno. Come per le bande di scimpanzé, i cacciatori-raccoglitori abitano un
raggio territoriale che essi custodiscono e nel quale occasionalmente
combattono. Ma hanno un incentivo minore rispetto a quello che hanno gli
agricoltori a tracciare un pezzo di terra e dire "questo è mio", Se
il loro territorio viene invaso da un altro gruppo, o se viene infiltrato da
pericolosi predatori, le società a livello di banda possono avere l'opzione di
spostarsi semplicemente da qualche altra parte a causa della bassa densità di popolazione.
Le società a livello di banda sono altamente egualitarie... La leadership viene
attribuita agli individui sulla base di qualità come la forza, l'intelligenza,
e l'affidabilità, ma tende a migrare da un individuo ad un altro.»
Jared Diamond, ne "Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare
dalle società tradizionali?", suggerisce che tali bande (nelle quali
egli ritiene che gli umani vivessero ancora recentemente, fino a circa 11.000
anni fa) comprendevano «solo fino a poche decine di individui», per lo
più biologicamente correlati. Conducevano un'esistenza abbastanza misera, «cacciando
qualsiasi tipo di animale selvaggio e raccogliendo qualsiasi specie vegetale
che vivesse in un ettaro di foresta». (Perché fosse solo un ettaro, questo
non lo spiega mai). E la loro vita sociale, secondo Diamond, era
invidiabilmente semplice. Le decisioni venivano prese in seguito a «discussioni
faccia a faccia»; c'erano «pochi averi personali», e non esisteva «alcuna
leadership formale o forte specializzazione economica». Diamond conclude
dicendo che, purtroppo, è stato solo all'interno di simili raggruppamenti
primordiali che gli esseri umani hanno potuto raggiungere un grado
significativo di uguaglianza sociale.
Per Diamond e Fukuyama, così come per Rousseau alcuni secoli prima, ciò che
pose fine a quell'uguaglianza - dappertutto e per sempre - fu l'invenzione
dell'agricoltura, ed il più alto livello di popolazione da questa sostenuto.
L'agricoltura determinò una transizione dalle "bande" alle "tribù".
L'accumulazione delle eccedenza di cibo alimentò la crescita della popolazione,
portando alcune "tribù" a svilupparsi in società strutturare
conosciute come "Chiefdoms" [Domini]. Fukuyama dipinge un quadro quasi
biblico, una partenza dall'Eden: «Nel momento in cui bande di esseri umani
migravano e si adattavano ad ambienti differenti, davano inizio alla loro
uscita dallo Stato di Natura, sviluppando nuove istituzioni sociali».
Combattevano guerre per accaparrarsi risorse. Come adolescenti allampanati,
queste società stavano andando a cacciarsi nei guai. Era arrivato il tempo di
crescere, di nominare una vera e propria leadership. Nel giro di poco tempo, i
capi si erano proclamati re, perfino imperatori. Non aveva senso resistere. Dal
momento che gli essere umani avevano adottato grandi e complesse forme di
organizzazione, tutto questo era inevitabile. Anche quando i leader ebbero
cominciato a comportarsi male - scremando il surplus agricolo per promuovere i
loro leccapiedi e i loro parenti, rendendo il loro status permanente ed
ereditario, collezionando teste come se fossero trofei ed harem di ragazze
schiave, oppure strappando il cuore dei rivali per mezzo di coltelli di
ossidiana - non si poteva più tornare indietro. «Grandi popolazioni» -
opina Diamond - «non possono funzionare senza dei leader che prendano le
decisioni, e senza i burocrati che amministrano le decisioni e le leggi.
Purtroppo per tutti quei lettori che sono anarchici e sognano di vivere senza
alcun governo statale, sono queste le ragioni per cui il vostro sogno è
irrealistico: dovrete trovare qualche piccola banda o tribù disposta ad
accettarvi, dove nessuno è uno straniero, e dove re, presidenti, e burocrati
sono inutili».
Una trista conclusione, questa, non solo per gli anarchici, ma per chiunque
si sia mai chiesto se potesse esserci qualche valida alternativa allo status
quo. Ma ciò che è notevole, nonostante il tono compiaciuto, è che tali
dichiarazioni in realtà non si basano su alcun genere di prova scientifica. Non
c'è alcun motivo per credere che i gruppi su piccola scala siano
particolarmente inclini all'egualitarismo, oppure che i gruppi su larga scala
debbano avere necessariamente re, presidenti, o burocrazie. Sono semplicemente
dei pregiudizi che vengono dichiarati come se fossero dei fatti.
Nel caso di Fukuyama e Diamond si può, quanto meno, notare che entrambi non
si sono mai formati in discipline rilevanti (il primo è uno scienziato
politico, mentre l'altro ha un dottorato di ricerca sulla fisiologia della
cistifellea). Tuttavia, anche quando sono gli antropologhi e gli archeologhi a
cimentarsi nella narrazione del "grande quadro", essi hanno una
strana tendenza a finire per ritrovarsi con una qualche simile variazione
minore su Rousseau. Ne "The Creation of Inequality: How our Prehistoric
Ancestors Set the Stage for Monarchy, Slavery, and Empire", Kent
Flannery e Joyce Marcus, due studiosi eminentemente qualificati,
utilizzano circa cinquecento pagine di casi di studi etnografici ed
archeologici per cercare di risolvere il puzzle. Ammettono che i nostri
antenati dell'Era Glaciale non erano del tutto estranei alle istituzioni della
gerarchia e della servitù, ma insistono sul fatto che ne hanno fatto più che
altro esperienza soprattutto per quel che concernevano i loro rapporti con il
soprannaturale (spiriti ancestrali, e cose del genere). Hanno proposto che
l'invenzione dell'agricoltura avrebbe portato all'emergere di "clan"
o di "gruppi di discendenza" demograficamente estesi, e quindi
l'accesso agli spiriti e alla morte è diventata una strada per il potere
terreno (in che modo, esattamente, non viene chiarito). Secondo Flannery e
Marcus, il successivo passo importante sulla strada della disuguaglianza si è
compiuto quando alcuni uomini del clan di inusuale talento o fama - guaritori
esperti, guerrieri e altre persone di successo - si sono garantiti il diritto a
trasmettere i loro status ai propri discendenti, a prescindere dal talento o
delle abilità di questi ultimi. Tutto questo praticamente seminò i semi, e da
quel momento in poi era solo questione di tempo prima dell'arrivo delle città,
della monarchia, della schiavitù e dell'impero.
La cosa strana per quel che riguarda il libro di Flannery e Marcus è che
solo con la nascita di Stati ed imperi essi portano una qualche prova
archeologica. Nel loro racconto, invece, tutti i momenti chiave della
"creazione della disuguaglianza" si basano su descrizioni
relativamente recenti di raccoglitori su piccola scala, allevatori e
coltivatori come gli Hazda del Rift dell'Africa orientale, o dei Nambikwara
della foresta pluviale amazzonica. I racconti relativi a simili "società
tradizionali" vengono trattati come se fossero delle finestre sul passato
paleolitico o neolitico. Il problema consiste nel fatto che non sono niente del
genere. Gli Hadza o i Nambikwara non sono dei fossili viventi. Sono stati in
contatto con gli Stati agrari e con gli imperi, con razziatori e commercianti,
per millenni, e le loro istituzioni sociali sono state decisamente influenzate
dai tentativi di coinvolgerli, o di evitarli. Solo l'archeologia può dirci che
cosa, se lo hanno, hanno in comune con le società preistoriche. Così, mentre
Flannery e Marcus forniscono ogni sorta di interessanti intuizioni su come le
disuguaglianze siano emerse nelle società umane, ci danno ben poche ragioni per
poter credere che sia stato questo il modo in cui sarebbe realmente avvenuto.
Infine, prendiamo in considerazione "Foragers, Farmers, and Fossil
Fuels: How Human Values Evolve" di Morris. Morris persegue un
progetto intellettuale leggermente differente: portare i risultati ottenuti in
Archeologia, Storia antica, ed Antropologia, a dialogare con il lavoro di
economisti come Thomas Piketty sulle cause della disuguaglianza nel
mondo moderno, o con quello di Sir Tony Atkinson più orientato in
senso politico: "Inequality: What can be Done?". Morris ci
informa a proposito del fatto che il "tempo profondo" della
storia umana ha da dirci qualcosa di importante su tali questioni - ma solo se
prima stabiliamo una misura uniforme della disuguaglianza in grado di essere
applicata per tutto l'arco della sua durata. Questo può essere raggiunto
traducendo il "valore" dei cacciatori-raccoglitori dell'era
glaciale e quello degli agricoltori neolitici in termini che siano familiari ai
moderni economisti, e quindi usando questi termini per poter stabilire quali
sono i coefficienti Gini, o il tasso di
disuguaglianza formale.
Al posto delle iniquità spirituali evidenziate da Flannery e Marcus, Morris
ci offre una visione materialista e non apologetica, che divide la storia umana
nelle tre grandi "F" [Foragers,
Farmers, e Fossil Fuels] del titolo del suo libro, a seconda di come viene
incanalato il calore. Morris suggerisce che tutte le società hanno un livello
"ottimale" di disuguaglianza sociale - un "livello
spirituale" incorporato, se vogliamo usare i termini di Pickett e
Wilkinson - che è appropriato alla modalità prevalente secondo cui viene
estratta l'energia.
In un articolo scritto per il New York Times [‘To
Each Age Its Inequality’ by Ian Morris. New York Times, 9 July 2015. Vedi: https://www.nytimes.com/2015/07/10/opinion/to-each-age-its-inequality.html ]
Morris ci fornisce effettivamente i numeri, per mezzo dei quali quantifica i
redditi primordiali in dollari americani, ancorandoli all'indice valutario del
1990. Anche lui assume che i cacciatori-raccoglitori dell'ultima era glaciale
vivessero per lo più in piccole bande mobili. Di conseguenza, consumavamo ben
poco - l'equivalente, suggerisce, di $1,10 al giorno. Di conseguenza, godevano
anche un coefficiente Gini equivalente a circa lo
0.25 - vale a dire, il minimo - dal momento che per qualsivoglia élite c'era
ben poca eccedenza di capitale di cui impadronirsi. Le società agrarie - e per
Morris questo include tutto quello che va dal villaggio neolitico di Çatalhöyük
risalente a 9.000 anni fa, alla Cina di Kublai Khan o fino alla Francia di Luigi
XIV - erano più popolose e migliori, con un consumo medio di 1,50 - 2,20 $ al
giorno per persona, e con una propensione ad accumulare eccedenza di ricchezza.
Ma è anche vero che le persone lavoravano più duramente, ed in condizioni
segnatamente inferiori, e quindi le società agrarie tendevano ad avere un
livello di disuguaglianza molto più alto.
Le società alimentate da combustibili fossili avrebbero dovuto cambiare
realmente tutto questo liberandoci dalla fatica del lavoro manuale, e
riportandoci verso dei coefficienti Gini più ragionevoli, più vicini a quelli
dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori - e per un po' sembrò davvero che
questo stesse cominciando a succedere, ma poi per qualche strana ragione che
Morris non comprende del tutto, le cose sono andate di nuovo a rovescio e
ancora una volta la ricchezza è andata a finire risucchiata nelle mani di una
piccola élite globale:
«Secondo i rivolgimenti avvenuti sulla scena della storia economica
negli ultimi 15.000 anni, sembra che il livello "giusto" di una
disuguaglianza corretta fiscalmente sia compreso fra 0.25 e 0.35, e quello di
una disuguaglianza di ricchezza si situi fra 0.70 e 0.80. Oggi, molti paesi si
trovano al di sopra dei limiti superiori di questi intervalli, il che
suggerisce che il signor Picketty abbia davvero ragione a prevedere guai.»
Lasciamo perdere le ricette di Morris, e limitiamoci a concentrarci su una
sola cifra: il reddito paleolitico di 1,10 $ al giorno. Esattamente, da dove
proviene questa cifra? Presumibilmente, questi calcoli hanno qualcosa a che
fare con il valore calorico dell'assunzione giornaliera di cibo. Ma se noi lo
paragoniamo al reddito giornaliero odierno, non dovremmo allora considerare
anche tutte le altre cose che i raccoglitori paleolitici ottenevano
gratuitamente, e che invece noi ci aspettiamo di dover pagare? Sicurezza
gratuita, risoluzione delle controversie gratuita, istruzione primaria
gratuita, cura gratuita degli anziani, cure mediche gratuite, per non parlare
dei costi legati all'intrattenimento, alla musica, alla narrazione ed ai
servizi religiosi? Anche quando parliamo di cibo, dovremmo considerare la
qualità: dopo tutto, qui stiamo parlando di prodotti biologici al 100%,
preparati con l'acqua naturale di sorgente più pura che esista. Gran parte del
reddito contemporaneo se ne va in mutui ed in affitti. Ma si considerino le
tariffe per il campeggio nelle locazioni dei primi siti paleolitici lungo la
Dordogne o la Vézère, per non parlare delle classi serali di alto livello
relative alla pittura naturalistica su roccia e alla scultura in avorio - e
tutte quelle pellicce. Sicuramente, tutto questo deve costare molto più di
$1,10 al giorno, anche se espresso in dollari del 1990. Non per niente,
Marshall Sahlins si riferisce ai raccoglitori definendoli come «l'originale
società benestante». Oggi, una vita del genere non sarebbe di certo a buon
mercato.
Questo può sembrare certamente un po' stupido, ma la questione è che se uno
riduce la storia del mondo ai coefficienti di Gini, ne verranno fuori
necessariamente delle sciocchezze. Anche quelle deprimenti. Morris, per lo
meno, sente che c'è qualcosa di storto con i recenti galoppanti incrementi di
disuguaglianza globale. Al contrario, nel suo libro del 2017 "The Great
Leveler: Violence and the History of Inequality from the Stone Age to the
Twenty-First Century" lo storico Walter Scheidel ha spinto
la lettura della storia umana svolta in stile Picketty fino alla sua ultima
infelice conclusione, arrivando a concludere che non si può davvero fare niente
riguardo la disuguaglianza. Immancabilmente, la civiltà mette al comando una
piccola élite che si impadronisce sempre più di una fetta sempre più grande
della torta. L'unica cosa che abbia mai avuto successo nello sbarazzarsi di
loro è la catastrofe: guerra, epidemia, coscrizione di massa, sofferenza e
morte. Le mezze misure non funzionano. Perciò, se non si vuole tornare a vivere
in una caverna, o se non si vuole morire in un olocausto nucleare (che
presumibilmente, anche questo, finirebbe con i sopravvissuti che vivono nelle
caverne), non puoi fare altro che accettare l'esistenza di Warren Buffett e di
Bill Gates.
L'alternativa liberale? Flannery e Marcus, che si identificano apertamente
con la tradizione di Jean-Jacques Rousseau, concludono la loro analisi con il seguente
utile suggerimento: «Una volta abbiamo affrontato questo argomento con
Scotty MacNeish, un archeologo che ha passato 40 anni a studiare l'evoluzione
sociale. Ci chiedevamo come si potrebbe rendere più egualitaria la società?
Dopo essersi consultato brevemente con il suo vecchio amico Jack Daniels,
MacNeish rispose: "Mettere al comando cacciatori e raccoglitori".»
3. Ma abbiamo davvero forgiato le nostre catene?
La cosa strana riguardo questa continua evocazione dell'innocente Stato di
Natura di Rousseau, e la relativa caduta in disgrazia, risiede nel fatto che lo
stesso Rousseau non ha mai affermato che lo Stato di Natura sia realmente
esistito. È stato solo un esperimento mentale. Nel suo "Discorso
sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini"
(1754), da cui ha origine la maggior parte della storia che abbiamo raccontato
(e ri-raccontato), scriveva: «... le ricerche, in cui possiamo impegnarci in
quest'occasione, non devono essere scambiate per verità storiche, ma meramente
come ragionamenti ipotetici e condizionali, più adatti ad illustrare la natura
delle cose, piuttosto che mostrarne la loro vera origine.»
Lo "Stato di Natura" di Rousseau non è mai stato inteso come uno
stadio di sviluppo. Non veniva presupposto come se si trattasse di un
equivalente della fase della "Ferocia", la quale apre gli schemi
evolutivi di filosofi scozzesi come Adam Smith, Ferguson, Millar, o più tardi,
Lewis Henry Morgan. Questi erano interessati a definire dei livelli di sviluppo
sociale e morale, che corrispondeva ai cambiamenti storici avvenuti nel modo di
produzione: cercare cibo, pastorizia, agricoltura, industria. Al contrario,
quello che presenta Rousseu è più una parabola. Come viene sottolineato da
Judith Shklar, Rousseau stava davvero tentando di esplorare quello che lui
considerava il paradosso fondamentale della politica umana: che la nostra
innata spinta verso la libertà, in qualche modo ci conduce, ogni volta, in una
«marcia spontanea verso la disuguaglianza». Detto nella parole di
Rousseau: «Tutti corsero incontro alle loro catene credendo di assicurarsi
la libertà; perché essendo già abbastanza dotati di ragione per percepire i
vantaggi di un'istituzione politica, non avevano abbastanza esperienza per
prevederne i pericoli.» L'immaginario Stato di Natura è solo un modo per
illustrare questo punto di vista.
Rousseau non era un fatalista. Credeva che quel che fanno gli esseri umani,
poteva essere disfatto. Avremmo potuto liberarci dalle catene; solo che non
sarebbe stato facile. Shklar suggerisce che la tensione fra "possibilità
e probabilità" (la possibilità dell'emancipazione umana, le
probabilità che potremmo nuovamente porci nuovamente in qualche forma di
servitù volontaria) è stata la forza animatrice centrale degli scritti
sull'inuguaglianza di Rousseau. Tutto questo potrebbe sembrare un po' ironico
dal momento che, dopo la Rivoluzione francese, molti critici conservatori
ritenevano Rousseau personalmente responsabile della ghigliottina. Quel che
aveva portato al Terrore, essi sostenevano, era stata proprio l'ingenua fede
nell'innata bontà dell'umanità e la sua convinzione che un ordine sociale più
equo avrebbe potuto essere semplicemente immaginato da degli intellettuali, per
poi essere imposto dalla "volontà generale".
Ma erano assai poche queste figure del passato, che ora venivano messe alla
berlina in quanto romantici ed utopici, ad essere davvero così ingenue. Per
esempio, Karl Marx sosteneva che ciò che ci rende umani è il nostro potere di
riflessione immaginativa - a differenza delle api, immaginiamo le case in cui
vorremmo vivere, e solo allora ci disponiamo a costruirle - ma credeva anche
che non si sarebbe potuto procedere allo stesso modo con la società, e provare
ad imporre il modello di un architetto. Farlo, avrebbe significato commettere
quello che era il peccato del "socialismo utopico", per il
quale Marx non aveva altro che disprezzo. Invece, i rivoluzionari dovevano
avere il senso delle più grandi forze strutturali che modellavano il corso
della storia mondiale, e dovevano approfittare delle contraddizioni
soggiacenti: per esempio, il fatto che, per poter competere, i singoli
proprietari di fabbrica hanno bisogno di pagare il meno possibile i loro
lavoratori, ma se tutti riescono ad avere successo nel farlo, non ci sarà più
nessuno in grado di potersi permettere quello che le loro fabbriche producono.
Eppure il potere di duemila anni di scrittura è tale che anche quando sono
i realisti dalla testa dura quelli che cominciano a parlare della sterminata
distesa della storia umana, ecco che ricadono nel parlare di una qualche variante
del Giardino dell'Eden - la Caduta dalla Grazia (di solito, come nella Genesi,
a causa di un'insensata ricerca della Conoscenza); e la possibilità di una
futura Redenzione.
I partiti politici marxisti hanno rapidamente sviluppato la propria loro versione
della storia, fondendo insieme lo Stato di Natura di Rousseau e l'idea
dell'Illuminismo scozzese degli stadi di sviluppo. Il risultato è stata una
formula per la storia del mondo che è iniziata con un originale "comunismo
primitivo", poi sopraffatto dall'apparire della proprietà privata, ma
destinato un giorno a ritornare.
Si deve concludere che i rivoluzionari, nonostante i loro ideali visionari,
non hanno avuto la tendenza ad essere particolarmente fantasiosi, specialmente
quando si tratta di collegare passato, presente, e futuro. Tutti continuano a
raccontare la stessa storia. Probabilmente non è una coincidenza il fatto che
oggi, all'alba del nuovo millennio, i movimenti rivoluzionari più vitali e
creativi - gli zapatisti del Chapas, e i curdi del Rojava, sono solo gli esempi
più ovvi - sono quelli che radicano simultaneamente sé stessi in un profondo
tradizionale passato. Anziché immaginare un'utopia primordiale, essi sono in
grado di attingere ad una complicata narrazione costituita da diversi variegati
elementi. Effettivamente, sembra esserci un crescente riconoscimento, nei
circoli rivoluzionari, del fatto che la libertà, la tradizione, e
l'immaginazione si sono sempre mescolati, e si mescolano in modi che non sempre
sono stati compresi completamente. È arrivato il tempo che tutti quanto noi si
riprenda e si cominci a considerare a cosa potrebbe assomigliare una versione
non biblica della storia umana.
4. Come oggi può cambiare il corso della storia (passata)
La prima cosa che dev'essere stabilita è che chiedere delle "origini
della disuguaglianza sociale", è il modo sbagliato di cominciare. Il
fatto è che, prima dell'inizio di quello che viene chiamato il Paleolitico
Superiore, in realtà non abbiamo alcuna idea di a cosa potesse per lo più
assomigliare la vita sociale umana. La più parte delle prove comprende
frammenti sparsi di pietra lavorata, ossa, e poco altro di materiali durevoli.
Coesistevano diverse specie di ominidi; non è chiaro se sia possibile applicare
una qualche analogia etnografica. Le cose cominciano a presentare un qualche
tipo di focalizzazione solo durante lo stesso Paleolitico Superiore, che
comincia circa 45.000 anni fa, e comprende il picco della glaciazione e del
raffreddamento globale (circa 20.000 anni fa) conosciuto come Ultimo
Massimo Glaciale. Quest'ultima grande era glaciale venne poi seguita
dall'insorgere di condizioni più calde e dal graduale ritirarsi delle calotte
glaciali, che portò alla nostra attuale epoca geologica, l'Olocene. Seguirono
condizioni ancora più clementi, che crearono il palcoscenico sul quale l'Homo
sapiens - avendo già colonizzato gran parte del Vecchio Mondo - completò poi la
sua marcia nel Nuovo Mondo, raggiungendo le coste meridionali delle Americhe
circa 15.000 anni fa. Quindi, cosa sappiamo attualmente di questo periodo della
storia umana? Gran parte delle prime prove sostanziali riguardo
l'organizzazione sociale umana nel Paleolitico provengono dall'Europa, dove le
nostre specie si erano stabilite accanto all'Homo di Neanderthal, prima
dell'estinzione di quest'ultimo avvenuta intorno al 40.000 AC. (La
concentrazione dei dati in questa parte del mondo riflette molto probabilmente
un pregiudizio storico delle indagini archeologiche, piuttosto che avere a che
fare qualcosa di insolito che riguarda proprio l'Europa). A quel tempo, e per
tutto l'Ultimo Massimo Glaciale, la zone abitabili dell'epoca glaciale europea
assomigliavano più all'attuale Parco del Serengeti, in Tanzania, piuttosto che
a qualsiasi altro odierno habitat europeo. A sud delle distese di ghiaccio, fra
la tundra e le coste boscose del Mediterraneo, il continente era suddiviso in
valli ricche di selvaggina e in tundre, che venivano attraversate
stagionalmente da mandrie migranti di cervi, bisonti e lanosi mammut. Per
diversi decenni, gli studiosi della preistoria hanno sottolineato - con scarso
effetto apparente - che i gruppi umani che abitavano questi ambienti non
avevano niente in comune con quelle bande egualitarie, felicemente semplici, di
cacciatori-raccoglitori, che venivano ancora abitualmente immaginate come se
fossero i nostri remoti antenati.
Tanto per cominciare, c'è l'esistenza indiscutibile di ricche sepolture,
che si estendono indietro nel tempo fino alle profondità dell'era glaciale.
Alcune di queste tombe, come quelle vecchie di 25.000 anni, a Sungir, a est di
Mosca, sono note da molti decenni e sono giustamente famose. Felipe
Fernández-Armesto, che ha recensito "Creation of Inequality"
di Flannery e Marcus per il Wall Street Journal, ha espresso il suo ragionevole
stupore per la loro omissione: «Sebbene sappiano che il principio ereditario
fosse predatorie per l'agricoltura, il signor Flannery e la signora Marcus non
riescono a liberarsi dell'illusione rousseauiana secondo cui tale principio
fosse cominciato insieme alla vita sedentaria. Perciò dipingono un mondo in cui
fino al 15.000 aC non esiste potere ereditato, ignorando così, per il loro
scopo, uno dei più importanti siti archeologici». Scavando nel permafrost,
sotto il sito paleolitico di Sungir, c'era la tomba di un uomo di mezza età -
osserva Fernández-Armesto - che indossava «sbalorditivi segni d'onore:
braccialetti di avorio di mammut lucidato e lavorato con cura». E a pochi
metri di distanza, in una tomba identica, «riposavano due bambini,
rispettivamente di circa 10 e 13 anni, adornati con analoghi doni - che
includevano, per il più vecchio, circa 5.000 perle come quelle che decoravano
gli adulti (sebbene leggermente più piccole) ed una enorme lancia di avorio
scolpita».
Scoperte simili sembrano non avere alcun posto significativo in nessuno dei
libri che abbiamo considerato finora. Sottovalutarli, o ridurli a note a piè di
pagina, potrebbe essere più facile da perdonare se Sungir fosse stata una
scoperta isolata. Ma non è così. Sepolture altrettanto ricche si trovano in
molti rifugi rocciosi del Paleolitico superiore ed in molti insediamenti aperti
in gran parte dell'Eurasia occidentale, dal Don alla Dordogna. Tra questi
troviamo, per esempio, la "Signora di Saint-Germain-la-Rivière",
vecchia di 16.000 anni e adornata di gioielli fatti con i denti di giovani
cervi cacciati a 300 km di distanza , nei paesi baschi spagnoli; e delle
sepolture sulla costa ligure - antiche quanto quelle di Sungir - fra le quali
"Il Principe", un giovane uomo le cui insegne includevano una scettro
di selce, un bastone di corno d'alce, ed un copricato adorno di conchiglie
perforate e di denti di cervo. Simili ritrovamenti pongono delle stimolanti
sfide interpretative. E Fernández-Armesto ha ragione a dire che questo sono
prove di "potere ereditario"? Qual era lo status di quegli
individui quando erano in vita?
Non meno intrigante è la prova, sporadica ma convincente, fornita
dall'architettura monumentale risalente all'Ultimo Massimo Glaciale. Certo,
l'idea che si possa misurare in termini assoluti la "monumentalità"
è altrettanto sciocca dell'idea di quantificare in dollari e centesimi la spesa
dell'era glaciale. È un concetto relativo, che ha senso solamente a partire da
una particolare scala di valori e da esperienze precedenti. Il Pleistocene non
ha alcun equivalente diretto, su scala, nelle piramidi di Giza o nel Colosseo
romano. Ma ha degli edifici che, secondo lo standard del tempo, possono essere
considerati come degli edifici pubblici, che implicavano una progettazione
sofisticata e il coordinamento del lavoro su scala impressionante. Fra di essi
ci sono le sorprendenti "case mammut", costruite con pelli tese su
una cornice di zanne, esempi risalenti a circa 15.000 anni fa che possono
essere trovati lungo una trasversale della frangia glaciale che va dalla moderna
Cracovia fino a Kiev.
Ancora più sorprendenti sono i templi di pietra di Göbekli Tepe, riportarti
alla luce oltre vent'anni fa sul confine turco-siriano, e che sono ancora
oggetto di un acceso dibattito scientifico. Risalenti a circa 11.000 anni fa, alla
fine dell'ultima era glaciale, comprendono almeno venti recinti megalitici
dislocati sopra i fianchi ora aridi della Piana di Harran. Ciascun recinto era
costituito da dei pilastri di pietra di oltre 5 metri di altezza e del peso di
una tonnellata (uno standard rispettabile se paragonato a Stonehenge, che è di
circa 6.000 anni dopo). A Göbekli Tepe, quasi ogni pilastro è una notevole
opera d'arte, su cui sono scolpiti in rilievo animali minacciosi che sporgono
dalla superficie, i loro genitali maschili esposti con fierezza. I predatori
scolpiti appaiono insieme ad immagini di teste umane mozzate. Le incisioni
attestano l'abilità scultorea, affinata senza dubbio sul materiale più
malleabile del legno (una volta disponibile ai piedi delle montagne del Tauro)
prima di essere applicata sulla pietra dell'Harran. Curiosamente, e nonostante
le dimensioni, ciascuna di queste massicce strutture avevano una durata
relativamente breve, che finiva con una grande festa e con la rapida
costruzione dei suoi muri: gerarchie che ascendevano al cielo, solo per essere
nuovamente abbattute. E i protagonisti, in questa rappresentazione preistorica
del festeggiamento, della costruzione e della distruzione erano, per quanto ne
sappiamo, cacciatori-raccoglitori, che vivevano solo delle loro risorse
selvagge.
Cosa farne allora di tutto questo? Una risposta accademica, è stata quella
di abbandonare l'idea di un'Età d'oro egualitaria e concludere che l'interesse
personale razionale e l'accumulazione di potere sono le forze durevoli che
stanno dietri lo sviluppo sociale umano. Ma neanche questo funziona. Le prove
di una disuguaglianza istituzionale nelle società dell'era glaciale, sia sotto
forma di grandi sepolture che di edifici monumentali, possono significare
qualcosa solo se sono non sporadiche. Le sepolture appaiono letteralmente a
distanza di secoli, e spesso a centinaia di chilometri, l'una dall'altra. E
anche se attribuiamo questo aspetto al difetto di prove, dobbiamo chiederci
anche perché queste prove siano così frammentarie: dopo tutto, se uno di questi
"principi" dell'era glaciale si fosse comportato in maniera simile,
diciamo, a quella dei principi dell'età del bronzo, troveremmo allora delle
fortificazioni, dei magazzini, dei palazzi - tutti i soliti accessori che
simboleggiano l'emergere di uno stato. Invece, per decine di migliaia di anni
vediamo monumenti e magnifiche sepolture, ma ben poco altro che indichi la
crescita di società gerarchizzate. Poi ci sono altri fattori, ancora più
strani, come il fatto che la maggior parte dei sepolcri
"principeschi" consistono di individui che hanno delle stridenti
anomalie fisiche, persone che oggi verrebbero considerati dei giganti, dei
gobbi o dei nani.
Uno sguardo più generale alle prove archeologiche suggerisce una chiave per
risolvere il dilemma. La chiave consiste nei ritmi stagionali della vita
sociale preistorica. La maggior parte dei siti paleolitici di cui abbiamo
discusso finora sono associati evidentemente a periodi annuali, o biennali, di
aggregazione che erano legati alla migrazione delle mandrie di selvaggina - che
fossero i lanosi mammut, i bisonti della steppa, le renne o (nel caso di
Göbekli Tepe) le gazzelle - così come erano legati al ciclo della pesca o della
raccolta di noci. Nei periodi meno favorevoli dell'anno, c'erano almeno alcuni
dei nostri antenati dell'era glaciale che senza dubbio vivevano in piccole
bande. Ma ci sono prove schiaccianti che mostrano che altri si univano in massa
all'interno di quel tipo fi "micro-città" che sono state trovate a
Dolní Věstonice, nel bacino della Moravia situato a sud Brno, banchettando
grazie ad una sovrabbondanza di risorse selvagge, impegnandosi in complessi
rituali, in ambiziose imprese artistiche, e scambiando minerali, conchiglie
marine, e pelli di animali, a distanze notevoli. In Europa occidentale, gli
equivalenti di questi siti di aggregazione stagionale potrebbero essere stati i
grandi rifugi rocciosi del Périgord francese e della costa cantabrica, con i
loro famosi dipinti ed intagli, che in maniera simile facevano parte di un
ciclo annuale di congregazione e di dispersione.
Simili modelli stagionali di vita sociali sono durati anche molto tempo
dopo che la "invenzione dell'agricoltura" si suppone avesse cambiato
tutto. Ci sono nuove prove che dimostrano che questo genere di alternanze
possono essere la chiave per comprendere i famosi monumenti neolitici della
piana di Salisbury, e non solo nei termini di simbolismo calendaristico.
Stonehenge, a quanto pare, era solo l'ultima in una sequenza molto lunga di
strutture rituali, erette sia in legno che in pietra, nel momento in cui le
persone convergevano sulla pianura provenienti dagli angoli più remoti delle
isole inglesi, nei periodi più significativi dell'anno. Scavi accurati, hanno
dimostrato che molte di queste strutture - che ora vengono plausibilmente
interpretate come monumenti per i progenitori delle potenti dinastie neolitiche
- sono state smantellate solo poche generazioni dopo la loro costruzione.
Ancora più sorprendentemente, questa pratica di erigere e smantellare grandi
monumenti coincide con un periodo in cui i popoli britannici, avendo adottato
dall'Europa continentale l'economia agraria neolitica, sembra che avessero
abbandonato almeno uno dei suoi aspetti cruciali, quello della coltivazione dei
cereali. e ritornando così - circa intorno al 3300 AC - alla raccolta di noci
come fonte alimentare di base. Mantenendo le loro mandrie di bestiami, sulle
quali banchettavano stagionalmente nelle vicina mura di Durringto, i
costruttori di Stonehenge sembra che non fossero né raccoglitori né
agricoltori, ma piuttosto una via di mezzo. E se durante le festività, quando
si riunivano in gran numero, aveva influenza qualcosa del tipo di una corte
reale, questa avrebbe potuto benissimo sciogliersi per il resto dell'anno, quando
le stesse persone si disperdevano di nuovo per tutta l'isola.
Perché sono importanti queste variazioni stagionali? Perché rivelano che
fin dall'inizio, gli esseri umano erano consapevoli di stare sperimentando
differenti possibilità sociali. Gli antropologhi descrivono le società di
questo tipo come dotate di una "doppia morfologia". Marcel
Mauss, scrivendo all'inizio del XX secolo, osservava che gli Inuit
circumpolari, «così come molte altre società... hanno due strutture sociali,
una in estate ed una in inverno, e che parallelamente hanno due sistemi di
legge e di religione». Nei mesi estivi, gli Inuit si disperdono in piccole
bande patriarcali che vanno alla ricerca di pesci d'acqua dolce, di caribù e di
renne, ciascuno sotto l'autorità di un singolo maschio anziano. La proprietà
veniva contrassegnata in maniera possessiva ed i patriarchi esercitavano un
potere coercitivo, a volte perfino tirannica, sui loro parenti. Ma nei lunghi
mesi invernali, quando le foche e i trichechi si affollavano sulla costa
artica, un'altra intera struttura sociale prendeva il sopravvento nel momento i
cui gli Inuit si riunivano tutti insieme per costruire delle grandi case comuni
fatte di legno, di costole di balena e di pietre. All'interno di queste case,
prevalevano le virtù dell'uguaglianza, dell'altruismo, e della vita collettiva;
la ricchezza veniva condivisa; i mariti e le mogli si scambiavano i partner
sotto l'egida di Sedna, la dea delle Acque.
Un altro esempio di questo ne sono stati gli indigeni cacciatori-raccoglitori
della costa nord-occidentale del Canada, per i quali l'inverno - e non l'estate
- era il periodo in cui la società si cristallizzava nella sua forma più
iniqua, e lo faceva in maniera spettacolare. Lungo le coste della British
Columbia, venivano eretti edifici costruiti su zattere dove i nobili
ereditari si occupavano di persone comune e di schiavi, ospitandoli in
grandi banchetti noti come "Potlatch". Tuttavia queste corti
aristocratiche si separavano per il lavoro estivo della stagione di pesca,
convertendosi in clan più piccoli, con una loro gerarchia, ma con una struttura
del tutto differente e assai meno formale. In questo caso, in realtà le persone
hanno adottato nomi differenti in estate e in inverno, diventando letteralmente
qualcun altro, a seconda del periodo dell'anno.
Forse ancora più sorprendenti, in termini di rovesciamenti politici, sono
state le pratiche stagionali delle confederazioni tribali delle Grandi Pianure
americane del XIX secolo - a volte ex coltivatori che avevano adottato uno
stile di vita da cacciatori nomadi. Alla fine dell'estate, piccole bande
altamente mobili di Cheyenne e di Lakota si riunivano a formare grandi
insediamenti per attuare i preparativi logistici per la caccia al bufalo. In
questo che era il periodo dell'anno più delicato, veniva nominata una forza di
polizia che esercitava un pieno potere coercitivo, incluso il diritto di
imprigionare, frustare, o multare qualsiasi trasgressore che mettesse in
pericolo il procedimento. Eppure, come ha osservato l'antropologo Robert
Lowie, questo "inequivocabile autoritarismo" operava su base
strettamente stagionale e temporanea, lasciando il posto a forme più "anarchiche"
di organizzazione una volta che la stagione di caccia - e rituali collettivi
che ad essa seguivano - veniva completata.
La dottrina non sempre progredisce. A volte scivola all'indietro. Un
centinai di anni fa, la maggior parte degli antropologhi capiva che quelli che
vivevano principalmente di risorse selvagge, normalmente non erano limitati a
delle minuscole "bande". In realtà, tale idea è un prodotto degli
anni 1960, quando i Boscimani del Kalahari ed i Pigmei Mbuti divennero
l'immagine preferita dell'umanità primordiale per l'audience televisiva e per i
ricercatori. Di conseguenza, abbiamo assistito ad un ritorno agli stadi
evolutivi, che in realtà non erano molto diversi dalla tradizione
dell'Illuminismo scozzese: questo, ad esempio, è ciò cui attinge Fukuyama
quando scrive di società che evolvono costantemente passando da
"bande" a "tribù" a "chiefdom" [domini], che sono alla fine il
tipo di "Stati" complessi e stratificati in cui oggi viviamo - di
solito definiti per mezzo del monopolio dell'«uso legittimo della forza
coercitiva». A partire da questa logica, tuttavia, i Cheyenne o i Lakota
avrebbero dovuto "evolvere" direttamente da bande a Stati all'incirca
all'arrivo di ogni mese di Novembre, per poi "devolvere" di nuovo
quando arrivava la primavera. La maggior parte degli antropologhi ora riconosce
che queste categorie sono irrimediabilmente inadeguate, eppure nessuno ha
ancora proposto un modo alternativo di pensare per quanto riguarda la storia in
termini più ampi.
In maniera abbastanza indipendente, la prova archeologica suggerisce che
negli ambienti altamente stagionali dell'ultima era glaciale, i nostri remoti
antenati si comportassero in maniera assai simile: spostandosi avanti e
indietro dall'una all'altra organizzazione sociale alternativa, permettendo
cos' la nascita di strutture autoritarie durante certi periodi dell'anno, a
condizione che non sarebbe durato; e nella consapevolezza che nessun
particolare ordine sociale fosse fisso o immutabile. All'interno della stessa
popolazione, a volte si potrebbe vivere in quello che, a distanza, sembra
essere una banda, a volte una tribù, e qualche volta una società con molte
caratteristiche che noi identifichiamo con gli Stati. Con una tale flessibilità
istituzionale proviene la capacità di uscire dai confini di ogni struttura
sociale data e riflessa; per poter fare e disfare i mondi politici in cui
viviamo. Se non altro, questo spiega i "principi" e le
"principesse" dell'ultima era glaciale, che sembrano mostrarsi, in un
magnifico isolamento, come se fossero i personaggi di un racconto di fate o di
un dramma in costume. Forse erano quasi letteralmente così. Se hanno regnato,
allora forse sono stati come i re e le regine di Stonehenge, solamente per una
stagione.
5. È tempo per un ripensamento
Gli autori moderni hanno la tendenza ad usare la preistoria come un
canovaccio di lavoro per risolvere problemi filosofici: gli esseri umani sono
fondamentalmente buoni o cattivi, cooperativi e competitivi, egualitari o
gerarchici? Di conseguenza, essi tendono anche a scrivere come se per il 95%
della storia della nostra specie, le società umane fossero state quasi tutte
uguali. Ma il fatto è che 40.000 anni sono un periodo molto, molto lungo di
tempo. Appare essere intrinsecamente probabile, e le prove lo confermano, che
quegli stessi pionieri umani che hanno colonizzato gran parte del pianeta
abbiano sperimentato un'enorme varietà di ordinamenti sociali. Come ha spesso
sottolineato Claude Lévi-Strauss, i primi Homo sapiens non
erano solo fisicamente pari all'uomo moderno, lo erano anche intellettualmente.
In realtà,la maggior parte di loro era probabilmente assai più consapevole del
potenziale della società di quanto lo siano generalmente oggi le persone,
passando ogni anno avanti e indietro da una forma di organizzazione all'altra.
Piuttosto che poltrire in una qualche innocenza primordiale, fino a quando la
lampada del genio della disuguaglianza non venisse in qualche modo stappata, i
nostri antenati preistorici sembra che abbiano aperto e chiuso la bottiglia con
regolarità, confinando la disuguaglianza nei drammi rituali in costume,
costruendo divinità e regni come se questi fossero i loro monumenti, per poi di
nuovo, ancora una volta, smontarli allegramente.
Se è così, allora la vera domanda non è «quali sono le origini della
disuguaglianza sociale?», ma, visto che abbiamo vissuto così tanta parte
della nostra storia muovendoci avanti e indietro fra differenti sistemi politici,
«come abbiamo fatto a restare bloccati in questo modo?».
Tutto ciò è assai lontano dal concetto di società preistorica che va
ciecamente alla deriva trasportata dalle catene istituzionali che la legano. È
lontana anche dalle tetre profezie di Fukuyama, Diamond, Morris, e Scheidel,
dove ogni forma "complessa" di organizzazione sociale
significa necessariamente che delle piccole élite si impadroniscono delle
risorse chiave, e cominciano a mettere sotto i loro piedi chiunque altro. La
maggior parte delle scienze sociali considera questi lugubri pronostici come se
fossero delle verità auto-evidenti. Ma naturalmente, sono infondate. Perciò,
ora potremmo ragionevolmente chiederci: quali altre preziose verità devono
essere gettate nella discarica della storia?
In realtà, direi che sono un bel numero. Già negli anni '70, il brillante
archeologo di Cambridge David Clarke aveva predetto che, con la
ricerca moderna, quasi ogni aspetto del vecchio edificio dell'evoluzione umana,
«la spiegazione dello sviluppo dell'uomo moderno, l'addomesticamento, la
metallurgia, l'urbanizzazione e la civilizzazione - in prospettiva possono
essere visti come trappole semantiche e miraggi metafisici.» Sembra che avesse
ragione. Oggi, le informazioni arrivano da ogni angolo del globo, e si basano
su accurate ricerche empiriche, su tecniche avanzate di ricostruzione
climatica, di datazione cronometrica, e su analisi scientifiche di resti
organici. I ricercatori stanno esaminando il materiale etnografico e storico
sotto una nuova luce. E quasi tutte queste nuove ricerche si pongono contro la
narrazione della storia del mondo che ci è familiare. Tuttavia, le scoperte più
notevoli rimangono confinate in quello che è il lavoro degli specialisti,
oppure devono essere estrapolate leggendo fra le righe delle pubblicazioni
scientifiche. Perciò concludiamo con alcuni titoli: solo una manciata, per dare
il senso di a che cosa stia cominciando ad assomigliare la nuova emergente
storia del mondo.
La prima notizia esplosiva del nostro elenco riguarda le origini e la
diffusione dell'agricoltura. Non c'è più alcunché che sostenga l'opinione che
abbia segnato una transizione fondamentale per le società umane. In quelle
parti del mondo in cui per la prima volta sono stati addomesticati gli animali
e le piante, in realtà non si assiste ad alcun percettibile "passaggio"
dal raccoglitore paleolitico al coltivatore neolitico. La "transizione"
relativa al passare dal vivere soprattutto di risorse selvagge, a vivere
basandosi sulla produzione di cibo ha richiesto qualcosa nell'ordine di tremila
anni. Sebbene l'agricoltura abbia consentito la possibilità che ci fossero
delle concentrazioni di ricchezza più diseguali, nella maggior parte dei casi
questo è cominciato a succedere solo millenni dopo il suo inizio. Nel
frattempo, persone che si trovavano in aree così lontane come l'Amazzonia e la
Mezzaluna fertile del Medio Oriente provavano a coltivare, "giocavano
all'agricoltura", se vogliamo, cambiando ogni anno da un modo di
produzione all'altro, così come avevano cambiato e ricambiato le loro strutture
sociali. Per di più, la "diffusione dell'agricoltura" in aree
secondarie, come l'Europa - così spesso descritta in termini trionfalisti, come
se si trattasse di un'inevitabile declino della caccia e della raccolta -
risulta invece essere stato un processo molto tenue, che a volte falliva, e
portava così ad un crollo demografico per i coltivatori, non per i
raccoglitori.
Chiaramente, quando si parla di processi di così lunga durata e
complessità, non ha più senso usare frasi come "la rivoluzione agricola".
Dal momento che non è esistito nessuno stato simile ad un Eden, a partire dal
quale i primi agricoltori avrebbero potuto muovere i primi passi sulla strada
della disuguaglianza, ha ancora meno senso parlare di agricoltura come
marcatura delle origini del rango o della proprietà privata. Semmai, è tra
quelle popolazioni - i popoli "mesolitici" - che hanno
rifiutato l'agricoltura nel corso dei secoli del riscaldamento del primo
Olocene, che troviamo una stratificazione che diventa sempre più consolidata;
quanto meno, se la sepoltura opulenta, la guerra predatoria, e gli edifici
monumentali sono qualcosa da considerare. In alcuni casi, come il Medio
Oriente, i primi agricoltori sembrano aver sviluppato in maniera consapevole
forme alternative di comunità, che accompagnano il loro modo di vita assai
laborioso. Queste società neolitiche appaiono essere straordinariamente
egualitarie se paragonate ai loro vicini cacciatori-raccoglitori, insieme ad un
drammatico incremento in quella che è l'importanza sociale ed economica delle
donne, che si riflette chiaramente nella loro arte e nella loro vita rituale
(le statuette femminili di Gerico e Çatalhöyük, in contrasto con le sculture
iper-maschili di Göbekli Tepe).
Un'altra notizia esplosiva: la "civiltà" non arriva come un
pacchetto. Le prime città del mondo non sono semplicemente emerse in una
manciata di luoghi, insieme a dei sistemi di governo centralizzato e di
controllo burocratico. Ora siamo consapevoli che, ad esempio, in Cina nel 2500
AC esistevano insediamenti di 300 e più ettari nel corso inferiore del
Fiume Giallo, oltre mille anni prima della fondazione della prima dinastia
reale (Shang). Sull'altra sponda del Pacifico, e risalenti all'incirca allo
stesso periodo, sono stati scoperti dei centri cerimoniali di grande
magnificenza nella valle del Rio Supe, in Perù, in particolare nel sito di
Caral: resti enigmatici di piazze sprofondate e di piattaforme monumentali, più
antiche di quattromila anni rispetto all'impero Inca. Simili recenti scoperte
indicano quanto poco si sappia veramente riguardo la distribuzione e l'origine
delle prime città, e quanto siano più antiche rispetto ai sistemi di governi
autoritari e alle amministrazioni letterate che una volta venivano ritenute
necessarie alla loro fondazione. E nelle zone centrali più consolidate
dell'urbanizzazione - la Mesopotamia, la Valle dell'Indo, il bacino del Messico
- ci sono sempre più prove del fatto che le prime città erano organizzate
secondo linee consapevolmente egualitarie, in cui i consigli municipali
conservavano una significativa autonomia dal governo centrale. Nei primi due
casi, sono fiorite per oltre mezzo millennio città dotate di sofisticate
infrastrutture civili, senza che ci fosse alcuna traccia di sepolture o di
monumenti reali, né eserciti permanenti, o altri mezzi di coercizione su larga
scala, e neppure alcuna traccia di un controllo burocratico diretto sulla vita
della maggior parte dei cittadini.
Malgrado quello che dice Jared Diamond, non c'è assolutamente alcuna prova
che strutture gerarchiche di ruolo siano la necessaria conseguenza di
un'organizzazione su larga scala. Nonostante quello che dice Walter Scheidel,
semplicemente non è vero che le classi dominanti, una volta che si sono
affermate, non possano essere eliminate se non per mezzo di una catastrofe
generale. Tanto per fare un solo esempio ben documentato: intorno al 200 DC, la
città di Teotihuacan, nella Valle de Messico, con una popolazione di 120.000
abitanti (una delle più grandi al mondo in quel periodo). sembra aver subito
una profonda trasformazione, voltando le spalle ai suoi templi piramidali e ai
sacrifici umano, e ricostruendo sé stessa sotto forma di una vasta serie di
confortevoli ville, tutte quasi esattamente delle stesse dimensioni. Rimase
così per forse 400 anni. Persino ancora ai tempi di Cortés, il Messico centrale
era ancora sede di città come Tlaxcala, governata da un consiglio eletto, i cui
membri venivano periodicamente frustati dai loro elettori perché si ricordassero
che era alla fine a comandare.
I pezzi ci sono tutti, per poter creare una storia del mondo completamente
differente. Per lo più, siamo troppo accecati dai nostri pregiudizi per
riuscire a vedere quali sono le implicazioni. Per esempio, al giorno d'oggi quasi
tutti sostengono che la democrazia partecipativa, o l'uguaglianza sociale,
possono anche funzionare in una piccola comunità, o per un gruppo di attivisti,
ma non è possibile "estenderla" a qualcosa come una città, una
regione, o uno Stato-nazione. Ma ciò che è evidente, davanti ai nostri occhi,
se scegliamo di vederlo, suggerisce il contrario. Le città egualitarie, anche
le confederazioni ragionali, sono qualcosa di storicamente abbastanza comune.
Non lo sono le famiglie egualitarie. Una volta che è stato emesso il verdetto
storico, ci renderemo conto che la perdita dolorosa della libertà umana ha
avuto inizio su piccola scala - al livello delle relazioni di genere, di gruppi
di età, e di servitù domestica - quel genere di relazioni che contengono contemporaneamente
sia la massima intimità che le forme più profonde di violenza strutturale. Se
vogliamo capire davvero come sia diventato accettabile per alcuni trasformare
la ricchezza in potere, e come sia diventato possibile per altri sentirsi dire
che i loro bisogni, e le loro vite, non contavano, è a questo che dobbiamo
guardare. E prevediamo anche che è qui che dovrà svolgersi il lavoro più
difficile per poter creare una società libera.
- David Graeber e David Wengrow - Pubblicato il
2 marzo 2018 su Eurozine -
Comment changer le cours de l'histoire
(ou au moins du
passé)
David
Graeber et David Wengrow, 3 July 2018
Ce que nous avons l’habitude de
nous raconter à propos de nos origines est faux et perpétue l’idée que
l’inégalité sociale est inévitable. S’interrogeant sur la persistance du mythe
de la « révolution agricole », David Graeber et David Wengrow affirment que nos
ancêtres ont en fait bien plus à nous apprendre.
Œuvre d’art de Banksy (titre
inconnu). Source: Flickr
Au
commencement était le verbe
Depuis des siècles, le récit
expliquant les origines de l’inégalité sociale est simple. Pendant la plus
grande partie de leur histoire, les hommes vécurent dans des petits groupes
égalitaires de chasseurs-cueilleurs. Puis vint l’agriculture, accompagnée de la
propriété privée, puis la naissance des villes signifiant l’émergence de la
civilisation à proprement parler. Si la civilisation eut bien des aspects
déplorables (les guerres, les impôts, la bureaucratie, la patriarchie,
l’esclavage, etc.), elle rendit également possibles la littérature écrite, la
science, la philosophie et la plupart des autres grands accomplissements
humains.
Tout le monde, ou presque,
connaît les grandes lignes de cette histoire. Depuis l’époque de Jean-Jacques
Rousseau, au moins, elle a informé notre conception de la forme générale et de
la direction de l’histoire humaine. Cela est d’autant plus important que ce
récit définit dans le même temps ce que nous percevons comme nos possibilités
politiques. La plupart d’entre nous considère la civilisation, et donc
l’inégalité, comme une triste nécessité. Certains rêvent du retour à un passé
utopique, de la découverte d’un équivalent industriel au “communisme primitif”
ou même, dans les cas les plus extrêmes, de la destruction complète de la civilisation
et du retour à une vie de cueillette. Personne, cependant, ne remet en cause la
structure élémentaire de cette histoire.
Et pourtant, ce récit est
fondamentalement problématique.
Car il n’est pas vrai.
Les très nombreuses preuves
fournies par l’archéologie, l’anthropologie et les disciplines analogues
commencent à donner une idée assez claire de l’aspect véritable des 40 000
dernières années de l’histoire humaine. Celle-ci ne ressemble presque en rien
au récit qui en est communément admis. En réalité, notre espèce n’a pas passé
la plupart de son histoire à vivre en petits groupes. L’agriculture n’a pas
marqué un seuil irréversible de l’évolution sociale. Les premières villes
étaient souvent fortement égalitaires. En dépit du consensus que les chercheurs
ont atteint à propos de toutes ces questions, ils sont demeurés bizarrement
hésitants à annoncer au public, ou même aux universitaires issus d’autres
disciplines, leurs découvertes, et encore moins à s’interroger sur leurs
implications politiques plus larges. C’est pourquoi les penseurs qui
réfléchissent aux “grandes questions” soulevées par l’histoire humaine, comme
Jared Diamond, Francis Fukuyama et Ian Morris, continuent de partir de la
question rousseauiste (“Quelle est l’origine de l’inégalité sociale ?”) et
présupposent que l’histoire commence par une sorte de chute loin de l’innocence
primitive.
Le simple fait de poser ainsi la
question correspond à une série de présupposés
- Il existe une chose nommée “inégalité”
- C’est
un problème
- Fut un temps, ce problème n’existait pas
Il est évident que depuis
l’effondrement financier de 2008 et les bouleversements qu’il a causés, le
“problème de l’inégalité sociale” est devenu le centre du débat politique. Il
existe parmi les intellectuels et les hommes politiques un consensus apparent :
le niveau des inégalités se serait emballé sans pouvoir être maîtrisé ;
d’une façon ou d’une autre, tous les problèmes mondiaux en résulteraient. Une
telle position peut être vue comme une remise en cause des structures du
pouvoir mondial. Mais pensons à la manière dont ces problèmes étaient discutés
il y a une génération. Contrairement à des termes comme “capital” ou “pouvoir
de classe”, le mot “égalité” semble presque conçu pour conduire à des
demi-mesures et au compromis. Il est possible d’imaginer le renversement du
capitalisme ou la destruction du pouvoir étatique, mais bien plus difficile de
concevoir l’élimination de l’inégalité. Et que cela voudrait-il dire, dans la
mesure où les hommes ne sont pas identiques, et que personne ne souhaite véritablement
qu’ils le soient ?
“L’inégalité” est une manière de
poser les problèmes sociaux qui convient aux réformateurs technocrates, à ceux
qui présupposent depuis le départ que toute conception d’une transformation
sociale est depuis longtemps sortie du champ politique. Cette approche autorise
à bricoler les chiffres, à débattre à propos des coefficients de Gini et des
seuils de dysfonctionnement, à réajuster les régimes fiscaux et les mécanismes
de l’État-providence, et même à choquer le public avec des chiffres démontrant
la dégradation de la situation (“Imaginez-vous, 0,1% de la population mondiale
contrôle plus de 50% de la richesse !”), sans s’attaquer à aucun des
éléments critiqués dans le cadre d’arrangements sociaux si inégaux. Par
exemple, la possibilité pour certains de transformer leur richesse en pouvoir
exercé sur autrui ou le fait que d’autres finissent par s’entendre dire que
leurs besoins sont sans importances, et que leur vie ne possèdent pas de valeur
propre. On nous fait croire que de tels états de fait résultent inévitablement
de l’inégalité et que l’inégalité résulte inévitablement de la vie dans une
société de grande taille, complexe, urbaine et avancée technologiquement. Voici
le véritable message politique que transmettent les évocations sans fin d’un
âge de l’innocence existant avant l’invention de l’inégalité: si nous
souhaitons nous débarrasser tout à fait de tels problèmes, il faudrait que nous
nous débarrassions d’une manière ou d’une autre de 99,9% de la population
mondiale et que nous devenions de nouveau des petits groupes de glaneurs. Dans
le cas contraire, nous ne pouvons rien espérer de mieux que d’ajuster la taille
de la botte qui nous écrasera, pour toujours, ou, pour certains d’entre nous et
de manière temporaire, de se ménager une étroite marge de manœuvre.
La science sociale
conventionnelle semble désormais tendue vers le but de renforcer cet état de
découragement. Presque tous les mois, nous sommes confrontés à des publications
qui essaient de projeter l’obsession actuelle vis-à-vis de la distribution de
la propriété jusqu’à l’âge de pierre, ce qui nous mène dans une quête fausse
pour les “sociétés égalitaires” définies de manière telle qu’elles ne peuvent
pas exister en dehors de petits groupes de glaneurs (et peut-être même pas dans
ce cas-là). Dans cet article, nous essayons donc de faire deux choses. D’abord,
nous passerons un peu de temps à examiner ce qui passe dans ce domaine pour des
avis autorisés, afin de révéler les règles du jeu, en particulier comment les
universitaires contemporains, apparemment les plus sophistiqués, finissent par
reproduire la sagesse consensuelle qui avait cours en France ou en Écosse vers,
disons, 1760. Nous essaierons ensuite de poser les bases d’un récit tout à fait
différent. Il s’agit surtout d’un travail de défrichage. Nous traitons de
questions si énormes et de problèmes si importants qu’il faudra des années de
recherches et de débats afin de commencer à comprendre les pleines
implications. Mais nous insistons sur un point. Abandonner le récit d’une chute
hors de l’innocence première ne signifie pas abandonner les rêves
d’émancipation humaine, c’est-à-dire celui d’une société où personne ne peut
transformer leurs droits de propriété en moyen de réduire en esclavage autrui,
et où personne ne s’entend dire que sa vie ou ses besoins ne comptent pas. Au
contraire. L’histoire humaine devient bien plus intéressante et contient bien
plus de moments porteurs d’espoir que l’on a été conduit à l’imaginer une fois
que nous nous sommes libérés de nos fers conceptuels et rendu compte de ce qui
était réellement présent.
Les auteurs
contemporains à propos de l’origine de l’inégalité sociale, ou l’éternel retour
de Jean-Jacques Rousseau
Commençons par esquisser l’idée
reçue en matière de déroulé général de l’histoire humaine. Elle s’approche à
peu près de cela :
Tandis que le rideau se lève sur
l’histoire humaine, il y a à peu près 200 000 ans, lors de l’apparition d’Homo
sapiens, on trouve notre espèce vivant en petits groupes mobiles constitués
de 20 à 40 individus. Ils se déplacent à la recherche des meilleurs territoires
pour la chasse et la cueillette, traquant les troupeaux, cueillant des noix et
des baies. Lorsque les ressources se font rares ou que des tensions sociales
apparaissent, leur réponse est de continuer à avancer ou de se déplacer autre
part. La vie de ces hommes primitifs, que nous percevons comme l’enfance de
l’humanité, est pleine de dangers mais aussi de possibilités. Les possessions
matérielles sont peu nombreuses, mais le monde est un lieu intact et
accueillant. La plupart des hommes ne travaillent que quelques heures par jour
et la petite taille des groupes permet de conserver une camaraderie
décontractée, sans structures formelles de domination. Lorsqu’il écrivait au
XVIIIe siècle, Rousseau nommait cette situation “état de nature” mais on
suppose aujourd’hui qu’elle englobe la majorité de l’histoire concrète de notre
espèce. On suppose également que c’est la seule période durant laquelle les
hommes ont réussi à vivre dans une authentique société d’égaux, sans classes,
castes, chefs héréditaires ou gouvernement centralisé.
Malheureusement, cet heureux état
de fait devait finalement se terminer. Selon la version conventionnelle de
l’histoire du monde, cette fin intervient il y a dix mille ans, lorsque se
referme le dernier âge glaciaire.
A cette époque, on trouve nos
acteurs humains imaginaires dispersés à travers les continents, commençant à
récolter leurs propres récoltes et à élever leurs propres troupeaux. Quelles
que soient les raisons locales (elles sont débattues), les effets sont immenses
et quasi identiques partout. L’ancrage territorial et la propriété privée
gagnent une importance inconnue jusqu’alors : les accompagnent des querelles
sporadiques et la guerre. L’agriculture procure un surplus de nourriture, qui
permet à certains d’accumuler de la richesse et de l’influence au-delà de leur
groupe de parenté immédiate. D’autres profitent d’être libérés de la recherche
de nourriture pour développer de nouvelles compétences : ils inventent des
armes, des outils, des véhicules et des fortifications plus sophistiqués et se
lancent dans la politique et la religion organisée. En conséquence, ces
“fermiers néolithiques” sont rapidement en mesure d’évaluer et de contrôler
leurs voisins chasseurs-cueilleurs, et de se décider à les éliminer ou à les
absorber dans un mode de vie nouveau et supérieur, quoiqu’aussi plus
inégalitaire.
L’histoire continue et, pour
compliquer encore les choses, l’agriculture assure une croissance globale des
niveaux de population. Alors que les personnes se déplacent vers des
concentrations de plus en plus grandes, nos ancêtres se rapprochent encore,
involontairement mais irréversiblement, de l’inégalité. Il y a environ 6 000
ans, les villes apparaissent et les jeux sont faits. Avec les villes apparaît
le besoin d’un gouvernement centralisé. De nouvelles classes de bureaucrates,
de prêtres et de soldats-politiciens s’installent dans des fonctions
permanentes afin de maintenir l’ordre et de garantir un ravitaillement et des
services publics réguliers. Les femmes qui avaient jadis occupé des positions
prééminentes dans la gestion des affaires humaines sont cloîtrées ou
emprisonnées dans des harems. Les prisonniers de guerre sont réduits en
esclavage. L’inégalité véritable est arrivée et il n’est pas possible de s’en
débarrasser. Cependant, les narrateurs nous assurent toujours que tout n’est
pas mauvais dans le développement de la civilisation urbaine. L’écriture est
inventée, d’abord pour tenir les comptes de l’État, mais elle permet rapidement
des avancées fantastiques dans les domaines de la science, de la technologie et
des arts. En le payant de notre innocence, nous devenons les êtres modernes que
nous sommes et nous ne pouvons considérer désormais qu’avec pitié et envie les
quelques sociétés “traditionnelles” ou “primitives” qui ont raté le coche.
Nous avons dit que ce récit fonde
tout le débat contemporain sur l’inégalité. Si par exemple un spécialiste des
relations internationales ou un psychologue clinicien souhaitent réfléchir à
ces sujets, ils vont sans doute prendre pour acquis que pendant la plus grande
partie de l’histoire humaine, nous vivions en petits groupes égalitaires, ou
bien que le développement des villes signifie aussi celui de l’État. Il en va
de même dans des ouvrages très récents qui visent à examiner un aperçu général
de la préhistoire afin de tirer des conclusions politiques en lien avec la vie
contemporaine. Ainsi, l’ouvrage de Francis Fukuyama The Origins of Political Order: From Prehuman Times to
the French Revolution :
À ses débuts, l’organisation
politique humaine était comparable à la société de groupe observée chez les
primates supérieurs comme les chimpanzés. Cela peut être considéré comme la
forme par défaut de l’organisation sociale… Rousseau a souligné que l’origine
de l’inégalité politique repose dans le développement de l’agriculture et il
avait, en ce domaine, largement raison. En effet, dans les sociétés de groupe,
la propriété privée n’existe dans aucune de ses acceptions actuelles. Comme les
groupes de chimpanzés, les chasseurs-cueilleurs habitent une étendue
territoriale qu’ils surveillent et pour laquelle ils se battent parfois. Mais
ils sont moins encouragés que les agriculteurs à délimiter une portion de terre
et à dire “Cela m’appartient !”. Si leur territoire est envahi par un autre
groupe, ou infiltré par de dangereux prédateurs, les sociétés de groupe peuvent
avoir le choix simple de déplacer autre part, du fait de faibles densités de
population. Les sociétés de groupe sont hautement égalitaires… Le commandement
est conféré à des individus en fonction de leurs qualités comme la force,
l’intelligence et la crédibilité, mais il a tendance à passer d’un individu à
l’autre.
Jared Diamond, dans World Before Yesterday: What Can We Learn from
Traditional Societies?, fait l’hypothèse que de tels
groupes (qui constituaient les sociétés humaines “il y a encore 11 000 ans”) ne
comprenaient “pas plus d’une petite douzaine d’individus”, pour la plupart liés
biologiquement. Ils vivaient une existence austère, “chassant et cueillant les
animaux sauvages et les espèces végétales qui se trouvaient vivre dans un
demi-hectare de forêt” (Pourquoi un demi-hectare ? Il ne l’explique jamais). Et
leur vie sociale, selon Diamond, était d’une simplicité enviable. Les décisions
étaient prises via des “discussions face à face”. Il y avait “peu de
possessions personnelles” et “pas de commandement politique formalisé ou de
spécialisation économique poussée”. Diamond conclut que malheureusement ce
n’est que dans des groupements aussi primordiaux que les humains n’ont jamais
atteint un degré significatif d’égalité sociale.
Pour Diamond et Fukuyama, comme
pour Rousseau plusieurs siècles auparavant, partout et toujours, c’est
l’invention de l’agriculture et les hausses de population qu’elle a permises
qui ont mis fin à l’égalité. L’agriculture a entraîné une transition des
groupes aux tribus. L’accumulation de surplus de nourriture a nourri la
croissance démographique, ce qui a conduit certaines “tribus” à devenir des
sociétés de rang désignées comme “chefferies”. Fukuyama propose une image
presque biblique de ce phénomène, comme un départ de l’Eden : “Alors que les
petits groupes d’êtres humains migraient et s’adaptaient à différents
environnements, ils commencèrent à sortir de l’état de nature en développant de
nouvelles institutions sociales.”. Ils se firent la guerre pour des ressources.
Dégingandées et pubères, ces sociétés allaient au devant d’ennuis.
Il était temps de grandir et de
désigner un véritable commandement. Avant longtemps, les chefs s’étaient
déclarés rois, ou même empereurs. Il n’y avait pas d’intérêt à résister. Tout
cela était inévitable une fois que les hommes avaient adopté des formes
d’organisation larges et complexes. Même lorsque les chefs agissaient mal, en
se servant les premiers dans le surplus agricoles pour promouvoir leurs laquais
et leurs proches, en rendant leur statut permanent et héréditaire, en
collectionnant les crânes et les harems de filles-esclaves ou encore en
arrachant les cœurs de leurs rivaux à coups de couteaux d’obsidienne, il n’y a
avait plus de retour en arrière. “Les populations importantes”, Diamond
l’affirme, “ne peuvent pas fonctionner sans chefs qui prennent des décisions,
sans cadres pour exécuter ces décisions, et sans bureaucrates pour appliquer
les décisions et les lois. Malheureusement pour tous nos lecteurs anarchistes
qui rêvent de se passer d’un gouvernement étatisé, voilà les raisons de
l’irréalisme de vos souhaits : il faudrait trouver un petit groupe ou tribu
accueillante, sans étranger, sans besoin de rois, présidents ou bureaucrates”
Voilà une sombre conclusion, non
seulement pour les anarchistes, mais aussi pour tous ceux qui s’interrogeraient
sur l’existence d’un système alternatif viable au statu quo. Mais
ce qui est remarquable est le fait qu’en dépit du ton suffisant, de telles
déclarations ne se fondent pas sur des preuves scientifiques. Il n’y a pas de
raison de croire que les groupes de petite taille ont particulièrement tendance
à être égalitaires, ni que les groupes plus nombreux doivent nécessairement
avoir recours à des rois, présidents ou bureaucrates. Ce ne sont que des
préjugés affirmés comme des faits.
Dans le cas de Fukuyama et de
Diamond, on peut au moins se dire qu’ils n’ont pas reçu de formation adéquate
dans les disciplines pertinentes. Le premier vient de la science politique et
le doctorat du second porte sur la physiologie de la vésicule biliaire.
Cependant, même quand ce sont des archéologues ou des anthropologues qui
s’essaient à proposer des récits généraux, ils ont eux aussi une tendance
bizarre à finir par proposer une variation mineure sur Rousseau. Dans leur
ouvrage The
Creation of Inequality: How our Prehistoric Ancestors Set the Stage for
Monarchy, Slavery, and Empire Kent Flannery and Joyce
Marcus, deux universitaires éminemment compétents, exposent sur près de cinq
cents pages des études de cas ethnographiques et archéologiques pour tenter de
résoudre cette énigme. Si les deux auteurs admettent que les institutions
impliquant la hiérarchie ou la servitude n’étaient pas tout à fait inconnues à
nos prédécesseurs de l’âge glaciaire, ils insistent néanmoins sur le fait que
c’était d’abord dans des relations avec le monde surnaturel (esprits
ancestraux et cetera). Ils proposent de considérer que l’invention
de l’agriculture a conduit à l’émergence de “clans” ou de “lignages” plus
élargis d’un point de vue démographique et qu’en parallèle, la communication
avec les esprits et les morts sont devenus une voie pour accéder au pouvoir
temporel (mais ils n’expliquent pas exactement comment). Selon Flannery et
Marcus, le grand pas suivant vers l’inégalité vient quand certains hommes des
clans possédant un talent ou un renom exceptionnel – des experts de la guérison,
des guerriers et autres surdoués – se virent accorder le droit de transmettre
leur statut à leurs descendants, sans prise en considération pour les talents
et capacités de ces derniers. Telles furent, en gros, les bases qui menèrent
inévitablement à l’arrivée des villes, de la monarchie, de l’esclavage et des
empires.
Un aspect surprenant du livre de
Flannery et de Marcus est qu’ils n’étaient leurs propos par des preuves
archéologiques que lorsqu’ils atteignent l’époque de formation des États et des
empires. Au contraire, toutes les étapes cruciales de leur récit de “la
création de l’inégalité” reposent plutôt sur des descriptions assez récentes de
cueilleurs, éleveurs et cultivateurs vivant en petits groupes, comme les Hadza
de la région du rift d’Afrique de l’Est ou les Nambikwara vivant dans la forêt
amazonienne. Or, ni les Hadza ni les Nambikwara ne sont des fossiles vivants.
Depuis des millénaires, ils sont en contact avec des États et des empires
agraires, des pilleurs et des marchands et leurs institutions sociales ont été
largement informées par les efforts qu’ont déployés ces peuples pour s’en
rapprocher ou les éviter. Seule l’archéologie, à la limite, pourrait nous
montrer ce qu’ils ont en partage avec les sociétés préhistoriques. La
conclusion est que même si Flannery et Marcus nous proposent des éclairages
intéressants sur la façon dont les inégalités pourraient émerger dans
les sociétés humaines, ils nous donnent peu d’éléments pour nous convaincre de
la réalité du processus qu’ils décrivent.
En dernier lieu, considérons le
livre de Ian Morris Foragers,
Farmers, and Fossil Fuels: How Human Values Evolve. Morris y
poursuit un objectif intellectuel légèrement différent, puisqu’il s’agit de
faire dialoguer les découvertes archéologiques, l’histoire ancienne et
l’anthropologie avec les travaux d’économistes, comme les recherches de Thomas
Piketty sur les causes des inégalités actuelles à l’échelle mondiale ou
l’ouvrage plus programmatique de Tony Atkinson Inequality: What can be
Done ? Le “temps long” de l’histoire humaine, nous fait savoir Morris,
a quelque chose d’important à nous dire de ces questions, mais seulement si
nous sommes capables d’établir en premier lieu une mesure uniforme de
l’inégalité applicable sur toute son étendue. Pour y parvenir, il traduit les
“valeurs” des chasseurs-cueilleurs de l’âge glaciaire et des cultivateurs du
Néolithique en des termes familiers pour les économistes d’aujourd’hui, dont il
se sert pour établir des coefficients de Gini et des taux d’inégalités. Plutôt
que les iniquités spirituelles que mettent en avant Flannery et Marcus, Morris
nous propose une vision résolument matérialiste en divisant l’histoire humaine
selon les trois substantifs de son titre, en fonction de la manière dont les
hommes acheminent la chaleur. Il suggère que chaque société possède un niveau
“optimal” d’inégalité sociale – ce que Pickett et Wilkinson appellent un
“niveau à bulle” intégré – qui correspond au mode d’extraction énergétique
alors en vigueur.
Dans un article de 2015 paru dans
le New York Times, Morris fournit des chiffres concrets, des
revenus primaires quantifiés en dollars (valeur de 1990). Lui aussi suppose que
les chasseurs-cueilleurs du dernier âge glaciaire vivaient majoritairement en
petits groupes mobiles. Il en résulte qu’ils consommaient très peu,
l’équivalent de 1,10 $ par jour selon les estimations de Morris. En
conséquence, le coefficient de Gini est de l’ordre de 0,25, c’est-à-dire
presque la valeur minimale que peut prendre cette mesure : il y avait en effet
très peu de surplus ou de capital à s’approprier pour une élite en devenir. Les
sociétés agraires, qui selon Morris englobent aussi bien le village néolithique
de Çatalhöyük il y a 9 000 ans, la Chine de Kubilai Khan et la France de Louis
XIV, étaient plus nombreuses et plus riches. La consommation moyenne
s’établissait entre 1,50 et 2,20 $ par jour et il y existait une propension à
accumuler des surplus de richesse, mais la plupart des personnes travaillaient
plus dur et dans des conditions nettement plus mauvaises. Ainsi, les sociétés
d’agriculture tendaient vers des niveaux d’inégalité bien plus élevés.
Les sociétés reposant sur les
énergies fossiles auraient dû changer cette donne en nous libérant de la corvée
du travail manuel et en nous ramenant à des coefficients de Gini plus
raisonnables et plus proches de ceux du temps de nos ancêtres
chasseurs-cueilleurs. Pendant un temps, ce changement s’esquissait mais pour
une raison étrange, que Morris n’est pas en mesure de tout à fait comprendre,
la tendance s’est inversée et la richesse se retrouve de nouveau concentrée
dans les mains d’une élite mondiale resserrée.
Si les méandres de l’histoire
économique de ces 15 000 dernières années et la volonté populaire peuvent être
pris pour guides, le “bon” niveau d’inégalité de revenu après prélèvement des
impôts semble d’établir entre 0,25 et 0,35. Quant à celui d’inégalité de
richesse, il serait entre 0,70 et 0,80. Beaucoup de pays sont aujourd’hui aux
alentours ou au-dessus des bornes supérieures de ces estimations, ce qui laisse
à penser que Thomas Piketty a raison de prévoir des turbulences. D’importants
ajustements technocratiques semblent bien à l’ordre du jour !
Mais laissons de côté les
recommandations de Morris et concentrons-nous sur un chiffre : le revenu
paléolithique de 1,10 $ par jour. D’où vient-il exactement ? Les calculs sont
probablement liés à la valeur calorique de la ration de nourriture quotidienne.
Mais comparer cette valeur à l’actuel revenu journalier suppose de prendre en
considération toutes les autres choses que les glaneurs du Paléolithique
obtenaient gratuitement tandis que nous sommes censés les payer : la sécurité
gratuite, la médiation des conflits gratuite, l’éducation primaire gratuite, le
soin des plus âgés gratuit, la médecine gratuite, sans oublier les coûts des
divertissements, de la musique, des contes et des services religieux. Même
quand il est question de nourriture, on doit considérer sa qualité : on parle
en effet ici de produits 100% bio et garantis plein air, rincés à la plus pure
et naturelle des eaux de source. Mais considérons les frais de camping pour les
premiers campements paléolithiques le long de la Dordogne ou de la Vézère, les
cours du soir hauts de gamme en peinture sur roche ou en sculpture d’ivoire :
et les manteaux de fourrure ! Tout cela vaut sans doute bien plus que 1,10
dollars de 1990 par jour ! Ce n’est pas pour rien que Marshall Sahlins
désigne les glaneurs comme la société d’abondance originelle. Un tel train de
vie n’est pas bon marché !
Même si tout cela peut paraître
légèrement idiot, voici notre thèse : à force de réduire l’histoire du monde à
des coefficients de Gini, les conséquences seront elles-mêmes idiotes, et
également déprimantes. Morris pressent au moins que quelque chose cloche dans
la récente augmentation galopante des inégalités à l’échelle mondiale. Au
contraire, l’historien a poussé les lectures à la Piketty de l’histoire humaine
à leur conclusion définitive et misérable. Dans son livre de 2017 The
Great Leveler: Violence and the History of Inequality from the Stone Age to the
Twenty-First Century, il conclut que nous ne pouvons
pas faire grand chose contre les inégalités. La civilisation installe toujours
au pouvoir une élite restreinte qui se taille une part toujours croissante du
gâteau. Seules les catastrophes n’ont jamais pu les déloger : la guerre, la peste,
la conscription de masse, la souffrance en gros et la mort. Les demi-mesures ne
marchent jamais. Tant qu’on ne veut pas retourner vivre dans une grotte ni
mourir dans une apocalypse nucléaire (qui supposément conduirait aussi des
survivants à vivre dans des grottes !), il faut bien accepter l’existence de
Warren Buffett et de Bill Gates.
Quelle est la solution libérale
alternative ? Flannery et Marcus, qui s’inscrivent explicitement dans une
tradition rousseauiste, terminent leur enquête par cette conclusion utile :
Nous avons jadis abordé ce sujet
avec Scotty MacNeish, un archéologue qui a passé quarante ans à étudier les
évolutions sociales. Comment, nous demandions-nous, rendre la société plus
égalitaire ? Après un bref entretien avec son ami Jack Daniels, MacNeish nous
répondit “Laissez faire les chasseurs et les cueilleurs”?
Avons-nous vraiment couru
au-devant de nos fers ?
La véritable étrangeté de ces
évocations sans fin de l’innocent état de nature rousseauiste dont nous aurions
chuté est que Rousseau n’a jamais prétendu qu’il avait vraiment existé. Il ne
s’agissait que d’une expérience de pensée. Dans le Discours sur
l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, origine du
gros de l’histoire qu’on se raconte et se répète, il écrit :
Il ne faut pas prendre les
recherches, dans lesquelles on peut entrer sur ce sujet, pour des vérités
historiques, mais seulement pour des raisonnements hypothétiques et
conditionnels ; plus propres à éclaircir la nature des choses qu’à en montrer
la véritable origine
L’état de nature de Rousseau n’a
jamais eu pour but la description d’une étape du développement. Il n’était pas
supposé servir d’équivalent à la phase de “sauvagerie” qui débute les schémas
évolutionnistes d’Adam Smith, de Ferguson, de Millar et plus tardivement, de
Lewis Henry Morgan. Tous ces auteurs désiraient définir des niveaux de
développement social et moral correspondant à des changements historiques dans
les modes de production: la cueillette, le pastoralisme, l’agriculture, l’industrie.
C’est en revanche plutôt une parabole que Rousseau présente. Comme le souligne
Judith Shklar, la fameuse spécialiste de théorie politique enseignante à
Harvard, Rousseau s’appliquait en vérité à explorer ce qu’il considérait comme
le paradoxe fondamental de la politique humaine : comment la soif innée de
liberté d’une façon ou d’une autre peut conduire, à tous coups, “à la marche
spontanée vers les inégalités”. Dans les propres termes de Rousseau :
“Tous coururent au-devant de leurs fers croyant assurer leur liberté ; car avec
assez de raison pour sentir les avantages d’un établissement politique, ils
n’avaient pas assez d’expérience pour en prévoir les dangers”. L’imaginaire
état de nature est une façon d’illustrer ce phénomène.
Rousseau n’était pas fataliste.
Il croyait que les hommes avaient la possibilité de défaire ce qu’ils avaient
fait. Ils pouvaient en effet se délivrer de leurs fers. Seulement, ce ne serait
pas facile. Selon Shklar, c’est principalement la tension “entre possibilité et
probabilité” (c’est -à-dire la possibilité de l’émancipation humaine d’un côté
et de l’autre, l’éventualité de se retrouver de nouveau soumis à une forme de
servitude volontaire) qui anime les écrits de Rousseau sur l’inégalité. Cela
peut sembler légèrement ironique quand on sait qu’au sortir de la Révolution
française beaucoup de conservateurs tinrent Rousseau personnellement
responsable de l’utilisation de la guillotine. Ils affirmaient avec insistance
que la Terreur avait été précisément causée par sa foi naïve dans la bonté
naturelle de l’homme et par sa croyance que seuls les intellectuels étaient en
mesure d’imaginer un ordre social plus égal, ensuite imposé par la “volonté
générale”. Néanmoins, peu des figures du passé que l’on cloue aujourd’hui au
pilori, à cause de leur romantisme ou de leur utopisme, étaient si naïfs. Karl
Marx, par exemple, affirmait que c’était la capacité à raisonner sur le mode
imaginaire qui constitue le propre des hommes. Contrairement aux abeilles, ils
imaginent les maisons dans lesquelles ils souhaitent vivre avant de se mettre à
les bâtir. Il ne croyait cependant pas qu’il en allait de même avec la société.
Nul ne pouvait imposer à cette dernière un plan d’architecte. Ce serait pécher
par “socialisme utopique” pour lequel il n’avait que mépris. Les
révolutionnaires se devaient au contraire de posséder une idée des forces
structurelles plus larges qui donnent forme au cours de l’histoire du monde
pour pouvoir exploiter les contradictions sous-jacentes. Par exemple, du fait
de la concurrence économique, chaque propriétaire d’usine a besoin de ne pas
rétribuer tout le travail de ses employés mais si tous y parviennent trop bien,
plus personne n’aura les moyens d’acquérir les marchandises produites. Voilà
donc le pouvoir de deux mille ans d’Écritures : quand ils parlent du déroulé de
l’histoire humaine, même les réalistes les plus acharnés retombent sur des
variations autour du Jardin d’Eden : à la fois la Chute, causée, comme dans
la Genèse, par une recherche inconsidérée du savoir et la
possibilité d’une rédemption dans le futur. En fusionnant l’état de nature
rousseauiste et l’idée des stades de développement héritée des Lumières
écossaises, les partis politiques marxistes ont rapidement proposé leur propre
version de cette histoire. Il en a résulté une formule pour résumer l’histoire
du monde : elle commence par un “communisme primitif’ supplanté par la
naissance de la propriété privée mais destiné à revenir un jour.
Il faut constater que les
révolutionnaires, en dépit de tous leurs idéaux visionnaires, n’ont pas fait
preuve de beaucoup d’imagination, en particulier lorsqu’il s’agissait de relier
le passé, le présent et le futur. Tout le monde raconte la même histoire. Ce
n’est probablement pas un hasard si, en ce début de millénaire, les mouvements
révolutionnaires les plus importants et novateurs, comme les Zapatistes du
Chiapas, ou les Kurdes du Rojava, sont aussi ceux qui sont le plus profondément
reliés à leur passé traditionnel. Plutôt que de devoir imaginer une utopie
primitive, ils peuvent s’appuyer sur un récit plus composite et complexe. Il
semble en effet que les milieux révolutionnaires reconnaissent de plus en plus
que liberté, tradition et imagination sont et seront toujours entremêlées sans
que nous saisissions complètement comment. Il est grand temps que les autres
rattrapent leur retard et commencent à concevoir une version non biblique de
l’histoire de l’humanité.
Comment le
cours de l’histoire (passée) peut à présent changer
Alors, que nous a vraiment appris
la recherche en archéologie et en anthropologie, depuis le temps de Rousseau ?
Eh bien, tout d’abord, qu’il est
sans doute erroné de commencer par s’interroger sur “les origines de
l’inégalité sociale”. En vérité, avant le début de ce que l’on appelle le Paléolithique
supérieur, nous n’avons vraiment aucune idée de ce à quoi la majeure partie de
la vie humaine pouvait ressemblait. L’essentiel de nos indices est composé de
fragments épars de pierre de taille, d’ossements, et de quelques autres
matériaux durables. Plusieurs espèces d’hominidés coexistaient ; il n’est pas
évident qu’une quelconque analogie ethnographique puisse en rendre compte. Les
choses ne gagnent un quelconque intérêt que lors du Paléolithique supérieur
lui-même, qui commence il y a environ 45 000 ans et comprend l’apogée de la
glaciation et le refroidissement climatique (il y a environ 20 000 ans), connu
sous le nom de Dernier Maximum Glaciaire. Ce dernier grand âge glaciaire fut
alors suivi de l’apparition de conditions climatiques plus tièdes et du recul
progressif des nappes glaciaires, jusqu’à l’époque géologique actuelle,
l’Holocène. Des conditions plus clémentes suivirent, ouvrant la voie sur
laquelle l’Homo sapiens – qui avait déjà colonisé la majeure partie
du Vieux Monde – compléterait sa marche vers le Nouveau Monde, atteignant le
littoral méridional des Amériques il y a environ 15 000 ans.
Mais alors, que savons-nous
réellement de cette période de l’histoire humaine ? La plupart des premiers
indices substantiels d’une organisation sociale humaine lors du Paléolithique
proviennent de l’Europe, où nos espèces s’établirent avec l’Homo
neanderthalensis, avant l’extinction de ce dernier vers 40 000 avant J.-C.
(La concentration des données sur cette partie du monde reflète
vraisemblablement un biais historique de la recherche archéologique, plutôt
qu’une quelconque anomalie au sujet de l’Europe elle-même). À cette époque, et
au cours du Dernier Maximum Glaciaire, les parties habitables de l’Europe de
l’âge glaciaire ressemblaient plus au Parc Serengeti en Tanzanie qu’à n’importe
quel milieu européen contemporain. Au sud des nappes glaciaires, entre la
toundra et les littoraux boisés de la Méditerranée, le continent était divisé
entre des vallées riches en gibier et de la steppe, traversé selon les saisons
par des troupeaux migrants de cerfs, bisons ou mammouths laineux. Les
préhistoriens ont souligné pendant plusieurs décennies – quoique sans effet
apparent – que les groupes humains qui habitaient ces environnements n’avaient
rien de ces joyeux, simples et égalitaires groupes de chasseurs-cueilleurs,
tels que l’on s’imagine encore couramment nos lointains ancêtres.
D’abord, l’existence de riches
sépultures, qui remontent aux tréfonds de l’âge glaciaire, est incontestée.
Certaines d’entre elles, comme les tombes de Sungir, vieilles de 25 000 ans, à
l’est de Moscou, sont connues depuis des décennies et sont célèbres, à juste
titre. Felipe Fernández-Armesto, auteur de la critique de Creation of
Inequality pour le Wall Street Journal, a exprimé sa stupéfaction,
justifiée, quant à leur omission : “Bien qu’ils sachent que le principe
héréditaire était antérieur à l’agriculture, M. Flannery et Mme Marcus ne
parviennent pas vraiment à se débarrasser de l’illusion rousseauiste qu’il
commença avec la vie sédentaire. Ils dépeignent de ce fait un monde sans
pouvoir héréditaire jusqu’à environ 15 000 avant J.-C. et leur dessein les
conduit à ignorer tout en ignorant l’un des sites archéologiques les plus
importants”. Parce que, creusée dans le permafrost sous les établissements
paléolithiques à Sungir, se trouvait la tombe d’un homme d’âge moyen enterré,
ainsi que le souligne Fernández-Armesto, avec “de formidables signes d’horreur :
des bracelets d’ivoire de mammouth poli, un diadème ou un couvre-chef fait avec
des dents de renard, et près de 3000 perles d’ivoire laborieusement sculptées
et polies.” Et quelques mètres plus loin, dans une tombe identique, “reposent
deux enfants, d’environ 10 et 13 ans respectivement, ornés d’offrandes
mortuaires semblables – notamment, dans le cas du plus âgé, environ 5000 perles
aussi raffinées que celles des adultes (quoique légèrement plus petites) et une
énorme lance sculptée dans l’ivoire”.
Site funéraire paléolithique à
Sungir, Russie. Source: Wiki Commons
De telles découvertes ne semblent
occuper que très peu de place dans tous les livres considérés jusqu’ici. Il
pourrait sembler plus excusable de les minimiser ou de les réduire à des notes
de bas de page si Sungir était une découverte isolée. Ce qu’elle n’est pas. Des
sépultures aussi riches sont aujourd’hui attestées parmi les abris rocheux du
Paléolithique supérieur et les établissements à ciel ouvert, à travers la
majeure partie de l’Eurasie occidentale, du Don à la Dordogne. Parmi elles, on
trouve, par exemple, la “Dame de Saint-Germain-la-Rivière”, vieille de 16 000
ans, décorée d’ornements faits avec les dents de jeunes cerfs chassés 300 km
plus loin, dans le Pays basque espagnol ; et les sépultures de la côte ligure –
aussi anciennes que Sungir – notamment “Il Principe”, un jeune homme dont les
emblèmes comprennent un sceptre de silex exotique, des bâtons de ramure de
wapiti et une coiffure ornementée de coquilles perforées et de dents de cerfs.
De telles découvertes lancent des défis qui stimulent l’interprétation.
Fernández-Armesto a-t-il raison quand il affirme qu’il s’agit des preuves d’un
“pouvoir héréditaire” ? Quel est le statut de tels individus dans la vie ?
Non moins intrigantes sont les
traces sporadiques, mais incontestables, d’une architecture monumentale, qui
remonterait jusqu’au Dernier Maximum Glaciaire. L’idée que l’on pourrait
mesurer la “monumentalité” en termes absolus est bien sûr aussi simpliste que
l’idée de quantifier la dépense de l’âge glaciaire en dollars et en cents.
C’est un concept relatif, qui ne tire son sens que d’une échelle particulière
de valeurs et d’expériences antérieures. Le Pléistocène n’a pas d’équivalents
directs en matière d’échelle comme les pyramides de Gizeh ou le Colisée de
Rome. Mais il possède des constructions qui, par les standards de l’époque, ne
pouvaient qu’être considérées comme des travaux publics, qui impliquaient une
conception sophistiquée et la coordination du travail sur un volume
impressionnant. Parmi elles, il y a les frappantes “maisons de mammouths”,
construites avec des peaux étirées sur une structure de défenses (NdT : de
mammouth), dont on peut trouver des exemples – remontant à environ 15 000 ans –
le long d’un transept de la frange glaciaire qui rejoint l’actuelle Cracovie
tout du long jusqu’à Kiev.
Encore plus surprenants sont les
temples de pierre de Göbekli Tepe, mis au jour il y a plus de vingt ans à la
frontière turco-syrienne, et toujours sujets à un débat scientifique véhément.
Datant d’il y a environ 11 000 ans, à la toute fin du dernier âge glaciaire,
ils comprennent au moins vingt enclos mégalithiques élevés bien haut sur les
flancs de la plaine d’Harran, aujourd’hui aride. Chacun d’entre eux était fait
de piliers de craie hauts de plus de 5 mètres et pesant près d’une tonne
(semblables aux standards de Stonehenge, et 6000 ans avant eux). Quasiment tous
les piliers de Göbekli Tepe sont des œuvres d’art remarquables, avec leurs
gravures en relief représentant des animaux menaçants en saillie, avec leurs
organes génitaux masculins violemment exposés. Des rapaces sculptés
apparaissent aux côtés d’images de têtes humaines coupées. Les gravures attestent
de véritables talents en sculpture, sans nul doute aiguisés sur cette matière
plus souple qu’est le bois (dont les contreforts des montagnes du Taurus
étaient amplement fournis à l’époque), avant d’être appliqués à la roche mère
d’Harran. Étonnamment, et en dépit de leur taille, chacune de ces structures
massives avait une durée de vie relativement courte, qui s’achevait par de
grandes fêtes et un remplissage de ses murs : des hiérarchies élevées jusqu’au
ciel, à la seule fin d’être rapidement rasées. Et les protagonistes de ce
spectacle préhistorique de fêtes, de construction et de destruction, seraient,
à notre connaissance, des chasseurs-cueilleurs, vivant seuls des ressources
sauvages.
Göbekli Tepe. Source: Flickr
Que faut-il alors faire de tout
cela ? Une réponse académique fut d’abandonner complètement l’idée d’un Âge
d’or égalitaire, et de conclure que l’intérêt personnel et rationnel, ainsi que
l’accumulation du pouvoir, sont les forces immuables derrière le développement
des sociétés humaines. Mais cela ne tient pas vraiment non plus. Les preuves
d’une inégalité institutionnelle dans les sociétés de l’âge glaciaire, sous la
forme de grandes sépultures ou de constructions monumentales, ne sont rien
moins que sporadiques. Des siècles, et souvent des centaines de kilomètres,
séparent littéralement les sépultures. Même si l’on met cela sur le compte de
la dissémination des traces dont on dispose, on doit tout de même se demander
pourquoi les traces sont à ce point disséminées : après tout, si n’importe
lequel de ces “princes” de l’âge glaciaire s’était comporté un peu comme,
disons, les princes de l’Âge de bronze, on trouverait également des
fortifications, des réserves, des palaces – tous les traits usuels des États
émergents. Au contraire, sur des dizaines de milliers d’années, on voit des
monuments et de magnifiques sépultures, mais peu de choses qui indiquent la
croissance de sociétés de rang. Il y a aussi d’autres facteurs, encore plus
étranges, comme le fait que les sépultures les plus “princières” sont
constituées d’individus avec des anomalies physiques frappantes, qui seraient
aujourd’hui pris pour des géants, des bossus ou des nains.
Une étude plus approfondie des
découvertes archéologiques apporte une solution à ce dilemme. Elle repose sur
les rythmes saisonniers de la vie sociale préhistorique. La plupart des sites
paléolithiques abordés jusqu’ici sont associés à des traces de regroupements
annuels ou bisannuels, liés aux migrations des troupeaux de gibier – qu’il
s’agisse des mammouths laineux, des bisons de la steppe, des rennes ou (dans le
cas de Göbekli Tepe) des gazelles – ainsi que de pêches et récoltes de noix
cycliques. Lors des périodes peu clémentes de l’année, au moins une partie de
nos ancêtres de l’âge glaciaire vivaient véritablement, sans nul doute, en
petits groupes qui cueillaient. Mais d’irrésistibles preuves montrent qu’à
d’autres périodes ils se rassemblaient en masse (en français
dans le texte, NdT) autour de ces sortes de “micro-villes” découvertes à Dolní
Věstonice, dans le bassin de Moravie, au sud de Brno, festoyant dans une surabondance
de ressources sauvages, s’engageant dans des rituels complexes, dans des
entreprises artistiques ambitieuses, et échangeant des minéraux, des
coquillages marins, des fourrures animales, sur de stupéfiantes distances. Des
équivalents de ces sites de rassemblements saisonniers en Europe occidentale
pourraient être les grands abris rocheux du Périgord français ou bien la côte
cantabrique, avec ses célèbres peintures et gravures, qui formait, de même,
partie de ces cycles annuels de rassemblement et de dispersion.
Cet aspect si saisonnier de la
vie sociale perdura, bien après que “l’invention de l’agriculture” eût
prétendument changé quoi que ce soit. De nouvelles découvertes montrent que des
alternances de cette nature sont peut-être essentielles à la compréhension des
célèbres monuments néolithiques de la plaine de Salisbury, et pas seulement en
matière de symbolisme calendaire.
Stonehenge, s’avère-t-il, était
seulement la dernière d’une longue série de structures rituelles, érigées en
bois aussi bien qu’en pierre, lorsque des individus convergeaient vers la
plaine depuis des zones reculées des îles Britanniques, à des périodes marquées
de l’année. Des fouilles attentives ont montré que nombre de ces structures –
maintenant vraisemblablement interprétées comme des monuments à la gloire des
géniteurs de puissantes dynasties néolithiques – furent démantelées seulement
quelques générations après leur construction. De façon encore plus frappante,
cette pratique d’érection et de démantèlement de grands monuments coïncide avec
une période au cours de laquelle les peuples de Grande-Bretagne, qui avaient
adopté l’économie agricole néolithique de l’Europe continentale, semblent avoir
tourné le dos à au moins l’un de ses aspects cruciaux, en abandonnant l’agriculture
céréalière et en se tournant – vers 3300 avant J.-C. – vers la récolte des
noisettes comme source alimentaire de base. En gardant des troupeaux de bétail,
grâce auxquels ils festoyaient de façon saisonnière autour de Durrington Walls,
les bâtisseurs de Stonehenge semblent vraisemblablement n’avoir été ni des
cueilleurs ni des agriculteurs, mais quelque chose entre les deux. Et si
quelque chose comme une cour royale régnait lors de la saison festive,
lorsqu’ils se rassemblaient en nombre, alors elle ne pouvait qu’être dissoute
pendant la majeure partie de l’année, lorsque les mêmes personnes partaient se
disséminer à nouveau à travers l’île.
Pourquoi ces variations
saisonnières sont-elles importantes ? Parce qu’elles révèlent que depuis le
tout début, les êtres humains expérimentaient en pleine conscience différentes
possibilités sociales. Les anthropologues décrivent les sociétés de ce type
comme dotées d’une “double morphologie”. Marcel Mauss, qui écrivait au début du
XXe siècle, observait que les Inuits circumpolaires, “et de même de nombreuses
autres sociétés, ont deux structures sociales, l’une en été et l’autre en
hiver, et qu’ils ont en parallèle deux systèmes de droit et de religion”. Lors
des mois d’été, les Inuits se dispersent en de petits groupes patriarcaux à la
recherche de poissons d’eau douce, de caribous, et de rennes, chacun sous
l’autorité d’un vieil homme célibataire. La propriété était affirmée de manière
agressive et les patriarches exerçaient un pouvoir coercitif, voire tyrannique,
sur leurs proches. Mais lors des longs mois d’hiver, lorsque les phoques et les
morses affluaient vers les littoraux arctiques, une autre structure sociale
succédait complètement, tandis que les Inuits se regroupaient pour construire
de grands lieux de réunion en bois, en côtes de baleine et en pierres. À
l’intérieur, les vertus d’égalité, d’altruisme et de vie collective prévalaient ;
la richesse était partagée ; les maris et femmes s’échangeait leurs
partenaires sous les auspices de Sedna, la déesse des Phoques.
Un autre exemple est celui des
chasseurs-cueilleurs indigènes de la côte nord-ouest du Canada, pour qui
l’hiver – et non l’été – était la période où la société se cristallisait dans
sa forme la plus inégalitaire, et de façon spectaculaire. Des palais de bois
émergeaient le long des côtes de Colombie britannique, avec des nobles
héréditaires à la tête d’une cour sur des sujets et des esclaves, et organisant
ces grands banquets appelés potlatch. Ces cours aristocratiques se
disloquaient cependant au profit du travail estival de la saison de pêche,
donnant lieu à de plus petites formations claniques, toujours hiérarchiques,
mais dotées d’une structure totalement différente et moins formelle. Dans ce
cas, les individus adoptaient en fait des prénoms différents en été et en
hiver, devenant littéralement d’autres personnes, selon l’époque de l’année.
Peut-être encore plus frappantes,
en matière de renversements politiques, étaient les pratiques saisonnières des
confédérations tribales du XIXe siècle dans les grandes plaines américaines –
des cultivateurs intermittents ou ponctuels qui avaient adopté une vie de
chasse nomade. À la fin de l’été, les petits groupes, grandement mobiles, de
Cheyenne et Lakota, allaient se rassembler dans de grands établissements pour
préparer la logistique de la chasse au buffle. Lors de cette période très
sensible de l’année, ils désignaient une force de police qui exerçait des
pouvoirs pleinement coercitifs, notamment le droit d’emprisonner, de fouetter
ou de donner une amende à tout contrevenant menaçant les procédures. Comme
l’anthropologue Robert Lowie l’observa cependant, cet “autoritarisme sans
équivoque” s’opérait de façon strictement saisonnière et temporaire, laissant
la place à des formes d’organisation plus “anarchiques” une fois que la saison
de chasse – et les rituels collectifs qui la suivaient – était achevée.
La recherche ne progresse pas
toujours. Parfois, elle régresse. Il y a une centaine d’années, la plupart des
anthropologues comprirent que ceux qui vivaient principalement des ressources
sauvages n’étaient pas, généralement, restreints à de petits “groupes”. Cette
idée est un pur produit des années 1960, lorsque les Bochimans du Kalahari et
les pygmées Mbuti devinrent les images d’Épinal de l’humanité primitive, aussi
bien pour les audiences télévisuelles que pour les chercheurs. De ce fait, nous
avons assisté à un retour des étapes de l’évolution, pas vraiment différentes
de la tradition des Lumières écossaises : c’est ce sur quoi Fukuyama
s’appuie, par exemple, lorsqu’il écrit que les sociétés évoluent constamment de
“petits groupes” en “tribus” et en “chefferies”, et finalement, en ce type d’
“États” complexes et stratifiés dans lesquels nous vivons aujourd’hui –
généralement définies par leur monopole “de l’usage de la violence physique
légitime”. En vertu de cette logique, cependant, les Cheyenne ou Lakota
auraient eu à “évoluer” directement de petits groupes en États à peu près à
chaque mois de novembre, et “régresser” encore quand venait le printemps. La plupart
des anthropologues reconnaissent désormais que ces catégories sont
irrémédiablement inadéquates ; personne néanmoins n’a proposé une
alternative pour penser l’histoire mondiale de la façon la plus large.
En quasi toute indépendance, les
découvertes archéologiques suggèrent que dans les environnements hautement
saisonniers du dernier âge glaciaire, nos lointains ancêtres se comportaient de
façon largement similaire : allant et venant entre des organisations
sociales alternatives, permettant la montée de structures autoritaires durant
certaines périodes de l’année, sous condition qu’elle ne puissent pas durer, et
en comprenant qu’aucun ordre social particulier n’était jamais fixé ou
immuable. Au sein d’une même population, on pouvait vivre parfois dans ce qui
ressemble, de loin, à une petite bande, parfois dans une tribu, et parfois dans
une société dotée des nombreux aspects que l’on attribue aujourd’hui aux États.
Avec une telle flexibilité institutionnelle vient la capacité de s’affranchir
des frontières de n’importe quelle structure sociale et de s’interroger ;
de faire et défaire à la fois les mondes politiques dans lesquels nous vivons.
À elle seule, elle explique les “princes” et “princesses” du dernier âge
glaciaire, qui semblent se manifester, dans un isolement si magnifique, comme
des personnages d’une sorte de conte de fées ou de téléfilm historique.
Peut-être étaient-ils presque littéralement ainsi. S’ils ont jamais régné,
peut-être était-ce alors, comme les rois et reines de Stonehenge, seulement
pour une saison.
L’heure du réexamen
Les auteurs contemporains ont
tendance à utiliser la préhistoire comme toile de fond pour résoudre des
questions philosophiques : les humains sont-ils fondamentalement bons ou
mauvais ? Coopératifs ou compétitifs ? Egalitaires ou hiérarchiques ?
De ce fait, ils tendent aussi à écrire comme si, durant 95 % de l’histoire de
notre espèce, les sociétés humaines étaient globalement les mêmes. Mais même
seulement 40 000 ans constituent une très, très longue durée. Il semble
probable, fondamentalement, et les découvertes le confirment, que ces mêmes
humains pionniers qui colonisèrent la majeure partie de la planète eussent
aussi expérimenté une variété immense d’arrangements sociaux. Comme Claude
Lévi-Strauss l’a souvent montré, les Homo sapiens primitifs n’étaient
pas seulement physiquement semblables aux êtres humains modernes ; ils étaient
nos pairs intellectuels également. En fait, la plupart d’entre eux était
probablement plus consciente du potentiel des sociétés que les gens ne le sont
généralement aujourd’hui, allant et venant entre différentes formes
d’organisation chaque année. Plutôt que de paresser dans une sorte d’innocence
primitive, jusqu’à ce que le démon de l’inégalité frappe en quelque sorte à la
porte, nos ancêtres préhistoriques semblent avoir, régulièrement et avec
succès, ouvert et fermé le verrou, confinant l’inégalité à des téléfilms
historiques rituels, édifiant des dieux et des royaumes comme ils firent leurs
monuments, et ensuite les démantelant allègrement encore une fois.
Mais alors, la vraie question
n’est pas “quelles sont les origines de l’inégalité sociale ?” Mais, alors
que la majeure partie de notre histoire a connu des va-et-vient entre
différents systèmes politiques, “comment sommes-nous arrivés à être aussi
bloqués ?” Tout ceci est très éloigné de la notion de sociétés
préhistoriques dérivant aveuglément vers les chaînes institutionnelles qui les attachent.
On est aussi loin des prophéties lugubres de Fukuyama, Diamond, Morris et
Scheidel, où toute forme “complexe” d’organisation sociale signifie
nécessairement que de minces élites s’attribuent des ressources clefs, et
commencent à piétiner tous les autres. La majeure partie des sciences sociales
traite de ces sombres conjectures comme des vérités évidentes. Mais à
l’évidence, elles sont sans fondement. Par conséquent, l’on pourrait
raisonnablement demander : quelles autres précieuses vérités doivent
désormais être dépoussiérées de leur statut historique ?
Un certain nombre, en vérité.
Dans les années 1970, le brillant archéologue de Cambridge David Clarke
prédisait que, avec la recherche contemporaine, quasiment chaque aspect de
l’ancien édifice de l’évolution humaine, “les explications du développement de
l’homme moderne, la domestication, la métallurgie, l’urbanisation et la
civilisation – pourraient, une fois remis en perspective, apparaître comme des
pièges sémantiques ou des mirages métaphysiques”. Il semble qu’il ait raison.
Des informations pleuvent désormais de tous les recoins du globe, fondées sur
un travail de terrain empirique attentif, sur des techniques avancées de
reconstruction du climat, sur la datation chronométrique, et sur des analyses
scientifiques de restes organiques. Les chercheurs examinent les données
ethnographiques et historiques sous un nouveau jour. Et quasiment toutes ces
nouvelles recherches remettent en cause les récits usuels de l’histoire
mondiale. Pourtant, les découvertes les plus remarquables restent confinées aux
travaux des spécialistes, ou doivent être devinées en lisant entre les lignes
des publications scientifiques. Concluons donc avec quelques grandes lignes qui
nous sont propres ; seulement une poignée, pour donner sens à ce vers quoi
l’histoire mondiale émergente commence à se diriger.
Le premier pavé dans la mare sur
notre liste concerne les origines et l’étendue de l’agriculture. La vision
selon laquelle celle-ci a constitué une transition majeure dans les sociétés
humaines ne repose plus sur aucun fondement solide. Dans les parties du monde
où plantes et animaux furent d’abord domestiqués, il n’y eut en fait aucun
“revirement” discernable du Cueilleur du Paléolithique à l’Agriculteur du
Néolithique. La “transition” entre une vie reposant essentiellement sur des
ressources sauvages à une autre fondée sur la production alimentaire s’étendit
spécifiquement sur quelque chose comme trois mille ans. Alors que l’agriculture
mit au jour la possibilité de concentrations de la richesse plus
inégales, dans la plupart des cas, ceci ne commença que des millénaires après
ses débuts. Entre les deux périodes, des individus dans des zones aussi
retirées que l’Amazonie et le Croissant fertile du Moyen-Orient s’essayaient à l’agriculture
pour voir ce qui leur convenait, une “agriculture ludique” si l’on veut,
alternant annuellement entre les modes de production, autant qu’ils allaient et
venaient en matière de structures sociales. En outre, “la diffusion de
l’agriculture” à des zones secondaires, comme l’Europe – si souvent décrite en
des termes glorieux, comme le début de l’inévitable déclin de la chasse et de
la cueillette – semble avoir été un processus fragile, qui échoua parfois,
entraînant des effondrements démographiques chez les agriculteurs, et non chez
les cueilleurs.
Selon toute évidence, cela n’a
plus aucun sens d’utiliser des expressions comme “la révolution agricole”
lorsque l’on traite de processus aussi démesurément longs et complexes. Comme
il n’y eut pas d’État semblable à l’Éden, à partir duquel les agriculteurs
purent démarrer leur marche vers l’inégalité, il y a encore moins de sens à
parler de l’agriculture comme ce qui donna naissance aux rangs et à la
propriété privée. S’il y a une chose à dire, c’est que c’est parmi ces
populations – les peuples du “Mésolithique” – qui refusèrent l’agriculture
pendant les siècles de réchauffement de l’Holocène précoce, que l’on trouve une
stratification s’enracinant progressivement ; à tout le moins si elle
s’accompagne de sépultures opulentes, d’un art de la guerre offensif et de
constructions monumentales. Dans au moins certains cas, comme au Moyen-Orient,
les premiers agriculteurs semblent avoir consciemment développé des formes
alternatives de communauté, pour accompagner leur mode de vie de plus intensif
en travail. Ces sociétés néolithiques semblent remarquablement plus égalitaires
lorsqu’on les compare à celles de leurs voisins chasseurs-cueilleurs, avec une
hausse spectaculaire de l’importance économique et sociale des femmes,
clairement reflétée dans leur vie rituelle et leurs arts (opposons ainsi les
figures féminines de Jéricho ou de Çatal Höyük avec les sculptures
hyper-masculines de Göbekli Tepe).
Un autre pavé dans la mare :
la “civilisation” n’arrive pas en bloc. Les premières villes du monde ne se
contentèrent pas d’émerger dans une poignée d’endroits, en même temps que des
systèmes de gouvernement centralisé et de contrôle bureaucratique. En Chine,
par exemple, on sait aujourd’hui que vers 2500 avant J.-C., des établissements
de 300 hectares ou plus existaient dans le cours inférieur du fleuve Jaune, des
milliers d’années avant la fondation de la dynastie la plus ancienne (Shang).
De l’autre côté du Pacifique, et vers la même époque, des centres cérémoniaux
d’une dimension frappante ont été découverts dans la vallée du Rio Supe, au
Pérou, en particulier sur le site de Caral : d’énigmatiques restes
d’esplanades submergées et de plateformes monumentales, plus vieilles que
l’empire inca de quatre millénaires. Ces découvertes récentes montrent combien
nos connaissances de la distribution et de l’origine des premières villes sont
faibles, et combien aussi ces villes sont beaucoup plus vieilles que les
systèmes de gouvernement autoritaire et d’administration par l’écrit que nous
supposions jusqu’alors nécessaires à leur fondation. Et dans les centres mieux
établis de l’urbanisation – la Mésopotamie, la vallée de l’Indus, le bassin de
Mexico – il y a de plus en plus de preuves que les premières villes étaient
organisées selon des règles consciemment égalitaires, les conseils municipaux
conservant une autonomie significative par rapport au gouvernement central.
Dans les deux premiers cas, les villes avec des infrastructures civiques
sophistiquées fleurissaient pendant plus d’un demi-millénaire, sans aucune
trace de sépultures et monuments royaux, sans grandes armées ou autres moyens
de coercition à grande échelle, ni indice d’un contrôle bureaucratique direct
sur la vie de la plupart des citoyens.
Quoi qu’en dise Jared Diamond, il
n’y a absolument aucune preuve que des structures de pouvoir pyramidales sont
la conséquence nécessaire d’une organisation à grande échelle. Quoi qu’en dise
Walter Scheidel, il est tout simplement faux de dire qu’il est impossible de se
débarrasser des classes régnantes, lorsqu’elles sont établies, autrement que
par une catastrophe généralisée. Prenons seulement un exemple bien connu :
autour de l’année 200 après J.-C., il apparaît que la cité de Teotihuacan dans
la vallée de Mexico, avec une population de 120 000 individus (l’une des plus
élevées dans le monde de l’époque), a subi une profonde transformation,
tournant le dos aux temples-pyramides et aux sacrifices humains, et se
reconstruisant en un vaste ensemble de confortables villas, quasiment toutes
exactement de la même taille. Elle demeura ainsi pendant peut-être 400 ans.
Même du temps de Cortés, le centre du Mexique abritait des villes telles que
Tlaxcala, dirigée par un conseil élu dont les membres étaient périodiquement
fouettés par leurs électeurs, pour qu’ils se rappelassent qui était suprêmement
aux commandes.
Ces éléments ont été présentés
ici pour créer une histoire mondiale totalement différente. Dans la plupart des
cas, nous sommes simplement trop aveuglés par nos préjugés pour voir ce qu’ils
impliquent. Par exemple, presque tout le monde insiste aujourd’hui sur le fait
que la démocratie participative, ou l’égalité sociale, peuvent fonctionner dans
une petite communauté ou un groupe d’activistes, mais ne peuvent
potentiellement “être extrapolées” à quelque chose comme des villes, des
régions ou des Etats-Nation. Mais les découvertes sous nos yeux, si nous
choisissons de les regarder, suggèrent le contraire. Les cités égalitaires,
même les régions confédérées, sont des lieux communs historiques. Ce que ne
sont pas les familles et ménages égalitaires. Une fois que le verdict
historique sera tombé, nous verrons que la perte la plus douloureuse des
libertés humaines commença à petite échelle – au niveau des relations de genre,
des groupes d’âge et de la servitude domestique – c’est-à-dire le type de
relations où la plus grande intimité s’accompagne simultanément des plus
profondes formes de violence structurelle. Si nous voulons vraiment comprendre
comment il est devenu un jour acceptable pour les uns de transformer la
richesse en pouvoir, et pour les autres de se faire dire que leurs besoins et
que leurs vies ne comptaient pas, c’est bien là qu’il faudrait regarder. C’est
là aussi, prédisons-nous, que le travail, le plus âpre qui soit, de création
d’une société libre, devra se dérouler.
This translation was first
published in Le grand continent.
Merci à Eurozine
qui a publié ce texte en français