La traduzione di questo datato articolo di Jacques Ellul per
la presentazione di un lungo testo sullo Stato del suo amico Bernard
Charbonneau (L’Etat, 1952) è per me
quella dei primordi di una coscienza di specie tuttora in fasce nella coscienza
collettiva malata. Si tratta della diffusione discreta di verità ormai antiche
che l’attualità pestifera di oggi rende addirittura lampanti. Queste poche
pagine sottolineano la lucidità di Ellul e invitano a riprendere e
riconsiderare l’opera di Charbonneau sul tema sociale oggi cruciale dell’ecologia
politica radicale, tra crisi climatica, epidemie e inquinamenti vari, tutti
fenomeni strettamente legati al potere della tecno scienza produttivista giunta
alla sua fase terminale capitalista.
Tra le commoventi righe anticipatrici di un discorso totale
contro il totalitarismo globale (ormai digitalizzato dal connubio pestifero di
Stato e Mercato), ho anche colto una critica implicita all’immensa assurdità
del presente, con la sua miseria contingente che oppone in una ridicola guerra
di religioni virtuali la fede dei vaccinisti e l’autoritarismo odioso delle
loro comprensibili paure alla rabbiosa paura rimossa degli antivaccinisti nel
ghetto comune della sopravvivenza in pericolo. Come tendere all’emancipazione se non riconoscendo “la necessità in più di riconoscere la
situazione reale e non negarla, non rifugiarsi nell'ideale, nel legalismo o la
finzione”?
L’aspetto positivo di questa batracomiomachia è che la spinta
di una coscienza di specie nascente nel pericolo onnipresente potrebbe fare
scivolare la teoria in fieri verso una prassi di emancipazione spinta dall’urgenza
collettiva di un rovesciamento di prospettiva antiproduttivista capace di
superare le false opposizioni e le lotte fittizie di una società spettacolare
in decomposizione. Concludendo con Charbonneau: “La consapevolezza
dell'impossibile è il motore dell'azione libera. È perché non ho vie d'uscita
che sono costretto ad agire”.
Chi vivrà vedrà.
Sergio Ghirardi Sauvageon
L’uomo e lo Stato
Articolo
su Le Monde di Jacques Ellul per
annunciare la pubblicazione "presso l'autore" de Lo Stato di Bernard Charbonneau(1952).
S’intitola
Lo Stato[1], in tutta semplicità e dà
subito voglia di reagire: “Un altro ancora!” Dopo tutto quello che i classici
hanno scritto sull’essenza e il fondamento dello Stato; dopo quel che i moderni
scrivono sulla sua struttura e il suo funzionamento; dopo Jouvenel, Ferrero,
Guardini, Burdeau e tanti altri che cosa si potrebbe aggiungere? Che apporto
può dare un autore sconosciuto e apparentemente senza titoli che lo accreditino
a priori all’immensa ricerca dell’uomo nei confronti del potere, ricerca che
oggi si fa più obiettiva e giuridica nella misura stessa in cui l’uomo si sente
più direttamente implicato, più brutalmente coinvolto?
Tuttavia, sin dalle prime pagine siamo
trasportati in una prospettiva del tutto diversa da quella, consueta, delle
opere sullo Stato. Ci rendiamo subito conto che questo libro fuori norma non corrisponde
ai "generi" tradizionali. Non è una storia dello Stato, eppure il
fondamento storico è fortemente strutturato (l'autore è un professore di
storia). Non è un libro politico, eppure né da un giudizio pertinente. Non è un
libro di diritto costituzionale, eppure la complessità delle istituzioni
statali è perfettamente descritta. Non è un saggio (le dimensioni dell'opera vanno
oltre i limiti del saggio) né di "letteratura", sebbene lo stile sia
ricco e avvincente, e sebbene il vigore filosofico sia presente nell'insieme: è
tutto questo allo stesso tempo, non nella confusione dei generi ma nella
ricchezza e padronanza del pensiero.
È un'opera che corrisponde non solo a un vasto sapere
padroneggiato, organizzato, ma a un'esperienza del politico, all'esercizio di
un pensiero totale su un fenomeno totale, riconosciuto sia come fatto oggettivo
che come esperienza soggettiva. Questa compenetrazione dei due, quest’adesione
del soggettivo all'universale attraverso l'esercizio rigoroso del pensiero e il
suo confronto con i fatti, è forse la caratteristica più sorprendente di
quest'opera.
Non siamo più abituati a vere opere intellettuali e confondiamo
troppo facilmente il pensiero con il “discorso”. Un'opera come questa mette
esattamente al loro posto queste diverse espressioni e mostra come, dalle più
semplici osservazioni, si possa accedere al massimo di vera conoscenza. È vero
che l’autore usa le formule più comuni del vocabolario politico, manifesti,
slogan, "illustrazioni" come elementi costitutivi di una delle
opinioni politiche più profonde che io conosca.
Il disegno dell'opera è semplice, possiamo seguirlo riprendendo
i titoli delle diverse sezioni dei tre volumi: Dalla natura alla rivoluzione, ed è la nascita del potere. Non c'è libertà politica, con l'analisi
delle contraddizioni dello Stato liberale, la menzogna della libertà
costituzionale, i concetti borghesi e proletari di libertà. Nella terza sezione,
Partito-Natione-Guerra, si può
seguire nel dettaglio la formazione di questi due dati complementari che sono
l'homo politicus e lo Stato-nazione. Man mano che andiamo avanti, le
sezioni diventano più grandi e comprendono più materiale, passando dalla
descrizione alla sintesi e dalla storia a una visione olistica dell'uomo e
dello Stato.
La quarta parte, che si chiama Guerra totale, non è affatto un'analisi limitata del fenomeno della
guerra né di questo nuovo carattere che sarebbe la totalità della guerra, ma
piuttosto del fatto che lo Stato tende senza sosta a una mobilitazione totale, corpo
e beni, corpo e anima, e che la guerra è l'occasione più meravigliosa che gli
viene data per realizzarsi nei suoi fini più completi, nello stesso tempo in
cui rinchiude l'uomo nel dilemma decisivo, che diventa il nostro, che dobbiamo “morire
per vivere". Infine l'ultima parte s’intitola Leviatano, ed è la totale presa di coscienza dello Stato moderno,
identico nella sua essenza totalitaria, qualunque ne sia la forma variabile;
identico in quanto ogni Stato moderno è nichilista e al tempo stesso pretende
di essere tutto.
Un libro del genere non si riduce a tesi, tanto più che si
rischia di snaturare il pensiero semplificandolo. Non si limita a una
descrizione della crescita incessante dello Stato che si nutre di tutto, delle
guerre e delle tecniche, delle riforme e delle rivoluzioni, della produttività
e del "sociale"; che riesce ad aumentare il suo potere anche quando
sembra adattarsi a dottrine e costituzioni limitanti lo Stato: così, in
definitiva, il liberalismo politico ha rafforzato e preparato la crescita dello
Stato. Questo sviluppo ininterrotto costituisce la spina dorsale dell’opera. Tuttavia
questa descrizione non ne è il vero obiettivo; né lo scopo né il significato.
Il nocciolo della questione è in definitiva il confronto tra l’essere
umano e lo Stato. Non è solo la contraddizione fondamentale e ben nota
dell'individuo e della società, o del cittadino e dell'organizzazione, ma
proprio dell'essere umano in ciò che ha di più centrale, più essenziale, più
autentico, con un potere che lo attacca, lo penetra e lo assorbe.
Tutto ciò che è descritto in questo libro, è in realtà una
descrizione dell'assimilazione dell'uomo da parte del “sistema”.
Tutto quel che è dimostrazione, è dimostrazione del fatto che
non esiste difficoltà né problema politico se non si prende in considerazione
questa distruzione dell'umano. Mostra, però, anche che non esiste una soluzione
oggettiva.
Nella misura in cui qualsiasi riorganizzazione dello Stato,
qualunque ne sia il principio, rafforza lo Stato, non è nelle teorie politiche
o nelle riforme istituzionali che si può riporre qualche speranza. Tuttavia, se
è così, non è colpa dello Stato che si limita ad approfittare della nostra
debolezza, delle nostre carenze. Non dobbiamo, però, credere che lo Stato
supplisca alle nostre debolezze e mancanze: se ne accresce e ci distrugge.
Siamo allora al centro di una tragedia, “una tragedia in cui,
per forza di cose, trionfa sempre la fatalità, ma dove, per forza propria,
rinasce sempre la vita. Fino al giorno della vittoria dello Stato – fino al
giorno in cui la coscienza finalmente si sbarazzerà di ciò che la nega”.
Lo Stato appare allora esattamente come il volto della Fatalità
moderna. È inutile alzare le spalle e dire che non si crede nella fatalità. Essa
non ha bisogno delle nostre opinioni per esistere, e questo libro mostra,
attraverso uno studio attento, che si tratta davvero di fatalità. Tuttavia ciò
non porta in alcun modo a un atteggiamento fatalista. Anzi. Ed è proprio questo
il senso di quest'opera. L'aver riconosciuto che si tratta di una fatalità
divide necessariamente gli uomini in due: quelli che l'accettano, e quindi
cessano di essere uomini, e quelli che vogliono superare la fatalità. Con la
necessità in più di riconoscere la situazione reale e non negarla, non
rifugiarsi nell'ideale, nel legalismo o la finzione.
“La consapevolezza dell'impossibile è il motore dell'azione
libera. È perché non ho vie d'uscita che sono costretto ad agire”.
L'uomo è decisamente messo in pericolo da questo Stato che “si
sviluppa solo là dove noi siamo assenti per dispensarci, legittimamente o
illegittimamente, dallo sforzo... Per forza di cose sembra che l'uomo debba
essere sconfitto, perché non sono la politica e la scienza che gli permettono di
governare la politica e la scienza: solo uno sforzo di libertà gli permetterà
di accedere veramente al regno della libertà. Questo sforzo consiste, prima di
tutto, nel non rifiutare l'insopportabile autonomia della coscienza”.
Di conseguenza, non c’è offerta una soluzione oggettiva. Nessuna.
Nemmeno l'anarchia, perché è assurdo e futile pensare di risolvere qualcosa con
l'anarchia. Non siamo in presenza di un processo allo Stato portante alla
conclusione che dovrebbe essere soppresso. Siamo in presenza di una diagnosi
profonda, che mette in gioco sia la condizione umana sia la "forza delle
cose" – che ci ricorda che la nostra verità umana consiste nello
sfidare la fatalità, qualunque sia la sua natura.
Quindi è un libro formidabile per due ragioni. Da una parte, la
sua precisa dimostrazione, la sua sistematicità politica, possono mettere nelle
mani del tiranno un'ineguagliabile arma di oppressione: esso è per il nostro
Stato quel che Il Principe di
Machiavelli fu per lo Stato di Federico II. D'altra parte è formidabile per il semplice
lettore che mette "ai piedi del muro" in modo molto più preciso di
Camus. Ogni pagina ci coinvolge, richiede una decisione da parte nostra.
Siamo quindi in presenza di uno strumento oggettivo e di un
appello. Uno strumento che ci permette di leggere e comprendere la nostra
società, come una vera e propria "griglia" segreta, e che ne svela il
significato profondo – un appello (perché così dobbiamo qualificare questa lucida
meditazione) a prendere coscienza personalmente, all'accettazione della nostra
responsabilità di esseri umani, un appello a “essere”, perché solo vivendo la libertà l'uomo domina il
Leviatano e lo spezza.
Le Monde, 16 dicembre 1952
[1] Bernard Charbonneau, L’État. (Par la force des choses). 3 volumi a conto d’autore.
L’homme et l’État
Parmi
les émouvantes affirmations anticipatrices d'un discours total contre le
totalitarisme planétaire (aujourd'hui numérisé par l'union pestiférant de
l'État et du Marché), j'ai aussi capté une critique implicite de l'immense
absurdité du présent, avec sa misère contingente qui oppose dans une ridicule
guerre de religions virtuelles la foi des vaccinistes, avec l'autoritarisme
odieux de leurs peurs compréhensibles, à la rageuse peur refoulée des antivaccinistes
dans le ghetto commun de la survie en danger. Comment lutter pour
l'émancipation sinon reconnaissant « la
situation réelle et ne pas la nier, ne pas se réfugier dans l'idéal, dans le
légalisme ou la fiction » ?
Le côté positif de cette batrachomyomachie est que la
poussée d'une conscience d'espèce naissante dans le danger omniprésent pourrait
faire glisser la théorie in fieri
vers une pratique d'émancipation mue par l'urgence collective d'un renversement
de perspective antiproductiviste capable de dépasser les fausses oppositions et
les luttes fictives d'une société spectaculaire en décomposition. En terminant
avec Charbonneau : « La conscience de
l'impossible est le moteur de l'action libre. C'est parce que je n'ai aucune
issue que je suis obligé d'agir ».
Le temps nous le dira.
Sergio Ghirardi
Sauvageon
L’homme et l’État (Jacques Ellul 1952)
(L’article
du Monde pour annoncer la sortie de L’État, « chez
l’auteur » Bernard Charbonneau)
Cela s’appelle L’État[1],
tout simplement. Et l’on a envie aussitôt de réagir : « Encore un ! » Après
ce que les classiques ont écrit sur l’essence et le fondement de l’État ; après
ce que les modernes écrivent sur sa structure et son fonctionnement ; après
Jouvenel, Ferrero, Guardini, Burdeau, et combien d’autres, que pourrait-on
ajouter ? Qu’est-ce qu’un auteur inconnu et apparemment sans titres
l’accréditant a priori peut apporter dans cette immense recherche de l’homme à
l’égard du pouvoir, quête qui aujourd’hui se fait plus objective et juridique
dans la mesure même où l’homme se sent plus directement concerné, plus
brutalement saisi ?
Mais dès les
premières pages on est transporté dans une tout autre perspective que celle,
coutumière, des ouvrages sur l’État. On s’aperçoit très vite que ce livre hors
cadre ne répond pas aux « genres » traditionnels. Ce n’est pas une histoire de
l’État, et cependant le soubassement historique est fortement charpenté
(l’auteur est professeur d’histoire). Ce n’est pas un livre politique, et
cependant il en juge pertinemment. Ce n’est pas un livre de droit
constitutionnel, et cependant la complexité des institutions de l’État y est
parfaitement décrite. Ce n’est pas un essai (les dimensions du travail excèdent
les cadres de l’essai) ni de la « littérature », quoique le style en soit riche
et prenant, et quoique la vigueur philosophique sous-tende l’ensemble : c’est
tout cela à la fois, non dans la confusion des genres mais dans la richesse et
la maîtrise de la pensée.
C’est un ouvrage
qui correspond non seulement à de vastes connaissances maîtrisées, organisées,
mais à une expérience du politique, à l’exercice d’une pensée totale sur un
phénomène total, reconnu à la fois comme fait objectif et comme expérience
subjective. Cette interpénétration des deux, cette accession du subjectif à
l’universel par l’exercice rigoureux de la pensée et sa confrontation au fait,
est peut-être le caractère le plus saisissant de ce travail.
Nous ne sommes
plus accoutumés à de véritables œuvres intellectuelles, et nous confondons trop
facilement la pensée avec le « laïus ». Un ouvrage comme celui-ci remet
exactement ces expressions différentes à leur place et montre comment, à partir
des constatations les plus simples, on peut accéder au maximum de connaissance
vraie. Il est exact qu’il se sert des formules les plus courantes du
vocabulaire politique, des affiches, des slogans, des « illustrés » comme
éléments de base d’une des vues politiques les plus profondes que je connaisse.
Le dessin du
travail est simple, on peut le suivre en reprenant, les titres des
livres : De la nature à la révolution, et c’est la naissance
du pouvoir. Il n’y a pas de liberté politique, avec l’analyse des
contradictions de l’État libéral, le mensonge de la liberté constitutionnelle,
les concepts bourgeois et prolétariens de la liberté. Le tiers livre : Parti-Nation-Guerre,
où l’on peut suivre dans le détail la formation de ces deux données
complémentaires que sont 1’« homo politicus » et l’État-nation. Au fur et à
mesure que l’on avance, les livres prennent plus d’ampleur et englobent plus de
matériaux, passant de la description à la synthèse et de l’histoire à une vue
globale de l’homme et de l’État.
Le quatrième, qui
s’appelle Guerre totale, n’est pas du tout une analyse limitée
du phénomène de la guerre ni de ce caractère nouveau que serait la totalité de
la guerre, mais bien du fait que l’État tend sans cesse vers une mobilisation
totale, corps et biens, corps et âmes, et que la guerre est la plus
merveilleuse occasion qui lui soit donnée de se réaliser dans sa fin la plus
complète, en même temps qu’il enferme l’homme dans le dilemme décisif, qui
devient le nôtre, qu’il nous faut « mourir pour vivre ». Enfin le dernier livre
s’appelle Léviathan, et c’est la totale prise de conscience de
l’État moderne, identique dans son essence totalitaire quelle que soit la forme
variable ; identique dans la mesure où tout État moderne est nihiliste et
prétend en même temps être tout.
Un tel livre ne
peut se ramener à des thèses, d’autant que l’on risque de dénaturer la pensée
en la simplifiant. Ce n’est pas seulement une description de la croissance
incessante de l’État, qui se nourrit de tout, des guerres comme des techniques,
des réformes et des révolutions, de la productivité et du « social » ; qui
s’arrange pour accroître son pouvoir alors même qu’il semble s’accommoder de
doctrines et de constitutions limitant l’État : ainsi le libéralisme politique
a en définitive renforcé et préparé la croissance de l’État. Ce développement
ininterrompu forme la trame de l’ouvrage. Mais cette description n’en est pas
le véritable objet ; ni le but, ni le sens.
Le nœud du
problème c’est en définitive la confrontation entre 1’homme et l’État. Ce n’est
pas seulement la contradiction fondamentale et bien connue de l’individu et de
la société, ou du citoyen et de l’organisation, mais réellement de l’homme dans
ce qu’il a de plus central, de plus essentiel, de plus authentique, avec une
puissance qui l’attaque, le pénètre et l’absorbe.
Tout ce qui est
descriptif dans ce livre est en réalité description de l’assimilation de
l’homme par l’« apparat ».
Tout ce qui est
démonstration est démonstration du fait qu’il n’y a pas de difficulté et pas de
problème politique si l’on n’envisage pas cette destruction de l’homme. Mais
c’est aussi démonstration qu’il n’y a pas de solution objective.
Dans la mesure où
toute réorganisation de l’État, quel qu’en soit son principe, renforce l’État,
ce n’est pas dans les théories politiques ou les réformes institutionnelles que
l’on peut placer un espoir. Or s’il en est ainsi ce n’est pas la faute de
l’État. Il se borne à profiter de notre faiblesse, de nos défaillances. Mais il
ne faut pas croire que l’État supplée à nos faiblesses et à nos défaillances :
il s’en accroît et nous détruit.
Nous sommes alors
au centre d’une tragédie, « une tragédie où, par la force des choses, triomphe
toujours la fatalité, mais où, par sa force propre, renaît toujours la vie.
Jusqu’au jour de la victoire de l’État – jusqu’à celui où la conscience
s’arrachera enfin à ce qui la nie ».
L’État apparaît
alors exactement comme le visage de la Fatalité moderne. Il est vain de hausser
les épaules en disant que l’on ne croit pas à la fatalité. Celle-ci n’a pas
besoin de nos opinions pour être, et ce livre montre, par une minutieuse étude,
qu’il s’agit bien de fatalité. Mais cela ne conduit nullement à une attitude
fataliste. Au contraire. Et c’est là tout le sens de cet ouvrage, d’avoir
reconnu qu’il s’agit d’une fatalité partage nécessairement les hommes en deux :
ceux qui l’acceptent, et cessent par là d’être des hommes, et ceux qui veulent
surmonter la fatalité. Encore faut-il reconnaître la situation réelle et ne pas
la nier, ou ne pas fuir dans l’idéal, le juridisme ou fiction.
« La conscience
de l’impossible est le moteur de l’acte libre. C’est parce que je n’ai plus
d’issue que je suis forcé d’agir. »
L’homme est mis
en danger décisivement par cet État qui « ne se développe que là où nous ne
sommes pas pour nous dispenser, légitimement ou illégitimement, de l’effort…
Par la force des choses il semble que l’homme doive être vaincu, car ce n’est
pas la politique et la science qui lui permettront de régir la politique et la
science : seul un effort de liberté lui permettra d’accéder vraiment au règne
de la liberté. Cet effort consiste d’abord à ne pas refuser l’insupportable
autonomie de la conscience. »
Dès lors il ne
nous est pas proposé de solution objective. Aucune. Pas même l’anarchie, car il
est absurde et vain de penser résoudre quoi que ce soit par l’anarchie. Nous ne
sommes pas en présence d’un procès de l’État aboutissant à la conclusion qu’il
faut le supprimer. Nous sommes en présence d’un diagnostic profond, qui met en
jeu à la fois la condition humaine et la « force des choses » – qui nous
rappelle que notre vérité d’homme consiste à défier la fatalité, quelle qu’en
soit la nature.
C’est donc un
livre redoutable. Il l’est de deux façons. D’un côté sa démonstration précise,
sa systématique politique, peut mettre aux mains du tyran une arme d’oppression
inégalée : il est à notre État ce que Le Prince de Machiavel a
été pour l’État de Frédéric II. D’un autre côté, il est redoutable pour le
simple lecteur, qu’il place « au pied du mur » d’une façon bien plus précise
que Camus. Chaque page nous prend à partie, exige de nous une décision.
Nous sommes alors
en présence d’un instrument objectif et d’un appel. Un instrument qui nous
permet de lire et de comprendre notre société, comme une véritable « grille »
secrète, et qui en révèle le sens profond – un appel (car c’est ainsi qu’on
doit qualifier cette méditation lucide) à la prise de conscience personnelle, à
l’acceptation de notre responsabilité d’homme, un appel à « être », car c’est
seulement en vivant la liberté que l’homme maîtrise le Léviathan
et le brise.
Le Monde, 16 décembre 1952