Mascherati senza
carnevale, abbandonati alla solitudine di un confinamento a singhiozzo ma
intimamente onnipresente, spiati come non siamo mai stati e tecno vampirizzati
da un Grande Fratello che non concepisce fraternità né sorellanza, indeboliti
nel corpo e nello spirito, svuotati di quell’essenza di vita orgastica che usufruisce
dei sensi e dell’intelligenza per far circolare il piacere di essere al mondo,
stiamo attraversando una pandemia virale che impesta i resti di umanità superstite
come una ciliegia avvelenata sulla torta marcescente della sopravvivenza.
La pandemia di
coronavirus 1984 non è un alieno veicolato da un’astronave proveniente da un
altro pianeta né un complotto di cattivi particolarmente monomaniaci. É
piuttosto la paranoia complottista crescente a essere un’ossessione grandiosa della
voglia di potere e dell’impotenza trionfante. Come ogni male, il potere è banale,
cinico e sprovvisto di emozioni affettuose. Si accontenta di dominare e di
passaggio umiliare i suoi sudditi. In realtà i registi mercenari della società
dello spettacolo onnipresente sono sempre gli stessi piccoli mostriciattoli, affaccendati
a far marciare il business planetario a qualunque costo!
La crisi virale
ormai installata nel quotidiano patetico dell’umanità è il sintomo prevedibile
ma lungamente rimosso del processo di artificializzazione della vita che la
civiltà produttivista ha prodotto nei suoi sette millenni di esistenza. Le
critiche parcellari che hanno accompagnato l’incessante progresso della civiltà
ormai mondialmente dominante, hanno finito per agevolarne lo sviluppo,
accontentandosi di denunciarne gli aspetti secondari e non l’essenza. Anche le
critiche più dure hanno finito per accontentarsi di contestare i misfatti
peggiori senza mai attaccare l’essenza profonda di un progresso superficialmente
umano per i suoi effetti benefici, ma intrinsecamente disumano per il suo
spirito predatore, suprematista e finalmente nichilista.
La sua essenza
appare oggi magnificamente mostruosa, portatrice malsana di una raccapricciante
traiettoria verso il nulla che spinge la coscienza ad andare oltre le denunce
parcellari che si susseguono da secoli, vuoi da millenni. Per la prima volta
nella storia incompiuta dell’umanità la coscienza emergente è quella della
totalità. Il che rende risibili, deboli e insufficienti tutte le forme di
coscienza che l’hanno preceduta, inclusa quella coscienza di classe che ha
incarnato per secoli la speranza di emancipazione dei più deboli, dei più
sfruttati, degli ultimi decisi a non esserlo più.
Destra e sinistra
nella stessa spazzatura della storia. Definitivamente. Purtroppo le ideologie
rivoluzionarie hanno sempre restituito al Leviatano produttivista i resti di
tutte le rivolte frammentarie che hanno scosso l’albero del produttivismo senza
abbatterlo, rinnovandone anzi le forze. Ancora di più oggi, quando una
concezione spettacolare della rivoluzione è diventata un mito coltivato dalle
rivolte virtuali di schiavi digitalizzati che si credono liberi. Attaccando
sempre e soltanto la parte emergente dell’iceberg suprematista, il ghiaccio
produttivista non ha mai rischiato di fondere al contatto con il calore umano.
La storia scritta
e programmata dai dominanti, sempre più feroci ma non ancora capaci di
squilibrare totalmente e definitivamente la natura intima del vivente, ha
venduto il progresso profondamente disumano della macchina produttivista travestendolo
da progresso umano. Ricostituire la cronaca di questo itinerario folle in cui
la sopravvivenza si è sostituita alla vita e stabilirne la traiettoria
distruttiva, ha lo scopo di rigenerare il progetto che cerca la via
dell’emancipazione.
Finora inutilmente
perché la servitù volontaria impedisce di abbandonare l’autostrada a pagamento
che ci indirizza verso una fine spaventosa. Per rompere l’incantesimo bisogna
andare alla radice del problema e al cuore del mostro che ha versato sulla vita
la sua peste emozionale e sociale ben prima, ben oltre e ben più dell’attuale peste
virale, recente ma non unico sintomo eloquente e inquietante del crollo di una
civiltà.
Finora la
coscienza di specie appare e scompare come una voglia a singhiozzo che nasconde
la testa nelle sabbie mobili del progresso per non vedere il ripetersi della
triste fine di tutte le rivoluzioni incompiute del passato. I miti
rivoluzionari impediscono ormai di rivoluzionare la realtà che ne ha un
tremendo bisogno. Ci si deve ormai rendere conto che la coscienza umana non può
essere che totale perché il suo nemico è totalitario. Nessuna salvezza
parcellare è concepibile in un mondo globalizzato, dove la merce è sovrana.
All’origine della
coscienza di specie nascente con il forcipe, c’è un’evidenza che accompagna gli
esseri umani sottoposti al totalitarismo svergognato del produttivismo. Questa
nuova coscienza umana antitotalitaria è – e soprattutto sarà, forse – la conseguenza
radicale del peggioramento catastrofico delle condizioni della vita organica in
una società sempre più artificiale. Le sue radici intime affondano nel mondo dell’ecologia
sociale nutrendosi di una sua constatazione fondatrice: “In un mondo finito,
una crescita senza fine è un non senso criminale”.
Questa semplice
verità inoppugnabile decreta, in prospettiva, la fine ineluttabile dell’economia
politica la cui soluzione finale è ormai quella di riuscire a convincerci a
morire con e per essa. Tuttavia, aggredita dal processo produttivo capitalista assunto
a religione scientifico-tecnocratica, la decrescita rischia di ridursi a
un’ennesima ideologia politica, falsata e recuperata come progetto mistico primitivista.
Di fronte al nichilismo capitalista, fase terminale del produttivismo, essa rischia
dunque di perdere di vista la coscienza di specie e la sua volontà politica
d’amore per la vita organica allorché l’intelligenza sensibile rivendica una
radicale decrescita dell’alienazione e della reificazione per una crescita
illimitata della felicità.
Sostituendosi
oggettivamente alla coscienza di classe e di genere che denunciavano lo
sfruttamento dell’essere umano da parte di una classe e di un genere dominanti,
la coscienza di specie ne è il superamento altrettanto auspicabile che
necessario. Se la coscienza di classe è stata storicamente sconfitta dal
consumismo che ha appestato il movimento operaio annichilendone la lotta, la
coscienza di genere delle donne in rivolta contro il suprematismo patriarcale è
ora sottoposta al recupero insopportabile dell’indifferenziazione sessuale,
ultima carta ideologica del capitalismo digitalizzato che mira a un’artificializzazione
definitiva della vita sociale degli esseri umani.
Come troppi operai
e operaie hanno introiettato un’anima piccolo-borghese in un corpo sfruttato
fino all’umiliazione e all’istupidimento, molte donne stanno introiettando lo
spirito suprematista di un maschilismo femminista di spirito vittoriano che
vampirizza fallicamente la libera genitalità femminile, stupendamente acratica.
Nell’universo vitale biologico come nel linguaggio, ci sono solo due generi per
gli esseri viventi: il maschile e il femminile. Un solo altro genere, neutro, riguarda
eventualmente le cose, allorché in una natura biologica spontaneamente libera,
tutti i gusti, tutti gli erotismi sono immaginabili, plausibili e praticabili, tutti
gli amori liberi, autentici e reciproci sono delle possibili e rispettabili
opere d’arte.
Nel ghetto
planetario dell’economia politica, invece, l’indifferenziazione sessuale rappresenta
l’ultimo stadio dell’alienazione per produrre dei consumatori senz’altra
passione che il feticismo della merce, sia essa sessuale o no. Per millenni, l’infibulazione
e la castrazione hanno preparato il terreno minato in cui l’indifferenziazione
sessuale si appresta a fare esplodere definitivamente la vita orgastica.
La tragedia dello
spossessamento, cominciato con il produttivismo e reso parossistico dal
capitalismo, si diffonde ormai sotto la regia di un Leviatano statale digitalizzato
che altera le ultime difese organiche della specie nei confronti della crescita
senza fine dell’economia politica in un Mercato totalitario.
L’umano ha sempre
resistito dappertutto e dappertutto è stato violentato, al maschile come al
femminile. La genitalità – la passione, la gratuità e la dépense generosa che ne caratterizzano il dono – è il nemico
assoluto del produttivismo e del suo calcolo economicista incessante; in quanto
selvaggia poesia cosciente della barbarie della civiltà, essa è l’ultima
pulsione umana ad arrendersi.
Facendo della
diversità una ricchezza senza prezzo in quanto uguaglianza di diritti nella
molteplicità riconosciuta di tutte le differenze possibili, la genitalità si
oppone sempre alla povertà uniformizzante imposta dal suprematismo
indifferenzialista. Per il fascismo caratteriale e per la sua perversione
narcisista in crescita esponenziale, ci sono solo uomini superiori e untermenchen indifferenziati, poco
importa se maschi o femmine, se si rivendichino omosessuali, bisessuali, ermafroditi
o qualsiasi altra invenzione possibile.
Il razzismo suprematista
è l’orribile favola becera che giustifica tra gli appestati la loro pretesa
superiorità; sia essa motivata dalla forza, dalla cultura, dal possesso, dal
genere, della lingua, dell’etnia, della provenienza e perfino dalla ridicola
distinzione del colore della pelle.
Il coacervo di
nazioni le cui comunità acratiche ricordano e materializzano antropologicamente
le diverse storie degli individui e dei popoli – tutti tesi in modi diversi
alla stessa ricerca della felicità – è stato ridotto a una sequela di Stati rapaci.
Il loro nazionalismo becero e coatto non smette d’infettare le orde di predatori
la cui peste emozionale ha avvelenato e deteriorato la comunità umana nelle sue
commoventi varianti incompiute.
Non riconoscere le
diversità è la formula di base che permette e secerne tutte le ingiustizie, i
soprusi, le diseguaglianze.
La coscienza di
specie sarà il trionfo delle diversità nella riconciliazione con la natura. La
sua sconfitta significherebbe la fine dell’umano nel cimitero del vivente.
Sergio Ghirardi
Sauvageon, 24 novembre 2021
Entre
une fin de cauchemar et un cauchemar sans fin,
la
troisième voie vers un autre monde possible
Masqués sans carnaval, abandonnés à la
solitude d'un confinement intermittent mais intimement invasif, épiés comme on
ne l'a jamais été et techno vampirisés par un Big Brother qui ne conçoit pas la fraternité ni la sororité,
affaiblis de corps et d'esprit, vidés de cette essence de vie orgastique qui
utilise les sens et l'intelligence pour faire circuler le plaisir d'être au
monde, nous traversons une pandémie virale qui empeste les restes de l'humanité
survivante comme une cerise empoisonnée sur le gâteau pourri de la survie.
La pandémie de coronavirus 1984 n'est pas
une monstruosité extraterrestre venue d'une autre planète ni un complot de
méchants particulièrement monomaniaques. C’est plutôt la paranoïa conspirationniste
foisonnante qui est une obsession de l’envie de pouvoir et de l’impuissance
triomphante. Comme tout mal, le pouvoir est banal, cynique et dépourvu d'empathie.
Il se contente de dominer et d’humilier ses sujets en passant. Les metteurs en
scène mercenaires de la société du spectacle omniprésente sont, en fait,
toujours les mêmes petits monstres, affairés à faire tourner le business
planétaire, coûte que coûte !
La crise virale désormais installée dans le
quotidien pathétique de l’humanité est le symptôme prévisible mais longtemps
refoulé du processus d'artificialisation de la vie que la civilisation
productiviste a sécrété au cours de ses sept millénaires d'existence. Les
critiques parcellaires qui ont accompagné les progrès incessants de la
civilisation désormais mondialement dominante, ont fini par faciliter son
développement, se contentant de dénoncer ses manifestations superficielles et
non son essence. Même les critiques les plus sévères ont fini par se cantonner
dans la contestation des pires crimes sans jamais attaquer l'essence profonde
d'un progrès superficiellement humain dans ses effets bénéfiques, mais
intrinsèquement inhumain dans son esprit prédateur, suprématiste et finalement
nihiliste.
L’essence de la civilisation productiviste apparaît
aujourd'hui prodigieusement monstrueuse, porteuse malsaine d’une macabre
trajectoire vers le rien, incitant la conscience à dépasser les plaintes
parcellaires qui se succèdent depuis des siècles, voire des millénaires. Pour
la première fois dans l'histoire inachevée de l'humanité, la conscience émergente
est celle de la totalité. Ce qui rend dérisoires, faibles et insuffisantes
toutes les formes de conscience qui l'ont précédée, y compris cette conscience
de classe qui a incarné pendant des siècles l'espoir d'émancipation des plus
faibles, des plus exploités, des derniers déterminés à ne plus l'être.
Droite et gauche dans la poubelle de
l’histoire. Pour de bon. Malheureusement, les idéologies révolutionnaires ont toujours
sacrifié au Léviathan productiviste les restes de toutes les révoltes
fragmentées qui ont secoué l'arbre du productivisme sans le renverser, revigorant
plutôt ses forces. Aujourd’hui plus que jamais, maintenant qu’une conception spectaculaire
de la révolution est devenue un mythe entretenu par les révoltes virtuelles d’esclaves
numérisés qui se croient libres, s'attaquant toujours et uniquement à la partie
émergente de l'iceberg suprématiste. Ainsi la glace productiviste n'a jamais
risqué de fondre au contact de la chaleur humaine.
L'histoire écrite et programmée par les dominants,
de plus en plus féroces mais pas encore capables de déséquilibrer totalement et
définitivement la nature intime du vivant, a travesti le progrès profondément
inhumain de la machine productiviste en progrès prétendument humain.
Reconstituer la chronique de cet itinéraire fou où la survie s’est substituée à
la vie et retracer sa trajectoire destructrice, a pour but de régénérer le
projet qui défriche la voie de l'émancipation.
Jusqu'ici en vain, car la servitude
volontaire nous empêche d'abandonner l'autoroute à péage qui nous canalise vers
une fin effrayante. Pour briser le sort, il faut aller à la racine du problème
et au cœur du monstre qui a déversé sa peste émotionnelle et sociale sur la vie
bien avant, bien au-delà et bien plus que l’actuel fléau viral planétaire, symptôme
éloquent et inquiétant, récent mais non unique, de l’effondrement d’une
civilisation.
Au long de l’histoire la conscience d'espèce
apparaît et disparaît comme un désir sanglotant qui enfouit sa tête dans les
sables mouvants du progrès pour ne pas voir se répéter la triste fin de toutes
les révolutions inachevées du passé. Les mythes révolutionnaires empêchent
désormais de révolutionner la réalité qui en a pourtant bien besoin. Le temps
est venu de se rendre compte que la conscience humaine ne peut être que totale
car son ennemi est totalitaire. Aucun salut parcellaire n'est concevable dans
un monde globalisé où la marchandise est souveraine.
A l'origine de la conscience d'espèce
naissant au forceps, il y a une évidence qui accompagne les êtres humains
soumis au totalitarisme éhonté du productivisme. Cette nouvelle conscience
humaine antitotalitaire est – ou plutôt sera, peut-être – la conséquence radicale de
l'aggravation catastrophique des conditions de la vie organique dans une
société de plus en plus artificielle. Ses racines intimes se situent dans le
monde de l'écologie sociale, se nourrissant d'un de ses constats
fondateurs : « Dans un monde fini, la croissance sans fin est un
non-sens criminel ».
Cette simple vérité indiscutable annonce la
perspective de la fin inéluctable de l'économie politique qui n’a rien d’autre
à nous imposer que la solution finale de mourir avec elle et pour elle. Toutefois,
agressée par le processus productif capitaliste devenu une religion
scientifique et technocratique, la décroissance risque de se réduire à une
énième idéologie politique, déformée et récupérée comme un projet mystique primitiviste.
Confrontée au nihilisme capitaliste, phase terminale du productivisme, elle risque
ainsi de perdre de vue la conscience d’espèce et sa volonté politique d'amour
pour la vie organique, alors que l’intelligence sensible revendique une
décroissance radicale de l’aliénation et de la réification en faveur d’une
croissance illimitée du bonheur.
Remplaçant objectivement la conscience de
classe et de genre qui dénonçaient l'exploitation de l'être humain par une
classe et un genre dominants, la conscience d'espèce incarne leur dépassement
aussi souhaitable que nécessaire. Si la conscience de classe a été vaincue historiquement
par le consumérisme qui a pestiféré le mouvement ouvrier et anéanti sa lutte,
la conscience de genre des femmes en révolte contre le suprématisme patriarcal
est désormais soumise à l'insupportable récupération de l'indifférenciation
sexuelle, dernière option idéologique du capitalisme numérisé visant une
artificialisation définitive de la vie sociale des êtres humains.
Tout comme un trop grand nombre d'ouvriers
ont introjecté une âme petite-bourgeoise dans un corps exploité jusqu'à
l'humiliation et la sottise, de nombreuses femmes risquent de tomber dans le
piège suprématiste d'un machisme féministe à l’esprit victorien, vampirisant de
façon phallique la génitalité féminine libre, prodigieusement acratique. Dans l'univers
biologique, comme dans le langage, il n'y a que deux genres pour les êtres
vivants : le masculin et le féminin. Seul un autre genre, neutre, concerne
éventuellement les choses, alors que dans une nature biologique spontanément
libre, tous les goûts, tous les érotismes sont imaginables, plausibles et
praticables, tous les amours libres, authentiques et réciproques sont des possibles
et respectables œuvres d’art.
Dans le ghetto planétaire de l'économie
politique, en revanche, l'indifférenciation sexuelle représente la dernière
étape de l'aliénation pour produire des consommateurs sans autre passion que le
fétichisme de la marchandise, qu'elle soit sexuelle ou non. Pendant des
millénaires, l'infibulation et la castration ont préparé le terrain miné où
l'indifférenciation sexuelle s'apprête à faire exploser définitivement la vie
orgastique.
La tragédie de la dépossession qui a
commencé avec le productivisme et que le capitalisme a rendue paroxystique, se
répand désormais sous la direction d'un Léviathan étatique numérisé qui altère
les dernières défenses organiques de l'espèce face à la croissance sans fin de
l'économie politique dans un Marché totalitaire.
L'humain a toujours résisté partout et partout
a été violé, aussi bien mâle que femelle. La génitalité – la
passion, la gratuité et la généreuse dépense de soi qui en caractérisent le don
– est l'ennemi
absolu du productivisme et de son calcul économique incessant ; en tant
que sauvage poésie consciente de la barbarie de la civilisation, elle est la
dernière pulsion humaine à se rendre.
En faisant de la diversité une richesse
inestimable, en érigeant la multiplicité reconnue de toutes les différences
possibles en égalité des droits, la génitalité s'oppose toujours à la pauvreté uniformisante
imposée par le suprématisme indifférentialiste. Aux yeux du fascisme
caractériel et de sa perversion narcissique en croissance exponentielle, il n'y
a que des hommes supérieurs et des untermenchen indifférenciés,
qu'ils soient masculins ou féminins, qu’ils se revendiquent homosexuels,
bisexuels, hermaphrodites ou de toute autre inclination possible.
Le racisme suprématiste est l’horrible conte
de fée grossier qui justifie la prétendue supériorité des pestiférés – que celle-ci
soit motivée par la force, la culture, la possession, le genre, la langue, l'ethnie,
l'origine et même la distinction ridicule de la couleur de la peau.
La masse des nations dont les communautés
acratiques rappellent et matérialisent anthropologiquement les différentes
histoires des individus et des peuples – tous poursuivant
de différentes manières la même quête du bonheur – a été réduite à une juxtaposition d'États
rapaces. Leur nationalisme vulgaire et forcé ne cesse d’infecter les hordes de
prédateurs dont la peste émotionnelle a empoisonné et détérioré la communauté
humaine dans ses émouvantes variations inachevées.
Ne pas reconnaître la diversité est la
formule de base qui permet et sécrète toutes les injustices, abus, inégalités.
La conscience d’espèce sera le triomphe de
la diversité dans la réconciliation avec la nature. Sa défaite signifierait la
fin de l'humain dans le cimetière du vivant.
Sergio Ghirardi Sauvageon, le 24 novembre 2021