mercoledì 24 novembre 2021

Tra una fine da incubo e un incubo senza fine, la terza via verso un altro mondo possibile

 



Mascherati senza carnevale, abbandonati alla solitudine di un confinamento a singhiozzo ma intimamente onnipresente, spiati come non siamo mai stati e tecno vampirizzati da un Grande Fratello che non concepisce fraternità né sorellanza, indeboliti nel corpo e nello spirito, svuotati di quell’essenza di vita orgastica che usufruisce dei sensi e dell’intelligenza per far circolare il piacere di essere al mondo, stiamo attraversando una pandemia virale che impesta i resti di umanità superstite come una ciliegia avvelenata sulla torta marcescente della sopravvivenza.

La pandemia di coronavirus 1984 non è un alieno veicolato da un’astronave proveniente da un altro pianeta né un complotto di cattivi particolarmente monomaniaci. É piuttosto la paranoia complottista crescente a essere un’ossessione grandiosa della voglia di potere e dell’impotenza trionfante. Come ogni male, il potere è banale, cinico e sprovvisto di emozioni affettuose. Si accontenta di dominare e di passaggio umiliare i suoi sudditi. In realtà i registi mercenari della società dello spettacolo onnipresente sono sempre gli stessi piccoli mostriciattoli, affaccendati a far marciare il business planetario a qualunque costo!

La crisi virale ormai installata nel quotidiano patetico dell’umanità è il sintomo prevedibile ma lungamente rimosso del processo di artificializzazione della vita che la civiltà produttivista ha prodotto nei suoi sette millenni di esistenza. Le critiche parcellari che hanno accompagnato l’incessante progresso della civiltà ormai mondialmente dominante, hanno finito per agevolarne lo sviluppo, accontentandosi di denunciarne gli aspetti secondari e non l’essenza. Anche le critiche più dure hanno finito per accontentarsi di contestare i misfatti peggiori senza mai attaccare l’essenza profonda di un progresso superficialmente umano per i suoi effetti benefici, ma intrinsecamente disumano per il suo spirito predatore, suprematista e finalmente nichilista.

La sua essenza appare oggi magnificamente mostruosa, portatrice malsana di una raccapricciante traiettoria verso il nulla che spinge la coscienza ad andare oltre le denunce parcellari che si susseguono da secoli, vuoi da millenni. Per la prima volta nella storia incompiuta dell’umanità la coscienza emergente è quella della totalità. Il che rende risibili, deboli e insufficienti tutte le forme di coscienza che l’hanno preceduta, inclusa quella coscienza di classe che ha incarnato per secoli la speranza di emancipazione dei più deboli, dei più sfruttati, degli ultimi decisi a non esserlo più.

Destra e sinistra nella stessa spazzatura della storia. Definitivamente. Purtroppo le ideologie rivoluzionarie hanno sempre restituito al Leviatano produttivista i resti di tutte le rivolte frammentarie che hanno scosso l’albero del produttivismo senza abbatterlo, rinnovandone anzi le forze. Ancora di più oggi, quando una concezione spettacolare della rivoluzione è diventata un mito coltivato dalle rivolte virtuali di schiavi digitalizzati che si credono liberi. Attaccando sempre e soltanto la parte emergente dell’iceberg suprematista, il ghiaccio produttivista non ha mai rischiato di fondere al contatto con il calore umano.

La storia scritta e programmata dai dominanti, sempre più feroci ma non ancora capaci di squilibrare totalmente e definitivamente la natura intima del vivente, ha venduto il progresso profondamente disumano della macchina produttivista travestendolo da progresso umano. Ricostituire la cronaca di questo itinerario folle in cui la sopravvivenza si è sostituita alla vita e stabilirne la traiettoria distruttiva, ha lo scopo di rigenerare il progetto che cerca la via dell’emancipazione.

Finora inutilmente perché la servitù volontaria impedisce di abbandonare l’autostrada a pagamento che ci indirizza verso una fine spaventosa. Per rompere l’incantesimo bisogna andare alla radice del problema e al cuore del mostro che ha versato sulla vita la sua peste emozionale e sociale ben prima, ben oltre e ben più dell’attuale peste virale, recente ma non unico sintomo eloquente e inquietante del crollo di una civiltà.

Finora la coscienza di specie appare e scompare come una voglia a singhiozzo che nasconde la testa nelle sabbie mobili del progresso per non vedere il ripetersi della triste fine di tutte le rivoluzioni incompiute del passato. I miti rivoluzionari impediscono ormai di rivoluzionare la realtà che ne ha un tremendo bisogno. Ci si deve ormai rendere conto che la coscienza umana non può essere che totale perché il suo nemico è totalitario. Nessuna salvezza parcellare è concepibile in un mondo globalizzato, dove la merce è sovrana.

All’origine della coscienza di specie nascente con il forcipe, c’è un’evidenza che accompagna gli esseri umani sottoposti al totalitarismo svergognato del produttivismo. Questa nuova coscienza umana antitotalitaria è – e soprattutto sarà, forse – la conseguenza radicale del peggioramento catastrofico delle condizioni della vita organica in una società sempre più artificiale. Le sue radici intime affondano nel mondo dell’ecologia sociale nutrendosi di una sua constatazione fondatrice: “In un mondo finito, una crescita senza fine è un non senso criminale”.

Questa semplice verità inoppugnabile decreta, in prospettiva, la fine ineluttabile dell’economia politica la cui soluzione finale è ormai quella di riuscire a convincerci a morire con e per essa. Tuttavia, aggredita dal processo produttivo capitalista assunto a religione scientifico-tecnocratica, la decrescita rischia di ridursi a un’ennesima ideologia politica, falsata e recuperata come progetto mistico primitivista. Di fronte al nichilismo capitalista, fase terminale del produttivismo, essa rischia dunque di perdere di vista la coscienza di specie e la sua volontà politica d’amore per la vita organica allorché l’intelligenza sensibile rivendica una radicale decrescita dell’alienazione e della reificazione per una crescita illimitata della felicità.

Sostituendosi oggettivamente alla coscienza di classe e di genere che denunciavano lo sfruttamento dell’essere umano da parte di una classe e di un genere dominanti, la coscienza di specie ne è il superamento altrettanto auspicabile che necessario. Se la coscienza di classe è stata storicamente sconfitta dal consumismo che ha appestato il movimento operaio annichilendone la lotta, la coscienza di genere delle donne in rivolta contro il suprematismo patriarcale è ora sottoposta al recupero insopportabile dell’indifferenziazione sessuale, ultima carta ideologica del capitalismo digitalizzato che mira a un’artificializzazione definitiva della vita sociale degli esseri umani.

Come troppi operai e operaie hanno introiettato un’anima piccolo-borghese in un corpo sfruttato fino all’umiliazione e all’istupidimento, molte donne stanno introiettando lo spirito suprematista di un maschilismo femminista di spirito vittoriano che vampirizza fallicamente la libera genitalità femminile, stupendamente acratica. Nell’universo vitale biologico come nel linguaggio, ci sono solo due generi per gli esseri viventi: il maschile e il femminile. Un solo altro genere, neutro, riguarda eventualmente le cose, allorché in una natura biologica spontaneamente libera, tutti i gusti, tutti gli erotismi sono immaginabili, plausibili e praticabili, tutti gli amori liberi, autentici e reciproci sono delle possibili e rispettabili opere d’arte.

Nel ghetto planetario dell’economia politica, invece, l’indifferenziazione sessuale rappresenta l’ultimo stadio dell’alienazione per produrre dei consumatori senz’altra passione che il feticismo della merce, sia essa sessuale o no. Per millenni, l’infibulazione e la castrazione hanno preparato il terreno minato in cui l’indifferenziazione sessuale si appresta a fare esplodere definitivamente la vita orgastica.

La tragedia dello spossessamento, cominciato con il produttivismo e reso parossistico dal capitalismo, si diffonde ormai sotto la regia di un Leviatano statale digitalizzato che altera le ultime difese organiche della specie nei confronti della crescita senza fine dell’economia politica in un Mercato totalitario.

L’umano ha sempre resistito dappertutto e dappertutto è stato violentato, al maschile come al femminile. La genitalità – la passione, la gratuità e la dépense generosa che ne caratterizzano il dono – è il nemico assoluto del produttivismo e del suo calcolo economicista incessante; in quanto selvaggia poesia cosciente della barbarie della civiltà, essa è l’ultima pulsione umana ad arrendersi.

Facendo della diversità una ricchezza senza prezzo in quanto uguaglianza di diritti nella molteplicità riconosciuta di tutte le differenze possibili, la genitalità si oppone sempre alla povertà uniformizzante imposta dal suprematismo indifferenzialista. Per il fascismo caratteriale e per la sua perversione narcisista in crescita esponenziale, ci sono solo uomini superiori e untermenchen indifferenziati, poco importa se maschi o femmine, se si rivendichino omosessuali, bisessuali, ermafroditi o qualsiasi altra invenzione possibile.

Il razzismo suprematista è l’orribile favola becera che giustifica tra gli appestati la loro pretesa superiorità; sia essa motivata dalla forza, dalla cultura, dal possesso, dal genere, della lingua, dell’etnia, della provenienza e perfino dalla ridicola distinzione del colore della pelle.

Il coacervo di nazioni le cui comunità acratiche ricordano e materializzano antropologicamente le diverse storie degli individui e dei popoli – tutti tesi in modi diversi alla stessa ricerca della felicità – è stato ridotto a una sequela di Stati rapaci. Il loro nazionalismo becero e coatto non smette d’infettare le orde di predatori la cui peste emozionale ha avvelenato e deteriorato la comunità umana nelle sue commoventi varianti incompiute.

Non riconoscere le diversità è la formula di base che permette e secerne tutte le ingiustizie, i soprusi, le diseguaglianze.

La coscienza di specie sarà il trionfo delle diversità nella riconciliazione con la natura. La sua sconfitta significherebbe la fine dell’umano nel cimitero del vivente.

 

 

Sergio Ghirardi Sauvageon, 24 novembre 2021



Entre une fin de cauchemar et un cauchemar sans fin,

la troisième voie vers un autre monde possible

 

Masqués sans carnaval, abandonnés à la solitude d'un confinement intermittent mais intimement invasif, épiés comme on ne l'a jamais été et techno vampirisés par un Big Brother qui ne conçoit pas la fraternité ni la sororité, affaiblis de corps et d'esprit, vidés de cette essence de vie orgastique qui utilise les sens et l'intelligence pour faire circuler le plaisir d'être au monde, nous traversons une pandémie virale qui empeste les restes de l'humanité survivante comme une cerise empoisonnée sur le gâteau pourri de la survie.

La pandémie de coronavirus 1984 n'est pas une monstruosité extraterrestre venue d'une autre planète ni un complot de méchants particulièrement monomaniaques. C’est plutôt la paranoïa conspirationniste foisonnante qui est une obsession de l’envie de pouvoir et de l’impuissance triomphante. Comme tout mal, le pouvoir est banal, cynique et dépourvu d'empathie. Il se contente de dominer et d’humilier ses sujets en passant. Les metteurs en scène mercenaires de la société du spectacle omniprésente sont, en fait, toujours les mêmes petits monstres, affairés à faire tourner le business planétaire, coûte que coûte !

La crise virale désormais installée dans le quotidien pathétique de l’humanité est le symptôme prévisible mais longtemps refoulé du processus d'artificialisation de la vie que la civilisation productiviste a sécrété au cours de ses sept millénaires d'existence. Les critiques parcellaires qui ont accompagné les progrès incessants de la civilisation désormais mondialement dominante, ont fini par faciliter son développement, se contentant de dénoncer ses manifestations superficielles et non son essence. Même les critiques les plus sévères ont fini par se cantonner dans la contestation des pires crimes sans jamais attaquer l'essence profonde d'un progrès superficiellement humain dans ses effets bénéfiques, mais intrinsèquement inhumain dans son esprit prédateur, suprématiste et finalement nihiliste.

L’essence de la civilisation productiviste apparaît aujourd'hui prodigieusement monstrueuse, porteuse malsaine d’une macabre trajectoire vers le rien, incitant la conscience à dépasser les plaintes parcellaires qui se succèdent depuis des siècles, voire des millénaires. Pour la première fois dans l'histoire inachevée de l'humanité, la conscience émergente est celle de la totalité. Ce qui rend dérisoires, faibles et insuffisantes toutes les formes de conscience qui l'ont précédée, y compris cette conscience de classe qui a incarné pendant des siècles l'espoir d'émancipation des plus faibles, des plus exploités, des derniers déterminés à ne plus l'être.

Droite et gauche dans la poubelle de l’histoire. Pour de bon. Malheureusement, les idéologies révolutionnaires ont toujours sacrifié au Léviathan productiviste les restes de toutes les révoltes fragmentées qui ont secoué l'arbre du productivisme sans le renverser, revigorant plutôt ses forces. Aujourd’hui plus que jamais, maintenant qu’une conception spectaculaire de la révolution est devenue un mythe entretenu par les révoltes virtuelles d’esclaves numérisés qui se croient libres, s'attaquant toujours et uniquement à la partie émergente de l'iceberg suprématiste. Ainsi la glace productiviste n'a jamais risqué de fondre au contact de la chaleur humaine.

L'histoire écrite et programmée par les dominants, de plus en plus féroces mais pas encore capables de déséquilibrer totalement et définitivement la nature intime du vivant, a travesti le progrès profondément inhumain de la machine productiviste en progrès prétendument humain. Reconstituer la chronique de cet itinéraire fou où la survie s’est substituée à la vie et retracer sa trajectoire destructrice, a pour but de régénérer le projet qui défriche la voie de l'émancipation.

Jusqu'ici en vain, car la servitude volontaire nous empêche d'abandonner l'autoroute à péage qui nous canalise vers une fin effrayante. Pour briser le sort, il faut aller à la racine du problème et au cœur du monstre qui a déversé sa peste émotionnelle et sociale sur la vie bien avant, bien au-delà et bien plus que l’actuel fléau viral planétaire, symptôme éloquent et inquiétant, récent mais non unique, de l’effondrement d’une civilisation.

Au long de l’histoire la conscience d'espèce apparaît et disparaît comme un désir sanglotant qui enfouit sa tête dans les sables mouvants du progrès pour ne pas voir se répéter la triste fin de toutes les révolutions inachevées du passé. Les mythes révolutionnaires empêchent désormais de révolutionner la réalité qui en a pourtant bien besoin. Le temps est venu de se rendre compte que la conscience humaine ne peut être que totale car son ennemi est totalitaire. Aucun salut parcellaire n'est concevable dans un monde globalisé où la marchandise est souveraine.

A l'origine de la conscience d'espèce naissant au forceps, il y a une évidence qui accompagne les êtres humains soumis au totalitarisme éhonté du productivisme. Cette nouvelle conscience humaine antitotalitaire est ou plutôt sera, peut-être la conséquence radicale de l'aggravation catastrophique des conditions de la vie organique dans une société de plus en plus artificielle. Ses racines intimes se situent dans le monde de l'écologie sociale, se nourrissant d'un de ses constats fondateurs : « Dans un monde fini, la croissance sans fin est un non-sens criminel ».

Cette simple vérité indiscutable annonce la perspective de la fin inéluctable de l'économie politique qui n’a rien d’autre à nous imposer que la solution finale de mourir avec elle et pour elle. Toutefois, agressée par le processus productif capitaliste devenu une religion scientifique et technocratique, la décroissance risque de se réduire à une énième idéologie politique, déformée et récupérée comme un projet mystique primitiviste. Confrontée au nihilisme capitaliste, phase terminale du productivisme, elle risque ainsi de perdre de vue la conscience d’espèce et sa volonté politique d'amour pour la vie organique, alors que l’intelligence sensible revendique une décroissance radicale de l’aliénation et de la réification en faveur d’une croissance illimitée du bonheur.

Remplaçant objectivement la conscience de classe et de genre qui dénonçaient l'exploitation de l'être humain par une classe et un genre dominants, la conscience d'espèce incarne leur dépassement aussi souhaitable que nécessaire. Si la conscience de classe a été vaincue historiquement par le consumérisme qui a pestiféré le mouvement ouvrier et anéanti sa lutte, la conscience de genre des femmes en révolte contre le suprématisme patriarcal est désormais soumise à l'insupportable récupération de l'indifférenciation sexuelle, dernière option idéologique du capitalisme numérisé visant une artificialisation définitive de la vie sociale des êtres humains.

Tout comme un trop grand nombre d'ouvriers ont introjecté une âme petite-bourgeoise dans un corps exploité jusqu'à l'humiliation et la sottise, de nombreuses femmes risquent de tomber dans le piège suprématiste d'un machisme féministe à l’esprit victorien, vampirisant de façon phallique la génitalité féminine libre, prodigieusement acratique. Dans l'univers biologique, comme dans le langage, il n'y a que deux genres pour les êtres vivants : le masculin et le féminin. Seul un autre genre, neutre, concerne éventuellement les choses, alors que dans une nature biologique spontanément libre, tous les goûts, tous les érotismes sont imaginables, plausibles et praticables, tous les amours libres, authentiques et réciproques sont des possibles et respectables œuvres d’art.

Dans le ghetto planétaire de l'économie politique, en revanche, l'indifférenciation sexuelle représente la dernière étape de l'aliénation pour produire des consommateurs sans autre passion que le fétichisme de la marchandise, qu'elle soit sexuelle ou non. Pendant des millénaires, l'infibulation et la castration ont préparé le terrain miné où l'indifférenciation sexuelle s'apprête à faire exploser définitivement la vie orgastique.

La tragédie de la dépossession qui a commencé avec le productivisme et que le capitalisme a rendue paroxystique, se répand désormais sous la direction d'un Léviathan étatique numérisé qui altère les dernières défenses organiques de l'espèce face à la croissance sans fin de l'économie politique dans un Marché totalitaire.

L'humain a toujours résisté partout et partout a été violé, aussi bien mâle que femelle. La génitalité la passion, la gratuité et la généreuse dépense de soi qui en caractérisent le don est l'ennemi absolu du productivisme et de son calcul économique incessant ; en tant que sauvage poésie consciente de la barbarie de la civilisation, elle est la dernière pulsion humaine à se rendre.

En faisant de la diversité une richesse inestimable, en érigeant la multiplicité reconnue de toutes les différences possibles en égalité des droits, la génitalité s'oppose toujours à la pauvreté uniformisante imposée par le suprématisme indifférentialiste. Aux yeux du fascisme caractériel et de sa perversion narcissique en croissance exponentielle, il n'y a que des hommes supérieurs et des untermenchen indifférenciés, qu'ils soient masculins ou féminins, qu’ils se revendiquent homosexuels, bisexuels, hermaphrodites ou de toute autre inclination possible.

Le racisme suprématiste est l’horrible conte de fée grossier qui justifie la prétendue supériorité des pestiférés que celle-ci soit motivée par la force, la culture, la possession, le genre, la langue, l'ethnie, l'origine et même la distinction ridicule de la couleur de la peau.

La masse des nations dont les communautés acratiques rappellent et matérialisent anthropologiquement les différentes histoires des individus et des peuples tous poursuivant de différentes manières la même quête du bonheur a été réduite à une juxtaposition d'États rapaces. Leur nationalisme vulgaire et forcé ne cesse d’infecter les hordes de prédateurs dont la peste émotionnelle a empoisonné et détérioré la communauté humaine dans ses émouvantes variations inachevées.

Ne pas reconnaître la diversité est la formule de base qui permet et sécrète toutes les injustices, abus, inégalités.

La conscience d’espèce sera le triomphe de la diversité dans la réconciliation avec la nature. Sa défaite signifierait la fin de l'humain dans le cimetière du vivant.

  

Sergio Ghirardi Sauvageon, le 24 novembre 2021