domenica 9 dicembre 2018

Lettere aperte ai Gilets jaunes di tutti i paesi




Rieccoci.
Come succede spesso, i fatti salienti della storia arrivano quando non te li aspetti e nelle forme meno prevedibili.
Ora tocca ai Gilets jaunes, per ora soprattutto francesi, incaricarsi delle attese accumulate in mezzo secolo di recupero e di tronfio dominio disumano del capitalismo finanziario produttivista.
Come sempre, in Italia si è in altre faccende affaccendati: da trenta vergognosi anni ci s’ingozza di Berlusconi, Renzi o Salvini purché se magna, fosse anche merda.
La forma italiana, particolarmente mafiosa e becera, della decomposizione della politica è passata per milionari dementi scimmiottanti ora un Rocco Siffredi sedato, ora un Cavour ubriaco. È poi venuto il momento di un avanspettacolo altrettanto dozzinale ma non in grado di erogare milioni per sottrarsi ai ricatti di un libertinaggio da sacrestia e neppure capace di nascondere le pezze sul culo dei suoi corrotti guitti arrivisti. Dopo un Ridolini sadico dall’accento toscano è la volta di un duce alla Chaplin e di una brutta copia triste e isterica del grande Totò che dopo aver blaterato a vanvera sulla democrazia diretta, ha contribuito a ridurla a uno specchietto per le allodole spettacolare. Potere della confusione che inquina le intenzioni, buone o soprattutto cattive che siano.
Ancora una volta la non più giovane Italia rischia di dover prendere esempio della Francia, un paese complesso e contradditorio, tra rivoluzione e totalitarismo, dal quale, però, sono emersi degli eredi dei sanculotti della fine del diciottesimo secolo. Infatti, come sembra a partire dai documenti che seguono, i Gilets jaunes incarnano oggi i nuovi Bras-nus[1] che dicono basta, ancora confusamente certo – poiché nessuno e in nessun paese, nella società dello spettacolo, può essere esente da un qualche grado di confusione e contraddizione; tutti pagano il fio di un analfabetismo politico pedagogicamente coltivato da mezzo secolo e più di consumismo e alienazione trionfanti –, ma con alcune idee chiare (arricchite dalla coscienza riemergente che la Francia ha vissuto in pieno anche la radicalità effimera ma autentica del 1968 e dintorni).
Alcune tra le idee che mi sembrano più chiare e lungimiranti ve le restituisco qui tradotte nella lingua di Dante, da sempre complice con quella di Molière ben oltre il teatro e la letteratura. L’obiettivo è far circolare le notizie e i fatti che possono contribuire al forgiarsi di una nuova coscienza radicale in grado di lottare contro il nichilismo produttivista. Se son rose pungeranno.
Allonsanfan.
Sergio Ghirardi


  “Macron dimissioni!” Sì, ma dopo?


Se è per mettere al suo posto un altro oligarca (magari becero come Salvini o ridicolo come Di Maio, NdT), un altro uomo o donna provvidenziale che soddisferà le sue ossessioni narcisistiche e i suoi fantasmi di potenza pretendendo di rappresentarci, a che pro sbattersi sull’asfalto, intirizziti e sotto la pioggia? Quando una maggioranza di cittadini non vuole più pagare le tasse ed esprime la sua diffidenza verso le strutture intermedie (partiti, sindacati, associazioni ...) che li turlupinano da anni, quando l’astensione diventa il partito di maggioranza, quando centinaia di migliaia di francesi bloccano il paese per domandare le dimissioni del capo dello Stato, ciò significa che l’attuale “democrazia rappresentativa” (che non ha più di democratico che il nome) è fallita. Dobbiamo ricostituire la nostra sovranità inventando altre forme di organizzazione.
La grande forza del nostro movimento che inquieta le élites, è di aver saputo resistere a ogni forma di recupero politico, sindacale o da parte di portavoce autoproclamati in cerca della luce della ribalta. Perché questo duri, dobbiamo fare in modo che i nostri rappresentanti ci rappresentino davvero. Noi non vogliamo più un mondo senza contatto e diffidiamo della moda delle nuove tecnologie di comunicazione che ci rendono dipendenti e quindi vulnerabili e che gonfiano la spaventosa fattura energetica e ambientale del digitale. Niente può sostituire il contatto umano diretto, nei godimenti come nel dibattito.
Vorremmo ricordare alcune modalità della democrazia diretta che dovrebbero coordinare l’organizzazione del nostro movimento e per estensione quello della nostra democrazia futura. Non sono idee nuove perché sono state pensate e messe in atto ad Atene più di 2500 anni fa e applicate in forme diverse da diverse popolazioni del medioevo in Europa, durante la rivoluzione francese, inglese o americana, la Comune di Parigi, i soviet russi del 1905, la rivoluzione spagnola del 1936, l’insurrezione ungherese del 1956 e oggi in Chiapas e nel Rojava.
- L’assemblea generale: al livello locale, quello del quartiere o del comune; tocca al popolo riunito in assemblea e non a qualche eletto, dibattere e decidere degli affari che lo riguardano ed eleggere i cittadini che lo rappresenteranno a livello regionale e nazionale.
- L'estrazione a sorte: i candidati alle elezioni regionali o nazionali, come i consiglieri municipali sono sorteggiati tra i cittadini per assicurare una giusta rappresentazione di tutte le categorie sociali e l’esclusione di tutti gli assetati di potere.
Il mandato unico: la rappresentanza del popolo non è una carriera e i nostri rappresentanti devono essere concentrati sui loro compiti piuttosto che sulla loro rielezione.
Il mandato imperativo: un eletto può eseguire unicamente le decisioni per le quali è stato espressamente incaricato dalle assemblee di cittadinanza e nient’altro.
La revocabilità: ogni rappresentante deve poter essere dimesso dalle sue funzioni in ogni momento, tramite il voto di quelli che rappresenta, se tradisce il mandato per il quale è stato eletto.
La rotazione dei compiti: dai più ingrati ai più gratificanti tutti vi partecipano.
I Gilets jaunes non devono diventare un partito o un sindacato in più. La politica non è un lavoro da specialisti ma l’impegno di individui autonomi che formano un popolo: la democrazia diretta presuppone l’elaborazione di un’educazione vera e rigorosa per formare questo tipo d’individuo. Il progetto richiede, per permettere il coinvolgimento di tutti, il tempo libero che ci manca crudelmente per tessere legami sociali: lo si dovrà strappare al quotidiano (lavoro, trasporti, tempo libero che abbrutisce, ecc.). La sfida colossale di elaborare una democrazia diretta sembra più abbordabile se si pensa innanzitutto al livello locale, prima di federarsi a livelli superiori.
Solo a condizione di far rivivere, qui e ora, i principi democratici ereditati dalla storia dei popoli, riprenderemo in mano le nostre esistenze, lasciandoci un’occasione di trasmettere ai nostri figli una Terra abitabile e la possibilità di crescervi in maniera dignitosa (Si tratta di bloccare questo sistema di produzione-consumo demenziale, magari chiamando al boicottaggio commerciale e solidale delle feste di fine anno).

Dei gilets jaunes guasconi, 28 novembre 2018





 Appello di Commercy

Da quasi due settimane il movimento dei Gilets jaunes ha messo centinaia di migliaia di persone sulle strade di tutta la Francia, spesso per la prima volta. Il prezzo del carburante (ancora assai meno caro che in Italia NdT) è stato la goccia di gasolio che ha messo a fuoco la pianura. La sofferenza, l'esasperazione e l’ingiustizia non sono mai state tanto diffuse. Dappertutto nel paese, centinaia di gruppi locali si organizzano tra loro, ogni volta con modi di fare diversi.
Qui a Commercy, nella Mosa (regione dell’Est della Francia NdT), funzioniamo dall’inizio per mezzo di assemblee popolari quotidiane alle quali ognuno partecipa nell’uguaglianza. Abbiamo organizzato dei blocchi della città e delle stazioni di servizio con degli sbarramenti filtranti. In seguito, abbiamo costruito una capanna sulla piazza centrale. Ogni giorno ci ritroviamo nella capanna per organizzarci, decidere le prossime azioni, dialogare con le persone e accogliere quelle e quelli che si uniscono al movimento. Organizziamo anche delle “zuppe solidali” per vivere dei bei momenti insieme e imparare a conoscerci. In perfetta uguaglianza. Ecco, però che il governo e alcune frange del movimento ci propongono di nominare dei rappresentanti per regione! Come dire delle persone che diventerebbero i soli “interlocutori” dei poteri pubblici e che riassumerebbero la nostra diversità.
Noi non vogliamo per niente dei rappresentanti che finirebbero inevitabilmente per parlare al nostro posto!
A che scopo? A Commercy una delegazione apposita ha incontrato il viceprefetto; nelle grandi città altri hanno incontrato direttamente il prefetto. Essi fanno GIÀ conoscere la nostra collera e le nostre rivendicazioni. Sanno GIÀ che siamo determinati a farla finita con questo presidente odioso, con questo governo detestabile e con il sistema marcio che incarnano!
Ed è proprio questo che fa paura al governo! Perché sa che se comincia a cedere sulle tasse e sul carburante, dovrà retrocedere anche sulle pensioni, sui disoccupati, sullo statuto dei funzionari e su tutto il resto! Sa anche MOLTO BENE che rischia d’intensificare un MOVIMENTO GENERALIZZATO CONTRO IL SISTEMA!
Non è per comprendere meglio la nostra collera e le nostre rivendicazioni che il governo vuole dei “rappresentanti”: è per inquadrarci e seppellirci! Come con le direzioni sindacali, cerca degli intermediari, della gente con cui potrà negoziare. Sulla quale potrà far pressione per calmare l’eruzione. Della gente che potrà in seguito recuperare e spingere a dividere il movimento per sotterrarlo.
Tuttavia, non fa i conti con la forza e l’intelligenza del nostro movimento. Non considera che stiamo riflettendo, organizzandoci per far evolvere le nostre azioni che incutono loro tanta paura e ampliare il movimento!
E poi, soprattutto, non tiene conto che c’è una cosa molto importante che il movimento dei Gilets jaunes reclama dappertutto, in forme diverse ben oltre il potere d’acquisto! Si tratta del potere al popolo, dal popolo, per il popolo. È un sistema nuovo dove “quelli che sono niente” come dicono con disprezzo, riprendono il potere a tutti quelli che s’ingozzano, ai dirigenti e alle potenze del denaro. È l’uguaglianza. È la giustizia. È la libertà. Ecco quello che vogliamo! E parte dalla base!
Se nominiamo dei “rappresentanti” e dei “portavoce”, ciò finirà per renderci passivi. Peggio: avremo in fretta riprodotto il sistema che funziona dall’alto in basso, come le canaglie che ci dirigono. Quei cosiddetti “rappresentanti del popolo che si riempiono le tasche, che fanno leggi che ci impestano la vita e che servono gli interessi degli ultraricchi!
Non mettiamo il dito nell’ingranaggio della rappresentazione e del recupero. Non è il momento di affidare la nostra parola a un pugno dei nostri anche se sembrano onesti. Che ascoltino tutti noi o nessuno!
Da Commercy noi invitiamo tutti a creare in Francia dei comitati popolari che funzionino come assemblee generali regolari. Dei luoghi dove la parola si liberi e si osi esprimerci, sostenerci, aiutarci. Se si devono istituire dei delegati, è al livello di ogni comitato popolare locale dei Gilets jaunes, il più vicino possibile alla parola del popolo. Con mandati imperativi, revocabili a rotazione. Con trasparenza e fiducia.
Invitiamo anche le centinaia di gruppi di Gilets jaunes a dotarsi di una capanna come a Commercy o di una “casa del popolo” come a St. Nazaire, insomma di un luogo di riunione e organizzazione! Che si coordinino tra loro, a livello locale e dipartimentale in assoluta uguaglianza!
È così che vinceremo perché è qualcosa che lassù non sono abituati a gestire! E incute loro una paura boia.
Non ci lasceremo dirigere. Non ci lasceremo dividere e recuperare.
No ai rappresentanti e ai portavoce autoproclamati! Riprendiamo il potere sulle nostre vite! Viva i Gilets jaunes nella loro diversità!
VIVA IL POTERE AL POPOLO, DAL POPOLO, PER IL POPOLO!
Se vi riconoscete nelle basi di questo appello tra voi, nel vostro gruppo di Gilets jaunes o altri, contattateci su giletsjaunescommercy@gmail.com e coordiniamoci sulla base di assemblee popolari e ugualitarie!

I Gilets jaunes di Commercy, il 2 dicembre 2018.

L’ora della Comune dei comuni è suonata!

La spontaneità del movimento dei Gilets jaunes, la sua eterogeneità sconcertano, possono far temere derive che nessuno è in grado di prevedere. Il che non giustifica che quanti si appellano al popolo a ogni piè sospinto, militanti di sinistra, libertari, sindacalisti stiano sul marciapiede quando questo popolo prende in mano i suoi affari. Chi avrebbe detto nel 1789 che le rivolte dei contadini avrebbero portato alla Repubblica?
Partiti socialisti e sindacati operai, apparsi per resistere al capitalismo del XIX e XX secolo, industriale e borghese, pietrificati da un’eccessiva frequentazione delle strutture istituzionali, non sono più in grado di rispondere alla potenza digitale e finanziaria del neoliberalismo del XXI secolo. Sulla difensiva, accumulando le sconfitte, senza immaginazione, annientano la loro promessa di una vita migliore. Questa speranza ancora confusa di giustizia, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà non è forse portata avanti oggi da quanti non vogliono il mondo nuovo di Macron?
I sanculotti del 2018 non sopportano più l’alterigia di un potere che vanta la riuscita individuale per giustificare la diseguaglianza, che disprezza quanti non ce la fanno da soli, proteggendo i ricchi e schiacciando gli altri. Ecco un Presidente della repubblica che si prende per sua maestà, che per alimentare la sua folle politica di aggiustamenti strutturali ai bisogni delle banche e agli imperativi mercantili dell’Unione Europea, ricorre alle imposte come ai vecchi tempi delle gabelle. Tuttavia, di fronte all’assembramento di cittadini pacifici che richiedono unicamente un cambiamento di azione politica, il potere arrogante ha paura e si rinchiude nelle sue roccaforti. Per tutta risposta cerca la divisione, i garbati contro i casseurs; fa un discorso complottista: l’estrema destra è più adatta dei Black Bloc per giustificare l’invio di alabardieri incaricati di restaurare l’ordine del Presidente che si prende per “Jupiter”. È stupito che i Gilets jaunes riprendano il Re Sole e Luigi XVI domandando le sue dimissioni e non ancora la sua testa? Uff! L’ordine è ristabilito, La mercificazione e l’inquinamento hanno riconquistato gli Champs-Elysées. Domani vi sfileranno i militari per celebrare l’Austerlitz macroniana! I piccoli marchesi del Parlamento, ancora grondanti di paura, giubilano. I burocrati si riaddormentano. Sconfitti, i Gilets jaunes dovranno rientrare nei ranghi, tacere e continuare a gestire come possono la fine del mese? Il loro movimento è condannato a spegnersi per stanchezza e sotto la forza del diritto? No, se decidono di organizzarsi e di organizzarsi altrimenti, riprendendo contatto con la democrazia diretta e con il federalismo dei comuni autonomi.
Di diverse opinioni e origini sociali, di ruoli professionali talvolta opposti, si sono ritrovati per difendere la loro dignità. La precarietà degli uni fa eco all’esaurimento degli altri. Hanno capito che nonostante le differenze, possono intendersi, sono capaci di agire collettivamente e mettere in crisi il potere. Hanno capito che mettendo da parte quel che li separa possono accordarsi sui loro interessi comuni, che le loro preoccupazioni quotidiane sono le stesse così come ciò che le causa. Si tratta ora di rendere permanente questo incontro imprevisto delle inquietudini venute dalle campagne allucinate e dalle città tentacolari. Trovare l’equilibrio dei contrari. Costituire dei comitati locali che si organizzino secondo i principi della democrazia diretta: assemblea generale sovrana, mandato imperativo e revocabile in ogni momento, rotazione delle responsabilità. Questi comuni autonomi, consigli municipali paralleli, sosterranno la rivendicazione popolare, egualitaria, sociale ed ecologica. Se non sarà soddisfatta, tenteranno di metterla in atto senza preoccuparsi della rappresentanza legale, a costo di affrontare sindaco e prefetto, e rispedire a cuccia il deputato. Giorno dopo giorno, si penserà, pacificamente, la società emancipata, la società liberata dal dominio, da tutti i domini. Per quanto necessario, i liberi comuni si federeranno per condividere l’esperienza, la riflessione e prendere in mano la gestione dei beni comuni (scuole, trasporti, salute, ambiente...). Così, progressivamente, lo Stato sarà marginalizzato, i suoi poteri limitati fino a renderlo inutile, fino al giorno in cui basterà spingere un’ultima volta la piramide dell’ordine autoritario perché crolli. Sarà lungo e difficile ma possibile.
Capisco le recriminazioni. Discorsi utopici, commentano gli intellettuali organici della destra, spacconate dell’ultrasinistra, aggiungeranno i loro compari di sinistra. Al diavolo la follia municipalista, dicono i Versagliesi. Attenti al disordine, gridano quelli che pensano, spesso a torto, di aver tutto da perdere dal cambiamento. Non è realizzabile, penseranno i più bendisposti, cui l’idea piacerebbe, ma non ci credono. Tutti quanti non riescono ancora a staccarsi dal modo di pensare statalista.
Aspettare, sempre aspettare fino alla fine dei tempi che gli eletti, i capi, i sapienti trovino la soluzione di quel che non intendono affatto cercare: l’emancipazione del popolo. I programmi dei politici non sono più accettabili, i discorsi di Macron, Castaner e compagnia su una grande concertazione nelle catacombe ancora meno, i cittadini devono prendere in pugno i propri affari. Sono i soli a poter immaginare e costruire la Comune dei Comuni senza Cesare né tribuni. Che seguano l’appello di Commercy! Che lo facciano, in nome di Dio!

Pierre Bance




Lettera a quelli “che non sono niente” dal Chiapas ribelle

Si sente dappertutto in questi giorni: è la goccia d’acqua che ha fatto traboccare il vaso. Eppure, laddove molti si affliggevano di non vedere che dalla palude stagnante di una maggioranza detta silenziosa e passiva sono scaturiti mille torrenti impetuosi e imprevedibili che escono dal loro letto, aprono vie ancora inimmaginabili un mese fa, rovesciano tutto al loro passaggio e, nonostante qualche sbavatura iniziale, dimostrano una maturità e un’intelligenza collettiva impressionanti. È la forza del popolo quando si solleva, quando riprende la sua libertà. È una forza straordinaria e non è un caso che si evochi tanto il 1789 ma anche il 1793 e i sanculotti. Amiche e amici Gilets jaunes, voi avete già scritto una pagina gloriosa della storia del nostro paese. E avete già smentito tutti i pronostici di una sociologia compassata sul conformismo e sull’alienazione della grande maggioranza.
Che cos’è dunque questo “popolo” che di colpo si risveglia e si mette a esistere? Raramente questa parola sarà sembrata così giusta come  oggi,   persino a quelli tra di noi che potrebbero giudicarla sorpassata poiché troppe volte è servita a catturare la sovranità a vantaggio del Potere dall’alto e perché oggi può fare il gioco dei populismi di destra e di sinistra. Comunque, nel momento che viviamo, è lo stesso Macron che ha ridato al popolo la sua esistenza insieme alla sua più giusta definizione. Il popolo che si solleva oggi e che è assolutamente deciso a non lasciarsi più menare per il naso è tutte quelle e quelli che “non sono niente” nello spirito disturbato delle élites che pretendono di governarci. Quest’arroganza e questo disprezzo di classe, l’abbiamo detto mille volte, sono una delle ragioni più forti per le quali Macron, adulato ieri da alcuni, è oggi tanto profondamente odiato. Ecco quel che la sollevazione in corso ha già dimostrato: quelle e quelli che non sono niente hanno saputo riaffermare la loro dignità e, nella stessa occasione, la loro libertà e intelligenza collettiva. Sanno soprattutto, ormai, noi sappiamo, di preferire di non essere niente agli occhi di un Macron piuttosto che riuscire nel suo mondo cinico e artificiale. Ecco quel che potrebbe succedere di più meraviglioso: che più nessuno voglia riuscire in quel mondo e, nello stesso tempo, che più nessuno voglia più quel mondo. Un mondo in cui, perché qualcuno riesca, bisogna che milioni di persone non siano niente, niente se non popolazioni da gestire, dei surplus che si spostano secondo i capricci degli indici economici, delle scorie da gettare dopo averle spremute fino al midollo. Questo mondo in cui la follia dell’Economia onnipotente e l’esigenza del profitto senza limiti finiscono in un produttivismo compulsivo e devastatore, è quello che ci porta – bisogna dire anche questo – verso aumenti di temperature continentali da quattro a sei gradi, con effetti assolutamente terribili. Per quanto siano già molto seri, i segni attuali dei cambiamenti climatici non bastano a dare un’idea giusta di quello che i nostri figli e nipoti sono destinati a subire. Se non è questa l’urgenza che ci fa sollevare oggi, sarà quella che ci farà sollevare domani se il movimento attuale non riesce a cambiare profondamente le cose.
Tra gli altri detonatori della sollevazione in corso, c’è l’ingiustizia, prima fiscale e ormai più largamente sociale, percepita come intollerabile. Certo, l’accentuazione vertiginosa delle diseguaglianze è dovuta alle politiche neoliberali condotte da decenni, ma finora avevamo tollerato, accettato. Ora non più. Troppo è troppo. E quando si comincia a non accettare più l’inaccettabile, non ci si può fermare lungo il cammino... C’è, però, da aggiungere qui la cosa seguente: Macron, il nostro povero Ju-per-terra, fa solo il suo lavoro. Vuole soltanto essere il primo della classe in un sistema in cui gli Stati sono subordinati ai mercati finanziari e in cui, per un governo, il solo modo di cavarsela un po’ meno peggio dei suoi vicini è attirare una maggiore quantità di capitali. Bisogna dunque battere il marciapiede, adescare facendo mostra dei più bei vantaggi fiscali, buttare alle ortiche tutte le protezioni sociali, promettere agli investitori la mano d’opera più sottomessa e il miglior profitto possibile. Questo spiegano i regali fatti ai più ricchi e alle grandi imprese (molto di più della famosa teoria dello sgocciolamento[2] che fa acqua da tutte le parti). La politica di Macron, e che qualche altro potrebbe condurre al suo posto, è dunque l’effetto di un sistema mondo dominato dalla forza del denaro, dall’esigenza di redditività e di performance e dalla logica produttivistica che ne consegue. Quel che dobbiamo abbattere va oltre il piccolo Macron, per quanto sia col culo per terra. Che se ne vada non sarà che un (ottimo) inizio.
La potenza della sollevazione attuale è dovuta anche al rifiuto della rappresentanza finora assolutamente inderogabile. Al rifiuto di essere rappresentati. Al rifiuto di ogni recupero politicante. Alla coscienza che la democrazia rappresentativa è diventata una farsa che consiste nello scegliere noi stessi quelli che ci ingannano e ci disprezzano lasciandoci derubare di una capacità individuale e collettiva che scopriamo oggi di poter riprendere.
Mantenere quest’atteggiamento con fermezza, di fronte a tutte le manovre già in corso sarà una sfida ardua. Per ora, però, gli appelli a una vera democrazia si moltiplicano: in chiaro, il potere al popolo, dal popolo, per il popolo. Le iniziative fioriscono dappertutto: appello a formare dei comitati popolari, con le loro assemblee regolari, a costruire case del popolo sulle piazze pubbliche per dibattere ma soprattutto per organizzarsi concretamente. Si parla di destituzione. Si parla di secessione. Si parla di comuni liberi. Si rileva che, una volta partito Macron, non si dovrà soprattutto rimpiazzarlo con un altro, poiché si tratta di riprendere in mano noi stessi l’organizzazione delle nostre vite. Si parla d’ispirarsi dalla città ateniese, dalla Comune di Parigi, dal Chiapas e dal Rojava.
Per questo scrivo questa lettera dal Chiapas. Perché qui, nel sud del Messico, la ribellione fiorisce da venticinque anni. 25 anni fa, il primo gennaio 1994, gli indiani maya zapatisti, quelli che non erano niente, i più piccoli, gli invisibili di sempre, quelli che hanno dovuto coprirsi il volto con i passamontagna per diventare finalmente visibili, si sono sollevati al grido di “YA BASTA!”. Basta con le politiche neoliberali e con il trattato di libero commercio dell’America del Nord che entrava in vigore quel giorno; basta col potere tirannico imposto al popolo da settant’anni; basta con cinque secoli di razzismo, di disprezzo e di oppressione coloniale. Per un periodo, gli zapatisti hanno negoziato con il governo messicano e hanno persino ottenuto, nel 1996, la firma di un accordo che i governi successivi non hanno mai messo in pratica. Allora gli zapatisti hanno deciso di mettere in atto da soli la loro aspirazione all’autonomia che non è affatto un modo di separarsi da un paese che è il loro, ma una secessione in rapporto a una certa forma di organizzazione politica e istituzionale. Quel che hanno costituito è precisamente un vero governo del popolo, dal popolo, per il popolo. Un autogoverno di gente comune che implica una de-specializzazione della politica. Hanno formato le loro istanze di governo e le loro assemblee, al livello dei comuni liberi ma anche a livello delle regioni. Hanno i loro tribunali di giustizia che risolvono i problemi attraverso la mediazione. Hanno le loro scuole e i loro centri di cura di cui hanno totalmente ripensato il modo di funzionamento.
Tutto questo non lo fanno per rispondere alle necessità di un sistema nazionale e mondiale fondato sul profitto e il potere di pochi eletti. Non cercano di essere performanti. Non cercano di essere competitivi. Non cercano di riuscire nel mondo dei tecnocrati e dei gestori di ogni genere. Vogliono soltanto che tutte e tutti siano non solo ascoltate e ascoltati, ma che partecipino attivamente all’organizzazione della vita collettiva. Vogliono soltanto che il mondo folle dell’Economia non lasci ai loro figli e ai nostri un mondo devastato e invivibile; per questo si preparano a resistere alla tormenta che si avvicina.
Allora, sì è dimostrato in Chiapas, ma anche altrove e in molte pagine della storia di Francia, che il popolo che si solleva può riprendere il suo destino in mano. Non ha bisogno di uomini politici né d’istituzioni rappresentative che non fanno altro che spossessarlo della sua potenza. Il popolo può organizzarsi autonomamente, formare dei comuni liberi, rideterminare la maniera in cui intende vivere, poiché è acquisito che non vuole più vivere come l’ha fatto per tanti anni. L’esercizio di questa libertà non ha niente di facile ma quel che posso dire dal Chiapas, è che dà ai ribelli un formidabile sentimento di fierezza, fa sentire la forza della dignità ritrovata e la gioia che si lega alla scoperta di quel che permette la potenza collettiva.
Giustizia. Una vita degna per tutte e per tutti. Potere del popolo. Il che suppone di non lasciarsi più menare per il naso dalla farsa della democrazia rappresentativa – e neppure dalle promesse, magari a venire, di una nuova costituente – e di non consentire più il riprodursi di un mondo dominato dall’esigenza produttivistica e consumistica dell’Economia.
Viva la degna rabbia di quelle e quelli che non sono niente!
Fuori i Macron e altri apprendisti Jupiter!
Morte al sistema iniquo, distruttore e disumano che servono!
Viva la potenza del popolo che si solleva e si organizza autonomamente!

San Cristobal de Las Casas, dicembre 2018
Anno 25 della sollevazione zapatista
Anno 1 della sollevazione dei Gilets jaunes e delle collere di tutti i colori

Jérôme Baschet (storico)




 
Le ragioni della collera

Ci si può stupire del tempo che è stato necessario per vedere uscire dalla loro letargia e dalla loro rassegnazione tante donne e uomini la cui esistenza è una lotta quotidiana contro la macchina del profitto, contro un’impresa deliberata di desertificazione della vita e della terra.
Come si è potuto tollerare in un silenzio tanto persistente che l’arroganza delle potenze finanziarie, dello Stato di cui esse manovrano i fili e di quei rappresentanti del popolo che non rappresentano che i propri interessi egoistici, stabiliscano la legge facendoci la morale.
In effetti, il silenzio era ben coltivato. Si sviava l’attenzione facendo molto rumore attorno a diatribe politiche nelle quali i conflitti e gli accoppiamenti della sinistra e della destra hanno finito per stancare scadendo nel ridicolo. Si è persino, ora subdolamente, ora apertamente, incitato alla guerra dei poveri contro i più poveri di loro, gli emigranti scacciati dalla guerra, dalla miseria, dai regimi dittatoriali. Fino al momento in cui ci si è accorti che durante questa disattenzione perfettamente concertata, la macchina per sbriciolare il vivente funzionava senza interruzione.
Si è ben finito per accorgerci del progresso della desertificazione, dell’inquinamento delle terre, degli oceani, dell’aria; ci si è resi conto del progresso della rapacità capitalista e della pauperizzazione che minaccia ormai persino la semplice sopravvivenza delle specie, la nostra inclusa.
Il silenzio coltivato dalla menzogna dei nostri informatori è un silenzio pieno di rumore e di furore.
Il che rettifica parecchio le cose. Si capisce, infine, che i veri casseurs sono gli Stati e gli interessi finanziari che li sponsorizzano, non i frantumatori di quelle vetrine di lusso che prendono in giro le vittime del consumismo e dell’impoverimento crescente con lo stesso cinismo delle donne e degli uomini politici, di qualunque partito o fazione essi rivendichino l'appartenenza.
Quelle e quelli che presero la Bastiglia il 14 luglio 1789 non erano a conoscenza, se non per dei vaghi bagliori, della filosofia illuminista. Scoprirono più tardi di aver messo in pratica, senza troppo saperlo, la libertà che i Diderot, Rousseau, d’Holbach, Voltaire volevano mettere in luce.
Questa libertà consisteva nell’abbattere la tirannia. Il rifiuto viscerale dei dispotismi è sopravvissuto alla ghigliottina dei giacobini, dei Termidoriani, di Bonaparte, della restaurazione monarchica; ha resistito ai fucilatori della Comune di Parigi, è andato oltre Auschwitz e il gulag.
Certo, prendere l’Eliseo sarebbe fare troppo onore all’ubuesco palotin[3] che l’Ordine delle multinazionali ha incaricato delle basse operazioni di polizia. Non possiamo accontentarci di distruggere dei simboli. Appiccare il fuoco a una banca non significa far saltare il sistema bancario e la dittatura del denaro. Incendiare le prefetture e i centri delle scartoffie amministrative non vuol dire farla finita con lo Stato (non più che destituire i suoi notabili e beneficiari).
Non è mai buona cosa demolire gli uomini (persino in qualche poliziotto resta una qualche coscienza umana da salvaguardare). Che i Gilets jaunes abbiano piuttosto scelto di spaccare le macchine addette a farci pagare dappertutto e messo fuori uso le scavatrici che solcano nei nostri paesaggi le trincee del profitto, è un segno incoraggiante del progresso umano delle rivolte.
Altro segno rassicurante: mentre le folle, le adunate gregarie sono facilmente manipolabili – come sanno bene gli adepti dei clientelismi che imperversano dall’estrema sinistra all’estrema destra – si nota qui, almeno per il momento, l’assenza di capi e di rappresentanti riconosciuti; il che mette non poco in imbarazzo il potere: da quale parte prendere questa nebulosa in movimento? Si osserva qui e là che gli individui, abitualmente oppressi nella massa, discutono tra loro, danno prova di un umorismo creativo, d’iniziative e d’ingegnosità, di generosità umana (anche se delle cadute sono sempre possibili).
Dal movimento dei Gilets jaunes emana una collera gioiosa. Le istanze statali e capitaliste vorrebbero considerarla cieca. Essa è soltanto in cerca di lucidità. La cecità dei governanti è sempre in cerca di occhiali.
Una signora in giallo dichiara: “Vorrei proprio che Macron che vive in un palazzo, mi spiegasse come posso vivere con 1200 euro al mese”. E come può la gente sopportare le restrizioni di bilancio che riguardano la salute, l’agricoltura non industriale, l’insegnamento, la soppressione delle linee ferroviarie, la distruzione dei paesaggi a vantaggio dei complessi immobiliari e commerciali?
E la petrolchimica e l’inquinamento industriale che minaccia la sopravvivenza della vita sul pianeta e le popolazioni? Al che Palotin Ier risponde con una misura ecologica. Tassa il carburante che anche i più poveri sono obbligati a comprare. Ciò gli evita di toccare i benefici di Total e di altri. Aveva già mostrato la sua preoccupazione per la questione ambientale mandando 2500 gendarmi a distruggere a Notre-Dame des Landes, gli orti collettivi, l’ovile, le autocostruzioni e l’esperienza di una nuova società.
Che cosa dire, inoltre, delle tasse e delle imposte che lungi dal servire quelle e quelli che le pagano servono a rimborsare le malversazioni bancarie? Degli ospedali che mancano di personale medico? Degli agricoltori che rinaturalizzano i terreni agricoli privi di sovvenzioni concesse invece all’industria agroalimentare e all’inquinamento della terra e dell’acqua? Dei liceali, ragazze e ragazzi parcheggiati in allevamenti concentrazionari dove il mercato viene a scegliere i suoi schiavi?
“Proletari di tutti i paesi, diceva Scutenaire, non ho consigli da darvi”.
Evidentemente, come dimostra la moda del totalitarismo democratico, tutti i modi di governo, dal passato ai nostri giorni, non hanno fatto che aggravare la nostra disumanità. Il culto del profitto mette a mal partito la solidarietà, la generosità, l’ospitalità. Il buco nero dell’efficacia redditizia assorbe a poco a poco la gioia di vivere e le sue galassie. Senza dubbio è tempo di ricostruire il mondo e la nostra esistenza quotidiana. Senza dubbio è tempo di “fare noi stessi gli affari nostri” al contrario degli affari che si tramano contro di noi e che ci disfano.
Se si giudica attraverso le libertà del commercio, che sfruttano e uccidono il vivente, la libertà è sempre fragile. Un nonnulla basta per rovesciarla e mutarla nel suo contrario. Un niente la restaura.
Occupiamoci della nostra vita, essa implica quella del mondo.

Raoul Vaneigem





Nota finale del traduttore:

Raoul Vaneigem ha appena pubblicato in francese: Contributo all’emergenza di territori liberati dall’impresa statale e mercantile - Riflessioni sull’autogestione della vita quotidiana. Si tratta di una riflessione fortemente connessa con quel che sta succedendo. Avendo avuto accesso alle bozze prima della pubblicazione, la mia traduzione in italiano è pronta e aspetta solo un editore in grado di capirne l’utilità oltre la logica miserabile del business.
Lo scritto in questione è nato e cresciuto nel territorio fertile di gruppi di affinità spontanea che s’intersecano nel quotidiano, variano, si muovono, viaggiano e si ritrovano puntualmente nel fluire della vita.
Autore, mezzo secolo fa, del famoso Trattato del saper vivere a uso delle giovani generazioni (Gallimard, Paris 1967; Vallecchi, Firenze 1973; Castelvecchi, Roma 2006) che ha marcato il maggio 68, Raoul Vaneigem continua a farsi interprete di una sensibilità individuale e sociale che il mondo dominante vorrebbe cancellare. Invano. La volontà di vivere e la coscienza pratica che ne deriva sono più forti della logica cinica e affarista che contamina le relazioni umane dappertutto.
Non si tratta di sottoscrivere la sua riflessione come la verità assoluta; è piuttosto questione di contribuire con la propria intelligenza critica e la propria sensibilità umana a rinnovare una coscienza comune della questione sociale, sincera e appassionata. La maggior parte dei Gilets jaunes non conosce nemmeno l’esistenza di Vaneigem ma il loro insorgere è un’espressione autonoma di questa esigenza.
Far circolare questo testo oltre le barriere linguistiche si propone come una complicità affettuosa, come una jam session dell’intelligenza sensibile, come un approccio contributivo al mutamento di civiltà già in corso ma ancora troppo fragile e insicuro.
Incamminarsi su questo percorso è partecipare a una scommessa che si nutre di tutte le emozioni e di tutta la razionalità emergente oltre le forche caudine di un’alienazione ormai istituzionalizzata e generalizzata dal modo di produzione capitalistico diventato un modo di distruzione della vita sociale e della stessa biosfera.
Che la vita insorga contro tutti gli ostacoli che le si frappongono da millenni, ancor più da qualche secolo e in particolare ora, in questa fase terminale di una società produttivistica malata di una hubris forsennata. Che insorga qui, ora e sempre, finché il rovesciamento di prospettiva diventi irreversibile.

Sergio Ghirardi


[1] Daniel Guérin, Bourgeois et Bras-nus- Guerre sociale durant la révolution française (1793-1795), Libertalia, Paris 2013.
[2] Con la teoria dello sgocciolamento, il mago Merlino Macron ha spiegato dottamente che il denaro regalato graziosamente ai più ricchi (con l’abolizione parziale dell’ISF, l’imposta sulle grandi fortune, e altri regali fiscali alle multinazionali del CAC 40) sarebbe poi scivolato su tutti gli altri perché magicamente reinvestito nella produzione mentre è ovviamente sparito nei giochi della finanza (NdT).
[3] Termine caricaturale che definisce un insipido sottoposto (NdT).