mercoledì 15 aprile 2020

Il suprematismo, malattia infantile dei reazionari, senile dei rivoluzionari




Quel che da tempo apre ampi spazi ai fascismi politici che si nutrono della psicologia di massa del fascismo è il fatto ormai avverato, e verificato fin dal Terrore che ha sconquassato la rivoluzione francese, che la democrazia moderna non è mai esistita. Ancor meno esiste oggi, quando un gran numero di devoti si gargarizza dei suoi effluvi per meglio garantire ai privilegiati di una piccola oligarchia d’imporre la loro supremazia.
Perché se il termine suprematismo è usato unicamente per definire gli psicopatici neonazisti, i deliranti razzisti, gli integralisti di ogni campo e altri -ismi scaturiti dalla peste emozionale estremistica, la logica che muove la patologia predatrice (quindi inevitabilmente suprematista) del dominio è intrinseca a ogni potere. Poco importa se, subìto ben più che condiviso, il potere s’imponga a chi non l’ha scelto o l’ha scelto in una pantomima elettorale che dirige le pecore nel giusto recinto in cui subire le stigmate dello sfruttamento, dell’ingiustizia e della noia. In ogni ghetto s’ingoiano veleni e si respira aria tossica, attendendo il macello finale della morte per sfinimento, per inquinamento, per patologie cancerogene, per incidenti sul lavoro, per violenza di genere e di classe e qualche volta anche per virus.
Un fatto è certo: la fine della seconda guerra mondiale ha aperto i campi di sterminio nazisti per imporre agli abitanti di un pianeta ridisegnato il lavoro che rende liberi, al suono delle trombe di una pace nuclearizzata partita da Hiroshima per arrivare a Fukushima, passando per Chernobyl.
L’homo economicus del produttivismo ha fabbricato deserti emozionali mondialmente diffusi e li ha chiamati pace. Una pace pestifera, gestita da élites di ottusi analfabeti, ossessionati dalla redditività, agenti di una desertificazione planetaria ancor più marcata dalle oasi di natura protetta, ridotte anch’esse a campi di concentramento chiamati parchi naturali.
A partire dal dopoguerra, la società dello spettacolo che si è imposta e che ci dirige da quasi un secolo, ci ha progressivamente relegati in un mondo cementato da fabbriche, grattacieli e supermercati sparsi dappertutto, glaciali e sempre simili. Su un pianeta attraversato da automobili e aerei che “rendono liberi” sempre di più, l’oligarchia consuma liberamente la sua supremazia. Un buon numero di presunti privilegiati può e deve consumare molto in maniera tossica, mentre una gran parte della popolazione mondiale produce tutti i beni di consumo ma consuma solo spazzatura e molto spesso neppure quella, in attesa delle grandi catastrofi sempre più ufficialmente annunciate.
I suprematisti caricaturali e mostruosi che vogliono bruciare e sterminare gli untermenchen denunciati nei loro Mein Kampf politici o religiosi (abitualmente entrambi i generi di quest’orrore osceno sono fusi in una simbiotica demenza dall’infantilismo macabro), sono quattro gatti e difficilmente riusciranno a ripetere l’impresa del loro eroe preferito di suicidarsi come lui dopo aver messo a ferro e fuoco l’Europa e il mondo.
Oggi, invece, i suprematisti più pericolosi e diffusi sono dei gentili sociologi, degli economisti entusiasti, degli psicologi alla Edward Bernays[1], dei lobbisti politicamente corretti, degli imprenditori indefessi, degli uomini politici seri e benpensanti, dei burattini mediatici servili. Tutta questa bella corte frequenta e manipola molti altri ruoli secondari ma fondamentali per l’alienazione mercenaria al servizio della logica suprematista che è al cuore del produttivismo e della sua fase terminale: il capitalismo.




Quelli che La Boétie aveva definito “servitori volontari” già cinque secoli fa, pullulano ormai nello spettacolo a cui è stata ridotta la società umana, con un potere distruttivo di cui i virus biologici sono un piccolo, seppur devastante, antipasto naturale. Nell’occorrenza, difendersi dal coronavirus è un atto prioritario, certo, una necessità vitale per la specie umana. Tuttavia, nei tempi lunghi, difendersi dalla peste emozionale che diffonde i suoi miasmi mortiferi sulla vita quotidiana di donne e uomini, è ancora più vitale e urgente.
Rileggendo Wilhelm Reich (lettura che fu privilegiata per un breve periodo, poi rapidamente rimossa)[2], si ritrova la traccia plurimillenaria di questa patologia umana che ha invaso le coscienze fino a contaminare la stessa biosfera da cui dipende la vita.
Con l’abbandono delle società organiche e l’instaurarsi dell’arricchimento produttivista, il lento e contrastato processo di civilizzazione degli esseri umani ha biforcato verso svariate forme di suprematismo (alcune sopportabili, altre più aggressive) che hanno lacerato il tessuto umano della specie fatto di aiuto reciproco, di solidarietà e di creatività al servizio della potenza di godere insieme, potenza orgastica capace di trasformare le famiglie, i clan e altri gruppi affinitari in comunità umane di individui liberi.
Questa libertà, fondata su una centralità femminile acratica che ha contraddistinto molti dei primi gruppi della scimmia umanoide[3], è stata aggredita, poi ridotta al silenzio dal dominio di genere e di classe che ha trasformato l’agricoltura di sostentamento in un’agricoltura produttivista. Se, infatti, la scoperta dell’agricoltura fu una rivoluzione benefica per degli esseri umani limitati alla raccolta e alla caccia, il passaggio a un’agricoltura produttivista ha sconvolto gli equilibri di una comunità umana ancora fragile, introducendo una macchina da guerra che il patriarcato ha saputo cogliere. Non senza difficoltà, però, perché la specie umana si è rifiutata per diversi millenni[4] d’inventare il lavoro e sottomettersi alle sue leggi. Quest’attività forzata a scopo economico non esisteva, infatti, prima che l’umanità cedesse di fronte all’ideologia produttivista, il cui suprematismo ha inventato come “fare del grano”. Il passaggio dalle svariate, piacevoli o faticose, attività della vita al lavoro, fu un’alchimia perversa che ha trasmutato i cereali in oro. Così è apparso il denaro, equivalente generale degli scambi mercantili, con i corollari della schiavitù – necessaria ad assoggettare e sfruttare i primi lavoratori della storia umana – e della definitiva sottomissione delle donne.
Questo è oggi il peggiore nemico dell’umanità: il progetto teologico dell’economia politica di cui il denaro è il culto diffuso dal mito di una crescita senza fine in un mondo finito. Non servirà a molto liberarsi del coronavirus se non ci decideremo a lottare contro la peste emozionale veicolata dal produttivismo e dalla crescita economica di cui è drogato. Ecco il nemico assoluto, ma per combatterlo dal punto di vista umano, dobbiamo nello stesso tempo guardarci dai nemici spettacolari dello spettacolo sociale. Perché se l’obiettivo finale è l’uscita dal produttivismo e la rifondazione di società organiche capaci di promuovere la comunità umana, non servirà a nulla battersi contro l’alienazione continuando a farlo con metodi alienati.
Infatti, la forza intrinseca del Leviatano produttivista e della società dello spettacolo di cui si serve, è che anche i suoi oppositori cadono nella trappola di riprodurre gli stessi schemi di comportamento che pretendono di combattere. Per questo insorgo, come posso, contro l’intellettualismo che è, a mio avviso, il vero e proprio fulcro della critica alienata. Anch’esso malato di un suprematismo sedicente sovversivo, inquina dalle origini il movimento rivoluzionario dell’epoca moderna.
Sempre riferendosi a W. Reich, la cui qualità di ricerca è stata cancellata, ma resta preziosa per chi l’ha letto senza inforcare le lenti dell’ideologia sessuofobica, il misticismo è una lettura distorta e paranoica della realtà che imperversa altrettanto tramite un approccio spiritualista che materialista del reale. Al misticismo dell’inquisizione cattolica, sedicente fraterna, ha risposto con una continuità esemplare, quello della burocrazia comunista, sedicente sovietica. Lo spiritualismo degli uni (tutti i monoteismi, nessuno escluso, sono stati all’origine di massacri in nome di Dio e anche i dittatori direttamente al servizio dell’economia politica, da Franco a Pinochet, hanno sempre mescolato con brio le genuflessioni sacre e la tortura degli oppositori) ha cercato la comunità nello sterminio degli eretici. Per contro, il materialismo degli altri ha cercato il comunismo nelle esecuzioni sommarie, nella Lubianka e nei campi in Siberia (ma anche in Cambogia non si è mica scherzato, né in Cina si scherza tuttora, per non citare che due dei crimini più riusciti contro l’umanità).







Piazza Tienanmen, le foto inedite delle proteste e del massacro ...
Ovviamente, quasi più nessuno, oggi, si rivendica dello stalinismo o del nazismo, tranne forse qualche “intellettuale” demente, più intellettuale degli altri perché completamente fuori di testa (proprio a causa della mastodontica dimensione della stessa, una volta separata dal corpo). Il vero mito della società dello spettacolo è la democrazia parlamentare che incarna la truffa dei suprematisti più duttili: ogni pecora è il proprio cane. Chi ha più bisogno di cani da pastore? Sì, qualche robocop con pistola, fucile e manganello, che non si sa mai!

Siccome l’antifascismo fa ormai parte dei dogmi ipocriti della società dello spettacolo, anche il Mercato e lo Stato, di cui il fascismo è lo sgherro, possono essere criticati ma solo separatamente, mai insieme come complici del produttivismo, in modo da salvare sempre il Leviatano che si nutre di entrambi. Del resto, tutti concordano ormai, persino i liberali, che non bisogna esagerare con il Mercato; il Leviatano statale ritrova così, a destra come a sinistra, i sostenitori che non aveva mai perduto. Si critica lo Stato cattivo di cui è normale diffidare, per meglio esaltare quello buono, quello maschio che protegge dai malvagi la nazione femmina (esattamente come il maschio dominante trasuda di un amore da prosseneta per la sua donna sfruttata, sottomessa e umiliata). Ci raccontano che “lo Stato siamo noi”, dobbiamo quindi sostenerlo, amarlo e difenderlo contro quei pazzi di anarchici, senza dio né padrone!
Ora, io che anarchico non sono, ma acratico, non riesco a ridere di questa peste emozionale diffusa dal patriarcato che è la servitù volontaria e che, dal sovranismo di destra di stampo fascista al gauchismo dell’ultra sinistra, critica con terrore o paternalismo, ma sempre con ottusità e spesso con cieca violenza, l’ipotesi di un’autogestione generalizzata della vita quotidiana che rifiuta di sottomettersi a ogni bellicismo militarizzato quanto a ogni conformismo.
Non rido e anzi mi preoccupo, perché il versante sinistro (in tutti i sensi) di quest’alienazione teorica, serve il Leviatano come, se non meglio, dei suoi prediletti sottomessi reazionari. Delle ceneri della sinistra umanistica rimane che abbiamo, in effetti, sognato insieme, mescolati alla rinfusa ma soprattutto nella confusione e nell’ideologia, una rivoluzione sociale che rendesse tutti liberi e uguali. Tuttavia, come ci ha fatto notare Orwell, abbiamo sempre creato situazioni in cui alcuni erano più uguali degli altri perché si erano arrogati il potere dell’uguaglianza in modo suprematista.
Non basta aborrire Stalin per non cadere nel fascismo rosso già denunciato nel 1933 da Reich come l’altra faccia della medaglia nazifascista. Come ha scritto Ernst Bloch: “Dietro il cittadino si celava il borghese, “Dio” ci salvi da chi si nasconde dietro il compagno”. Ebbene, il solo modo di salvarsi dal compagno che è in noi è di esserlo tutti insieme in totale autonomia, secondo schemi antichi che l’umanità, forse ancora primitiva, ma meno instupidita di noi e del nostro progresso, ha sempre praticato.
Assemblee locali costituite a partire dai gruppi spontanei d’affinità in cui tutto il potere si diluisca e si condivida nel dialogo fino a trasformarsi in decisioni comuni non plebiscitarie ma consensuali. Capaci, cioè, di sostenere i progetti condivisi e di ridurre, stemperare e quando possibile abolire le dissidenze inconciliabili. Il tutto in conformità a un’autonomia che rende impossibile ogni supremazia. Mica un sistema perfetto, sia chiaro, soltanto quello più consono a una comunità che cerchi di esistere ed evolvere senza gerarchie né frustrazioni maggiori, con l’obiettivo dell’autogestione generalizzata della vita quotidiana.
Questo sistema imperfetto, ma meno di tutti gli altri, con la sua etica amorale, è l’unico che rifugga il minimo suprematismo gerarchico, ogni sopruso, ogni violenza, fosse anche rivoluzionaria. Non si tratta d’inventarlo, ma di ritrovarlo e rielaborarlo alla luce degli insegnamenti della storia per adattarlo a una modernità oggettiva (il tempo non passa mai invano), ma non subita. Bisognerà, dunque, prendere anche in conto una crescita demografica insensata della specie umana. Insensata ma ormai fattuale, che complica la situazione senza tuttavia rendere impossibili le soluzioni. La realtà sociale è complessa, anche complicata, ma risolubile da una coscienza collettiva decisa a confrontarsi con essa. Di spazio ne resta ancora, ma è urgente socializzarlo e non privatizzarlo, proteggere i beni comuni e cessare di regalarli al Mercato; il quale anzi dovrà smettere di esistere nelle forme produttiviste per ritrovare il centro del villaggio (la piazza, l’agora) come luogo del dono che si scambia per amore della vita e del bene comune, non per interesse economico suprematista.
Il problema centrale, dunque, è la logica suprematista che impesta il pianeta e contro la quale non si tratta di essere gentili, morali e accondiscendenti, ma autonomi, determinati e lungimiranti, cioè soggetti coscienti di una comunità in divenire; individui capaci di godimento con o senza gli altri, ma mai contro di loro, finalmente capaci di liberare la parola e la pratica del godimento dalla reificazione alienata che le donne e gli uomini hanno subito per millenni.
Nella storia contemporanea, la pubblicità mercantile del godimento è diventata una peste ideologica che ha ipnotizzato i consumatori fino a far balenare ai loro occhi, più grandi del ventre, dei bisogni artificiali che non sono mai stati veri desideri. E ancora una volta l’amico Wilhelm Reich, questo pazzoide che, secondo Freud, pretendeva di curare la malattia dell’essere umano con l’orgasmo, ci indica una pista. Non quella di una sessualità ridotta a una merce in cui gli “investimenti emozionali” non possono che finire in una “banca dello sperma” poiché l’irruzione della morale sessuale mercantile ha bloccato la facoltà naturale di rilassare la propria muscolatura involontaria; quella invece, della dépense vitale, della scarica emozionale e fisiologica non solo delle affinità sessuali condivise, ma, più precisamente, di quell’energia vitale che ha danzato da sempre con la natura in mille modi diversi: dall’arte al savoir faire, dalla creatività applicata alla poesia alla poesia applicata alla creatività.
Chi vuole combattere il produttivismo non può più accontentarsi di criticarlo dal punto di vista della sua presunta supremazia intellettuale, ultima bava senile di un’ideologia rivoluzionaria incartapecorita, senza proporne il superamento concreto da praticare subito nei propri rapporti personali. Il solo superamento possibile del produttivismo passa, infatti, per l’ostracismo radicale verso ogni suprematismo. Basta con il capitalismo, ma anche con gli intellettuali rivoluzionari che ci fanno la morale in nome di una lucidità impotente stranamente simile al misero potere dei kapò. Basta con la critica-critica di quanti denunciano sul loro libro sacro di profeti del discorso (o piuttosto, ormai, sul computer, smanettando con il Nick Name di Napalm 50 o 68, che è lo stesso), la responsabilità altrui nel trionfo del male, del sopruso, della tirannia, senza proporre il minimo atto costruttivo di aiuto reciproco, di solidarietà, di mutamento radicale nella gestione collettiva della vita quotidiana.
Impariamo dunque dalle nostre disgrazie attuali dovute al coronavirus. Nel pericolo è riapparsa un’umanità commovente, ricca di una complicità generosa tra le numerose vittime e i soccorritori, anch’essi vittime. Nella resilienza che si annuncia, impariamo a ritrovare la nostra fortuna di essere vivi: applichiamo lo sciopero generale dei consumi inutili e dannosi, del lavoro inutile e dannoso; liberiamoci delle attività alienate e nocive in nome della vita da affermare e non più solo per impedire al coronavirus di contaminarci. Usiamo gli stessi metodi adottati per necessità contro la piccola peste per combattere quella più grande che l’ha favorita e preceduta.
Ci libereremo, forse, niente è sicuro, del vecchio mondo solo cominciando insieme, appena usciti dal confinamento, a uscire anche, contemporaneamente, dall’universo concentrazionario del produttivismo e della sua critica spettacolare. Come e da che cosa cominciare? È proprio di questo che si deve discutere insieme già adesso, per non perdere il tempo che non abbiamo più e per praticare al più presto la teoria.
L’umanità ha davanti a sé l’incubo di una cosa di cui manca soltanto la coscienza pratica per poterla evitare.


Sergio Ghirardi, 12 4 2020, lasciando perdere l’uovo, ma non la sorpresa.



O la Borsa (il CAC 40) o la vita!





[1] Nipote di Sigmund Freud (1891-1995) che ha messo al servizio delle multinazionali produttiviste (quella del tabacco, in particolare) le scoperte del famoso zio sui meccanismi psichici e la possibilità di manipolarli.
[2] Erano i tempi in cui moltissimi individui di ogni età, ma soprattutto i più giovani, erano insorti per liberarsi del produttivismo che cominciava a soffocarli. Il maggio 68, oltre il mito, la falsificazione e la manipolazione che ha subito, è ancora oggi il simbolo di questo fenomeno epocale.
[3] Amargi è il termine arcaico più antico per dire libertà. In sumero esso significa: ritorno alla madre. Sulle società matricentriche preistoriche e sulle diverse invasioni Kurgan che hanno messo loro fine, imponendo il patriarcato in tutta l’Europa antica, consultare l’enorme lavoro pluridecennale di Marija Gimbutas.
[4] I primi segni di un’agricoltura di sostentamento sono apparsi attorno al 9000 AC, mentre le prime città-Stato produttiviste risalgono al quinto millennio AC. 

Mario Morasso e Cesare Laurenti: alcune riflessioni sul Simbolismo ...






Le suprématisme maladie infantile des
réactionnaires, sénile des révolutionnaires

Ce qui depuis longtemps ouvre des amples espaces aux fascismes politiques qui se nourrissent de la psychologie de masse du fascisme, est le fait désormais avéré et vérifié depuis la Terreur qui a secoué la Révolution française, que la démocratie moderne n’a jamais existé. Encore moins elle n’existe aujourd’hui, alors qu’un bon nombre de dévots se gargarise de ses vapeurs pour mieux garantir aux privilégiés d’une petite oligarchie d’imposer leur suprématie.
Car si le terme suprématisme est uniquement utilisé pour définir les psychopathes néonazis, les racistes délirants, les intégristes de tout bord et autres –ismes jaillis de la peste émotionnelle extrémiste, la logique qui fait fonctionner la pathologie prédatrice (donc inéluctablement suprématiste) de la domination est intrinsèque à tout pouvoir. Peu importe si, subi bien plus que partagé, le pouvoir s’impose à qui ne l’a pas choisi, ou choisi dans une pantomime électorale qui pousse les brebis dans le bon enclos où ils/elles subissent les stigmates de l’exploitation, de l’injustice et de l’ennui. Dans chaque ghetto on avale des poisons et on respire de l’air toxique en attendant la boucherie finale de la mort par épuisement, par pollution, par pathologies cancérigènes, par accidents du travail, par violence de genre et de classe, et parfois aussi par virus.
Une chose est certaine : la fin de la deuxième guerre mondiale a ouvert les camps d’extermination nazis pour imposer aux habitants d’une planète redessinée, le travail qui rend libres, au son des trompettes d’une paix nucléarisée partie de Hiroshima pour arriver à Fukushima, en passant par Tchernobyl.
L’homo economicus du productivisme a fabriqué des déserts émotionnels mondialement diffus en les appelant « paix ». Une paix pestifère, gérée par des élites d’analphabètes bornés, obsédés par la rentabilité, agents d’une désertification planétaire encore plus marquée par les oasis de nature protégée, réduites, elles aussi, à des camps de concentration appelés parcs naturels.
A partir de l’après guerre, la société du spectacle qui s’est imposée et qui nous dirige depuis presque un siècle, nous a progressivement enfermés dans un monde bétonné par des usines, des gratte-ciels et des supermarchés étalés partout, glaciaux et toujours semblables. Sur une planète sillonnée par des voitures et des avions qui « rendent libres » toujours plus, l’oligarchie consomme librement sa suprématie. Un bon nombre de privilégiés présumés peut et doit consommer beaucoup de façon toxique, alors qu’une grande partie de la population du monde produit tous les biens de consommation mais ne consomme que la poubelle et souvent même pas cela, dans l’attente des grandes catastrophes toujours plus officiellement annoncées.
Les suprématistes caricaturaux et monstrueux qui veulent bruler et exterminer les untermenchen dénoncés dans leurs Mein Kampf politiques ou religieux (en général les deux genres de cet horreur obscène fusionnent dans une symbiotique démence à l’infantilisme macabre), ne sont que quelques poignées et ils auront du mal à réitérer l’emprise de leur héros préféré, en se suicidant comme lui, après avoir mis à feu et sang l’Europe et le monde.
En revanche, les suprématistes les plus dangereux et répandus sont, aujourd’hui, des gentils sociologues, des économistes enthousiastes, des psychologues du genre d’Edward Bernays[1], des lobbyistes politiquement corrects, des entrepreneurs infatigables, des hommes politiques sérieux et bienpensants, des pantins médiatiques serviles. Tout ce beau monde côtoie et manipule beaucoup d’autre rôles secondaires mais fondamentaux pour l’aliénation mercenaire au service de la logique suprématiste au cœur du productivisme et de sa phase terminale : le capitalisme.





Asilo per senzatetto | Siegfried Kracauer

Ceux que la Boétie avait définis « serviteurs volontaires » il y a cinq siècles déjà, pullulent, désormais, dans le spectacle auquel a été réduite la societé humaine, avec un pouvoir destructeur dont les virus biologiques ne sont qu’un petit, même si dévastateur, avant-gout naturel. Dans l’occurrence, se défendre du coronavirus est un acte prioritaire, certes, une nécessité vitale pour l’espèce humaine. Néanmoins, dans le long terme, se défendre de la peste émotionnelle qui répand ses miasmes mortifères sur la vie quotidienne des femmes et des hommes, est encore plus vital et urgent.
En relisant Wilhelm Reich, (lecture qui fut privilégiée pendant une brève période, puis rapidement refoulée)[2], on retrouve la trace plurimillénaire de cette pathologie humaine qui a envahi les consciences jusqu’à contaminer même la biosphère dont la vie dépend.
Avec l’abandon des sociétés organiques et le début de l’enrichissement productiviste, le lent et contrasté processus de civilisation des êtres humains a bifurqué vers diverses formes de suprématisme (certaines supportables, d’autres plus agressives) qui ont déchiré le tissu humain de l’espèce fait d’entraide, de solidarité et de créativité au service de la puissance de jouir ensemble, puissance orgastique capable de transformer les familles, les clans et d’autres groupes affinitaires en communautés humaines d’individus libres.
Cette liberté, fondée sur une centralité féminine acratique qui avait marqué bon nombre des premiers groupes du singe humanoïde[3], a été agressée, puis réduite au silence par la domination de genre et de classe qui a transformé l’agriculture de subsistance en une agriculture productiviste. Car, si la découverte de l’agriculture fut une révolution bénéfique pour des êtres humains limités à la cueillette et à la chasse, le passage à une agriculture productiviste a bouleversé les équilibres d’une communauté humaine encore fragile, en introduisant une machine de guerre que le patriarcat a saisi. Non sans difficulté, toutefois, parce que l’espèce humaine a refusé pendant plusieurs millénaires[4] d’inventer le travail en se soumettant à ses lois. Cette activité forcée à des fins économiques n’existait pas, en fait, avant que l’humanité se plie à l’idéologie productiviste dont le suprématisme a inventé comment « faire du blé ». Le passage des diverses activités de la vie – agréables ou fatigantes – au travail, fut une alchimie perverse qui a transmuté les céréales en or. L’argent, équivalent général des échanges marchands, apparut, avec les corollaires de l’esclavage – nécessaire à assujettir et exploiter les premiers travailleurs de l’histoire humaine – et la soumission définitive des femmes.
Ceci est aujourd’hui le pire ennemi de l’humanité : le projet théologique de l’économie politique dont l’argent est le culte répandu par le mythe d’une croissance sans fin dans un monde fini. Il ne sera pas utile à grand-chose de se libérer du coronavirus si on ne décidera pas de lutter contre la peste émotionnelle véhiculée par le productivisme et par la croissance économique dont il est dépendant. Voilà l’ennemi absolu, mais pour le combattre d’un point de vue humain, on doit en même temps se garder des ennemis spectaculaires du spectacle social. Car si l’objectif final est bien la sortie du productivisme et la refondation de sociétés organiques capables de promouvoir la communauté humaine, il ne servira à rien de se battre contre l’aliénation en continuant à le faire par des méthodes aliénées.
Car la force intrinsèque du Léviathan productiviste et de la societé di spectacle dont il profite, est que ses opposants aussi tombent dans le piège de reproduire les mêmes schémas de comportement qu’ils prétendent de combattre. Pour cela je m’insurge, comme je peux, contre l’intellectualisme qui est, selon moi, le véritable pivot de la critique aliénée. Malade lui aussi d’un suprématisme soi-disant subversif, il pollue du début le mouvement révolutionnaire de l’époque moderne.
Toujours en se référant à W. Reich, dont la qualité de recherche a été effacée, mais reste précieuse pour ceux qui l’ont lu sans enfourcher les lentilles de l’idéologie sexophobique, le mysticisme est une lecture tordue et paranoïaque de la réalité sévissant autant par un approche spiritualiste que matérialiste du réel. Au mysticisme de l’inquisition catholique, soi-disant fraternelle, a répondu, dans une continuité exemplaire, celui de la bureaucratie communiste, soi disant soviétique. Le spiritualisme des uns (tous les monothéismes, sans exceptions, ont été à l’origine de massacres au nom de Dieu, mais même les dictateurs directement au service de l’économie politique, De Franco à Pinochet, ont toujours mélangé avec brio, les agenouillements sacrés et la torture des opposants) a cherché la communauté dans l’extermination des hérétiques. En revanche, le matérialisme des autres a cherché le communisme dans les exécutions sommaires, dans la Lubianka et dans les camps en Sibérie (mais en Cambodge non plus on n’a pas rigolé, ni en Chine on rigole encore maintenant, pour ne citer que deux des crimes contre l’humanité les plus réussis).
Evidemment, maintenant presque plus personne ne se revendique du stalinisme ou du nazisme, exceptés, peut-être, quelques « intellectuels » démentiels, plus intellectuels que les autres car malades dans la tète (justement à cause de l’énorme dimension de celle-ci, une fois séparée du corps). Le vrai mythe de la societé du spectacle est la démocratie parlementaire qui incarne l’arnaque des suprématistes les plus flexibles : chaque brebis est son propre chien. Qui a encore besoin de chiens de berger ? Oui, quelques robocops avec pistolet, fusil et matraque, juste au cas où !


Expo 2020, a Dubai presentato il primo robot poliziotto - YouTube
Puisque l’antifascisme fait désormais partie des dogmes hypocrites de la societé du spectacle, même le Marché et l’Etat dont le fascisme est le sbire, peuvent être critiqués, mais uniquement séparément, jamais ensemble en tant que complices du productivisme, afin de sauver toujours le Léviathan qui se nourrit des deux. D’ailleurs, tous s’accordent, désormais, même les libéraux, qu’il ne faut pas exagérer avec le Marché ; le Léviathan étatiste retrouve ainsi, à droite comme à gauche, les adeptes qu’il n’avait jamais perdus. On critique l’Etat méchant dont il est normal de se méfier, afin de mieux célébrer le bon, celui mâle qui protège des méchants la nation femelle (exactement comme le mâle dominant dégouline d’un amour de macro pour sa femme exploitée, soumise et humiliée). On nous raconte que « l’Etat c’est nous », on doit, donc, le soutenir, l’aimer et le défendre contre ces fous anarchistes, sans Dieu ni maître !
Or, moi qui ne suis pas anarchiste, mais acratique, je n’arrive pas à rire de cette peste émotionnelle répandue par le patriarcat qu’est la servitude volontaire. Répandue du souverainisme de droite fascisant au gauchisme de l’ultra gauche, celle-ci critique avec terreur ou paternalisme, mais toujours avec esprit borné et souvent avec une violence aveugle, l’hypothèse d’une autogestion généralisée de la vie quotidienne qui refuse de se soumettre à tout bellicisme militarisé autant qu’à tout conformisme.
Je ne ris pas et même je m’inquiète, car le côté gauche (dans tous les sens du terme) de cette aliénation théorique sert le Léviathan, autant sinon mieux, que ses soumis réactionnaires bien aimés. Des cendres de la gauche humanitaire reste le fait que nous avons rêvé ensemble, mélangés en vrac, mais surtout dans la confusion et l’idéologie, une révolution sociale qui nous rend tous libres et égaux. Néanmoins, comme Orwell nous a fait remarquer, on a toujours crée des situations où certains étaient plus égaux que les autres en s’étant appropriés du pouvoir de l’egalité de façon suprématiste.
Il ne suffit pas d’abhorrer Staline pour ne pas tomber dans le fascisme rouge déjà dénoncé en 1933 par Reich comme le côté pile de la médaille dont le nazi-fascisme était le côté face. Comme a écrit Ernst Bloch : « Derrière le citoyen se cachait le bourgeois, Dieu nous sauve de qui se cache derrière le camarade ». Or, la seule manière de se sauver du camarade qui est en nous, c’est de l’être tous ensemble en toute autonomie, selon des schémas anciens que l’humanité, encore primitive, peut-être, mais moins bête que nous et notre progrès, a toujours pratiqué.
Des assemblées locales constituées à partir de groupes spontanés d’affinité où tout le pouvoir se dilue et est partagé par le dialogue jusqu’à se transformer en des décisions communes, non pas plébiscitaires mais consensuelles. Capables, donc, de porter les projets partagés et de réduire, délayer et si possible abolir, les dissensions inconciliables. Le tout sur la base d’une autonomie qui rend impossible toute suprématie. Non pas un système parfait, soyons clair, mais celui plus adapté à une communauté qui cherche à exister et évoluer sans hiérarchies ni frustrations majeures, dans le but de l’autogestion généralisée de la vie quotidienne.
Ce système imparfait, mais moins que tous les autres, avec son étique amorale, est le seul qui refuse le moindre suprématisme hiérarchique, toute injustice, toute violence, fusse-t-elle révolutionnaire. Il n’est pas question de l’inventer, mais de le retrouver et le réélaborer à la lumière des enseignements de l’histoire pour l’adapter à une modernité objective (le temps ne passe jamais pour rien), mais pas subie. Il faudra, donc, prendre aussi en compte une croissance démographique insensée de l’espèce humaine. Insensée mais désormais factuelle, qui complique la situation sans rendre pourtant impossibles les solutions. La réalité sociale est complexe, même compliquée, mais résoluble par une conscience collective décidée à s’y confronter. On a encore de l’espace, mais il est urgent de le socialiser et non pas le privatiser, de protéger les biens communs et arrêter de les donner au Marché ; lequel, d’ailleurs, devra arrêter d’exister dans les formes productivistes pour retrouver le centre du village (le square, l’agora) comme lieu du don qui s’échange par amour de la vie et du bien commun, non pas par intérêt économique suprématiste.
Le problème central, donc, est la logique suprématiste qui empeste la planète et contre laquelle il n’est pas question d’être gentils, moraux et condescendants, mais autonomes, décidés, et clairvoyants, c'est-à-dire des sujets conscients d’une communauté en devenir ; des individus capables de jouissance avec ou sans les autres, mais jamais contre eux, finalement capables de libérer la parole et la pratique de la jouissance de la réification aliénée que les femmes et les hommes ont subi pendant des millénaires.
Dans l’histoire contemporaine, la publicité marchande de la jouissance est devenue une peste idéologique qui a hypnotisé les consommateurs jusqu’à faire miroiter à leurs yeux, plus gros que leur ventre, des besoins artificiels qui n’ont jamais été des vrais désirs. Et encore une fois, l’ami Wilhelm Reich, cet original qui, selon Freud, prétendait de soigner la maladie humaine par l’orgasme, nous indique une piste. Non pas celle d’une sexualité réduite à une marchandise où les « investissements émotionnels » ne peuvent qu’aboutir à une « banque du sperme », puisque l’irruption de la morale sexuelle marchande a bloqué la faculté naturelle de relaxer sa musculature involontaire ; celle, en revanche, de la dépense vitale, de la décharge émotionnelle et physiologique non pas uniquement des affinités sexuelles partagées, mais, plus précisément, de l’énergie vitale qui a toujours dansé avec la nature de mille manières differentes : de l’art au savoir-faire, de la créativité appliquée à la poésie à la poésie appliquée à la créativité.
Qui veut combattre le productivisme ne peut plus se contenter de le critiquer se positionnant du point de vue de sa suprématie intellectuelle présumée, dernière bave sénile d’une idéologie révolutionnaire parcheminée, sans en proposer le dépassement concret à pratiquer immédiatement dans ses propres relations personnelles. Car, le seul dépassement possible du productivisme passe par l’ostracisme radical envers tout suprématisme. Assez du capitalisme, mais aussi des intellectuels révolutionnaires qui nous font la morale au nom d’une lucidité impuissante qui ressemble étrangement au pouvoir minable des kapos. Assez de la critique-critique de ceux qui dénoncent sur leur livre sacré de prophètes du discours (ou plutôt, désormais sur l’ordinateur où ils tapotent avec le Nick Name de Napalm 50 o 68, c’est pareil), la responsabilité des autres dans le triomphe du mal, de l’injustice, de la tyrannie, sans proposer le moindre acte constructif d’entraide, de solidarité, de mutation radicale dans la gestion collective de la vie quotidienne.
Apprenons, donc, de nos malheurs actuels dus au coronavirus. Dans le péril, une humanité émouvante est réapparue, riche d’une complicité généreuse entre les nombreuses victimes et les soignants, victimes eux aussi. Dans la résilience qui s’annonce, apprenons à retrouver notre chance d’être vivants : appliquons la grève générale des consommations inutiles et nuisibles, du travail inutile et nuisible ; libérons-nous des activités aliénées et nocives au nom de la vie à affirmer et non pas uniquement pour empêcher que le coronavirus nous infecte. Utilisons les mêmes méthodes utilisées par nécessité contre la petite peste pour combattre celle plus grande qui l’a favorisée et précédée.
On se libérera, peut-être, rien n’est sur, du vieux monde uniquement en commençant ensemble, à peine sortis du confinement, à sortir aussi, en même temps, de l’univers concentrationnaire du productivisme et de sa critique spectaculaire. Comment et par quoi commencer ? C’est justement de cela qu’on doit discuter ensemble dés maintenant, pour ne pas perdre le temps qu’on n’a plus et pour pratiquer le plus tôt possible la théorie.
L’humanité a devant elle le cauchemar d’une chose dont elle manque uniquement de la conscience pour pouvoir l’éviter.


Sergio Ghirardi, 12 4 2020, en laissant tomber l’œuf, mais gardant la surprise




Ou la Bourse (le CAC 40) ou la vie !



[1] Neveux de Sigmund Freud (1891-1995) qui a mis au service des multinationales productivistes (celle du tabac, en particulier) les découvertes de l’oncle fameux concernant les mécanismes psychiques et la possibilité de les manipuler.
[2] C’était le temps où beaucoup d’individus de tous âges, mais surtout les plus jeunes, s’étaient insurgés pour se libérer du productivisme qui commençait à les étouffer. Mai 68, au-delà du mythe, de la falsification et de la manipulation qu’il a subi, est, encore aujourd’hui, le symbole de ce phénomène qui a marqué une époque.
[3] Amargi est le terme archaïque plus ancien pour dire liberté. En sumérien il signifie : retour à la mère. A propos des sociétés matri centriques préhistoriques et des multiples invasions Kurgan qui les ont terrassées en imposant dans toute l’Europe ancienne le patriarcat, consulter l’énorme travail de Marija Gimbutas pendant plusieurs décennies.
[4] Les premiers signes d’une agriculture de subsistance sont apparus environ autour de 9000 AC, alors que les premières cités-Etat productivistes remontent au cinquième millénaire AC.