sabato 12 settembre 2020

Come cambiare il corso della storia umana (almeno, la parte della storia già accaduta) - di David Graeber e David Wengrow

 David Graeber, Caustic Critic of Inequality, Is Dead at 59 - The New York  Times

Ripubblico questo testo che ho trovato così importante e ricco di spunti di riflessione nuovi e geniali come era tipico di David Graeber, che ho sempre considerato un fratello nelle idee e che è purtroppo venuto a mancare il 2 settembre, e ringrazio il blog di Franco Senia da cui l'ho copiato

 

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1. In principio c'era la parola

Per secoli ci siamo raccontati una storia semplice riguardo le origini della disuguaglianza sociale. Per la maggior parte della loro storia, gli esseri umani avevano vissuto in piccole bande egualitarie di cacciatori-raccoglitori. Poi arrivò l'agricoltura, che portò con sé la proprietà privata, e quindi l'ascesa delle città, cosa che significò anche l'emergere della civiltà propriamente detta. Civiltà ha significato molte cose cattive (guerre, tasse, burocrazia, patriarcato, schiavitù...) ma ha reso anche possibile la letteratura scritta, la scienza, la filosofia, e molte altre grandi conquiste umane.

Quasi ciascuno di noi conosce questa storia nella sua versione più estesa. E questo succede almeno dai tempi in cui Jean-Jacques Rousseau ha cominciato a tracciare il quadro d'insieme di quello che pensiamo e della direzione presa dalla storia umana. Ciò è importante in quanto la narrativa definisce anche il nostro senso di possibilità politica. La maggior parte di noi vede la civiltà, e quindi la disuguaglianza, come se fosse una tragica necessità. Alcuni sognano di poter tornare ad una qualche utopia del passato, sognano di trovare un equivalente industriale del "comunismo primitivo", oppure anche, in casi estremi, di distruggere ogni cosa e poter tornare così ad essere nuovamente raccoglitori. Ma non c'è nessuno in grado di sfidare quella che è la struttura di base della storia. Solo che in questa narrazione c'è un problema fondamentale. È falsa!

Le prove schiaccianti fornite dall'archeologia, dall'antropologia e dalle discipline affini, hanno cominciato a dare un'idea abbastanza chiara di ciò a cui hanno davvero assomigliato gli ultimi 40mila anni di storia umana, e quasi in nessun tutto questo sembra possa somigliare a quello che ha raccontato la narrativa convenzionale. Infatti, la nostra specie non ha affatto trascorso la maggior parte della sua storia in piccole bande; l'agricoltura non ha segnato alcuna soglia irreversibile concernente l'evoluzione sociale; le prime città sono state assai spesso fortemente egualitarie. Eppure, anche se i ricercatori sono gradualmente arrivati ad avere un certo consenso su tali questioni, rimangono stranamente riluttanti ad annunciare le loro scoperte al pubblico - o persino di annunciarle a studiosi di altre discipline - e ancor meno sembrano propensi a riflettere sulle implicazioni politiche più ampie. Come risultato, tutti quegli scrittori che stanno riflettendo sulle "grandi questioni" della storia umana - Jared Diamond, Francis Fukuyama, Ian Morris, ed altri - continuano a considerare la questione di Rousseau ("Qual è l'origine della disuguaglianza sociale?") come se fosse un punto di partenza, e lasciano suppore che la storia, in senso più ampio, dovrà cominciare con una qualche sorta di perdita dell'innocenza primordiale. Semplicemente, continuare ad inquadrare la questione in tal modo significa partire da una serie di assunti, secondo i quali:

1 - Esiste una cosa chiamata "ineguaglianza", 2 - Che questo è un problema, e che 3 - C'è stato un tempo in cui non esisteva.

Naturalmente, in seguito al collasso finanziario del 2008, e a partire dagli sconvolgimenti che ne sono conseguiti, il "problema della disuguaglianza sociale" è stato posto al centro del dibattito politico. Sembra esserci un consenso, fra la classe intellettuale e quella politica, sul fatto che i livelli di disuguaglianza sociale siano andati fuori controllo, e che da questo derivino la più parte dei problemi del mondo, in un modo o nell'altro. Sottolineare questo, viene visto come una sfida alla struttura del potere globale, ma la cosa va paragonata al modo in cui simili problemi sono stati affrontati una generazione prima. Oggi, diversamente da allora - quando si faceva uso di termini come "capitale" o come "potere di classe" - la parola "uguaglianza" viene praticamente concepita perché possa condurre alle mezze misure ed al compromesso. Possiamo anche riuscire ad immaginare di rovesciare il capitalismo e di spezzare il potere dello Stato, ma è molto difficile immaginare di eliminare la "disuguaglianza". In realtà, non è affatto ovvio che cosa questo potrebbe significare, dal momento che le persone non sono tutte uguali e sembra non esserci nessuno che vorrebbe che lo fossero.

"Disuguaglianza" è un modo di inquadrare i problemi sociali in una maniera che sia adeguata per i riformisti tecnocratici, quel genere di persone che hanno assunto da subito che qualsiasi visione reale di trasformazione sociale è stata da tempo eliminata dal tavolo politico. È una cosa che ci permette di armeggiare con i numeri, di discutere del coefficiente Gini e delle soglie di disfunzione, aggiustare il regime fiscale e i meccanismi di protezione sociale, persino arrivare a scioccare l'opinione pubblica per mezzo di cifre in grado di mostrare fino a che punto stiano andando male le cose («riuscite ad immaginarlo? Lo 0,1% della popolazione mondiale controlla più del 50% della ricchezza!»), e tutto questo avviene senza che venga affrontato nessuno di quei fattori che le persone attualmente ritengono siano causa di "disuguaglianza": per esempio, il fatto che alcuni riescono a trasformare la loro ricchezza in potere sugli altri; oppure che altre persone finiscano per sentirsi dire che i loro bisogni non sono importanti, e che le loro vite non hanno alcun valore intrinseco. E quest'ultima cosa - ci dovremmo credere - è solo l'effetto inevitabile della disuguaglianza e dell'inuguaglianza, l'inevitabile risultato dovuto al fatto di vivere in una qualsiasi grande, complessa, urbana, tecnologicamente sofisticata società. È questo il vero messaggio politico che viene continuamente ripetuto, attraverso l'infinita evocazione di un'immaginaria età dell'innocenza, prima dell'invenzione della disuguaglianza: se vogliamo sbarazzarci completamente di un simile problema, dobbiamo sbarazzarci in qualche modo del 99,9% della popolazione mondiale e tornare ad essere nuovamente delle sparute bande di raccoglitori. Diversamente, la cosa migliore in cui possiamo sperare per noi riguarda la dimensione, la taglia, dello stivale che colpirà le nostre facce, per sempre, oppure, forse, la possibilità di ritagliare un po' di spazio di manovra in più, grazie al quale alcuni di noi potranno evitare di essere colpiti, almeno temporaneamente.

Sembra che ora la scienza sociale ufficiale sia stata mobilitata per rafforzare questo senso di disperazione. Quasi mensilmente, ci confrontiamo con delle pubblicazioni che cercano di proiettare nell'età della pietra quella che è la nostra ossessione riguardo la distribuzione della proprietà, ponendoci alla falsa ricerca di "società egualitarie", definite in una maniera secondo la quale esse non avrebbero potuto esistere al di fuori di alcune piccole bande di raccoglitori (e possibilmente, neppure così). Perciò, quello che faremo in questo saggio sono due cose. In primo luogo, impiegheremo un po' di tempo a selezionare quello che passa per essere un'opinione informata su tali argomenti, per far vedere come si gioca a questo gioco, e come anche gli studiosi contemporanei apparentemente più sofisticati finiscano per riprodurre la medesima saggezza convenzionale che esisteva in Francia ed in Scozia, diciamo, nel 1760. Dopo di che, cercheremo di stabilire le basi iniziali di una narrazione completamente differente. In questo modo, si tratta principalmente di svolgere un lavoro di pulizia del terreno. Le domande con le quali abbiamo a che fare sono enormi, e le questioni sono talmente importanti che occorreranno anni di ricerca e di dibattito, solo per cominciare a capire pienamente quali sono le implicazioni. Ma su una cosa insistiamo. Abbandonare la storia della perdita di un'innocenza primordiale non significa abbandonare i sogni di un'emancipazione umana - vale a dire, di una società nella quale nessuno può trasformare i propri diritti in proprietà e in un modo di rendere schiavi gli altri, e nella quale a nessuno può essere detto che la sua vita e i suoi bisogni non contano. Al contrario. La storia umana diventa un posto molto più interessante, che contiene molti più momenti di speranza di quanti siamo stati portati ad immaginare, una volta che abbiamo imparato a liberarci dalle nostre catene concettuali e a percepire cosa esiste realmente.

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2. Gli autori contemporanei sulle origini della disuguaglianza sociale; ovvero, l'eterno ritorno di Jean-Jacques Rousseau

Mentre si alza il sipario sulla storia umana - diciamo, più o meno duecentomila anni fa, con l'apparire dell'anatomicamente moderno Homo sapiens - vediamo la nostra specie che vive in piccole e mobili bande che vanno dai venti ai quaranta individui. Sono alla ricerca di territori ottimali per la caccia e la raccolta, inseguendo branchi, raccogliendo noci e bacche. Nel momento in cui le risorse scarseggiano, oppure insorgono tensioni sociali, reagiscono andando avanti, e andando altrove. Per questi primi esseri umani - possiamo pensare a loro come all'infanzia dell'umanità - la vita è piena di pericoli, ma anche di possibilità. I beni materiali sono pochi, ma il mondo è un luogo incontaminato ed invitante. La maggior parte degli uomini lavora solo per poche ore al giorno, e le piccole dimensioni dei gruppi sociali consentono loro di mantenere una sorta di facile cameratismo, senza strutture formali di dominio. Rousseau, scrivendo nel XVIII secolo, si riferiva a questo come a «lo Stato della Natura», ma al giorno d'oggi si presume che esso abbia compreso la maggior parte della storia attuale della nostra specie. Si assume inoltre che essa sia stata l'unica era nella quale gli esseri umani si siano impegnati a vivere in vere e proprie società di uguali, senza classi, caste, leader ereditari, o governi centralizzati.

Ma purtroppo questo felice stato di cose è dovuto arrivare alla fine. La nostra versione convenzionale della storia del mondo colloca questo momento a circa diecimila anni fa, alla fine dell'ultima era glaciale.

In quel momento, troviamo i nostri immaginari attori umani sparsi per i continenti del mondo, mentre stanno cominciando a coltivare i loro raccolti e ad allevare le loro greggi. Quale che siano state le ragioni locali (su questo c'è un dibattito), gli effetti sono di enorme importanza, e sono fondamentalmente uguali ovunque. Le dislocazioni territoriali e la proprietà privata dei beni diventano importanti in modi che erano prima di allora sconosciuti, e insieme a questo avvengono faide sporadiche e guerre. La coltivazione garantisce un surplus di cibo, che consente ad alcuni di accumulare ricchezza ed influenza al di là del loro immediato gruppo familiare. Altri fanno uso della loro libertà rispetto alla ricerca del cibo per sviluppare nuove abilità, come l'invenzione di armi più sofisticate, strumenti, veicoli, e fortificazioni, oppure per dedicarsi alla politica e a religioni organizzate. Di conseguenza, questi "agricoltori neolitici" prendono ben presto le misure ai loro vicini cacciatori-raccoglitori, e si risolvono ad eliminarli o ad assorbirli all'interno di un nuovo e superiore - sebbene meno uguale - stile di vita.

Per rendere le cose ancora più difficoltose, o almeno così dice la storia, l'agricoltura assicura una crescita globale della popolazione. Man mano che la gente si sposta verso concentrazioni sempre più ampie, i nostri inconsapevoli antenati fanno un altro irreversibile passo verso la disuguaglianza, e così, circa 6.000 anni fa, appaiono le città - e il nostro destino è segnato. Insieme alle città arriva la necessità di un governo centralizzato. Nuove classi di burocrati, preti, e guerrieri-politici si installano in uffici permanenti al fine di mantenere l'ordine e garantire il regolare afflusso di rifornimenti e di servizi pubblici. Le donne, che prima godevano di ruoli importanti negli affari umani, vengono sequestrate, oppure imprigionate negli harem. I prigionieri di guerra vengono ridotti a schiavi. È arrivata la disuguaglianza in piena regola, e non c'è modo di eliminarla. Eppure, ci assicurano sempre i contastorie, non sempre è tutto male quello che riguarda l'ascesa della civiltà urbana. Viene inventata la scrittura, dapprima per tenere la contabilità dello Stato, ma poi questo permette che avvengano degli enormi progressi nella scienza, nella tecnologia, e nelle arti. Al prezzo dell'innocenza, siamo diventati i nostri noi stessi moderni, ed ora possiamo limitarci a guardare con pietà e gelosia tutte quelle poche società "tradizionali" o "primitive" che in qualche modo hanno perso il treno.

È questa la storia che, come abbiamo detto, forma le fondamenta di tutto il dibattito contemporaneo sulla disuguaglianza, Se dico che un esperto in relazioni internazionali, o uno psicologo clinico, desidera riflettere su tali argomenti, è probabile che egli dia per scontato che per la più parte della storia umana abbiamo vissuto facendo parte di piccole bande egalitarie, o che l'ascesa delle città ha significato anche quella dello Stato. E la stessa cosa è vera anche per i libri più recenti che cercano di dare uno sguardo all'ampio spettro della preistoria, al fine di trarre delle conclusioni politiche rilevanti per la vita contemporanea. Si prenda, di Francis Fukuyama, "The Origins of Political Order: From Prehuman Times to the French Revolution":

«Nelle sue fasi iniziali, l'organizzazione politica umana è simile alla società, a livello di banda, che si può osservare nei primati superiori come gli scimpanzé. Questa può essere considerata come una forma predefinita di organizzazione sociale... Rousseau ha sottolineato che l'origine della disuguaglianza politica risiede nello sviluppo dell'agricoltura, e in questo aveva in gran misura ragione. Dal momento che le società a livello di banda sono pre-agricole, in esse non esiste nessuna proprietà privata in senso moderno. Come per le bande di scimpanzé, i cacciatori-raccoglitori abitano un raggio territoriale che essi custodiscono e nel quale occasionalmente combattono. Ma hanno un incentivo minore rispetto a quello che hanno gli agricoltori a tracciare un pezzo di terra e dire "questo è mio", Se il loro territorio viene invaso da un altro gruppo, o se viene infiltrato da pericolosi predatori, le società a livello di banda possono avere l'opzione di spostarsi semplicemente da qualche altra parte a causa della bassa densità di popolazione. Le società a livello di banda sono altamente egualitarie... La leadership viene attribuita agli individui sulla base di qualità come la forza, l'intelligenza, e l'affidabilità, ma tende a migrare da un individuo ad un altro.»

Jared Diamond, ne "Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?", suggerisce che tali bande (nelle quali egli ritiene che gli umani vivessero ancora recentemente, fino a circa 11.000 anni fa) comprendevano «solo fino a poche decine di individui», per lo più biologicamente correlati. Conducevano un'esistenza abbastanza misera, «cacciando qualsiasi tipo di animale selvaggio e raccogliendo qualsiasi specie vegetale che vivesse in un ettaro di foresta». (Perché fosse solo un ettaro, questo non lo spiega mai). E la loro vita sociale, secondo Diamond, era invidiabilmente semplice. Le decisioni venivano prese in seguito a «discussioni faccia a faccia»; c'erano «pochi averi personali», e non esisteva «alcuna leadership formale o forte specializzazione economica». Diamond conclude dicendo che, purtroppo, è stato solo all'interno di simili raggruppamenti primordiali che gli esseri umani hanno potuto raggiungere un grado significativo di uguaglianza sociale.

Per Diamond e Fukuyama, così come per Rousseau alcuni secoli prima, ciò che pose fine a quell'uguaglianza - dappertutto e per sempre - fu l'invenzione dell'agricoltura, ed il più alto livello di popolazione da questa sostenuto. L'agricoltura determinò una transizione dalle "bande" alle "tribù". L'accumulazione delle eccedenza di cibo alimentò la crescita della popolazione, portando alcune "tribù" a svilupparsi in società strutturare conosciute come "Chiefdoms" [Domini]. Fukuyama dipinge un quadro quasi biblico, una partenza dall'Eden: «Nel momento in cui bande di esseri umani migravano e si adattavano ad ambienti differenti, davano inizio alla loro uscita dallo Stato di Natura, sviluppando nuove istituzioni sociali». Combattevano guerre per accaparrarsi risorse. Come adolescenti allampanati, queste società stavano andando a cacciarsi nei guai. Era arrivato il tempo di crescere, di nominare una vera e propria leadership. Nel giro di poco tempo, i capi si erano proclamati re, perfino imperatori. Non aveva senso resistere. Dal momento che gli essere umani avevano adottato grandi e complesse forme di organizzazione, tutto questo era inevitabile. Anche quando i leader ebbero cominciato a comportarsi male - scremando il surplus agricolo per promuovere i loro leccapiedi e i loro parenti, rendendo il loro status permanente ed ereditario, collezionando teste come se fossero trofei ed harem di ragazze schiave, oppure strappando il cuore dei rivali per mezzo di coltelli di ossidiana - non si poteva più tornare indietro. «Grandi popolazioni» - opina Diamond - «non possono funzionare senza dei leader che prendano le decisioni, e senza i burocrati che amministrano le decisioni e le leggi. Purtroppo per tutti quei lettori che sono anarchici e sognano di vivere senza alcun governo statale, sono queste le ragioni per cui il vostro sogno è irrealistico: dovrete trovare qualche piccola banda o tribù disposta ad accettarvi, dove nessuno è uno straniero, e dove re, presidenti, e burocrati sono inutili».

Una trista conclusione, questa, non solo per gli anarchici, ma per chiunque si sia mai chiesto se potesse esserci qualche valida alternativa allo status quo. Ma ciò che è notevole, nonostante il tono compiaciuto, è che tali dichiarazioni in realtà non si basano su alcun genere di prova scientifica. Non c'è alcun motivo per credere che i gruppi su piccola scala siano particolarmente inclini all'egualitarismo, oppure che i gruppi su larga scala debbano avere necessariamente re, presidenti, o burocrazie. Sono semplicemente dei pregiudizi che vengono dichiarati come se fossero dei fatti.

Nel caso di Fukuyama e Diamond si può, quanto meno, notare che entrambi non si sono mai formati in discipline rilevanti (il primo è uno scienziato politico, mentre l'altro ha un dottorato di ricerca sulla fisiologia della cistifellea). Tuttavia, anche quando sono gli antropologhi e gli archeologhi a cimentarsi nella narrazione del "grande quadro", essi hanno una strana tendenza a finire per ritrovarsi con una qualche simile variazione minore su Rousseau. Ne "The Creation of Inequality: How our Prehistoric Ancestors Set the Stage for Monarchy, Slavery, and Empire", Kent Flannery e Joyce Marcus, due studiosi eminentemente qualificati, utilizzano circa cinquecento pagine di casi di studi etnografici ed archeologici per cercare di risolvere il puzzle. Ammettono che i nostri antenati dell'Era Glaciale non erano del tutto estranei alle istituzioni della gerarchia e della servitù, ma insistono sul fatto che ne hanno fatto più che altro esperienza soprattutto per quel che concernevano i loro rapporti con il soprannaturale (spiriti ancestrali, e cose del genere). Hanno proposto che l'invenzione dell'agricoltura avrebbe portato all'emergere di "clan" o di "gruppi di discendenza" demograficamente estesi, e quindi l'accesso agli spiriti e alla morte è diventata una strada per il potere terreno (in che modo, esattamente, non viene chiarito). Secondo Flannery e Marcus, il successivo passo importante sulla strada della disuguaglianza si è compiuto quando alcuni uomini del clan di inusuale talento o fama - guaritori esperti, guerrieri e altre persone di successo - si sono garantiti il diritto a trasmettere i loro status ai propri discendenti, a prescindere dal talento o delle abilità di questi ultimi. Tutto questo praticamente seminò i semi, e da quel momento in poi era solo questione di tempo prima dell'arrivo delle città, della monarchia, della schiavitù e dell'impero.

La cosa strana per quel che riguarda il libro di Flannery e Marcus è che solo con la nascita di Stati ed imperi essi portano una qualche prova archeologica. Nel loro racconto, invece, tutti i momenti chiave della "creazione della disuguaglianza" si basano su descrizioni relativamente recenti di raccoglitori su piccola scala, allevatori e coltivatori come gli Hazda del Rift dell'Africa orientale, o dei Nambikwara della foresta pluviale amazzonica. I racconti relativi a simili "società tradizionali" vengono trattati come se fossero delle finestre sul passato paleolitico o neolitico. Il problema consiste nel fatto che non sono niente del genere. Gli Hadza o i Nambikwara non sono dei fossili viventi. Sono stati in contatto con gli Stati agrari e con gli imperi, con razziatori e commercianti, per millenni, e le loro istituzioni sociali sono state decisamente influenzate dai tentativi di coinvolgerli, o di evitarli. Solo l'archeologia può dirci che cosa, se lo hanno, hanno in comune con le società preistoriche. Così, mentre Flannery e Marcus forniscono ogni sorta di interessanti intuizioni su come le disuguaglianze siano emerse nelle società umane, ci danno ben poche ragioni per poter credere che sia stato questo il modo in cui sarebbe realmente avvenuto.

Infine, prendiamo in considerazione "Foragers, Farmers, and Fossil Fuels: How Human Values Evolve" di Morris. Morris persegue un progetto intellettuale leggermente differente: portare i risultati ottenuti in Archeologia, Storia antica, ed Antropologia, a dialogare con il lavoro di economisti come Thomas Piketty sulle cause della disuguaglianza nel mondo moderno, o con quello di Sir Tony Atkinson più orientato in senso politico: "Inequality: What can be Done?". Morris ci informa a proposito del fatto che il "tempo profondo" della storia umana ha da dirci qualcosa di importante su tali questioni - ma solo se prima stabiliamo una misura uniforme della disuguaglianza in grado di essere applicata per tutto l'arco della sua durata. Questo può essere raggiunto traducendo il "valore" dei cacciatori-raccoglitori dell'era glaciale e quello degli agricoltori neolitici in termini che siano familiari ai moderni economisti, e quindi usando questi termini per poter stabilire quali sono i coefficienti Gini, o il tasso di disuguaglianza formale.

Al posto delle iniquità spirituali evidenziate da Flannery e Marcus, Morris ci offre una visione materialista e non apologetica, che divide la storia umana nelle tre grandi "F" [Foragers, Farmers, e Fossil Fuels] del titolo del suo libro, a seconda di come viene incanalato il calore. Morris suggerisce che tutte le società hanno un livello "ottimale" di disuguaglianza sociale - un "livello spirituale" incorporato, se vogliamo usare i termini di Pickett e Wilkinson - che è appropriato alla modalità prevalente secondo cui viene estratta l'energia.

In un articolo scritto per il New York Times [‘To Each Age Its Inequality’ by Ian Morris. New York Times, 9 July 2015. Vedi: https://www.nytimes.com/2015/07/10/opinion/to-each-age-its-inequality.html ] Morris ci fornisce effettivamente i numeri, per mezzo dei quali quantifica i redditi primordiali in dollari americani, ancorandoli all'indice valutario del 1990. Anche lui assume che i cacciatori-raccoglitori dell'ultima era glaciale vivessero per lo più in piccole bande mobili. Di conseguenza, consumavamo ben poco - l'equivalente, suggerisce, di $1,10 al giorno. Di conseguenza, godevano anche un coefficiente Gini equivalente a circa lo 0.25 - vale a dire, il minimo - dal momento che per qualsivoglia élite c'era ben poca eccedenza di capitale di cui impadronirsi. Le società agrarie - e per Morris questo include tutto quello che va dal villaggio neolitico di Çatalhöyük risalente a 9.000 anni fa, alla Cina di Kublai Khan o fino alla Francia di Luigi XIV - erano più popolose e migliori, con un consumo medio di 1,50 - 2,20 $ al giorno per persona, e con una propensione ad accumulare eccedenza di ricchezza. Ma è anche vero che le persone lavoravano più duramente, ed in condizioni segnatamente inferiori, e quindi le società agrarie tendevano ad avere un livello di disuguaglianza molto più alto.

Le società alimentate da combustibili fossili avrebbero dovuto cambiare realmente tutto questo liberandoci dalla fatica del lavoro manuale, e riportandoci verso dei coefficienti Gini più ragionevoli, più vicini a quelli dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori - e per un po' sembrò davvero che questo stesse cominciando a succedere, ma poi per qualche strana ragione che Morris non comprende del tutto, le cose sono andate di nuovo a rovescio e ancora una volta la ricchezza è andata a finire risucchiata nelle mani di una piccola élite globale:

«Secondo i rivolgimenti avvenuti sulla scena della storia economica negli ultimi 15.000 anni, sembra che il livello "giusto" di una disuguaglianza corretta fiscalmente sia compreso fra 0.25 e 0.35, e quello di una disuguaglianza di ricchezza si situi fra 0.70 e 0.80. Oggi, molti paesi si trovano al di sopra dei limiti superiori di questi intervalli, il che suggerisce che il signor Picketty abbia davvero ragione a prevedere guai.»

Lasciamo perdere le ricette di Morris, e limitiamoci a concentrarci su una sola cifra: il reddito paleolitico di 1,10 $ al giorno. Esattamente, da dove proviene questa cifra? Presumibilmente, questi calcoli hanno qualcosa a che fare con il valore calorico dell'assunzione giornaliera di cibo. Ma se noi lo paragoniamo al reddito giornaliero odierno, non dovremmo allora considerare anche tutte le altre cose che i raccoglitori paleolitici ottenevano gratuitamente, e che invece noi ci aspettiamo di dover pagare? Sicurezza gratuita, risoluzione delle controversie gratuita, istruzione primaria gratuita, cura gratuita degli anziani, cure mediche gratuite, per non parlare dei costi legati all'intrattenimento, alla musica, alla narrazione ed ai servizi religiosi? Anche quando parliamo di cibo, dovremmo considerare la qualità: dopo tutto, qui stiamo parlando di prodotti biologici al 100%, preparati con l'acqua naturale di sorgente più pura che esista. Gran parte del reddito contemporaneo se ne va in mutui ed in affitti. Ma si considerino le tariffe per il campeggio nelle locazioni dei primi siti paleolitici lungo la Dordogne o la Vézère, per non parlare delle classi serali di alto livello relative alla pittura naturalistica su roccia e alla scultura in avorio - e tutte quelle pellicce. Sicuramente, tutto questo deve costare molto più di $1,10 al giorno, anche se espresso in dollari del 1990. Non per niente, Marshall Sahlins si riferisce ai raccoglitori definendoli come «l'originale società benestante». Oggi, una vita del genere non sarebbe di certo a buon mercato.

Questo può sembrare certamente un po' stupido, ma la questione è che se uno riduce la storia del mondo ai coefficienti di Gini, ne verranno fuori necessariamente delle sciocchezze. Anche quelle deprimenti. Morris, per lo meno, sente che c'è qualcosa di storto con i recenti galoppanti incrementi di disuguaglianza globale. Al contrario, nel suo libro del 2017 "The Great Leveler: Violence and the History of Inequality from the Stone Age to the Twenty-First Century" lo storico Walter Scheidel ha spinto la lettura della storia umana svolta in stile Picketty fino alla sua ultima infelice conclusione, arrivando a concludere che non si può davvero fare niente riguardo la disuguaglianza. Immancabilmente, la civiltà mette al comando una piccola élite che si impadronisce sempre più di una fetta sempre più grande della torta. L'unica cosa che abbia mai avuto successo nello sbarazzarsi di loro è la catastrofe: guerra, epidemia, coscrizione di massa, sofferenza e morte. Le mezze misure non funzionano. Perciò, se non si vuole tornare a vivere in una caverna, o se non si vuole morire in un olocausto nucleare (che presumibilmente, anche questo, finirebbe con i sopravvissuti che vivono nelle caverne), non puoi fare altro che accettare l'esistenza di Warren Buffett e di Bill Gates.

L'alternativa liberale? Flannery e Marcus, che si identificano apertamente con la tradizione di Jean-Jacques Rousseau, concludono la loro analisi con il seguente utile suggerimento: «Una volta abbiamo affrontato questo argomento con Scotty MacNeish, un archeologo che ha passato 40 anni a studiare l'evoluzione sociale. Ci chiedevamo come si potrebbe rendere più egualitaria la società? Dopo essersi consultato brevemente con il suo vecchio amico Jack Daniels, MacNeish rispose: "Mettere al comando cacciatori e raccoglitori"

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3. Ma abbiamo davvero forgiato le nostre catene?

La cosa strana riguardo questa continua evocazione dell'innocente Stato di Natura di Rousseau, e la relativa caduta in disgrazia, risiede nel fatto che lo stesso Rousseau non ha mai affermato che lo Stato di Natura sia realmente esistito. È stato solo un esperimento mentale. Nel suo "Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini" (1754), da cui ha origine la maggior parte della storia che abbiamo raccontato (e ri-raccontato), scriveva: «... le ricerche, in cui possiamo impegnarci in quest'occasione, non devono essere scambiate per verità storiche, ma meramente come ragionamenti ipotetici e condizionali, più adatti ad illustrare la natura delle cose, piuttosto che mostrarne la loro vera origine.»

Lo "Stato di Natura" di Rousseau non è mai stato inteso come uno stadio di sviluppo. Non veniva presupposto come se si trattasse di un equivalente della fase della "Ferocia", la quale apre gli schemi evolutivi di filosofi scozzesi come Adam Smith, Ferguson, Millar, o più tardi, Lewis Henry Morgan. Questi erano interessati a definire dei livelli di sviluppo sociale e morale, che corrispondeva ai cambiamenti storici avvenuti nel modo di produzione: cercare cibo, pastorizia, agricoltura, industria. Al contrario, quello che presenta Rousseu è più una parabola. Come viene sottolineato da Judith Shklar, Rousseau stava davvero tentando di esplorare quello che lui considerava il paradosso fondamentale della politica umana: che la nostra innata spinta verso la libertà, in qualche modo ci conduce, ogni volta, in una «marcia spontanea verso la disuguaglianza». Detto nella parole di Rousseau: «Tutti corsero incontro alle loro catene credendo di assicurarsi la libertà; perché essendo già abbastanza dotati di ragione per percepire i vantaggi di un'istituzione politica, non avevano abbastanza esperienza per prevederne i pericoli.» L'immaginario Stato di Natura è solo un modo per illustrare questo punto di vista.

Rousseau non era un fatalista. Credeva che quel che fanno gli esseri umani, poteva essere disfatto. Avremmo potuto liberarci dalle catene; solo che non sarebbe stato facile. Shklar suggerisce che la tensione fra "possibilità e probabilità" (la possibilità dell'emancipazione umana, le probabilità che potremmo nuovamente porci nuovamente in qualche forma di servitù volontaria) è stata la forza animatrice centrale degli scritti sull'inuguaglianza di Rousseau. Tutto questo potrebbe sembrare un po' ironico dal momento che, dopo la Rivoluzione francese, molti critici conservatori ritenevano Rousseau personalmente responsabile della ghigliottina. Quel che aveva portato al Terrore, essi sostenevano, era stata proprio l'ingenua fede nell'innata bontà dell'umanità e la sua convinzione che un ordine sociale più equo avrebbe potuto essere semplicemente immaginato da degli intellettuali, per poi essere imposto dalla "volontà generale".

Ma erano assai poche queste figure del passato, che ora venivano messe alla berlina in quanto romantici ed utopici, ad essere davvero così ingenue. Per esempio, Karl Marx sosteneva che ciò che ci rende umani è il nostro potere di riflessione immaginativa - a differenza delle api, immaginiamo le case in cui vorremmo vivere, e solo allora ci disponiamo a costruirle - ma credeva anche che non si sarebbe potuto procedere allo stesso modo con la società, e provare ad imporre il modello di un architetto. Farlo, avrebbe significato commettere quello che era il peccato del "socialismo utopico", per il quale Marx non aveva altro che disprezzo. Invece, i rivoluzionari dovevano avere il senso delle più grandi forze strutturali che modellavano il corso della storia mondiale, e dovevano approfittare delle contraddizioni soggiacenti: per esempio, il fatto che, per poter competere, i singoli proprietari di fabbrica hanno bisogno di pagare il meno possibile i loro lavoratori, ma se tutti riescono ad avere successo nel farlo, non ci sarà più nessuno in grado di potersi permettere quello che le loro fabbriche producono.

Eppure il potere di duemila anni di scrittura è tale che anche quando sono i realisti dalla testa dura quelli che cominciano a parlare della sterminata distesa della storia umana, ecco che ricadono nel parlare di una qualche variante del Giardino dell'Eden - la Caduta dalla Grazia (di solito, come nella Genesi, a causa di un'insensata ricerca della Conoscenza); e la possibilità di una futura Redenzione.

I partiti politici marxisti hanno rapidamente sviluppato la propria loro versione della storia, fondendo insieme lo Stato di Natura di Rousseau e l'idea dell'Illuminismo scozzese degli stadi di sviluppo. Il risultato è stata una formula per la storia del mondo che è iniziata con un originale "comunismo primitivo", poi sopraffatto dall'apparire della proprietà privata, ma destinato un giorno a ritornare.

Si deve concludere che i rivoluzionari, nonostante i loro ideali visionari, non hanno avuto la tendenza ad essere particolarmente fantasiosi, specialmente quando si tratta di collegare passato, presente, e futuro. Tutti continuano a raccontare la stessa storia. Probabilmente non è una coincidenza il fatto che oggi, all'alba del nuovo millennio, i movimenti rivoluzionari più vitali e creativi - gli zapatisti del Chapas, e i curdi del Rojava, sono solo gli esempi più ovvi - sono quelli che radicano simultaneamente sé stessi in un profondo tradizionale passato. Anziché immaginare un'utopia primordiale, essi sono in grado di attingere ad una complicata narrazione costituita da diversi variegati elementi. Effettivamente, sembra esserci un crescente riconoscimento, nei circoli rivoluzionari, del fatto che la libertà, la tradizione, e l'immaginazione si sono sempre mescolati, e si mescolano in modi che non sempre sono stati compresi completamente. È arrivato il tempo che tutti quanto noi si riprenda e si cominci a considerare a cosa potrebbe assomigliare una versione non biblica della storia umana.

storia tempio

 

4. Come oggi può cambiare il corso della storia (passata)

La prima cosa che dev'essere stabilita è che chiedere delle "origini della disuguaglianza sociale", è il modo sbagliato di cominciare. Il fatto è che, prima dell'inizio di quello che viene chiamato il Paleolitico Superiore, in realtà non abbiamo alcuna idea di a cosa potesse per lo più assomigliare la vita sociale umana. La più parte delle prove comprende frammenti sparsi di pietra lavorata, ossa, e poco altro di materiali durevoli. Coesistevano diverse specie di ominidi; non è chiaro se sia possibile applicare una qualche analogia etnografica. Le cose cominciano a presentare un qualche tipo di focalizzazione solo durante lo stesso Paleolitico Superiore, che comincia circa 45.000 anni fa, e comprende il picco della glaciazione e del raffreddamento globale (circa 20.000 anni fa) conosciuto come Ultimo Massimo Glaciale. Quest'ultima grande era glaciale venne poi seguita dall'insorgere di condizioni più calde e dal graduale ritirarsi delle calotte glaciali, che portò alla nostra attuale epoca geologica, l'Olocene. Seguirono condizioni ancora più clementi, che crearono il palcoscenico sul quale l'Homo sapiens - avendo già colonizzato gran parte del Vecchio Mondo - completò poi la sua marcia nel Nuovo Mondo, raggiungendo le coste meridionali delle Americhe circa 15.000 anni fa. Quindi, cosa sappiamo attualmente di questo periodo della storia umana? Gran parte delle prime prove sostanziali riguardo l'organizzazione sociale umana nel Paleolitico provengono dall'Europa, dove le nostre specie si erano stabilite accanto all'Homo di Neanderthal, prima dell'estinzione di quest'ultimo avvenuta intorno al 40.000 AC. (La concentrazione dei dati in questa parte del mondo riflette molto probabilmente un pregiudizio storico delle indagini archeologiche, piuttosto che avere a che fare qualcosa di insolito che riguarda proprio l'Europa). A quel tempo, e per tutto l'Ultimo Massimo Glaciale, la zone abitabili dell'epoca glaciale europea assomigliavano più all'attuale Parco del Serengeti, in Tanzania, piuttosto che a qualsiasi altro odierno habitat europeo. A sud delle distese di ghiaccio, fra la tundra e le coste boscose del Mediterraneo, il continente era suddiviso in valli ricche di selvaggina e in tundre, che venivano attraversate stagionalmente da mandrie migranti di cervi, bisonti e lanosi mammut. Per diversi decenni, gli studiosi della preistoria hanno sottolineato - con scarso effetto apparente - che i gruppi umani che abitavano questi ambienti non avevano niente in comune con quelle bande egualitarie, felicemente semplici, di cacciatori-raccoglitori, che venivano ancora abitualmente immaginate come se fossero i nostri remoti antenati.

Tanto per cominciare, c'è l'esistenza indiscutibile di ricche sepolture, che si estendono indietro nel tempo fino alle profondità dell'era glaciale. Alcune di queste tombe, come quelle vecchie di 25.000 anni, a Sungir, a est di Mosca, sono note da molti decenni e sono giustamente famose. Felipe Fernández-Armesto, che ha recensito "Creation of Inequality" di Flannery e Marcus per il Wall Street Journal, ha espresso il suo ragionevole stupore per la loro omissione: «Sebbene sappiano che il principio ereditario fosse predatorie per l'agricoltura, il signor Flannery e la signora Marcus non riescono a liberarsi dell'illusione rousseauiana secondo cui tale principio fosse cominciato insieme alla vita sedentaria. Perciò dipingono un mondo in cui fino al 15.000 aC non esiste potere ereditato, ignorando così, per il loro scopo, uno dei più importanti siti archeologici». Scavando nel permafrost, sotto il sito paleolitico di Sungir, c'era la tomba di un uomo di mezza età - osserva Fernández-Armesto - che indossava «sbalorditivi segni d'onore: braccialetti di avorio di mammut lucidato e lavorato con cura». E a pochi metri di distanza, in una tomba identica, «riposavano due bambini, rispettivamente di circa 10 e 13 anni, adornati con analoghi doni - che includevano, per il più vecchio, circa 5.000 perle come quelle che decoravano gli adulti (sebbene leggermente più piccole) ed una enorme lancia di avorio scolpita».

Scoperte simili sembrano non avere alcun posto significativo in nessuno dei libri che abbiamo considerato finora. Sottovalutarli, o ridurli a note a piè di pagina, potrebbe essere più facile da perdonare se Sungir fosse stata una scoperta isolata. Ma non è così. Sepolture altrettanto ricche si trovano in molti rifugi rocciosi del Paleolitico superiore ed in molti insediamenti aperti in gran parte dell'Eurasia occidentale, dal Don alla Dordogna. Tra questi troviamo, per esempio, la "Signora di Saint-Germain-la-Rivière", vecchia di 16.000 anni e adornata di gioielli fatti con i denti di giovani cervi cacciati a 300 km di distanza , nei paesi baschi spagnoli; e delle sepolture sulla costa ligure - antiche quanto quelle di Sungir - fra le quali "Il Principe", un giovane uomo le cui insegne includevano una scettro di selce, un bastone di corno d'alce, ed un copricato adorno di conchiglie perforate e di denti di cervo. Simili ritrovamenti pongono delle stimolanti sfide interpretative. E Fernández-Armesto ha ragione a dire che questo sono prove di "potere ereditario"? Qual era lo status di quegli individui quando erano in vita?

Non meno intrigante è la prova, sporadica ma convincente, fornita dall'architettura monumentale risalente all'Ultimo Massimo Glaciale. Certo, l'idea che si possa misurare in termini assoluti la "monumentalità" è altrettanto sciocca dell'idea di quantificare in dollari e centesimi la spesa dell'era glaciale. È un concetto relativo, che ha senso solamente a partire da una particolare scala di valori e da esperienze precedenti. Il Pleistocene non ha alcun equivalente diretto, su scala, nelle piramidi di Giza o nel Colosseo romano. Ma ha degli edifici che, secondo lo standard del tempo, possono essere considerati come degli edifici pubblici, che implicavano una progettazione sofisticata e il coordinamento del lavoro su scala impressionante. Fra di essi ci sono le sorprendenti "case mammut", costruite con pelli tese su una cornice di zanne, esempi risalenti a circa 15.000 anni fa che possono essere trovati lungo una trasversale della frangia glaciale che va dalla moderna Cracovia fino a Kiev.

Ancora più sorprendenti sono i templi di pietra di Göbekli Tepe, riportarti alla luce oltre vent'anni fa sul  confine turco-siriano, e che sono ancora oggetto di un acceso dibattito scientifico. Risalenti a circa 11.000 anni fa, alla fine dell'ultima era glaciale, comprendono almeno venti recinti megalitici dislocati sopra i fianchi ora aridi della Piana di Harran. Ciascun recinto era costituito da dei pilastri di pietra di oltre 5 metri di altezza e del peso di una tonnellata (uno standard rispettabile se paragonato a Stonehenge, che è di circa 6.000 anni dopo). A Göbekli Tepe, quasi ogni pilastro è una notevole opera d'arte, su cui sono scolpiti in rilievo animali minacciosi che sporgono dalla superficie, i loro genitali maschili esposti con fierezza. I predatori scolpiti appaiono insieme ad immagini di teste umane mozzate. Le incisioni attestano l'abilità scultorea, affinata senza dubbio sul materiale più malleabile del legno (una volta disponibile ai piedi delle montagne del Tauro) prima di essere applicata sulla pietra dell'Harran. Curiosamente, e nonostante le dimensioni, ciascuna di queste massicce strutture avevano una durata relativamente breve, che finiva con una grande festa e con la rapida costruzione dei suoi muri: gerarchie che ascendevano al cielo, solo per essere nuovamente abbattute. E i protagonisti, in questa rappresentazione preistorica del festeggiamento, della costruzione e della distruzione erano, per quanto ne sappiamo, cacciatori-raccoglitori, che vivevano solo delle loro risorse selvagge.

Cosa farne allora di tutto questo? Una risposta accademica, è stata quella di abbandonare l'idea di un'Età d'oro egualitaria e concludere che l'interesse personale razionale e l'accumulazione di potere sono le forze durevoli che stanno dietri lo sviluppo sociale umano. Ma neanche questo funziona. Le prove di una disuguaglianza istituzionale nelle società dell'era glaciale, sia sotto forma di grandi sepolture che di edifici monumentali, possono significare qualcosa solo se sono non sporadiche. Le sepolture appaiono letteralmente a distanza di secoli, e spesso a centinaia di chilometri, l'una dall'altra. E anche se attribuiamo questo aspetto al difetto di prove, dobbiamo chiederci anche perché queste prove siano così frammentarie: dopo tutto, se uno di questi "principi" dell'era glaciale si fosse comportato in maniera simile, diciamo, a quella dei principi dell'età del bronzo, troveremmo allora delle fortificazioni, dei magazzini, dei palazzi - tutti i soliti accessori che simboleggiano l'emergere di uno stato. Invece, per decine di migliaia di anni vediamo monumenti e magnifiche sepolture, ma ben poco altro che indichi la crescita di società gerarchizzate. Poi ci sono altri fattori, ancora più strani, come il fatto che la maggior parte dei sepolcri "principeschi" consistono di individui che hanno delle stridenti anomalie fisiche, persone che oggi verrebbero considerati dei giganti, dei gobbi o dei nani.

Uno sguardo più generale alle prove archeologiche suggerisce una chiave per risolvere il dilemma. La chiave consiste nei ritmi stagionali della vita sociale preistorica. La maggior parte dei siti paleolitici di cui abbiamo discusso finora sono associati evidentemente a periodi annuali, o biennali, di aggregazione che erano legati alla migrazione delle mandrie di selvaggina - che fossero i lanosi mammut, i bisonti della steppa, le renne o (nel caso di Göbekli Tepe) le gazzelle - così come erano legati al ciclo della pesca o della raccolta di noci. Nei periodi meno favorevoli dell'anno, c'erano almeno alcuni dei nostri antenati dell'era glaciale che senza dubbio vivevano in piccole bande. Ma ci sono prove schiaccianti che mostrano che altri si univano in massa all'interno di quel tipo fi "micro-città" che sono state trovate a Dolní Věstonice, nel bacino della Moravia situato a sud Brno, banchettando grazie ad una sovrabbondanza di risorse selvagge, impegnandosi in complessi rituali, in ambiziose imprese artistiche, e scambiando minerali, conchiglie marine, e pelli di animali, a distanze notevoli. In Europa occidentale, gli equivalenti di questi siti di aggregazione stagionale potrebbero essere stati i grandi rifugi rocciosi del Périgord francese e della costa cantabrica, con i loro famosi dipinti ed intagli, che in maniera simile facevano parte di un ciclo annuale di congregazione e di dispersione.

Simili modelli stagionali di vita sociali sono durati anche molto tempo dopo che la "invenzione dell'agricoltura" si suppone avesse cambiato tutto. Ci sono nuove prove che dimostrano che questo genere di alternanze possono essere la chiave per comprendere i famosi monumenti neolitici della piana di Salisbury, e non solo nei termini di simbolismo calendaristico. Stonehenge, a quanto pare, era solo l'ultima in una sequenza molto lunga di strutture rituali, erette sia in legno che in pietra, nel momento in cui le persone convergevano sulla pianura provenienti dagli angoli più remoti delle isole inglesi, nei periodi più significativi dell'anno. Scavi accurati, hanno dimostrato che molte di queste strutture - che ora vengono plausibilmente interpretate come monumenti per i progenitori delle potenti dinastie neolitiche - sono state smantellate solo poche generazioni dopo la loro costruzione. Ancora più sorprendentemente, questa pratica di erigere e smantellare grandi monumenti coincide con un periodo in cui i popoli britannici, avendo adottato dall'Europa continentale l'economia agraria neolitica, sembra che avessero abbandonato almeno uno dei suoi aspetti cruciali, quello della coltivazione dei cereali. e ritornando così - circa intorno al 3300 AC - alla raccolta di noci come fonte alimentare di base. Mantenendo le loro mandrie di bestiami, sulle quali banchettavano stagionalmente nelle vicina mura di Durringto, i costruttori di Stonehenge sembra che non fossero né raccoglitori né agricoltori, ma piuttosto una via di mezzo. E se durante le festività, quando si riunivano in gran numero, aveva influenza qualcosa del tipo di una corte reale, questa avrebbe potuto benissimo sciogliersi per il resto dell'anno, quando le stesse persone si disperdevano di nuovo per tutta l'isola.

Perché sono importanti queste variazioni stagionali? Perché rivelano che fin dall'inizio, gli esseri umano erano consapevoli di stare sperimentando differenti possibilità sociali. Gli antropologhi descrivono le società di questo tipo come dotate di una "doppia morfologia". Marcel Mauss, scrivendo all'inizio del XX secolo, osservava che gli Inuit circumpolari, «così come molte altre società... hanno due strutture sociali, una in estate ed una in inverno, e che parallelamente hanno due sistemi di legge e di religione». Nei mesi estivi, gli Inuit si disperdono in piccole bande patriarcali che vanno alla ricerca di pesci d'acqua dolce, di caribù e di renne, ciascuno sotto l'autorità di un singolo maschio anziano. La proprietà veniva contrassegnata in maniera possessiva ed i patriarchi esercitavano un potere coercitivo, a volte perfino tirannica, sui loro parenti. Ma nei lunghi mesi invernali, quando le foche e i trichechi si affollavano sulla costa artica, un'altra intera struttura sociale prendeva il sopravvento nel momento i cui gli Inuit si riunivano tutti insieme per costruire delle grandi case comuni fatte di legno, di costole di balena e di pietre. All'interno di queste case, prevalevano le virtù dell'uguaglianza, dell'altruismo, e della vita collettiva; la ricchezza veniva condivisa; i mariti e le mogli si scambiavano i partner sotto l'egida di Sedna, la dea delle Acque.

Un altro esempio di questo ne sono stati gli indigeni cacciatori-raccoglitori della costa nord-occidentale del Canada, per i quali l'inverno - e non l'estate - era il periodo in cui la società si cristallizzava nella sua forma più iniqua, e lo faceva in maniera spettacolare. Lungo le coste della British Columbia, venivano eretti edifici costruiti su zattere dove i nobili ereditari  si occupavano di persone comune e di schiavi, ospitandoli in grandi banchetti noti come "Potlatch". Tuttavia queste corti aristocratiche si separavano per il lavoro estivo della stagione di pesca, convertendosi in clan più piccoli, con una loro gerarchia, ma con una struttura del tutto differente e assai meno formale. In questo caso, in realtà le persone hanno adottato nomi differenti in estate e in inverno, diventando letteralmente qualcun altro, a seconda del periodo dell'anno.

Forse ancora più sorprendenti, in termini di rovesciamenti politici, sono state le pratiche stagionali delle confederazioni tribali delle Grandi Pianure americane del XIX secolo - a volte ex coltivatori che avevano adottato uno stile di vita da cacciatori nomadi. Alla fine dell'estate, piccole bande altamente mobili di Cheyenne e di Lakota si riunivano a formare grandi insediamenti per attuare i preparativi logistici per la caccia al bufalo. In questo che era il periodo dell'anno più delicato, veniva nominata una forza di polizia che esercitava un pieno potere coercitivo, incluso il diritto di imprigionare, frustare, o multare qualsiasi trasgressore che mettesse in pericolo il procedimento. Eppure, come ha osservato l'antropologo Robert Lowie, questo "inequivocabile autoritarismo" operava su base strettamente stagionale e temporanea, lasciando il posto a forme più "anarchiche" di organizzazione una volta che la stagione di caccia - e rituali collettivi che ad essa seguivano - veniva completata.

La dottrina non sempre progredisce. A volte scivola all'indietro. Un centinai di anni fa, la maggior parte degli antropologhi capiva che quelli che vivevano principalmente di risorse selvagge, normalmente non erano limitati a delle minuscole "bande". In realtà, tale idea è un prodotto degli anni 1960, quando i Boscimani del Kalahari ed i Pigmei Mbuti divennero l'immagine preferita dell'umanità primordiale per l'audience televisiva e per i ricercatori. Di conseguenza, abbiamo assistito ad un ritorno agli stadi evolutivi, che in realtà non erano molto diversi dalla tradizione dell'Illuminismo scozzese: questo, ad esempio, è ciò cui attinge Fukuyama quando scrive di società che evolvono costantemente passando da "bande" a "tribù" a "chiefdom" [domini], che sono alla fine il tipo di "Stati" complessi e stratificati in cui oggi viviamo - di solito definiti per mezzo del monopolio dell'«uso legittimo della forza coercitiva». A partire da questa logica, tuttavia, i Cheyenne o i Lakota avrebbero dovuto "evolvere" direttamente da bande a Stati all'incirca all'arrivo di ogni mese di Novembre, per poi "devolvere" di nuovo quando arrivava la primavera. La maggior parte degli antropologhi ora riconosce che queste categorie sono irrimediabilmente inadeguate, eppure nessuno ha ancora proposto un modo alternativo di pensare per quanto riguarda la storia in termini più ampi.

In maniera abbastanza indipendente, la prova archeologica suggerisce che negli ambienti altamente stagionali dell'ultima era glaciale, i nostri remoti antenati si comportassero in maniera assai simile: spostandosi avanti e indietro dall'una all'altra organizzazione sociale alternativa, permettendo cos' la nascita di strutture autoritarie durante certi periodi dell'anno, a condizione che non sarebbe durato; e nella consapevolezza che nessun particolare ordine sociale fosse fisso o immutabile. All'interno della stessa popolazione, a volte si potrebbe vivere in quello che, a distanza, sembra essere una banda, a volte una tribù, e qualche volta una società con molte caratteristiche che noi identifichiamo con gli Stati. Con una tale flessibilità istituzionale proviene la capacità di uscire dai confini di ogni struttura sociale data e riflessa; per poter fare e disfare i mondi politici in cui viviamo. Se non altro, questo spiega i "principi" e le "principesse" dell'ultima era glaciale, che sembrano mostrarsi, in un magnifico isolamento, come se fossero i personaggi di un racconto di fate o di un dramma in costume. Forse erano quasi letteralmente così. Se hanno regnato, allora forse sono stati come i re e le regine di Stonehenge, solamente per una stagione.

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5. È tempo per un ripensamento

Gli autori moderni hanno la tendenza ad usare la preistoria come un canovaccio di lavoro per risolvere problemi filosofici: gli esseri umani sono fondamentalmente buoni o cattivi, cooperativi e competitivi, egualitari o gerarchici? Di conseguenza, essi tendono anche a scrivere come se per il 95% della storia della nostra specie, le società umane fossero state quasi tutte uguali. Ma il fatto è che 40.000 anni sono un periodo molto, molto lungo di tempo. Appare essere intrinsecamente probabile, e le prove lo confermano, che quegli stessi pionieri umani che hanno colonizzato gran parte del pianeta abbiano sperimentato un'enorme varietà di ordinamenti sociali. Come ha spesso sottolineato Claude Lévi-Strauss, i primi Homo sapiens non erano solo fisicamente pari all'uomo moderno, lo erano anche intellettualmente. In realtà,la maggior parte di loro era probabilmente assai più consapevole del potenziale della società di quanto lo siano generalmente oggi le persone, passando ogni anno avanti e indietro da una forma di organizzazione all'altra. Piuttosto che poltrire in una qualche innocenza primordiale, fino a quando la lampada del genio della disuguaglianza non venisse in qualche modo stappata, i nostri antenati preistorici sembra che abbiano aperto e chiuso la bottiglia con regolarità, confinando la disuguaglianza nei drammi rituali in costume, costruendo divinità e regni come se questi fossero i loro monumenti, per poi di nuovo, ancora una volta, smontarli allegramente.

Se è così, allora la vera domanda non è «quali sono le origini della disuguaglianza sociale?», ma, visto che abbiamo vissuto così tanta parte della nostra storia muovendoci avanti e indietro fra differenti sistemi politici, «come abbiamo fatto a restare bloccati in questo modo?».

Tutto ciò è assai lontano dal concetto di società preistorica che va ciecamente alla deriva trasportata dalle catene istituzionali che la legano. È lontana anche dalle tetre profezie di Fukuyama, Diamond, Morris, e Scheidel, dove ogni forma "complessa" di organizzazione sociale significa necessariamente che delle piccole élite si impadroniscono delle risorse chiave, e cominciano a mettere sotto i loro piedi chiunque altro. La maggior parte delle scienze sociali considera questi lugubri pronostici come se fossero delle verità auto-evidenti. Ma naturalmente, sono infondate. Perciò, ora potremmo ragionevolmente chiederci: quali altre preziose verità devono essere gettate nella discarica della storia?

In realtà, direi che sono un bel numero. Già negli anni '70, il brillante archeologo di Cambridge David Clarke aveva predetto che, con la ricerca moderna, quasi ogni aspetto del vecchio edificio dell'evoluzione umana, «la spiegazione dello sviluppo dell'uomo moderno, l'addomesticamento, la metallurgia, l'urbanizzazione e la civilizzazione - in prospettiva possono essere visti come trappole semantiche e miraggi metafisici.» Sembra che avesse ragione. Oggi, le informazioni arrivano da ogni angolo del globo, e si basano su accurate ricerche empiriche, su tecniche avanzate di ricostruzione climatica, di datazione cronometrica, e su analisi scientifiche di resti organici. I ricercatori stanno esaminando il materiale etnografico e storico sotto una nuova luce. E quasi tutte queste nuove ricerche si pongono contro la narrazione della storia del mondo che ci è familiare. Tuttavia, le scoperte più notevoli rimangono confinate in quello che è il lavoro degli specialisti, oppure devono essere estrapolate leggendo fra le righe delle pubblicazioni scientifiche. Perciò concludiamo con alcuni titoli: solo una manciata, per dare il senso di a che cosa stia cominciando ad assomigliare la nuova emergente storia del mondo.

La prima notizia esplosiva del nostro elenco riguarda le origini e la diffusione dell'agricoltura. Non c'è più alcunché che sostenga l'opinione che abbia segnato una transizione fondamentale per le società umane. In quelle parti del mondo in cui per la prima volta sono stati addomesticati gli animali e le piante, in realtà non si assiste ad alcun percettibile "passaggio" dal raccoglitore paleolitico al coltivatore neolitico. La "transizione" relativa al passare dal vivere soprattutto di risorse selvagge, a vivere basandosi sulla produzione di cibo ha richiesto qualcosa nell'ordine di tremila anni. Sebbene l'agricoltura abbia consentito la possibilità che ci fossero delle concentrazioni di ricchezza più diseguali, nella maggior parte dei casi questo è cominciato a succedere solo millenni dopo il suo inizio. Nel frattempo, persone che si trovavano in aree così lontane come l'Amazzonia e la Mezzaluna fertile del Medio Oriente provavano a coltivare, "giocavano all'agricoltura", se vogliamo, cambiando ogni anno da un modo di produzione all'altro, così come avevano cambiato e ricambiato le loro strutture sociali. Per di più, la "diffusione dell'agricoltura" in aree secondarie, come l'Europa - così spesso descritta in termini trionfalisti, come se si trattasse di un'inevitabile declino della caccia e della raccolta - risulta invece essere stato un processo molto tenue, che a volte falliva, e portava così ad un crollo demografico per i coltivatori, non per i raccoglitori.

Chiaramente, quando si parla di processi di così lunga durata e complessità, non ha più senso usare frasi come "la rivoluzione agricola". Dal momento che non è esistito nessuno stato simile ad un Eden, a partire dal quale i primi agricoltori avrebbero potuto muovere i primi passi sulla strada della disuguaglianza, ha ancora meno senso parlare di agricoltura come marcatura delle origini del rango o della proprietà privata. Semmai, è tra quelle popolazioni - i popoli "mesolitici" - che hanno rifiutato l'agricoltura nel corso dei secoli del riscaldamento del primo Olocene, che troviamo una stratificazione che diventa sempre più consolidata; quanto meno, se la sepoltura opulenta, la guerra predatoria, e gli edifici monumentali sono qualcosa da considerare. In alcuni casi, come il Medio Oriente, i primi agricoltori sembrano aver sviluppato in maniera consapevole forme alternative di comunità, che accompagnano il loro modo di vita assai laborioso. Queste società neolitiche appaiono essere straordinariamente egualitarie se paragonate ai loro vicini cacciatori-raccoglitori, insieme ad un drammatico incremento in quella che è l'importanza sociale ed economica delle donne, che si riflette chiaramente nella loro arte e nella loro vita rituale (le statuette femminili di Gerico e Çatalhöyük, in contrasto con le sculture iper-maschili di Göbekli Tepe).

Un'altra notizia esplosiva: la "civiltà" non arriva come un pacchetto. Le prime città del mondo non sono semplicemente emerse in una manciata di luoghi, insieme a dei sistemi di governo centralizzato e di controllo burocratico. Ora siamo consapevoli che, ad esempio, in Cina nel 2500 AC  esistevano insediamenti di 300 e più ettari nel corso inferiore del Fiume Giallo, oltre mille anni prima della fondazione della prima dinastia reale (Shang). Sull'altra sponda del Pacifico, e risalenti all'incirca allo stesso periodo, sono stati scoperti dei centri cerimoniali di grande magnificenza nella valle del Rio Supe, in Perù, in particolare nel sito di Caral: resti enigmatici di piazze sprofondate e di piattaforme monumentali, più antiche di quattromila anni rispetto all'impero Inca. Simili recenti scoperte indicano quanto poco si sappia veramente riguardo la distribuzione e l'origine delle prime città, e quanto siano più antiche rispetto ai sistemi di governi autoritari e alle amministrazioni letterate che una volta venivano ritenute necessarie alla loro fondazione. E nelle zone centrali più consolidate dell'urbanizzazione - la Mesopotamia, la Valle dell'Indo, il bacino del Messico - ci sono sempre più prove del fatto che le prime città erano organizzate secondo linee consapevolmente egualitarie, in cui i consigli municipali conservavano una significativa autonomia dal governo centrale. Nei primi due casi, sono fiorite per oltre mezzo millennio città dotate di sofisticate infrastrutture civili, senza che ci fosse alcuna traccia di sepolture o di monumenti reali, né eserciti permanenti, o altri mezzi di coercizione su larga scala, e neppure alcuna traccia di un controllo burocratico diretto sulla vita della maggior parte dei cittadini.

Malgrado quello che dice Jared Diamond, non c'è assolutamente alcuna prova che strutture gerarchiche di ruolo siano la necessaria conseguenza di un'organizzazione su larga scala. Nonostante quello che dice Walter Scheidel, semplicemente non è vero che le classi dominanti, una volta che si sono affermate, non possano essere eliminate se non per mezzo di una catastrofe generale. Tanto per fare un solo esempio ben documentato: intorno al 200 DC, la città di Teotihuacan, nella Valle de Messico, con una popolazione di 120.000 abitanti (una delle più grandi al mondo in quel periodo). sembra aver subito una profonda trasformazione, voltando le spalle ai suoi templi piramidali e ai sacrifici umano, e ricostruendo sé stessa sotto forma di una vasta serie di confortevoli ville, tutte quasi esattamente delle stesse dimensioni. Rimase così per forse 400 anni. Persino ancora ai tempi di Cortés, il Messico centrale era ancora sede di città come Tlaxcala, governata da un consiglio eletto, i cui membri venivano periodicamente frustati dai loro elettori perché si ricordassero che era alla fine a comandare.

I pezzi ci sono tutti, per poter creare una storia del mondo completamente differente. Per lo più, siamo troppo accecati dai nostri pregiudizi per riuscire a vedere quali sono le implicazioni. Per esempio, al giorno d'oggi quasi tutti sostengono che la democrazia partecipativa, o l'uguaglianza sociale, possono anche funzionare in una piccola comunità, o per un gruppo di attivisti, ma non è possibile "estenderla" a qualcosa come una città, una regione, o uno Stato-nazione. Ma ciò che è evidente, davanti ai nostri occhi, se scegliamo di vederlo, suggerisce il contrario. Le città egualitarie, anche le confederazioni ragionali, sono qualcosa di storicamente abbastanza comune. Non lo sono le famiglie egualitarie. Una volta che è stato emesso il verdetto storico, ci renderemo conto che la perdita dolorosa della libertà umana ha avuto inizio su piccola scala - al livello delle relazioni di genere, di gruppi di età, e di servitù domestica - quel genere di relazioni che contengono contemporaneamente sia la massima intimità che le forme più profonde di violenza strutturale. Se vogliamo capire davvero come sia diventato accettabile per alcuni trasformare la ricchezza in potere, e come sia diventato possibile per altri sentirsi dire che i loro bisogni, e le loro vite, non contavano, è a questo che dobbiamo guardare. E prevediamo anche che è qui che dovrà svolgersi il lavoro più difficile per poter creare una società libera.

- David Graeber e David Wengrow - Pubblicato il 2 marzo 2018 su Eurozine -



Comment changer le cours de l'histoire

(ou au moins du passé)

David Graeber et David Wengrow, 3 July 2018

Ce que nous avons l’habitude de nous raconter à propos de nos origines est faux et perpétue l’idée que l’inégalité sociale est inévitable. S’interrogeant sur la persistance du mythe de la « révolution agricole », David Graeber et David Wengrow affirment que nos ancêtres ont en fait bien plus à nous apprendre.

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Œuvre d’art de Banksy (titre inconnu). Source: Flickr

Au commencement était le verbe

Depuis des siècles, le récit expliquant les origines de l’inégalité sociale est simple. Pendant la plus grande partie de leur histoire, les hommes vécurent dans des petits groupes égalitaires de chasseurs-cueilleurs. Puis vint l’agriculture, accompagnée de la propriété privée, puis la naissance des villes signifiant l’émergence de la civilisation à proprement parler. Si la civilisation eut bien des aspects déplorables (les guerres, les impôts, la bureaucratie, la patriarchie, l’esclavage, etc.), elle rendit également possibles la littérature écrite, la science, la philosophie et la plupart des autres grands accomplissements humains.

Tout le monde, ou presque, connaît les grandes lignes de cette histoire. Depuis l’époque de Jean-Jacques Rousseau, au moins, elle a informé notre conception de la forme générale et de la direction de l’histoire humaine. Cela est d’autant plus important que ce récit définit dans le même temps ce que nous percevons comme nos possibilités politiques. La plupart d’entre nous considère la civilisation, et donc l’inégalité, comme une triste nécessité. Certains rêvent du retour à un passé utopique, de la découverte d’un équivalent industriel au “communisme primitif” ou même, dans les cas les plus extrêmes, de la destruction complète de la civilisation et du retour à une vie de cueillette. Personne, cependant, ne remet en cause la structure élémentaire de cette histoire.

Et pourtant, ce récit est fondamentalement problématique.

Car il n’est pas vrai.

Les très nombreuses preuves fournies par l’archéologie, l’anthropologie et les disciplines analogues commencent à donner une idée assez claire de l’aspect véritable des 40 000 dernières années de l’histoire humaine. Celle-ci ne ressemble presque en rien au récit qui en est communément admis. En réalité, notre espèce n’a pas passé la plupart de son histoire à vivre en petits groupes. L’agriculture n’a pas marqué un seuil irréversible de l’évolution sociale. Les premières villes étaient souvent fortement égalitaires. En dépit du consensus que les chercheurs ont atteint à propos de toutes ces questions, ils sont demeurés bizarrement hésitants à annoncer au public, ou même aux universitaires issus d’autres disciplines, leurs découvertes, et encore moins à s’interroger sur leurs implications politiques plus larges. C’est pourquoi les penseurs qui réfléchissent aux “grandes questions” soulevées par l’histoire humaine, comme Jared Diamond, Francis Fukuyama et Ian Morris, continuent de partir de la question rousseauiste (“Quelle est l’origine de l’inégalité sociale ?”) et présupposent que l’histoire commence par une sorte de chute loin de l’innocence primitive.

Le simple fait de poser ainsi la question correspond à une série de présupposés

  • Il existe une chose nommée “inégalité”
  • C’est un problème
  • Fut un temps, ce problème n’existait pas

Il est évident que depuis l’effondrement financier de 2008 et les bouleversements qu’il a causés, le “problème de l’inégalité sociale” est devenu le centre du débat politique. Il existe parmi les intellectuels et les hommes politiques un consensus apparent : le niveau des inégalités se serait emballé sans pouvoir être maîtrisé ; d’une façon ou d’une autre, tous les problèmes mondiaux en résulteraient. Une telle position peut être vue comme une remise en cause des structures du pouvoir mondial. Mais pensons à la manière dont ces problèmes étaient discutés il y a une génération. Contrairement à des termes comme “capital” ou “pouvoir de classe”, le mot “égalité” semble presque conçu pour conduire à des demi-mesures et au compromis. Il est possible d’imaginer le renversement du capitalisme ou la destruction du pouvoir étatique, mais bien plus difficile de concevoir l’élimination de l’inégalité. Et que cela voudrait-il dire, dans la mesure où les hommes ne sont pas identiques, et que personne ne souhaite véritablement qu’ils le soient ?

“L’inégalité” est une manière de poser les problèmes sociaux qui convient aux réformateurs technocrates, à ceux qui présupposent depuis le départ que toute conception d’une transformation sociale est depuis longtemps sortie du champ politique. Cette approche autorise à bricoler les chiffres, à débattre à propos des coefficients de Gini et des seuils de dysfonctionnement, à réajuster les régimes fiscaux et les mécanismes de l’État-providence, et même à choquer le public avec des chiffres démontrant la dégradation de la situation (“Imaginez-vous, 0,1% de la population mondiale contrôle plus de 50% de la richesse !”), sans s’attaquer à aucun des éléments critiqués dans le cadre d’arrangements sociaux si inégaux. Par exemple, la possibilité pour certains de transformer leur richesse en pouvoir exercé sur autrui ou le fait que d’autres finissent par s’entendre dire que leurs besoins sont sans importances, et que leur vie ne possèdent pas de valeur propre. On nous fait croire que de tels états de fait résultent inévitablement de l’inégalité et que l’inégalité résulte inévitablement de la vie dans une société de grande taille, complexe, urbaine et avancée technologiquement. Voici le véritable message politique que transmettent les évocations sans fin d’un âge de l’innocence existant avant l’invention de l’inégalité: si nous souhaitons nous débarrasser tout à fait de tels problèmes, il faudrait que nous nous débarrassions d’une manière ou d’une autre de 99,9% de la population mondiale et que nous devenions de nouveau des petits groupes de glaneurs. Dans le cas contraire, nous ne pouvons rien espérer de mieux que d’ajuster la taille de la botte qui nous écrasera, pour toujours, ou, pour certains d’entre nous et de manière temporaire, de se ménager une étroite marge de manœuvre.

La science sociale conventionnelle semble désormais tendue vers le but de renforcer cet état de découragement. Presque tous les mois, nous sommes confrontés à des publications qui essaient de projeter l’obsession actuelle vis-à-vis de la distribution de la propriété jusqu’à l’âge de pierre, ce qui nous mène dans une quête fausse pour les “sociétés égalitaires” définies de manière telle qu’elles ne peuvent pas exister en dehors de petits groupes de glaneurs (et peut-être même pas dans ce cas-là). Dans cet article, nous essayons donc de faire deux choses. D’abord, nous passerons un peu de temps à examiner ce qui passe dans ce domaine pour des avis autorisés, afin de révéler les règles du jeu, en particulier comment les universitaires contemporains, apparemment les plus sophistiqués, finissent par reproduire la sagesse consensuelle qui avait cours en France ou en Écosse vers, disons, 1760. Nous essaierons ensuite de poser les bases d’un récit tout à fait différent. Il s’agit surtout d’un travail de défrichage. Nous traitons de questions si énormes et de problèmes si importants qu’il faudra des années de recherches et de débats afin de commencer à comprendre les pleines implications. Mais nous insistons sur un point. Abandonner le récit d’une chute hors de l’innocence première ne signifie pas abandonner les rêves d’émancipation humaine, c’est-à-dire celui d’une société où personne ne peut transformer leurs droits de propriété en moyen de réduire en esclavage autrui, et où personne ne s’entend dire que sa vie ou ses besoins ne comptent pas. Au contraire. L’histoire humaine devient bien plus intéressante et contient bien plus de moments porteurs d’espoir que l’on a été conduit à l’imaginer une fois que nous nous sommes libérés de nos fers conceptuels et rendu compte de ce qui était réellement présent.

Les auteurs contemporains à propos de l’origine de l’inégalité sociale, ou l’éternel retour de Jean-Jacques Rousseau

Commençons par esquisser l’idée reçue en matière de déroulé général de l’histoire humaine. Elle s’approche à peu près de cela :

Tandis que le rideau se lève sur l’histoire humaine, il y a à peu près 200 000 ans, lors de l’apparition d’Homo sapiens, on trouve notre espèce vivant en petits groupes mobiles constitués de 20 à 40 individus. Ils se déplacent à la recherche des meilleurs territoires pour la chasse et la cueillette, traquant les troupeaux, cueillant des noix et des baies. Lorsque les ressources se font rares ou que des tensions sociales apparaissent, leur réponse est de continuer à avancer ou de se déplacer autre part. La vie de ces hommes primitifs, que nous percevons comme l’enfance de l’humanité, est pleine de dangers mais aussi de possibilités. Les possessions matérielles sont peu nombreuses, mais le monde est un lieu intact et accueillant. La plupart des hommes ne travaillent que quelques heures par jour et la petite taille des groupes permet de conserver une camaraderie décontractée, sans structures formelles de domination. Lorsqu’il écrivait au XVIIIe siècle, Rousseau nommait cette situation “état de nature” mais on suppose aujourd’hui qu’elle englobe la majorité de l’histoire concrète de notre espèce. On suppose également que c’est la seule période durant laquelle les hommes ont réussi à vivre dans une authentique société d’égaux, sans classes, castes, chefs héréditaires ou gouvernement centralisé.

Malheureusement, cet heureux état de fait devait finalement se terminer. Selon la version conventionnelle de l’histoire du monde, cette fin intervient il y a dix mille ans, lorsque se referme le dernier âge glaciaire.

A cette époque, on trouve nos acteurs humains imaginaires dispersés à travers les continents, commençant à récolter leurs propres récoltes et à élever leurs propres troupeaux. Quelles que soient les raisons locales (elles sont débattues), les effets sont immenses et quasi identiques partout. L’ancrage territorial et la propriété privée gagnent une importance inconnue jusqu’alors : les accompagnent des querelles sporadiques et la guerre. L’agriculture procure un surplus de nourriture, qui permet à certains d’accumuler de la richesse et de l’influence au-delà de leur groupe de parenté immédiate. D’autres profitent d’être libérés de la recherche de nourriture pour développer de nouvelles compétences : ils inventent des armes, des outils, des véhicules et des fortifications plus sophistiqués et se lancent dans la politique et la religion organisée. En conséquence, ces “fermiers néolithiques” sont rapidement en mesure d’évaluer et de contrôler leurs voisins chasseurs-cueilleurs, et de se décider à les éliminer ou à les absorber dans un mode de vie nouveau et supérieur, quoiqu’aussi plus inégalitaire.

L’histoire continue et, pour compliquer encore les choses, l’agriculture assure une croissance globale des niveaux de population. Alors que les personnes se déplacent vers des concentrations de plus en plus grandes, nos ancêtres se rapprochent encore, involontairement mais irréversiblement, de l’inégalité. Il y a environ 6 000 ans, les villes apparaissent et les jeux sont faits. Avec les villes apparaît le besoin d’un gouvernement centralisé. De nouvelles classes de bureaucrates, de prêtres et de soldats-politiciens s’installent dans des fonctions permanentes afin de maintenir l’ordre et de garantir un ravitaillement et des services publics réguliers. Les femmes qui avaient jadis occupé des positions prééminentes dans la gestion des affaires humaines sont cloîtrées ou emprisonnées dans des harems. Les prisonniers de guerre sont réduits en esclavage. L’inégalité véritable est arrivée et il n’est pas possible de s’en débarrasser. Cependant, les narrateurs nous assurent toujours que tout n’est pas mauvais dans le développement de la civilisation urbaine. L’écriture est inventée, d’abord pour tenir les comptes de l’État, mais elle permet rapidement des avancées fantastiques dans les domaines de la science, de la technologie et des arts. En le payant de notre innocence, nous devenons les êtres modernes que nous sommes et nous ne pouvons considérer désormais qu’avec pitié et envie les quelques sociétés “traditionnelles” ou “primitives” qui ont raté le coche.

Nous avons dit que ce récit fonde tout le débat contemporain sur l’inégalité. Si par exemple un spécialiste des relations internationales ou un psychologue clinicien souhaitent réfléchir à ces sujets, ils vont sans doute prendre pour acquis que pendant la plus grande partie de l’histoire humaine, nous vivions en petits groupes égalitaires, ou bien que le développement des villes signifie aussi celui de l’État. Il en va de même dans des ouvrages très récents qui visent à examiner un aperçu général de la préhistoire afin de tirer des conclusions politiques en lien avec la vie contemporaine. Ainsi, l’ouvrage de Francis Fukuyama The Origins of Political Order: From Prehuman Times to the French Revolution :

À ses débuts, l’organisation politique humaine était comparable à la société de groupe observée chez les primates supérieurs comme les chimpanzés. Cela peut être considéré comme la forme par défaut de l’organisation sociale… Rousseau a souligné que l’origine de l’inégalité politique repose dans le développement de l’agriculture et il avait, en ce domaine, largement raison. En effet, dans les sociétés de groupe, la propriété privée n’existe dans aucune de ses acceptions actuelles. Comme les groupes de chimpanzés, les chasseurs-cueilleurs habitent une étendue territoriale qu’ils surveillent et pour laquelle ils se battent parfois. Mais ils sont moins encouragés que les agriculteurs à délimiter une portion de terre et à dire “Cela m’appartient !”. Si leur territoire est envahi par un autre groupe, ou infiltré par de dangereux prédateurs, les sociétés de groupe peuvent avoir le choix simple de déplacer autre part, du fait de faibles densités de population. Les sociétés de groupe sont hautement égalitaires… Le commandement est conféré à des individus en fonction de leurs qualités comme la force, l’intelligence et la crédibilité, mais il a tendance à passer d’un individu à l’autre.

Jared Diamond, dans World Before Yesterday: What Can We Learn from Traditional Societies?, fait l’hypothèse que de tels groupes (qui constituaient les sociétés humaines “il y a encore 11 000 ans”) ne comprenaient “pas plus d’une petite douzaine d’individus”, pour la plupart liés biologiquement. Ils vivaient une existence austère, “chassant et cueillant les animaux sauvages et les espèces végétales qui se trouvaient vivre dans un demi-hectare de forêt” (Pourquoi un demi-hectare ? Il ne l’explique jamais). Et leur vie sociale, selon Diamond, était d’une simplicité enviable. Les décisions étaient prises via des “discussions face à face”. Il y avait “peu de possessions personnelles” et “pas de commandement politique formalisé ou de spécialisation économique poussée”. Diamond conclut que malheureusement ce n’est que dans des groupements aussi primordiaux que les humains n’ont jamais atteint un degré significatif d’égalité sociale.

Pour Diamond et Fukuyama, comme pour Rousseau plusieurs siècles auparavant, partout et toujours, c’est l’invention de l’agriculture et les hausses de population qu’elle a permises qui ont mis fin à l’égalité. L’agriculture a entraîné une transition des groupes aux tribus. L’accumulation de surplus de nourriture a nourri la croissance démographique, ce qui a conduit certaines “tribus” à devenir des sociétés de rang désignées comme “chefferies”. Fukuyama propose une image presque biblique de ce phénomène, comme un départ de l’Eden : “Alors que les petits groupes d’êtres humains migraient et s’adaptaient à différents environnements, ils commencèrent à sortir de l’état de nature en développant de nouvelles institutions sociales.”. Ils se firent la guerre pour des ressources. Dégingandées et pubères, ces sociétés allaient au devant d’ennuis.

Il était temps de grandir et de désigner un véritable commandement. Avant longtemps, les chefs s’étaient déclarés rois, ou même empereurs. Il n’y avait pas d’intérêt à résister. Tout cela était inévitable une fois que les hommes avaient adopté des formes d’organisation larges et complexes. Même lorsque les chefs agissaient mal, en se servant les premiers dans le surplus agricoles pour promouvoir leurs laquais et leurs proches, en rendant leur statut permanent et héréditaire, en collectionnant les crânes et les harems de filles-esclaves ou encore en arrachant les cœurs de leurs rivaux à coups de couteaux d’obsidienne, il n’y a avait plus de retour en arrière. “Les populations importantes”, Diamond l’affirme, “ne peuvent pas fonctionner sans chefs qui prennent des décisions, sans cadres pour exécuter ces décisions, et sans bureaucrates pour appliquer les décisions et les lois. Malheureusement pour tous nos lecteurs anarchistes qui rêvent de se passer d’un gouvernement étatisé, voilà les raisons de l’irréalisme de vos souhaits : il faudrait trouver un petit groupe ou tribu accueillante, sans étranger, sans besoin de rois, présidents ou bureaucrates”

Voilà une sombre conclusion, non seulement pour les anarchistes, mais aussi pour tous ceux qui s’interrogeraient sur l’existence d’un système alternatif viable au statu quo. Mais ce qui est remarquable est le fait qu’en dépit du ton suffisant, de telles déclarations ne se fondent pas sur des preuves scientifiques. Il n’y a pas de raison de croire que les groupes de petite taille ont particulièrement tendance à être égalitaires, ni que les groupes plus nombreux doivent nécessairement avoir recours à des rois, présidents ou bureaucrates. Ce ne sont que des préjugés affirmés comme des faits.

Dans le cas de Fukuyama et de Diamond, on peut au moins se dire qu’ils n’ont pas reçu de formation adéquate dans les disciplines pertinentes. Le premier vient de la science politique et le doctorat du second porte sur la physiologie de la vésicule biliaire. Cependant, même quand ce sont des archéologues ou des anthropologues qui s’essaient à proposer des récits généraux, ils ont eux aussi une tendance bizarre à finir par proposer une variation mineure sur Rousseau. Dans leur ouvrage The Creation of Inequality: How our Prehistoric Ancestors Set the Stage for Monarchy, Slavery, and Empire Kent Flannery and Joyce Marcus, deux universitaires éminemment compétents, exposent sur près de cinq cents pages des études de cas ethnographiques et archéologiques pour tenter de résoudre cette énigme. Si les deux auteurs admettent que les institutions impliquant la hiérarchie ou la servitude n’étaient pas tout à fait inconnues à nos prédécesseurs de l’âge glaciaire, ils insistent néanmoins sur le fait que c’était d’abord dans des relations avec le monde surnaturel (esprits ancestraux et cetera). Ils proposent de considérer que l’invention de l’agriculture a conduit à l’émergence de “clans” ou de “lignages” plus élargis d’un point de vue démographique et qu’en parallèle, la communication avec les esprits et les morts sont devenus une voie pour accéder au pouvoir temporel (mais ils n’expliquent pas exactement comment). Selon Flannery et Marcus, le grand pas suivant vers l’inégalité vient quand certains hommes des clans possédant un talent ou un renom exceptionnel – des experts de la guérison, des guerriers et autres surdoués – se virent accorder le droit de transmettre leur statut à leurs descendants, sans prise en considération pour les talents et capacités de ces derniers. Telles furent, en gros, les bases qui menèrent inévitablement à l’arrivée des villes, de la monarchie, de l’esclavage et des empires.

Un aspect surprenant du livre de Flannery et de Marcus est qu’ils n’étaient leurs propos par des preuves archéologiques que lorsqu’ils atteignent l’époque de formation des États et des empires. Au contraire, toutes les étapes cruciales de leur récit de “la création de l’inégalité” reposent plutôt sur des descriptions assez récentes de cueilleurs, éleveurs et cultivateurs vivant en petits groupes, comme les Hadza de la région du rift d’Afrique de l’Est ou les Nambikwara vivant dans la forêt amazonienne. Or, ni les Hadza ni les Nambikwara ne sont des fossiles vivants. Depuis des millénaires, ils sont en contact avec des États et des empires agraires, des pilleurs et des marchands et leurs institutions sociales ont été largement informées par les efforts qu’ont déployés ces peuples pour s’en rapprocher ou les éviter. Seule l’archéologie, à la limite, pourrait nous montrer ce qu’ils ont en partage avec les sociétés préhistoriques. La conclusion est que même si Flannery et Marcus nous proposent des éclairages intéressants sur la façon dont les inégalités pourraient émerger dans les sociétés humaines, ils nous donnent peu d’éléments pour nous convaincre de la réalité du processus qu’ils décrivent.

En dernier lieu, considérons le livre de Ian Morris Foragers, Farmers, and Fossil Fuels: How Human Values Evolve. Morris y poursuit un objectif intellectuel légèrement différent, puisqu’il s’agit de faire dialoguer les découvertes archéologiques, l’histoire ancienne et l’anthropologie avec les travaux d’économistes, comme les recherches de Thomas Piketty sur les causes des inégalités actuelles à l’échelle mondiale ou l’ouvrage plus programmatique de Tony Atkinson Inequality: What can be Done ? Le “temps long” de l’histoire humaine, nous fait savoir Morris, a quelque chose d’important à nous dire de ces questions, mais seulement si nous sommes capables d’établir en premier lieu une mesure uniforme de l’inégalité applicable sur toute son étendue. Pour y parvenir, il traduit les “valeurs” des chasseurs-cueilleurs de l’âge glaciaire et des cultivateurs du Néolithique en des termes familiers pour les économistes d’aujourd’hui, dont il se sert pour établir des coefficients de Gini et des taux d’inégalités. Plutôt que les iniquités spirituelles que mettent en avant Flannery et Marcus, Morris nous propose une vision résolument matérialiste en divisant l’histoire humaine selon les trois substantifs de son titre, en fonction de la manière dont les hommes acheminent la chaleur. Il suggère que chaque société possède un niveau “optimal” d’inégalité sociale – ce que Pickett et Wilkinson appellent un “niveau à bulle” intégré – qui correspond au mode d’extraction énergétique alors en vigueur.

Dans un article de 2015 paru dans le New York Times, Morris fournit des chiffres concrets, des revenus primaires quantifiés en dollars (valeur de 1990). Lui aussi suppose que les chasseurs-cueilleurs du dernier âge glaciaire vivaient majoritairement en petits groupes mobiles. Il en résulte qu’ils consommaient très peu, l’équivalent de 1,10 $ par jour selon les estimations de Morris. En conséquence, le coefficient de Gini est de l’ordre de 0,25, c’est-à-dire presque la valeur minimale que peut prendre cette mesure : il y avait en effet très peu de surplus ou de capital à s’approprier pour une élite en devenir. Les sociétés agraires, qui selon Morris englobent aussi bien le village néolithique de Çatalhöyük il y a 9 000 ans, la Chine de Kubilai Khan et la France de Louis XIV, étaient plus nombreuses et plus riches. La consommation moyenne s’établissait entre 1,50 et 2,20 $ par jour et il y existait une propension à accumuler des surplus de richesse, mais la plupart des personnes travaillaient plus dur et dans des conditions nettement plus mauvaises. Ainsi, les sociétés d’agriculture tendaient vers des niveaux d’inégalité bien plus élevés.

Les sociétés reposant sur les énergies fossiles auraient dû changer cette donne en nous libérant de la corvée du travail manuel et en nous ramenant à des coefficients de Gini plus raisonnables et plus proches de ceux du temps de nos ancêtres chasseurs-cueilleurs. Pendant un temps, ce changement s’esquissait mais pour une raison étrange, que Morris n’est pas en mesure de tout à fait comprendre, la tendance s’est inversée et la richesse se retrouve de nouveau concentrée dans les mains d’une élite mondiale resserrée.

Si les méandres de l’histoire économique de ces 15 000 dernières années et la volonté populaire peuvent être pris pour guides, le “bon” niveau d’inégalité de revenu après prélèvement des impôts semble d’établir entre 0,25 et 0,35. Quant à celui d’inégalité de richesse, il serait entre 0,70 et 0,80. Beaucoup de pays sont aujourd’hui aux alentours ou au-dessus des bornes supérieures de ces estimations, ce qui laisse à penser que Thomas Piketty a raison de prévoir des turbulences. D’importants ajustements technocratiques semblent bien à l’ordre du jour !

Mais laissons de côté les recommandations de Morris et concentrons-nous sur un chiffre : le revenu paléolithique de 1,10 $ par jour. D’où vient-il exactement ? Les calculs sont probablement liés à la valeur calorique de la ration de nourriture quotidienne. Mais comparer cette valeur à l’actuel revenu journalier suppose de prendre en considération toutes les autres choses que les glaneurs du Paléolithique obtenaient gratuitement tandis que nous sommes censés les payer : la sécurité gratuite, la médiation des conflits gratuite, l’éducation primaire gratuite, le soin des plus âgés gratuit, la médecine gratuite, sans oublier les coûts des divertissements, de la musique, des contes et des services religieux. Même quand il est question de nourriture, on doit considérer sa qualité : on parle en effet ici de produits 100% bio et garantis plein air, rincés à la plus pure et naturelle des eaux de source. Mais considérons les frais de camping pour les premiers campements paléolithiques le long de la Dordogne ou de la Vézère, les cours du soir hauts de gamme en peinture sur roche ou en sculpture d’ivoire : et les manteaux de fourrure ! Tout cela vaut sans doute bien plus que 1,10 dollars de 1990 par jour ! Ce n’est pas pour rien que Marshall Sahlins désigne les glaneurs comme la société d’abondance originelle. Un tel train de vie n’est pas bon marché !

Même si tout cela peut paraître légèrement idiot, voici notre thèse : à force de réduire l’histoire du monde à des coefficients de Gini, les conséquences seront elles-mêmes idiotes, et également déprimantes. Morris pressent au moins que quelque chose cloche dans la récente augmentation galopante des inégalités à l’échelle mondiale. Au contraire, l’historien a poussé les lectures à la Piketty de l’histoire humaine à leur conclusion définitive et misérable. Dans son livre de 2017 The Great Leveler: Violence and the History of Inequality from the Stone Age to the Twenty-First Century, il conclut que nous ne pouvons pas faire grand chose contre les inégalités. La civilisation installe toujours au pouvoir une élite restreinte qui se taille une part toujours croissante du gâteau. Seules les catastrophes n’ont jamais pu les déloger : la guerre, la peste, la conscription de masse, la souffrance en gros et la mort. Les demi-mesures ne marchent jamais. Tant qu’on ne veut pas retourner vivre dans une grotte ni mourir dans une apocalypse nucléaire (qui supposément conduirait aussi des survivants à vivre dans des grottes !), il faut bien accepter l’existence de Warren Buffett et de Bill Gates.

Quelle est la solution libérale alternative ? Flannery et Marcus, qui s’inscrivent explicitement dans une tradition rousseauiste, terminent leur enquête par cette conclusion utile :

Nous avons jadis abordé ce sujet avec Scotty MacNeish, un archéologue qui a passé quarante ans à étudier les évolutions sociales. Comment, nous demandions-nous, rendre la société plus égalitaire ? Après un bref entretien avec son ami Jack Daniels, MacNeish nous répondit “Laissez faire les chasseurs et les cueilleurs”?

Avons-nous vraiment couru au-devant de nos fers ?

La véritable étrangeté de ces évocations sans fin de l’innocent état de nature rousseauiste dont nous aurions chuté est que Rousseau n’a jamais prétendu qu’il avait vraiment existé. Il ne s’agissait que d’une expérience de pensée. Dans le Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, origine du gros de l’histoire qu’on se raconte et se répète, il écrit :

Il ne faut pas prendre les recherches, dans lesquelles on peut entrer sur ce sujet, pour des vérités historiques, mais seulement pour des raisonnements hypothétiques et conditionnels ; plus propres à éclaircir la nature des choses qu’à en montrer la véritable origine

L’état de nature de Rousseau n’a jamais eu pour but la description d’une étape du développement. Il n’était pas supposé servir d’équivalent à la phase de “sauvagerie” qui débute les schémas évolutionnistes d’Adam Smith, de Ferguson, de Millar et plus tardivement, de Lewis Henry Morgan. Tous ces auteurs désiraient définir des niveaux de développement social et moral correspondant à des changements historiques dans les modes de production: la cueillette, le pastoralisme, l’agriculture, l’industrie. C’est en revanche plutôt une parabole que Rousseau présente. Comme le souligne Judith Shklar, la fameuse spécialiste de théorie politique enseignante à Harvard, Rousseau s’appliquait en vérité à explorer ce qu’il considérait comme le paradoxe fondamental de la politique humaine : comment la soif innée de liberté d’une façon ou d’une autre peut conduire, à tous coups, “à la marche spontanée vers les inégalités”. Dans les propres termes de Rousseau : “Tous coururent au-devant de leurs fers croyant assurer leur liberté ; car avec assez de raison pour sentir les avantages d’un établissement politique, ils n’avaient pas assez d’expérience pour en prévoir les dangers”. L’imaginaire état de nature est une façon d’illustrer ce phénomène.

Rousseau n’était pas fataliste. Il croyait que les hommes avaient la possibilité de défaire ce qu’ils avaient fait. Ils pouvaient en effet se délivrer de leurs fers. Seulement, ce ne serait pas facile. Selon Shklar, c’est principalement la tension “entre possibilité et probabilité” (c’est -à-dire la possibilité de l’émancipation humaine d’un côté et de l’autre, l’éventualité de se retrouver de nouveau soumis à une forme de servitude volontaire) qui anime les écrits de Rousseau sur l’inégalité. Cela peut sembler légèrement ironique quand on sait qu’au sortir de la Révolution française beaucoup de conservateurs tinrent Rousseau personnellement responsable de l’utilisation de la guillotine. Ils affirmaient avec insistance que la Terreur avait été précisément causée par sa foi naïve dans la bonté naturelle de l’homme et par sa croyance que seuls les intellectuels étaient en mesure d’imaginer un ordre social plus égal, ensuite imposé par la “volonté générale”. Néanmoins, peu des figures du passé que l’on cloue aujourd’hui au pilori, à cause de leur romantisme ou de leur utopisme, étaient si naïfs. Karl Marx, par exemple, affirmait que c’était la capacité à raisonner sur le mode imaginaire qui constitue le propre des hommes. Contrairement aux abeilles, ils imaginent les maisons dans lesquelles ils souhaitent vivre avant de se mettre à les bâtir. Il ne croyait cependant pas qu’il en allait de même avec la société. Nul ne pouvait imposer à cette dernière un plan d’architecte. Ce serait pécher par “socialisme utopique” pour lequel il n’avait que mépris. Les révolutionnaires se devaient au contraire de posséder une idée des forces structurelles plus larges qui donnent forme au cours de l’histoire du monde pour pouvoir exploiter les contradictions sous-jacentes. Par exemple, du fait de la concurrence économique, chaque propriétaire d’usine a besoin de ne pas rétribuer tout le travail de ses employés mais si tous y parviennent trop bien, plus personne n’aura les moyens d’acquérir les marchandises produites. Voilà donc le pouvoir de deux mille ans d’Écritures : quand ils parlent du déroulé de l’histoire humaine, même les réalistes les plus acharnés retombent sur des variations autour du Jardin d’Eden : à la fois la Chute, causée, comme dans la Genèse, par une recherche inconsidérée du savoir et la possibilité d’une rédemption dans le futur. En fusionnant l’état de nature rousseauiste et l’idée des stades de développement héritée des Lumières écossaises, les partis politiques marxistes ont rapidement proposé leur propre version de cette histoire. Il en a résulté une formule pour résumer l’histoire du monde : elle commence par un “communisme primitif’ supplanté par la naissance de la propriété privée mais destiné à revenir un jour.

Il faut constater que les révolutionnaires, en dépit de tous leurs idéaux visionnaires, n’ont pas fait preuve de beaucoup d’imagination, en particulier lorsqu’il s’agissait de relier le passé, le présent et le futur. Tout le monde raconte la même histoire. Ce n’est probablement pas un hasard si, en ce début de millénaire, les mouvements révolutionnaires les plus importants et novateurs, comme les Zapatistes du Chiapas, ou les Kurdes du Rojava, sont aussi ceux qui sont le plus profondément reliés à leur passé traditionnel. Plutôt que de devoir imaginer une utopie primitive, ils peuvent s’appuyer sur un récit plus composite et complexe. Il semble en effet que les milieux révolutionnaires reconnaissent de plus en plus que liberté, tradition et imagination sont et seront toujours entremêlées sans que nous saisissions complètement comment. Il est grand temps que les autres rattrapent leur retard et commencent à concevoir une version non biblique de l’histoire de l’humanité.

Comment le cours de l’histoire (passée) peut à présent changer

Alors, que nous a vraiment appris la recherche en archéologie et en anthropologie, depuis le temps de Rousseau ?

Eh bien, tout d’abord, qu’il est sans doute erroné de commencer par s’interroger sur “les origines de l’inégalité sociale”. En vérité, avant le début de ce que l’on appelle le Paléolithique supérieur, nous n’avons vraiment aucune idée de ce à quoi la majeure partie de la vie humaine pouvait ressemblait. L’essentiel de nos indices est composé de fragments épars de pierre de taille, d’ossements, et de quelques autres matériaux durables. Plusieurs espèces d’hominidés coexistaient ; il n’est pas évident qu’une quelconque analogie ethnographique puisse en rendre compte. Les choses ne gagnent un quelconque intérêt que lors du Paléolithique supérieur lui-même, qui commence il y a environ 45 000 ans et comprend l’apogée de la glaciation et le refroidissement climatique (il y a environ 20 000 ans), connu sous le nom de Dernier Maximum Glaciaire. Ce dernier grand âge glaciaire fut alors suivi de l’apparition de conditions climatiques plus tièdes et du recul progressif des nappes glaciaires, jusqu’à l’époque géologique actuelle, l’Holocène. Des conditions plus clémentes suivirent, ouvrant la voie sur laquelle l’Homo sapiens – qui avait déjà colonisé la majeure partie du Vieux Monde – compléterait sa marche vers le Nouveau Monde, atteignant le littoral méridional des Amériques il y a environ 15 000 ans.

Mais alors, que savons-nous réellement de cette période de l’histoire humaine ? La plupart des premiers indices substantiels d’une organisation sociale humaine lors du Paléolithique proviennent de l’Europe, où nos espèces s’établirent avec l’Homo neanderthalensis, avant l’extinction de ce dernier vers 40 000 avant J.-C. (La concentration des données sur cette partie du monde reflète vraisemblablement un biais historique de la recherche archéologique, plutôt qu’une quelconque anomalie au sujet de l’Europe elle-même). À cette époque, et au cours du Dernier Maximum Glaciaire, les parties habitables de l’Europe de l’âge glaciaire ressemblaient plus au Parc Serengeti en Tanzanie qu’à n’importe quel milieu européen contemporain. Au sud des nappes glaciaires, entre la toundra et les littoraux boisés de la Méditerranée, le continent était divisé entre des vallées riches en gibier et de la steppe, traversé selon les saisons par des troupeaux migrants de cerfs, bisons ou mammouths laineux. Les préhistoriens ont souligné pendant plusieurs décennies – quoique sans effet apparent – que les groupes humains qui habitaient ces environnements n’avaient rien de ces joyeux, simples et égalitaires groupes de chasseurs-cueilleurs, tels que l’on s’imagine encore couramment nos lointains ancêtres.

D’abord, l’existence de riches sépultures, qui remontent aux tréfonds de l’âge glaciaire, est incontestée. Certaines d’entre elles, comme les tombes de Sungir, vieilles de 25 000 ans, à l’est de Moscou, sont connues depuis des décennies et sont célèbres, à juste titre. Felipe Fernández-Armesto, auteur de la critique de Creation of Inequality pour le Wall Street Journal, a exprimé sa stupéfaction, justifiée, quant à leur omission : “Bien qu’ils sachent que le principe héréditaire était antérieur à l’agriculture, M. Flannery et Mme Marcus ne parviennent pas vraiment à se débarrasser de l’illusion rousseauiste qu’il commença avec la vie sédentaire. Ils dépeignent de ce fait un monde sans pouvoir héréditaire jusqu’à environ 15 000 avant J.-C. et leur dessein les conduit à ignorer tout en ignorant l’un des sites archéologiques les plus importants”. Parce que, creusée dans le permafrost sous les établissements paléolithiques à Sungir, se trouvait la tombe d’un homme d’âge moyen enterré, ainsi que le souligne Fernández-Armesto, avec “de formidables signes d’horreur : des bracelets d’ivoire de mammouth poli, un diadème ou un couvre-chef fait avec des dents de renard, et près de 3000 perles d’ivoire laborieusement sculptées et polies.” Et quelques mètres plus loin, dans une tombe identique, “reposent deux enfants, d’environ 10 et 13 ans respectivement, ornés d’offrandes mortuaires semblables – notamment, dans le cas du plus âgé, environ 5000 perles aussi raffinées que celles des adultes (quoique légèrement plus petites) et une énorme lance sculptée dans l’ivoire”.

Site funéraire paléolithique à Sungir, Russie. Source: Wiki Commons

De telles découvertes ne semblent occuper que très peu de place dans tous les livres considérés jusqu’ici. Il pourrait sembler plus excusable de les minimiser ou de les réduire à des notes de bas de page si Sungir était une découverte isolée. Ce qu’elle n’est pas. Des sépultures aussi riches sont aujourd’hui attestées parmi les abris rocheux du Paléolithique supérieur et les établissements à ciel ouvert, à travers la majeure partie de l’Eurasie occidentale, du Don à la Dordogne. Parmi elles, on trouve, par exemple, la “Dame de Saint-Germain-la-Rivière”, vieille de 16 000 ans, décorée d’ornements faits avec les dents de jeunes cerfs chassés 300 km plus loin, dans le Pays basque espagnol ; et les sépultures de la côte ligure – aussi anciennes que Sungir – notamment “Il Principe”, un jeune homme dont les emblèmes comprennent un sceptre de silex exotique, des bâtons de ramure de wapiti et une coiffure ornementée de coquilles perforées et de dents de cerfs. De telles découvertes lancent des défis qui stimulent l’interprétation. Fernández-Armesto a-t-il raison quand il affirme qu’il s’agit des preuves d’un “pouvoir héréditaire” ? Quel est le statut de tels individus dans la vie ?

Non moins intrigantes sont les traces sporadiques, mais incontestables, d’une architecture monumentale, qui remonterait jusqu’au Dernier Maximum Glaciaire. L’idée que l’on pourrait mesurer la “monumentalité” en termes absolus est bien sûr aussi simpliste que l’idée de quantifier la dépense de l’âge glaciaire en dollars et en cents. C’est un concept relatif, qui ne tire son sens que d’une échelle particulière de valeurs et d’expériences antérieures. Le Pléistocène n’a pas d’équivalents directs en matière d’échelle comme les pyramides de Gizeh ou le Colisée de Rome. Mais il possède des constructions qui, par les standards de l’époque, ne pouvaient qu’être considérées comme des travaux publics, qui impliquaient une conception sophistiquée et la coordination du travail sur un volume impressionnant. Parmi elles, il y a les frappantes “maisons de mammouths”, construites avec des peaux étirées sur une structure de défenses (NdT : de mammouth), dont on peut trouver des exemples – remontant à environ 15 000 ans – le long d’un transept de la frange glaciaire qui rejoint l’actuelle Cracovie tout du long jusqu’à Kiev.

Encore plus surprenants sont les temples de pierre de Göbekli Tepe, mis au jour il y a plus de vingt ans à la frontière turco-syrienne, et toujours sujets à un débat scientifique véhément. Datant d’il y a environ 11 000 ans, à la toute fin du dernier âge glaciaire, ils comprennent au moins vingt enclos mégalithiques élevés bien haut sur les flancs de la plaine d’Harran, aujourd’hui aride. Chacun d’entre eux était fait de piliers de craie hauts de plus de 5 mètres et pesant près d’une tonne (semblables aux standards de Stonehenge, et 6000 ans avant eux). Quasiment tous les piliers de Göbekli Tepe sont des œuvres d’art remarquables, avec leurs gravures en relief représentant des animaux menaçants en saillie, avec leurs organes génitaux masculins violemment exposés. Des rapaces sculptés apparaissent aux côtés d’images de têtes humaines coupées. Les gravures attestent de véritables talents en sculpture, sans nul doute aiguisés sur cette matière plus souple qu’est le bois (dont les contreforts des montagnes du Taurus étaient amplement fournis à l’époque), avant d’être appliqués à la roche mère d’Harran. Étonnamment, et en dépit de leur taille, chacune de ces structures massives avait une durée de vie relativement courte, qui s’achevait par de grandes fêtes et un remplissage de ses murs : des hiérarchies élevées jusqu’au ciel, à la seule fin d’être rapidement rasées. Et les protagonistes de ce spectacle préhistorique de fêtes, de construction et de destruction, seraient, à notre connaissance, des chasseurs-cueilleurs, vivant seuls des ressources sauvages.

Göbekli Tepe. Source: Flickr

Que faut-il alors faire de tout cela ? Une réponse académique fut d’abandonner complètement l’idée d’un Âge d’or égalitaire, et de conclure que l’intérêt personnel et rationnel, ainsi que l’accumulation du pouvoir, sont les forces immuables derrière le développement des sociétés humaines. Mais cela ne tient pas vraiment non plus. Les preuves d’une inégalité institutionnelle dans les sociétés de l’âge glaciaire, sous la forme de grandes sépultures ou de constructions monumentales, ne sont rien moins que sporadiques. Des siècles, et souvent des centaines de kilomètres, séparent littéralement les sépultures. Même si l’on met cela sur le compte de la dissémination des traces dont on dispose, on doit tout de même se demander pourquoi les traces sont à ce point disséminées : après tout, si n’importe lequel de ces “princes” de l’âge glaciaire s’était comporté un peu comme, disons, les princes de l’Âge de bronze, on trouverait également des fortifications, des réserves, des palaces – tous les traits usuels des États émergents. Au contraire, sur des dizaines de milliers d’années, on voit des monuments et de magnifiques sépultures, mais peu de choses qui indiquent la croissance de sociétés de rang. Il y a aussi d’autres facteurs, encore plus étranges, comme le fait que les sépultures les plus “princières” sont constituées d’individus avec des anomalies physiques frappantes, qui seraient aujourd’hui pris pour des géants, des bossus ou des nains.

Une étude plus approfondie des découvertes archéologiques apporte une solution à ce dilemme. Elle repose sur les rythmes saisonniers de la vie sociale préhistorique. La plupart des sites paléolithiques abordés jusqu’ici sont associés à des traces de regroupements annuels ou bisannuels, liés aux migrations des troupeaux de gibier – qu’il s’agisse des mammouths laineux, des bisons de la steppe, des rennes ou (dans le cas de Göbekli Tepe) des gazelles – ainsi que de pêches et récoltes de noix cycliques. Lors des périodes peu clémentes de l’année, au moins une partie de nos ancêtres de l’âge glaciaire vivaient véritablement, sans nul doute, en petits groupes qui cueillaient. Mais d’irrésistibles preuves montrent qu’à d’autres périodes ils se rassemblaient en masse (en français dans le texte, NdT) autour de ces sortes de “micro-villes” découvertes à Dolní Věstonice, dans le bassin de Moravie, au sud de Brno, festoyant dans une surabondance de ressources sauvages, s’engageant dans des rituels complexes, dans des entreprises artistiques ambitieuses, et échangeant des minéraux, des coquillages marins, des fourrures animales, sur de stupéfiantes distances. Des équivalents de ces sites de rassemblements saisonniers en Europe occidentale pourraient être les grands abris rocheux du Périgord français ou bien la côte cantabrique, avec ses célèbres peintures et gravures, qui formait, de même, partie de ces cycles annuels de rassemblement et de dispersion.

Cet aspect si saisonnier de la vie sociale perdura, bien après que “l’invention de l’agriculture” eût prétendument changé quoi que ce soit. De nouvelles découvertes montrent que des alternances de cette nature sont peut-être essentielles à la compréhension des célèbres monuments néolithiques de la plaine de Salisbury, et pas seulement en matière de symbolisme calendaire.

Stonehenge, s’avère-t-il, était seulement la dernière d’une longue série de structures rituelles, érigées en bois aussi bien qu’en pierre, lorsque des individus convergeaient vers la plaine depuis des zones reculées des îles Britanniques, à des périodes marquées de l’année. Des fouilles attentives ont montré que nombre de ces structures – maintenant vraisemblablement interprétées comme des monuments à la gloire des géniteurs de puissantes dynasties néolithiques – furent démantelées seulement quelques générations après leur construction. De façon encore plus frappante, cette pratique d’érection et de démantèlement de grands monuments coïncide avec une période au cours de laquelle les peuples de Grande-Bretagne, qui avaient adopté l’économie agricole néolithique de l’Europe continentale, semblent avoir tourné le dos à au moins l’un de ses aspects cruciaux, en abandonnant l’agriculture céréalière et en se tournant – vers 3300 avant J.-C. – vers la récolte des noisettes comme source alimentaire de base. En gardant des troupeaux de bétail, grâce auxquels ils festoyaient de façon saisonnière autour de Durrington Walls, les bâtisseurs de Stonehenge semblent vraisemblablement n’avoir été ni des cueilleurs ni des agriculteurs, mais quelque chose entre les deux. Et si quelque chose comme une cour royale régnait lors de la saison festive, lorsqu’ils se rassemblaient en nombre, alors elle ne pouvait qu’être dissoute pendant la majeure partie de l’année, lorsque les mêmes personnes partaient se disséminer à nouveau à travers l’île.

Pourquoi ces variations saisonnières sont-elles importantes ? Parce qu’elles révèlent que depuis le tout début, les êtres humains expérimentaient en pleine conscience différentes possibilités sociales. Les anthropologues décrivent les sociétés de ce type comme dotées d’une “double morphologie”. Marcel Mauss, qui écrivait au début du XXe siècle, observait que les Inuits circumpolaires, “et de même de nombreuses autres sociétés, ont deux structures sociales, l’une en été et l’autre en hiver, et qu’ils ont en parallèle deux systèmes de droit et de religion”. Lors des mois d’été, les Inuits se dispersent en de petits groupes patriarcaux à la recherche de poissons d’eau douce, de caribous, et de rennes, chacun sous l’autorité d’un vieil homme célibataire. La propriété était affirmée de manière agressive et les patriarches exerçaient un pouvoir coercitif, voire tyrannique, sur leurs proches. Mais lors des longs mois d’hiver, lorsque les phoques et les morses affluaient vers les littoraux arctiques, une autre structure sociale succédait complètement, tandis que les Inuits se regroupaient pour construire de grands lieux de réunion en bois, en côtes de baleine et en pierres. À l’intérieur, les vertus d’égalité, d’altruisme et de vie collective prévalaient ; la richesse était partagée ; les maris et femmes s’échangeait leurs partenaires sous les auspices de Sedna, la déesse des Phoques.

Un autre exemple est celui des chasseurs-cueilleurs indigènes de la côte nord-ouest du Canada, pour qui l’hiver – et non l’été – était la période où la société se cristallisait dans sa forme la plus inégalitaire, et de façon spectaculaire. Des palais de bois émergeaient le long des côtes de Colombie britannique, avec des nobles héréditaires à la tête d’une cour sur des sujets et des esclaves, et organisant ces grands banquets appelés potlatch. Ces cours aristocratiques se disloquaient cependant au profit du travail estival de la saison de pêche, donnant lieu à de plus petites formations claniques, toujours hiérarchiques, mais dotées d’une structure totalement différente et moins formelle. Dans ce cas, les individus adoptaient en fait des prénoms différents en été et en hiver, devenant littéralement d’autres personnes, selon l’époque de l’année.

Peut-être encore plus frappantes, en matière de renversements politiques, étaient les pratiques saisonnières des confédérations tribales du XIXe siècle dans les grandes plaines américaines – des cultivateurs intermittents ou ponctuels qui avaient adopté une vie de chasse nomade. À la fin de l’été, les petits groupes, grandement mobiles, de Cheyenne et Lakota, allaient se rassembler dans de grands établissements pour préparer la logistique de la chasse au buffle. Lors de cette période très sensible de l’année, ils désignaient une force de police qui exerçait des pouvoirs pleinement coercitifs, notamment le droit d’emprisonner, de fouetter ou de donner une amende à tout contrevenant menaçant les procédures. Comme l’anthropologue Robert Lowie l’observa cependant, cet “autoritarisme sans équivoque” s’opérait de façon strictement saisonnière et temporaire, laissant la place à des formes d’organisation plus “anarchiques” une fois que la saison de chasse – et les rituels collectifs qui la suivaient – était achevée.

La recherche ne progresse pas toujours. Parfois, elle régresse. Il y a une centaine d’années, la plupart des anthropologues comprirent que ceux qui vivaient principalement des ressources sauvages n’étaient pas, généralement, restreints à de petits “groupes”. Cette idée est un pur produit des années 1960, lorsque les Bochimans du Kalahari et les pygmées Mbuti devinrent les images d’Épinal de l’humanité primitive, aussi bien pour les audiences télévisuelles que pour les chercheurs. De ce fait, nous avons assisté à un retour des étapes de l’évolution, pas vraiment différentes de la tradition des Lumières écossaises : c’est ce sur quoi Fukuyama s’appuie, par exemple, lorsqu’il écrit que les sociétés évoluent constamment de “petits groupes” en “tribus” et en “chefferies”, et finalement, en ce type d’ “États” complexes et stratifiés dans lesquels nous vivons aujourd’hui – généralement définies par leur monopole “de l’usage de la violence physique légitime”. En vertu de cette logique, cependant, les Cheyenne ou Lakota auraient eu à “évoluer” directement de petits groupes en États à peu près à chaque mois de novembre, et “régresser” encore quand venait le printemps. La plupart des anthropologues reconnaissent désormais que ces catégories sont irrémédiablement inadéquates ; personne néanmoins n’a proposé une alternative pour penser l’histoire mondiale de la façon la plus large.

En quasi toute indépendance, les découvertes archéologiques suggèrent que dans les environnements hautement saisonniers du dernier âge glaciaire, nos lointains ancêtres se comportaient de façon largement similaire : allant et venant entre des organisations sociales alternatives, permettant la montée de structures autoritaires durant certaines périodes de l’année, sous condition qu’elle ne puissent pas durer, et en comprenant qu’aucun ordre social particulier n’était jamais fixé ou immuable. Au sein d’une même population, on pouvait vivre parfois dans ce qui ressemble, de loin, à une petite bande, parfois dans une tribu, et parfois dans une société dotée des nombreux aspects que l’on attribue aujourd’hui aux États. Avec une telle flexibilité institutionnelle vient la capacité de s’affranchir des frontières de n’importe quelle structure sociale et de s’interroger ; de faire et défaire à la fois les mondes politiques dans lesquels nous vivons. À elle seule, elle explique les “princes” et “princesses” du dernier âge glaciaire, qui semblent se manifester, dans un isolement si magnifique, comme des personnages d’une sorte de conte de fées ou de téléfilm historique. Peut-être étaient-ils presque littéralement ainsi. S’ils ont jamais régné, peut-être était-ce alors, comme les rois et reines de Stonehenge, seulement pour une saison.

L’heure du réexamen

Les auteurs contemporains ont tendance à utiliser la préhistoire comme toile de fond pour résoudre des questions philosophiques : les humains sont-ils fondamentalement bons ou mauvais ? Coopératifs ou compétitifs ? Egalitaires ou hiérarchiques ? De ce fait, ils tendent aussi à écrire comme si, durant 95 % de l’histoire de notre espèce, les sociétés humaines étaient globalement les mêmes. Mais même seulement 40 000 ans constituent une très, très longue durée. Il semble probable, fondamentalement, et les découvertes le confirment, que ces mêmes humains pionniers qui colonisèrent la majeure partie de la planète eussent aussi expérimenté une variété immense d’arrangements sociaux. Comme Claude Lévi-Strauss l’a souvent montré, les Homo sapiens primitifs n’étaient pas seulement physiquement semblables aux êtres humains modernes ; ils étaient nos pairs intellectuels également. En fait, la plupart d’entre eux était probablement plus consciente du potentiel des sociétés que les gens ne le sont généralement aujourd’hui, allant et venant entre différentes formes d’organisation chaque année. Plutôt que de paresser dans une sorte d’innocence primitive, jusqu’à ce que le démon de l’inégalité frappe en quelque sorte à la porte, nos ancêtres préhistoriques semblent avoir, régulièrement et avec succès, ouvert et fermé le verrou, confinant l’inégalité à des téléfilms historiques rituels, édifiant des dieux et des royaumes comme ils firent leurs monuments, et ensuite les démantelant allègrement encore une fois.

Mais alors, la vraie question n’est pas “quelles sont les origines de l’inégalité sociale ?” Mais, alors que la majeure partie de notre histoire a connu des va-et-vient entre différents systèmes politiques, “comment sommes-nous arrivés à être aussi bloqués ?” Tout ceci est très éloigné de la notion de sociétés préhistoriques dérivant aveuglément vers les chaînes institutionnelles qui les attachent. On est aussi loin des prophéties lugubres de Fukuyama, Diamond, Morris et Scheidel, où toute forme “complexe” d’organisation sociale signifie nécessairement que de minces élites s’attribuent des ressources clefs, et commencent à piétiner tous les autres. La majeure partie des sciences sociales traite de ces sombres conjectures comme des vérités évidentes. Mais à l’évidence, elles sont sans fondement. Par conséquent, l’on pourrait raisonnablement demander : quelles autres précieuses vérités doivent désormais être dépoussiérées de leur statut historique ?

Un certain nombre, en vérité. Dans les années 1970, le brillant archéologue de Cambridge David Clarke prédisait que, avec la recherche contemporaine, quasiment chaque aspect de l’ancien édifice de l’évolution humaine, “les explications du développement de l’homme moderne, la domestication, la métallurgie, l’urbanisation et la civilisation – pourraient, une fois remis en perspective, apparaître comme des pièges sémantiques ou des mirages métaphysiques”. Il semble qu’il ait raison. Des informations pleuvent désormais de tous les recoins du globe, fondées sur un travail de terrain empirique attentif, sur des techniques avancées de reconstruction du climat, sur la datation chronométrique, et sur des analyses scientifiques de restes organiques. Les chercheurs examinent les données ethnographiques et historiques sous un nouveau jour. Et quasiment toutes ces nouvelles recherches remettent en cause les récits usuels de l’histoire mondiale. Pourtant, les découvertes les plus remarquables restent confinées aux travaux des spécialistes, ou doivent être devinées en lisant entre les lignes des publications scientifiques. Concluons donc avec quelques grandes lignes qui nous sont propres ; seulement une poignée, pour donner sens à ce vers quoi l’histoire mondiale émergente commence à se diriger.

Le premier pavé dans la mare sur notre liste concerne les origines et l’étendue de l’agriculture. La vision selon laquelle celle-ci a constitué une transition majeure dans les sociétés humaines ne repose plus sur aucun fondement solide. Dans les parties du monde où plantes et animaux furent d’abord domestiqués, il n’y eut en fait aucun “revirement” discernable du Cueilleur du Paléolithique à l’Agriculteur du Néolithique. La “transition” entre une vie reposant essentiellement sur des ressources sauvages à une autre fondée sur la production alimentaire s’étendit spécifiquement sur quelque chose comme trois mille ans. Alors que l’agriculture mit au jour la possibilité de concentrations de la richesse plus inégales, dans la plupart des cas, ceci ne commença que des millénaires après ses débuts. Entre les deux périodes, des individus dans des zones aussi retirées que l’Amazonie et le Croissant fertile du Moyen-Orient s’essayaient à l’agriculture pour voir ce qui leur convenait, une “agriculture ludique” si l’on veut, alternant annuellement entre les modes de production, autant qu’ils allaient et venaient en matière de structures sociales. En outre, “la diffusion de l’agriculture” à des zones secondaires, comme l’Europe – si souvent décrite en des termes glorieux, comme le début de l’inévitable déclin de la chasse et de la cueillette – semble avoir été un processus fragile, qui échoua parfois, entraînant des effondrements démographiques chez les agriculteurs, et non chez les cueilleurs.

Selon toute évidence, cela n’a plus aucun sens d’utiliser des expressions comme “la révolution agricole” lorsque l’on traite de processus aussi démesurément longs et complexes. Comme il n’y eut pas d’État semblable à l’Éden, à partir duquel les agriculteurs purent démarrer leur marche vers l’inégalité, il y a encore moins de sens à parler de l’agriculture comme ce qui donna naissance aux rangs et à la propriété privée. S’il y a une chose à dire, c’est que c’est parmi ces populations – les peuples du “Mésolithique” – qui refusèrent l’agriculture pendant les siècles de réchauffement de l’Holocène précoce, que l’on trouve une stratification s’enracinant progressivement ; à tout le moins si elle s’accompagne de sépultures opulentes, d’un art de la guerre offensif et de constructions monumentales. Dans au moins certains cas, comme au Moyen-Orient, les premiers agriculteurs semblent avoir consciemment développé des formes alternatives de communauté, pour accompagner leur mode de vie de plus intensif en travail. Ces sociétés néolithiques semblent remarquablement plus égalitaires lorsqu’on les compare à celles de leurs voisins chasseurs-cueilleurs, avec une hausse spectaculaire de l’importance économique et sociale des femmes, clairement reflétée dans leur vie rituelle et leurs arts (opposons ainsi les figures féminines de Jéricho ou de Çatal Höyük avec les sculptures hyper-masculines de Göbekli Tepe).

Un autre pavé dans la mare : la “civilisation” n’arrive pas en bloc. Les premières villes du monde ne se contentèrent pas d’émerger dans une poignée d’endroits, en même temps que des systèmes de gouvernement centralisé et de contrôle bureaucratique. En Chine, par exemple, on sait aujourd’hui que vers 2500 avant J.-C., des établissements de 300 hectares ou plus existaient dans le cours inférieur du fleuve Jaune, des milliers d’années avant la fondation de la dynastie la plus ancienne (Shang). De l’autre côté du Pacifique, et vers la même époque, des centres cérémoniaux d’une dimension frappante ont été découverts dans la vallée du Rio Supe, au Pérou, en particulier sur le site de Caral : d’énigmatiques restes d’esplanades submergées et de plateformes monumentales, plus vieilles que l’empire inca de quatre millénaires. Ces découvertes récentes montrent combien nos connaissances de la distribution et de l’origine des premières villes sont faibles, et combien aussi ces villes sont beaucoup plus vieilles que les systèmes de gouvernement autoritaire et d’administration par l’écrit que nous supposions jusqu’alors nécessaires à leur fondation. Et dans les centres mieux établis de l’urbanisation – la Mésopotamie, la vallée de l’Indus, le bassin de Mexico – il y a de plus en plus de preuves que les premières villes étaient organisées selon des règles consciemment égalitaires, les conseils municipaux conservant une autonomie significative par rapport au gouvernement central. Dans les deux premiers cas, les villes avec des infrastructures civiques sophistiquées fleurissaient pendant plus d’un demi-millénaire, sans aucune trace de sépultures et monuments royaux, sans grandes armées ou autres moyens de coercition à grande échelle, ni indice d’un contrôle bureaucratique direct sur la vie de la plupart des citoyens.

Quoi qu’en dise Jared Diamond, il n’y a absolument aucune preuve que des structures de pouvoir pyramidales sont la conséquence nécessaire d’une organisation à grande échelle. Quoi qu’en dise Walter Scheidel, il est tout simplement faux de dire qu’il est impossible de se débarrasser des classes régnantes, lorsqu’elles sont établies, autrement que par une catastrophe généralisée. Prenons seulement un exemple bien connu : autour de l’année 200 après J.-C., il apparaît que la cité de Teotihuacan dans la vallée de Mexico, avec une population de 120 000 individus (l’une des plus élevées dans le monde de l’époque), a subi une profonde transformation, tournant le dos aux temples-pyramides et aux sacrifices humains, et se reconstruisant en un vaste ensemble de confortables villas, quasiment toutes exactement de la même taille. Elle demeura ainsi pendant peut-être 400 ans. Même du temps de Cortés, le centre du Mexique abritait des villes telles que Tlaxcala, dirigée par un conseil élu dont les membres étaient périodiquement fouettés par leurs électeurs, pour qu’ils se rappelassent qui était suprêmement aux commandes.

Ces éléments ont été présentés ici pour créer une histoire mondiale totalement différente. Dans la plupart des cas, nous sommes simplement trop aveuglés par nos préjugés pour voir ce qu’ils impliquent. Par exemple, presque tout le monde insiste aujourd’hui sur le fait que la démocratie participative, ou l’égalité sociale, peuvent fonctionner dans une petite communauté ou un groupe d’activistes, mais ne peuvent potentiellement “être extrapolées” à quelque chose comme des villes, des régions ou des Etats-Nation. Mais les découvertes sous nos yeux, si nous choisissons de les regarder, suggèrent le contraire. Les cités égalitaires, même les régions confédérées, sont des lieux communs historiques. Ce que ne sont pas les familles et ménages égalitaires. Une fois que le verdict historique sera tombé, nous verrons que la perte la plus douloureuse des libertés humaines commença à petite échelle – au niveau des relations de genre, des groupes d’âge et de la servitude domestique – c’est-à-dire le type de relations où la plus grande intimité s’accompagne simultanément des plus profondes formes de violence structurelle. Si nous voulons vraiment comprendre comment il est devenu un jour acceptable pour les uns de transformer la richesse en pouvoir, et pour les autres de se faire dire que leurs besoins et que leurs vies ne comptaient pas, c’est bien là qu’il faudrait regarder. C’est là aussi, prédisons-nous, que le travail, le plus âpre qui soit, de création d’une société libre, devra se dérouler.

 

This translation was first published in Le grand continent

 

 

Merci à Eurozine qui a publié ce texte en français