Per scoraggiamento, nella
maggior parte dei casi, ci si può dire che sarebbe finalmente più utile
sottrarsi al gioco sociale anziché cercare vanamente di sovvertirne l’ordine,
ma nessuna secessione è possibile al di fuori di quella che per calcolo o
ragione, l’ordine sociale tollera. Il che non vuol dire che la secessione
individuale sarebbe, per principio, inutile o non avrebbe altro interesse se
non soddisfare una scelta personale, come, per esempio, fuggire la città
piovra. Collegata ad altre forme di secessione, offensive, collettive, acquista
senso, ma solo a questa condizione. Senza altra prospettiva che l’evasione
verso un altro mondo vivibile ma limitato, essa non rileva che dell’esperienza
personale.
Se il soggetto ha il suo
interesse, è perché il tema della secessione come forma desiderante di
“deterritorializzazione”, per dirla alla Deleuze, è oggi presentata sempre più come
una sorta di panacea o di nec plus ultra
del “pensiero contro”. Contro le forme di vita riconosciute come
definitivamente alienate, per essere più precisi. Pensiero che, preso così da
chi s’identifica con esso da indirizzo a indirizzo alle giovani generazioni,
irriga – con la prospettiva di Agamben della destituzione o quella dell’esodo
cara a Paolo Virno – una forma di discorso del metodo che agisce
soggettivamente e che dovrebbe costruire del “comune” altrove che nello spazio
del capitale. Non si cercherà qui di dimostrare, talmente l’evidenza ci sembra
accecante, che il capitale è dappertutto, ma di dedicarci a una genealogia di
questa tentazione che ha a che vedere, come dice Rancière, con lo scarto
“orfano di un mondo simbolico e vissuto cui appoggiarsi” (En quel temps vivons-nous?).
In verità e perché le
cose siano chiare, l’esperienza secessionista è già stata tentata e più spesso
di quel che si crede, senza che l’ordine del capitale sia cambiato di una
virgola. Precisiamo: si tratta dell’esperienza della fuga, del ripiego,
individualmente o collettivamente fondato sull’idea del campo da ricostruire,
della base da rifare, del territorio finalmente purificato da ogni catastrofe
di civiltà. Degli anarchici dell’inizio del XX° secolo vi hanno creduto con
ostinazione. Fino a rompersi la schiena, i denti e vedere le “affinità” che li
collegavano disfarsi. Le “comunità” del dopo 68 hanno ricominciato nell’euforia
più in voga a quel tempo di cambiare la “loro” vita non potendo trasformare il
mondo. Senza un miglior successo oppure marginalmente componendo con le leggi
di mercato, fino a partecipare talvolta alla sua rimodelizzazione “etica”.
Non ignoro che una lunga
memoria può portare a intese eccessive, soprattutto quando il fallimento è il
loro punto comune. E niente collega davvero l’aspirazione secessionista attuale
alle esperienze evocate in precedenza. Né lo stato del mondo, né le condizioni
reali di esistenza, né la corda sensibile che le collegava. Una tale
aspirazione procede da altri desideri, più terra-terra. Si tratta, con la
ritirata, di sfuggire al movimento infinito del capitale, maelström che sconvolge in permanenza quel
che faceva la temporalità delle nostre vite – queste vite che il rapporto con
gli altri e la percezione cognitiva di un mondo destinato a smantellarsi
infinitamente disfa metodicamente fin nell’intimo. Quel che presiede, in molti
casi e a un certo livello di coscienza, a questo processo di ritirata attiva, è
spesso una maniera di credere che non si potrà sfuggire al sistema – uscire dal
capitalismo – se non attraverso lo scarto, uno scarto capace di fare pluralità
e basato sull’idea che la fuga non sarebbe soltanto la nostra ultima libertà,
ma la nostra ultima capacità di agire. Più che all’esteriore dell’anarchia e ai
“comunitari” degli anni settanta questo revival della ritirata rinvia piuttosto
all’approccio di Landauer. Una ritirata vissuta come aspirazione a ricominciare
qualcosa creando in seno all’ordine spaziotemporale esistente, un altro modo spaziale
e temporale di abitare un mondo sensibile e comune, un piccolo mondo
suscettibile di gettare le basi di un mondo più largo, di un mondo per tutti. È
l’idea di tracciare il proprio solco, di fare esperienza, di rifondare del
vivibile, del vivente, dell’invidiabile e del trasmissibile.
Detto questo, si tratta di un dato duplice assolutamente specifico a
quest’epoca. Da una parte, sono gli effetti della postmodernità in materia di
decostruzione sistematica degli antichi concetti che fondavano, non più
soltanto la speranza nell’idea di emancipazione, ma il desiderio di farla
sbocciare. Dall’altra, il trionfo di quel che bisogna pur chiamare un pensiero
post heideggeriano della catastrofe definitiva, talmente influente sugli
affetti dei combattenti per la libertà e l’uguaglianza che la fine del
capitalismo non sarebbe più di attualità – quella del mondo essendo quasi certa. In chiaro, la difesa di
Gaia prevarrebbe su tutto il resto e ci si dovrà ormai dedicare corpo e anima a
preservare il pianeta per controbilanciare gli effetti distruttori di non si sa
chi o che cosa. Perché se il catastrofismo stile collapsologia fa parte del
pensiero postmoderno, è precisamente nel fatto che identifica soltanto degli
effetti. E che, infine, come dice ancora Rancière, non è che una figura del
“nichilismo contemporaneo” che non pensa “la salvezza […] che sullo sfondo della “grossa nube
nera” (En quel temps vivons-nous ?). L’ecologia, che ne è alla
base, ma una base “mutilata” per parlare come Renaud Garcia, è in qualche sorta
venuta a prendere il posto del marxismo. Mentre questo diceva: non cambierete
nulla se non cambiate i rapporti di produzione, l’ecologia perpetua
reinventandola la superstizione della Grande Causalità: non cambierete nulla se
non salvate il Pianeta. Poco importa se nel frattempo la questione
dell’uguaglianza è evacuata: il supposto mutuo aiuto tra “resilienti” del
terrestre vi porrà rimedio in una forma di comunismo platonico al quale
preferiremo sempre quello che il giovane Marx, nei Manoscritti del 1844,
definiva l’umanizzazione dei sensi umani.
Fare secessione vuol dunque dire prendere le distanze. Questo movimento
può dunque iscriversi in un’iniziativa individuale di sopravvivenza tendente ad
attenuare la propria miseria o a calmare le carenze: andare a vedere altrove e
tentarvi la fortuna. Quale fortuna? Quella non trascurabile di trovarvi di che
sopravvivere o, ancora meglio per chi l’intraprende, di vivere in accordo con
quello che raccorda al mondo non necessariamente per cambiarlo, ma per dare un
altro senso alla propria vita. È, allora evidentemente questione di
un’altra forma di secessione, quella che evoca una certa arte del contrappunto
o del controtempo per iscrivere il proprio progetto in una ritirata che
corrisponderebbe a un ritorno alle origini più naturali della vita stessa.
Altrettanti passi di lato ontologici, di aspirazioni alla simbiosi, di desideri
di ridare forma a un mondo disfatto e reso artificiale che se si coniugassero
potrebbero rendere conto di una coscienza esigente e scrupolosa colta nel
granaio dottrinale dell’emancipazione.
L’iniziativa
secessionista si apparenta a un modo di disertare il centro nervoso del sistema
per combatterlo in margine, sui suoi bordi, costruendo zone, luoghi che
potrebbero, anche provvisoriamente, indebolirne il potere. L’esempio di Notre-Dame-des-Landes resta, per il caso,
emblematico dell’ultimo decennio. Gli zadisti hanno raggiunto il loro obiettivo
– il ritiro del progetto mortifero dell’aeroporto – ed esemplarmente aperto una
chiara prospettiva emancipatrice. Il resto procede di un accomodamento
negoziato. Come nel caso di uno sciopero vittorioso dove il solo punto che
potrebbe far accedere alla reale emancipazione – l’abolizione del salariato – è
sempre lasciato da parte. Non per dimenticanza ma per pragmatismo. Il nemico può
retrocedere ma continua a distribuire le carte. Vuol dire che il gioco non vale
la candela? Assolutamente no, perché ogni breccia aperta nel muro
dell’innominabile porcheria del mondo è una vittoria.
Quel che conviene pensare ormai, non è l’opportunità delle secessioni,
che sono in parte le nuove forme di resistenza di questi tempi decostruiti, ma
le loro articolazioni come sostituti delle antiche strategie di confronto tra
possidenti e spossessati rese tutte caduche dallo smantellamento metodico del
tessuto produttivo. Se la vita mostra ampiamente che è spesso necessario recidere
certi legami per continuare ad avanzare, il momento in cui ci troviamo
obbligati a disfarci metodicamente, ma senza indebolirsi, di certe appartenenze
paralizzanti, di vecchi riflessi apparentemente identificanti ma inefficienti
per apprendere il reale e convincersi dell’enormità del compito che ci incombe
per farla finita con questo mondo prima che la faccia finita con noi. Ci vorrà
molta audacia, inventività, vagabondaggio e passi perduti per aprire nuovi
passaggi nel muro del disprezzo di cui si è circondata la fortezza tecno
capitalista.
Più che mai, è giunto il momento della fuga che è un’altra forma di
secessione. Sfuggire al peso delle parole, alla forza delle cose, alle menzogne
sconcertanti, alla mollezza propagandistica, ai pensieri deboli, alla falsa
parola, all’estetizzazione della rabbia. In fondo, quando entra in un processo
di emancipazione collettiva, il desiderio di secessione è desiderio di rompere
con forme oggettivamente inefficaci – perché viziate – di resistenza, di
ripensare lo scontro, di renderlo appassionante, d’inventare nuove connivenze
emancipate dai pensieri fissi, d’immaginare, a ogni livello, nuove linee di
forza suscettibili di allargare il più possibile, e senza a priori puristi, i
perimetri infiniti delle collere sociali. Accogliendole tutte per quel che
dicono: il rifiuto delle sozzure della povertà e l’aspirazione a una vita
dignitosa.
Esistono caratteristiche comuni alle diverse secessioni collettive di
questi ultimi tempi: una stessa pratica dello scarto, un identico rifiuto della
separazione tra i mezzi e i fini, un agire insieme nella tessitura delle
fraternità riconquistate, il dominio di un tempo di lotta che si sa poter
essere lungo, ma anche profittevole, nella sua durata, per fare rifugio,
radice, storia, solidarietà. Un po’ come se il vicolo cieco del mondo e l’oblio
liquidatore prodotto in massa dai rappresentanti autorizzati e dagli impiegati
del sistema avessero avuto l’effetto contrario a quello scontato: aprire una
tale breccia nel consenso dominante che ogni secessione che spunta e prende
corpo, conferma la certezza che qualunque cosa faccia il Capitale non riuscirà
a colonizzare i nostri neuroni.
Lo scarto è il momento in cui il risveglio porta lontano. Verso la
secessione generale. Su questo piano, e perché viene da un altrove che nessuno
ha visto arrivare, i Gilets jaunes hanno chiaramente dinamitato la pseudo
civiltà unificata del nuovo mondo macroniano. La loro secessione ha avuto un
duplice effetto: zittire gli spiriti ben fatti della militanza della Teoria e
dell’Università e riappropriarsi di tutto quel che mancava loro per rimettere
la storia sui binari. D’un colpo solo e senza perdere tempo nel commentare cose
insignificanti, si sono occupati dei ronds-points per farne delle piccole ZAD
(zone da difendere), si sono costituiti in popolo egualitario che nessun
“populismo di sinistra” potrà mai fondare, hanno ritrovato il gusto
dell’antagonismo rissoso, della pertinenza tattica, del rifiuto della delega.
Per puro istinto, senza tante parole, marciando.
Fare secessione è precisamente questo: riprendere in mano la propria
vita e tracciare il proprio cammino. Il pensiero ad angolo retto pena sempre a
captare altro che la figura geometrica della sua impotenza. È solo nel marinare
i doveri, nel furtivo, nel selvaggio, nell’imprevisto nell’astuzia e nel
coraggio che si avrà qualche probabilità di mettere finalmente in difficoltà
l’ordine logistico di un mondo e, come diceva Walter Benjamin, di “liberare
l’avvenire da quel che oggi lo sfigura”. La lenta diffusione del rigetto rimane
tanto misteriosa quanto il momento in cui il rifiuto raggiunge l’intensità
necessaria e sufficiente per passare all’azione e scuotere lo stato delle cose.
Si chiamava rivoluzione ed era sempre preceduta da secessioni puntuali. Il
passato ce lo insegna. Ci fa sempre segno.
Freddy
GOMEZ, A contretemps, 22marzo 2021
Traduzione dal francese
di Sergio Ghirardi Sauvageon
Digression
sur la sécession
On peut, par découragement le plus
souvent, se dire qu’il serait finalement plus utile de se soustraire au jeu
social que de chercher vainement à subvertir son ordre, mais nulle sécession
n’est possible hors celle que l’ordre social, par calcul ou par raison, tolère.
Ce qui ne saurait signifier que la sécession individuelle serait, par principe,
inutile ou n’aurait d’autre intérêt que de satisfaire un penchant personnel,
comme de fuir la ville-pieuvre par exemple. Conjuguée à d’autres formes,
offensives, collectives, de sécessions, elle peut prendre sens, mais à cette
seule condition. Sans autre perspective que l’évasion vers un autre monde
vivable, mais limité, elle ne relève que de l’expérience personnelle.
Si le sujet à son intérêt, c’est que la
thématique de la sécession comme forme désirante de
« déterritorialisation », pour parler comme Deleuze, est aujourd’hui
présentée, et de plus en plus, comme une sorte de panacée ou de nec
plus ultra de la « pensée contre ». Contre les formes de vie
admises comme définitivement aliénées, pour être plus précis. Et que, prise
ainsi par celles et ceux qui s’y reconnaissent d’adresse en adresse aux jeunes
générations, elle irrigue, avec l’agambéenne perspective de la « destitution »
ou celle de l’« exode » chère à Paolo Virno, une manière de discours
de la méthode subjectivement agissant et censé construire du commun ailleurs
que dans l’espace du capital. On ne tentera pas de démontrer ici, tant
l’évidence nous semble aveuglante, que le capital est partout, mais de nous
livrer à une généalogie de cette tentation qui a à voir, comme le dit Rancière,
avec l’écart « orphelin d’un monde symbolique et vécu auquel
s’adosser » (En quel temps vivons-nous ?)
À vrai dire, et pour que les choses
soient claires, l’expérience sécessionniste a déjà été tentée, et plus souvent
qu’on ne le pense, sans que l’ordre du capital n’en eût été changé d’un iota.
Précisons : il s’agit de l’expérience de la fuite, du repli, individuellement
ou collectivement fondé sur l’idée du camp à reconstruire, de la base à
refaire, du territoire enfin purifié de toute catastrophe civilisationnelle.
Des anarchistes du début du XXe siècle y ont cru avec obstination. Jusqu’à s’y
rompre le dos, les dents et y voir se défaire les « affinités » qui
les liaient. Les « communautés » de l’après-68 ont remis ça dans
l’ivresse, plus en vogue avec leur temps, de changer « leur » vie à
défaut de transformer le monde. Sans plus de succès, ou alors marginalement et
en composant avec les lois du marché, jusqu’à participer parfois à sa
remodélisation « éthique ».
Je n’ignore pas qu’une longue mémoire
peut occasionner des rapprochements excessifs, surtout quand leur point commun
est l’échec. Et pas davantage que rien ne corrèle vraiment l’aspiration
sécessionniste d’aujourd’hui aux expériences évoquées précédemment. Ni l’état
du monde, ni les conditions réelles d’existence, ni la corde sensible qui les
reliait. Elle procède d’autres désirs, plus terre à terre. Il s’agit là, par le
retrait, d’échapper au mouvement infini du capital, ce maelström qui bouleverse
en permanence ce qui faisait la temporalité de nos vies – ces vies qu’il défait
méthodiquement jusque dans l’intime, le rapport aux autres et la perception
cognitive d’un monde voué à se défaire infiniment. Ce qui préside, dans bien
des cas et à un certain niveau de conscience, à cette démarche de retrait
actif, c’est souvent une manière de croire qu’on ne pourrait échapper au
système – sortir du capitalisme – que par l’écart, un écart capable de faire
pluralité et fondé sur l’idée que la fuite serait non seulement notre dernière
liberté, mais notre dernière capacité d’agir. Plus qu’aux en-dehors de
l’anarchie et aux « communautaires » des seventies, c’est
plus sûrement à l’approche landauérienne que renvoie ce revival du
retrait vécu comme aspiration à recommencer quelque chose en créant au sein de
l’ordre spatio-temporel existant, une autre façon, spatiale et temporelle,
d’habiter un monde sensible en commun, un petit monde susceptible de jeter les
bases d’un monde plus large, d’un monde pour tous. C’est l’idée de tracer son
sillon, de faire expérience, de refonder du vivable, du vivant, de l’enviable
et du transmissible.
Il est, cela dit, une double donnée tout
à fait spécifique à cette époque. C’est, d’une part, les effets de la
postmodernité en matière de déconstruction systématique des anciens concepts
qui fondaient, non pas seulement l’espoir dans l’idée d’émancipation, mais le
désir de la faire éclore. Et, de l’autre, le triomphe de ce qu’il faut bien
appeler une pensée post-heideggérienne de la catastrophe définitive influant de
telle manière sur les affects des combattants pour la liberté et l’égalité que,
la fin du monde étant presque sûre, celle du capitalisme ne serait
plus tellement d’actualité. En clair, la défense de Gaïa l’emporterait
objectivement sur tout le reste, et c’est à préserver la planète qu’il faudrait
désormais se vouer corps et âme pour contrebalancer les effets destructeurs
d’on ne sait qui ni quoi. Car si l’effondrisme version collapsologique
participe de la pensée postmoderne, c’est précisément en cela qu’il n’identifie
que des effets. Et qu’il n’est, in fine, comme le dit encore
Rancière, qu’une figure du « nihilisme contemporain » qui ne pense
« le salut […] que sur le fond du “gros nuage noir” » (En quel
temps vivons-nous ?). L’écologie, qui est sa base, mais une base
« mutilée » pour parler comme Renaud Garcia, est en quelque sorte
venue prendre le relais du marxisme. Quand celui-ci disait : vous ne
changerez rien à rien si vous ne changez pas les rapports de production,
celle-là perpétue, en la réinventant, la superstition de la Grande
Causalité : vous ne changerez rien à rien si vous ne sauvez pas la
Planète. Qu’au passage, la question de l’égalité file à la trappe, la chose est
sans importance : la supposée entraide des « résilients » du
terrestre y palliera dans une forme de communisme platonicien auquel nous
préférerons toujours celui que le jeune Marx, dans les Manuscrits de
1844, définissait comme l’humanisation des sens humains.
Faire sécession, c’est donc faire écart.
Ce mouvement peut s’inscrire dans une démarche individuelle de survie visant à
tamiser sa misère ou à calmer ses manques : aller voir ailleurs et y
tenter sa chance. Quelle chance ? Celle, non négligeable d’y trouver de
quoi survivre ou mieux encore, pour celui qui l’entreprend, de vivre en accord
avec ce qui le raccorde au monde, pas forcément pour le changer, mais pour
donner un autre sens à sa propre vie. C’est évidemment d’une autre forme de
sécession dont il est ici question, celle qui convoque un certain art du
contrepoint – ou du contretemps – pour inscrire sa démarche dans un retrait qui
serait aussi retour aux sources les plus naturelles de la vie même. Autant de pas
de côté ontologiques, d’aspirations à la symbiose, de désirs de redonner forme
à un monde défait et artificialisé qui, s’ils se conjuguaient, pourraient
attester d’une conscience exigeante et scrupuleuse puisée au grenier doctrinal
de l’émancipation.
La démarche sécessionniste s’apparente à
une manière de déserter le centre nerveux du système pour le combattre depuis
la marge, sur ses bords, en construisant des zones, des lieux qui pourraient,
même provisoirement, affaiblir son pouvoir. L’exemple de Notre-Dame-des-Landes
reste, pour le cas, emblématique de la dernière décennie. Les zadistes ont
atteint leur objectif – le retrait du projet mortifère d’aéroport – et
exemplairement ouvert une claire perspective émancipatrice. Le reste procède
d’un accommodement négocié. Comme dans le cadre d’une grève victorieuse où le
seul point qui permettrait d’accéder à la réelle émancipation – l’abolition du
salariat – est toujours laissé de côté. Pas par oubli, mais par pragmatisme.
L’ennemi peut reculer, mais il continue de distribuer les cartes. Est-ce à dire
que le jeu n’en vaut pas la chandelle ? En aucune façon, car toute brèche
ouverte dans le mur de l’innommable saloperie du monde est une victoire.
Ce qu’il convient de penser désormais,
ce n’est pas l’opportunité des sécessions, qui sont pour partie les nouvelles
formes de résistance de ces temps déconstruits, mais leur articulation comme
substituts aux anciennes stratégies d’affrontement entre possédants et
dépossédés, rendues toutes caduques par le démantèlement méthodique du tissu
productif. Si la vie démontre à foison qu’il est souvent nécessaire de trancher
certains liens pour continuer d’avancer, le moment dans lequel nous nous
trouvons nous oblige à nous défaire méthodiquement, mais sans faiblir, de
certaines appartenances paralysantes, d’anciens réflexes apparemment
identifiants, mais sans efficience pour appréhender le réel et se convaincre de
l’énormité de la tâche qui nous incombe pour en finir avec ce monde avant qu’il
n’en finisse avec nous. Il faudra beaucoup d’audace, d’inventivité, de
déambulations et de pas perdus pour ouvrir de nouveaux passages dans le mur de
mépris dont s’est entourée la forteresse techno-capitaliste.
Plus que jamais, le temps est venu de
l’échappée, qui est une autre forme de la sécession. S’échapper du poids des
mots, de la force des choses, des mensonges déconcertants, de la veulerie
propagandiste, des pensées faibles, de la fausse parole, de l’esthétisation des
colères. Au fond, quand il entre dans une démarche d’émancipation collective,
le désir de sécession est désir de se désaffilier des formes objectivement
inopérantes – car viciées – de résistance, de repenser l’affrontement, de le
rendre passionnant, d’inventer de nouvelles connivences émancipées des pensées
fixes, d’imaginer à toutes échelles de nouvelles lignes de force susceptibles
d’élargir autant que faire se peut, et sans a priori puristes,
le périmètre infini des colères sociales. En les accueillant toutes pour ce
qu’elles disent : le refus des souillures de la pauvreté et l’aspiration à
une vie décente.
Il existe des caractéristiques communes
aux diverses sécessions collectives de ces derniers temps : une même
pratique de l’écart, un identique refus de la séparation des moyens et des
fins, un agir ensemble dans le tissage des fraternités reconquises, la maîtrise
d’un temps de lutte qu’on sait pouvoir être long, mais aussi profitable, dans
sa durée, à faire terreau, racine, histoire, solidarité. Un peu comme si
l’impasse du monde et l’oubli liquidateur que produisent en masse les fondés de
pouvoir et les commis du système, avaient eu l’effet contraire à celui
escompté : ouvrir une telle brèche dans le consensus dominant que chaque
sécession qui pointe et prend, atteste de la certitude que, quoi qu’il
entreprenne, le Capital ne parviendra pas à coloniser nos neurones.
L’écart, c’est ce moment où l’éveil
porte loin. Vers la sécession générale. Sur ce plan, et parce que venant d’un
ailleurs que personne n’avait vu venir, les Gilets jaunes ont clairement
dynamité la pseudo-civilisation unifiée du nouveau monde macronien. Leur
sécession eut un double effet : réduire au silence les esprits bien faits
de la militance, de la Théorie et de l’Université et se réapproprier tout ce
qui leur manquait pour remettre l’histoire sur ses rails. D’un coup, d’un seul
et sans perdre de temps à commenter des insignifiances, ils ont occupé des
ronds-points pour en faire des petites ZAD, ils se sont constitués en peuple
égalitaire qu’aucun « populisme de gauche » ne fondera jamais, ils
ont retrouvé le goût de l’antagonisme castagneur, de la pertinence tactique, du
refus de la délégation. Par instinct pur, sans grands mots, en marchant.
Faire sécession, c’est précisément
cela : reprendre la main sur sa propre vie et tracer son chemin. La pensée
à angles droits peine toujours à capter autre chose que la figure géométrique
de son impuissance. Ce n’est que dans le buissonnier, le furtif, le sauvage,
l’imprévu, la ruse et le courage que l’on aura quelque chance de mettre enfin
en difficulté l’ordre logistique d’un monde et, comme le disait Walter
Benjamin, de « libérer l’avenir de ce qui aujourd’hui le défigure ».
La diffusion lente des refus demeure aussi mystérieuse que le moment où ils
atteignent l’intensité nécessaire et suffisante pour qu’ils passent dans les
faits et bousculent l’état des choses. On appelait ça une révolution. Elle fut
toujours précédée de sécessions ponctuelles. Le passé nous l’apprend. Il nous
fait toujours signe.
Freddy GOMEZ, A contretemps, 22mars 2021