Agustín
García Calvo è un pensatore sovversivo veramente originale. Crea, però,
sorpresa tra i militanti che nella sua riflessione non parta dalla Rivoluzione
francese né dai Comuni medievali e neppure dalla guerra civile spagnola, tutte
cose di cui sapeva poco, mentre conosceva sulla punta delle dita il molto più
lontano mondo greco. Più concretamente, riguardo al momento in cui l’eredità del
pensiero presocratico è stata combattuta da un sapere enciclopedico disordinato
che pretendeva di spiegare e ordinare la natura e la condotta umana in tutti i
loro aspetti. Socrate ha risposto a tali eccessi – all’hubris sofista –
invitando alla conoscenza di sé, come dire al riconoscimento dei limiti del
proprio sapere. Platone, suo discepolo, ha cercato di chiudere la questione
suggerendo una serie di regole razionali per codificare la vita sociale,
finendo così in una teoria dialettica dello Stato insopportabile per il nostro
erudito greco-latinista. Per Platone gli individui raggiungevano la loro
realizzazione in uno Stato perfetto, dove tutti svolgerebbero alla lettera una
funzione fissata in anticipo. Agustín non poteva essere maggiormente in
disaccordo con l’aberrazione per cui le persone e le cose si conformerebbero
gradualmente a schemi normativi al punto di sembrare idee. Le idee erano il
fondamento del Potere, entità esteriori e opposte al popolo; non c’è Potere
senza un’ideologia che lo giustifichi.
Nel suo opuscolo Cos’è lo Stato?, leggiamo dunque che
egli qualifica lo Stato di idea dominante, “pronta a essere utilizzata come
arma”, contemporaneamente ingannevole e reale. Menzognera in quanto essa
ingloba un mucchio di concetti incompatibili tra loro come, per esempio, “governo”
e “popolo”; la menzogna è la base della realtà politica. Reale, perché in
quanto menzogna realizza un potere riconoscibile che si esercita contro la
società. Per Platone le idee costituivano il mondo davvero autentico di cui
l’altro mondo, quello sensibile, non era che una brutta copia. Nel mondo
platonico, lo Stato era l’ideale di organizzazione pôlitica, qualcosa di
necessario per elevare il popolo informe e inestimabile al rango di “Uomo”, di
“Cittadino”, di “Soggetto” e altre idee ancora – che Agustín scriveva sempre
con la maiuscola – con le quali rimodellare l’essere popolare indefinibile e
comporre la “Realtà”, cioè quel che lo Stato e i suoi media presentano come
tale. La riflessione anti ideologica agustiniana consisterà, appunto, nel disfare
una mistificazione talmente grande e mostrare che dietro l’astrazione statale
non c’è che rinuncia, sottomissione, lavoro, rassegnazione e morte.
Il ragionamento agustiniano
rivela l”evidenza dell’essenza totalitaria dello Stato, dato che la sua realizzazione
perfetta come organizzazione politica concreta non è possibile se non
costituendo uno spazio chiuso misurabile, un Tutto quantificato. Quando questo
appare, il popolo – definito in negativo come “ciò che non è governo” – si
annulla. Agustín segnala poi la relazione intrinseca tra lo Stato e il
Capitale, per concludere finalmente che ogni Stato è capitalista poiché ogni
ricchezza sotto il suo dominio prende la forma di Denaro e, in conseguenza, di
Tempo, “la vera moneta del Capitale”. Con un esempio di Fede come il Credito,
lo Stato si confonde con l’organizzazione religiosa, con Dio, altro progetto
totalitario. Il fatto che entrambi, Stato e Capitale, abbiano bisogno di un
pubblico credente, è la prova che non sono altro che “le epifanie – politica ed
economica – di Dio stesso”. La libertà e il godimento della vita saranno
possibili soltanto fuori portata da tutte queste astrazioni schiavizzanti.
Questo dato è un punto di contatto con un altro nemico dello Stato la cui
critica partiva da posizioni così lontane da Eraclito quanto lo è la filosofia
idealista tedesca; si tratta di Bakunin, per cui l’idea generale era sempre
“un’astrazione e dunque, in qualche modo, una negazione della vita reale”.
Nell’intento di dimostrare che lo Stato moderno è l’istituzione più adeguata
per il Potere – o per la megamacchina, come direbbe Mumford –, Agustín fa
ricorso a esempi storici di altri tentativi unitari, come gli Imperi, falliti per
il fatto di non avere avuto frontiere definite, un’unica lingua ufficiale
costruita per mezzo di una combinazione arbitraria di varietà dialettali e una
cultura nazionale normalizzata, cioè un’ideologia patriottica – un’idea di
Popolo – giustificata dalla Scienza e dal Diritto molto meglio che dalla
Religione. Ancora un punto comune con la messa in guardia bakuninista contro il
governo degli uomini di scienza. A questo punto, diventa necessario prendere
posizione di fronte ai regionalismi e separatismi attuali che Agustín recepisce
come tentativi di costituire dei nuovi Stati – piccole Spagne – in tutto simili
agli Stati originari e conseguentemente, capitalisti e totalitari anche se su
scala minore.
Una necessità essenziale
per la costituzione dello Stato è quella del Centro, della Capitale, dove si
dirigono le operazioni di sorveglianza e di unificazione, soprattutto
linguistica. Come lo ricorda da qualche parte Agustín, la normalizzazione non è
altro che la prigione in cui si mettono le parole per assicurarsi della Fede
nella Realtà. In effetti, l’importanza della fabbricazione della lingua a
partire dall’alto è enorme, dato che un popolo che ubbidisce a una norma
fissata per sempre in qualcosa di fondamentale come la lingua, non è più popolo
e uno Stato che non possiede un gergo proprio – una lingua ufficiale –
propagata dalle scuole e dai mass media, non può sviluppare una burocrazia
capace di irreggimentare la vita dei cittadini nel minimo dettaglio. Teniamo
conto che senza una burocrazia non c’è Stato che tenga. Niente deve sfuggire al
controllo, alla misura, insomma, alla definizione. Agustín conclude il suo
intervento sull’idea metafisica di Stato confessando che la sua principale
intenzione era di smontare l’ideologia statale “parte necessaria della sua
Realtà”, affinché quel che resta del popolo vivente diriga la sua azione contro
l’Ordine reale, in particolare le donne perché nel femminile risiede la
scandalosa verità che sale dal basso: “la paura del vostro amore disordinato fu
il cemento e l’inizio di quest’Ordine dei Padri e delle Patrie”.
Miguel Amorós,
9 Aprile 2021, traduzione della revisione in spagnolo dell’edizione francese de
l’Atelier de création libertaire, Qu’est-ce que l’État? [Cos’è lo Stato?].
La casa de Dios
Agustín García Calvo es un pensador subversivo verdaderamente original.
Causa todavía estupor entre los militantes el hecho de que su reflexión no
parta de la Revolución Francesa, o de las comunas medievales, o incluso de la
guerra civil española, de todo lo cual sabía poco, sino de mucho más atrás, del
mundo griego, que conocía al dedillo. Más concretamente, del momento en que el legado del pensamiento
presocrático era combatido por un saber enciclopédico desordenado que pretendía
explicar y ordenar la naturaleza y la conducta humana en todos sus aspectos.
Sócrates, respondió a tales excesos -a la hybris sofista- apelando al autoconocimiento, es decir, al
reconocimiento de las limitaciones del saber propio. Platón, su discípulo,
intentó cerrar el asunto mediante la sugerencia de un conjunto de reglas
racionales con las que codificar la vida de social; así dio con una teoría
dialéctica del Estado que soliviantó a nuestro erudito greco-latinista. Para
Platón, los individuos alcanzaban su plenitud en un Estado perfecto, donde
todos cumpliesen a rajatabla una función fijada de antemano. No podía estar
Agustín más en desacuerdo con la aberración de que las personas y las cosas se
fueran conformando en moldes reglamentarios hasta parecerse a ideas. Las ideas
eran el fundamento del Poder, entidad exterior y opuesta al pueblo; no había
Poder sin ideología que lo justificara. Y así leemos que en su opúsculo ¿Qué es el Estado? califica al Estado
como idea dominante “dispuesta a usarse como arma”, a la vez mentirosa y real.
Mentirosa en cuanto que abarca un montón de conceptos incompatibles como, por
ejemplo, “gobierno” y “pueblo”; la mentira es la base de la realidad política.
Real, por desempeñar en tanto que mentira un poder reconocible que ejerce
contra la sociedad. Para Platón, las ideas constituían el mundo verdaderamente
auténtico, del que el otro, el sensible, era una mala copia. En el mundo
platónico, el Estado era el ideal de organización política, algo necesario para
elevar el pueblo informe e inaprensible a la categoría de “Hombre”, “Ciudadano”
o “Súbdito”, otras tantas ideas -que Agustín escribe siempre con mayúsculas-
con que remodelar al indefinible ser popular y componer la “Realidad”, es
decir, lo que el Estado y sus medios presentan como tal. Pues bien, la
reflexión anti-ideológica agustiniana, consistirá en deshacer tamaña
mistificación y mostrar que detrás de la abstracción estatista no hay más que
renuncia, sumisión, trabajo, resignación y muerte.
El razonamiento agustiniano revela la evidencia de la esencia totalitaria
del Estado, puesto que su realización perfecta como organización política
concreta solo es posible si constituye un espacio cerrado mensurable, un Todo
cuantificado. Cuando este aparece, el pueblo –que define en negativo como “lo
que no es gobierno”- se anula. Sigue después señalando la relación intrínseca
entre el Estado y el Capital, para terminar concluyendo que todo Estado es
capitalista, puesto que toda la riqueza bajo su dominio toma forma de Dinero,
y, por consiguiente, de Tiempo, “la verdadera moneda del Capital”. Mediante un
ejemplo de Fe como es el Crédito, el Estado se confunde con la organización
religiosa, con Dios, otro proyecto totalitario. El hecho de que ambos, Estado y
Capital, necesiten de un público creyente, es la prueba de que no son más que
“las epifanías política y económica de Dios mismo.” La libertad y el disfrute
de la vida solamente serán posibles fuera del alcance de todas esas
abstracciones esclavizadoras. Hete aquí un punto de contacto con otro enemigo
del Estado cuya crítica partía de posiciones tan alejadas de Heráclito como la
filosofía idealista alemana; hablamos de Bakunin, para el cual “la idea
general” era siempre “una abstracción, y por eso mismo, en cierto modo, una
negación de la vida real.” Con el fin de demostrar que el Estado moderno es la
institución más adecuada para el Poder -o para la “megamáquina” como diría
Mumford- Agustín recurre a ejemplos históricos de fracasos de otras tentativas
unitarias como fueron los Imperios por no contar con fronteras definidas, una
única lengua oficial construida mediante una combinación arbitraria de
variedades dialectales, y una cultura nacional tipificada, o sea, una ideología
patriótica –una idea de Pueblo- que se justificara con la Ciencia y el Derecho,
mejor que con la Religión. De nuevo, una coincidencia con la advertencia
bakuniniana contra el gobierno de los hombres de ciencia. Llegados a ese punto,
es obligado tomar posición frente a los regionalismos y separatismos actuales,
que Agustín contempla como intentos de constituir nuevos Estados –españitas- en
todo semejantes a los originales y , por lo tanto, capitalistas y totalitarios
aunque fuese a menor escala.
Necesidad esencial
para la constitución del Estado es la del Centro, la capital, desde donde se dirigen
las operaciones de vigilancia y unificación, sobre todo lingüística. Como
recordó Agustín en alguna parte, la normalización no es más que la cárcel donde
se mete a las palabras para asegurar la Fe en la Realidad. En efecto, la
importancia de la fabricación desde arriba de la lengua es enorme, pues un
pueblo que acata una norma fija para siempre en algo tan fundamental como el
habla, ya no es pueblo, y un Estado que no posea una jerga propia –una lengua
oficial- difundida en las Escuelas y los Medios, no puede desarrollar una
burocracia capaz de ordenar la vida de los ciudadanos en todo detalle. Tengamos
en cuenta que sin burocracia no hay Estado que valga. Nada ha de haber que
escape al control, a la medida, y en suma, a la definición. Agustín termina su
exposición acerca de la idea metafísica de Estado confesando que su intención
primera era desmontar la ideología estatal, “parte necesaria de su Realidad”, a
fin de que lo que quedara de pueblo vivo orientara su actitud contra el Orden
real, especialmente las mujeres, pues en lo femenino radica la escandalosa
verdad de abajo: “el miedo a vuestro amor desordenado fue el cimiento y el
comienzo de este Orden de los Padres y las Patrias.”
Miguel Amorós, 9 de abril de 2021, reseña de la edición francesa de
l’Atelier de création libertaire, Qu’est-ce
que l’État?
La
maison de Dieu
Agustín García Calvo, Qu’est-ce que l’État ? Traduit de
l’espagnol par Manuel Martinez et Marjolaine François, Atelier de création
libertaire, 2021
Agustín García Calvo est un penseur subversif véritablement original. Ce
qui, dans sa réflexion, provoque encore un grand étonnement parmi les
militants, c’est qu’elle ne parte pas de la Révolution française, ni des communes
médiévales, ni même de la guerre civile espagnole, choses dont il n’était pas
fin connaisseur, mais de bien plus loin, du monde grec, qu’il connaissait sur
le bout des doigts. Plus concrètement, de ce moment où l’héritage de la pensée
présocratique était combattu par un savoir encyclopédique désordonné qui
prétendait expliquer et ordonner la nature et la conduite humaine dans tous
leurs aspects. Platon tenta de clore l’affaire en suggérant un ensemble de
règles rationnelles pour codifier la vie sociale ; il aboutit ainsi à une
théorie dialectique de l’État qui scandalisa notre gréco-latiniste érudit. Pour
Platon, les individus atteignaient leur plénitude dans un État parfait, où tous
accompliraient au pied de la lettre une fonction fixée au préalable. Agustín ne
pouvait pas être plus en désaccord avec l’aberration d’après laquelle les
personnes et les choses se conformeraient peu à peu à des moules réglementaires
jusqu’à ressembler à des idées. Les idées étaient le fondement du
Pouvoir ; il n’y avait pas de Pouvoir sans idéologie. Et ainsi nous lisons
dans son opuscule Qu’est-ce que l’État ? qu’il qualifie l’État
d’idée dominante « prête à être utilisée comme arme », à la fois
mensongère et réelle. Mensongère en tant qu’elle englobe un tas de concepts incompatibles
entre eux comme, par exemple, « gouvernement » et
« peuple » ; le mensonge est la base de la réalité politique.
Réelle, du fait d’accomplir en tant que mensonge un pouvoir reconnaissable qui
s’exerce contre la société. Pour Platon, les idées constituaient le monde
véritablement authentique, dont l’autre monde, le monde sensible, n’était
qu’une mauvaise copie. Dans ce monde platonique, l’État était l’idéal
d’organisation politique, quelque chose de nécessaire pour élever le peuple
informe et inestimable au rang d’« Homme », de « Citoyen »
ou de « Sujet », d’autres idées encore – qu’Agustín écrivait
toujours avec une majuscule – avec lesquelles remodeler
l’indéfinissable être populaire et composer la « Réalité »,
c’est-à-dire ce que l’État et ses médias présentent comme telle. Or, la
réflexion anti-idéologique agustinienne consistera à défaire une si grande
mystification et à montrer que derrière l’abstraction étatiste il n’y a que
renoncement, soumission, travail, résignation et mort.
Le raisonnement agustinien révèle l’évidence de l’essence totalitaire de
l’État, étant donné que sa réalisation
parfaite comme organisation politique concrète n’est possible que s’il
constitue un espace fermé mesurable, un Tout quantifié. Quand celui-ci
apparaît, le peuple – défini en négatif
comme « ce qui n’est pas gouvernement » – s’annule. Agustín
signale ensuite la relation intrinsèque entre l’État et le Capital, pour
conclure finalement que tout État est capitaliste, puisque que toute richesse
sous sa domination prend la forme d’Argent, et, par conséquent, de Temps,
« la véritable monnaie du Capital ». Avec un exemple de Foi comme
l’est le Crédit, l’État se confond avec l’organisation religieuse, avec Dieu,
autre projet totalitaire. Le fait que tous deux, État et Capital, aient besoin
d’un public croyant, est la preuve qu’ils ne sont que « les épiphanies
politique et économique de Dieu lui-même ». La liberté et la jouissance de
la vie seront seulement possibles hors de la portée de toutes ces abstractions
civilisatrices. Là se trouve un point de contact avec un autre ennemi de l’État
dont la critique partait de positions aussi éloignées d’Héraclite que l’est la
philosophie idéaliste allemande ; nous parlons de Bakounine, pour qui
l’idée générale était toujours « une abstraction, et, par cela même, en
quelque sorte, une négation de la vie réelle ». Dans l’intention de
démontrer que l’État moderne est l’institution la plus adéquate pour le
Pouvoir, Agustín
a recours à des exemples historiques d’échecs d’autres tentatives unitaires
comme le furent les Empires, du fait de n’avoir pas disposé de frontières
définies, d’une unique langue officielle construite par le biais d’une
combinaison arbitraire de variétés dialectales, et d’une culture nationale
normalisée, autrement dit d’une idéologie patriotique – une idée de
Peuple – justifiée par la Science et le Droit, bien mieux que par la
Religion. Voilà un nouveau point commun avec la mise en garde bakouninienne
contre le gouvernement des hommes de science. Parvenus à ce point, il devient
nécessaire de prendre position face aux régionalismes et séparatismes actuels,
qu’Agustín perçoit comme des tentatives de constituer de nouveaux États – petites Espagnes –
en tout point semblables aux États originaux et, par conséquent, capitalistes
et totalitaires bien qu’à moindre échelle.
Une nécessité essentielle pour la constitution de l’État est celle du
Centre, de la Capitale, d’où sont dirigées les opérations de surveillance et
d’unification, surtout linguistique. Comme le rappelle Agustín quelque part, la
normalisation n’est que la prison où l’on met les mots afin d’assurer la foi en
la Réalité. En effet, l’importance de la fabrication de la langue à partir d’en
haut est énorme, étant donné qu’un peuple qui obéit à une norme fixée pour
toujours dans quelque chose d’aussi fondamental que la langue, n’est plus
peuple, et un État qui ne possède pas un jargon propre – une langue officielle – propagé par les Écoles et les
Médias, ne peut développer une bureaucratie capable d’ordonner la vie des
citoyens dans le moindre détail. Prenons en compte que sans bureaucratie il n’y
a pas d’État qui tienne. Rien ne doit échapper au contrôle, à la mesure, et en
somme, à la définition. Agustín termine son exposé à propos de l’idée
métaphysique d’État, en avouant que son intention première était de démonter
l’idéologie étatique, « part nécessaire de sa Réalité », afin que ce
qui reste de peuple vivant dirige son comportement contre l’Ordre réel, les
femmes en particulier, puisque dans le féminin réside la scandaleuse vérité
d’en bas : « la peur de votre amour désordonné fut le ciment et le commencement
de cet Ordre des Pères et des Patries ».
Miguel Amorós, le 9 avril 2021