lunedì 29 marzo 2021

Incitamento al socialismo autogestionario di Miguel Amoros



Ho appena ricevuto questo scritto di Miguel Amoros e ve ne propongo la traduzione in italiano.

Sergio Ghirardi Sauvageon

Incitamento al socialismo autogestionario 

Una grande figura dell’anarchismo, Gustav Landauer, si rese conto delle difficoltà che avrebbero incontrato gli operai rivoluzionari nel costruire un regime socialista dopo aver rovesciato la classe dirigente e abolito lo Stato. Il problema non consisteva in una supposta mancanza delle condizioni politiche ed economiche obiettive per farlo, dato che il socialismo libertario era possibile, a qualunque stadio fossero lo sviluppo e la compenetrazione dell’economia e dello Stato, nonostante l’assenza di esperienze autogestionarie di apprezzabile portata e quindi d’idee pratiche che mostrassero il cammino della sua realizzazione. Gli enormi ostacoli interni di funzionamento coordinato incontrati dalle collettività della Rivoluzione spagnola facilitarono il sabotaggio dei partiti difensori dell’ordine borghese, mentre il corso sfavorevole della guerra finì per precipitarle nelle fogne statali da cui non sarebbero mai uscite. L’insediamento nella piazza, lo sciopero e l’occupazione di edifici pubblici, armi tradizionali della lotta di classe, sono la negatività in azione che da sola non basta. Nell’attualità è sempre più patente la necessità di un anticapitalismo affermativo: il fronte della guerra sociale esige una retroguardia logistica fatta di progetti autogestionari esemplari.

Il libro “Los papeles de Albert Mason. Volumen I. La Acción Económica”, anonima selezione di articoli di qualità diseguale, chiarisce quest’ultimo punto: “la rivoluzione è meno un costruire sulla distruzione che un distruggere costruendo”. Con questa clamorosa affermazione si cambia radicalmente la strategia di lotta tradizionale contro il capitale e lo Stato basata unicamente sulla resistenza organizzata; il confronto ideologico e politico deve combinarsi con la creazione di un quadro economico autogestito, antipatriarcale, fuori dal mercato e indipendente dallo Stato. Il fine non è cambiato se si persegue la rivoluzione sociale totale e non una riforma qualsiasi.

Per un lettore estraneo alle strizzatine d’occhio della moda, la lettura si complica per colpa dell’impiego generico del femminile – prodotto dell’influenza del movimento femminista oggi più forte e vigoroso del movimento operaio e ideologicamente più creativo –, cattiva abitudine postmoderna che cerca di giustificarsi con l’idea pellegrina della ripercussione per millenni del patriarcato sulla grammatica. In accordo con questa maniera di conversare, un periodo maschilista prolungato nella storia sarebbe la causa logica e diretta del fatto che il genere maschile nelle lingue indoeuropee non fosse marcato. Crediamo che l’assioma sia quanto meno dubbio e che ci siano modi migliori per minare il predominio sociale degli uomini, rendere visibili le donne, annullare gli stereotipi sessuali che schiacciano irragionevolmente il linguaggio – opera, in ultima analisi, del popolo che parla –, con fallaci speculazioni pseudo radicali. Ebbene, per quanto si contorca la forma, il contenuto non si arricchisce né diventa più chiaro o più critico. Si dovrebbe procedere a rovescio, creando concetti nuovi che illuminino la questione come l’hanno fatto i concetti di “patriarcato”, “attenzione”, “sessismo” eccetera. Secondo me la novlingua inclusiva è un riflesso identitario di ghetto, come del resto lo sono il nazionalismo, la chiocciola mail o il fazzoletto palestinese. Il ghetto è un elemento della zona grigia che si arrangia con la novità senza la minima obiezione, soprattutto se è stata cucinata nell’università perché non pretende la chiarezza della verità, ma il velo che più contribuisce al suo scopo, cioè alla sua conservazione.

Questa modesta obiezione, tuttavia, non intende diminuire i meriti dell’argomento del libro, originale e utile, che consiste in quel che l’autore chiama azione economica, definita come “la forma specifica adottata dalla lotta contro il capitalismo – nelle sue due versioni, statale e imprenditoriale – nell’ambito dell’economia”. È un modo dell’azione diretta contro l’impresa e lo Stato il cui obiettivo consiste nel danneggiare entrambi il più possibile economicamente. Disobbedienza civile sul piano economico e amministrativo. La sua forma organica è l’Associazione Libera. Non si tratta di un tipo nuovo d’organizzazione, se non di quello correntemente chiamato sindacato, cooperativa, ateneo o comitato, o di quello che oggi si chiama collettivo, progetto o rete. Tutte queste forme sono caratterizzate dall’assenza di gerarchia, dall’essere governate da assemblee e “dalla sperimentazione di modelli economici compatibili con l’anarchia”. Le tattiche dell’azione economica vanno dall’orto comunitario al consumo combattivo, allo scambio in natura e all’acquisto collettivo fino alla frode amministrativa, l’insolvenza programmata e l’insubordinazione fiscale. Non siamo di fronte a una semplice alternativa agro ecologica all’alimentazione industriale perché partiamo dal presupposto che la suddetta azione economica comprenda altre esperienze autogestite nel campo della salute, dell’educazione, della sicurezza sociale, dell’alloggio, dell’energia e del diritto, per dare solo qualche esempio. Quel che è certo è che senza questa specie di riarmamento della società civile, la lotta sociale urbana e la difesa del territorio non potranno evitare l’integrazione.

Ovviamente per non ricorrere al denaro, l’estensione di un’economia parallela non capitalista richiede strumenti come le monete sociali – oltre che attrezzature efficienti, consulenze legali e assistenza finanziaria – il cui impiego cade forzatamente in contraddizioni perché non dimentichiamo che siamo dentro a un sistema tecno capitalista, come si dice, nel ventre della balena. Trovo anche discutibile la ricerca di sovvenzioni o il ricorso a investimenti che il libro difende, anche se cerca di giustificare la cosa con l’argomento di usarli contro lo Stato quasi che questi sparisse dopo una soave e leggera espropriazione di fondi. E anche cose che il libro non menziona come i soci benefattori, le autogestioni part-time o liberate. Si tratta di pratiche che ricordano il discorso intorno a Marinaleda e, esagerando appena, l’ironico racconto di Pessoa, “Il banchiere anarchico”, ma soprattutto fanno emergere la cosiddetta “Economia sociale”, in altre parole, l’autogestione della miseria, il modo meno violento di amministrare l’esclusione a vantaggio del mercato che la produce. L’autore si vede obbligato a marcare la linea rossa che separa l’Azione Economica da quel “ramo del capitalismo la cui attività lucrativa è la critica del capitalismo e la mercificazione di supposte alternative”, e a denunciare come aberrante la terminologia pseudo solidale del “prezzo giusto” della “finanza etica”, dello “ sviluppo sostenibile” o della “responsabilità sociale delle imprese”. Tuttavia, non può sfuggire a un circolo vizioso: la “de-mercificazione” di qualunque attività, senza abolire integralmente il mercato, risulta impossibile, così come l’autogestione generalizzata senza uscire dall’economia o la piena autonomia senza sopprimere lo Stato. A mio modo di vedere, e suppongo anche a quello dell’autore, l’unico modo di rompere il cerchio è dire chiaramente due cose: primo, che l’attività autogestionaria e femminista è un mezzo e non un fine in sé. Secondo, che non è altro che l’aspetto positivo della lotta sociale anti industriale.

Il libro, redatto à metà con lo spirito di un pioniere de La Cecilia e a metà con quello di un espropriatore del tipo di Marius Jacob, non ha finale. La lista di esempi del sabotaggio dell’economia è larga e aperta. Per quel che riguarda i metodi illegali – per esempio la falsificazione di documenti o la clonazione di carte – è meglio praticarli silenziosamente nella clandestinità che vantarsi di loro nei manuali. A buon intenditor... Non troviamo neppure una valutazione sufficientemente critica degli effettivi esperimenti di autogestione, forse perché non era questo lo scopo del libro che cercava soprattutto di dimostrare che senza la previa esperienza dell’autogestione “a fuoco lento”, la sovversione negatrice roderà incessantemente nel buio consumandosi nel suo stesso fuoco. Oggi, piantare una pianta di pomodoro può essere, secondo i casi, un atto tanto radicale quanto uno sciopero o il difendersi dalla polizia; un’umile zuppa di ceci, con gli ingredienti sociali adeguati, può trasformarsi in “un attentato quotidiano contro ogni autorità”.

Miguel Amoros, su richiesta dell’autore, 12 marzo 2021


INCITACIÓN AL SOCIALISMO AUTOGESTIONARIO

 

Un gran clásico del anarquismo, Gustav Landauer, advertía de las dificultades con que se encontrarían los obreros revolucionarios para construir un régimen socialista tras derrocar a la clase dirigente y abolir el Estado. El problema no consistía en una supuesta falta de condiciones políticas y económicas objetivas para ello, puesto que el socialismo libertario era posible fuese cual fuese el estadio de desarrollo y compenetración en el que se encontrasen la economía y el Estado, sino a la falta de experiencias autogestionarias de magnitud apreciable, y, por lo tanto, a la carencia de ideas prácticas que mostraran los caminos de su realización. Las enormes trabas internas de funcionamiento coordinado que tuvieron las colectividades de la Revolución Española facilitaron el sabotaje que los partidos defensores del orden burgués, mientras el curso desfavorable de la guerra acababa precipitándolas en la cloaca estatal de la que nunca saldrían. La ocupación de la calle, la huelga y la toma de edificios públicos, armas tradicionales de la lucha de clases, son la negatividad en acción que por si sola no basta. En la actualidad, se hace cada vez más patente la necesidad de un anticapitalismo afirmativo: el frente de la guerra social exige una retaguardia logística hecha de proyectos autogestionarios ejemplares.

El libro “Los papeles de Albert Mason. Volumen I. La Acción Económica”, anónimo, una selección de artículos de calidad desigual, aclara este último punto: “la revolución es menos un construir sobre la destrucción que un destruir construyendo”. Con esa rotunda aseveración se cambia radicalmente la estrategia de lucha tradicional contra el capital y el Estado basada únicamente en la resistencia organizada; la confrontación ideológica y política ha de combinarse con la forja de un entramado económico autogestionario, antipatriarcal, fuera del mercado e independiente del Estado. La finalidad no ha cambiado puesto que se persigue la revolución social total, no una reforma cualquiera.

 

Para un lector ajeno a los guiños de la moda, la lectura se complica por culpa del empleo del femenino como genérico -producto de la influencia del movimiento feminista, hoy en día más fuerte y pujante que el obrero e ideológicamente más creativo-, un mal hábito posmoderno que intenta justificarse con la peregrina idea de la repercusión durante milenios del patriarcado en la gramática. De acuerdo con esta manera de discurrir, un periodo machista prolongado en la historia sería el causante lógico y directo de que el género masculino en las lenguas indoeuropeas fuera no marcado. Creemos que el axioma es cuanto menos dudoso y que existen mejores modos de socavar el dominio social de los varones, visibilizar a las mujeres y deshacer los estereotipos sexuales que machacar infundadamente el lenguaje -al fin y al cabo obra del pueblo hablante-, con falaces especulaciones seudorradicales. Bueno, por más que se contorsione la forma, el contenido no se enriquece ni se hace más claro y más crítico. Habría que proceder al revés, creando conceptos nuevos que iluminen la cuestión como lo han sido los de “patriarcado”, “cuidados”, “sexismo” etc. A mi entender, la neolengua inclusiva es un reflejo identitario de gueto, como en otras partes lo son el nacionalismo, las arrobas o el pañuelo palestino. Y el gueto es un elemento de la zona gris que se acomoda con la novedad sin objeción alguna, sobre todo si se cocinó en la universidad, pues no pretende la nitidez de la verdad, sino el velo que más contribuya a su cercado, o sea, a su conservación. 

 

Esta modesta objeción sin embargo no intenta quitar méritos a la materia del libro, que es original y provechosa, y que consiste en lo que el autor llama acción económica, definida como “la forma específica que adopta la lucha contra el capitalismo -en sus dos vertientes, estatal y empresarial- dentro del ámbito de la economía.” Es un modo de acción directa contra la empresa y el Estado cuyo objetivo consiste en perjudicar económicamente todo lo posible a ambos. Desobediencia civil en el plano económico y administrativo. Su forma orgánica es la Asociación Libre. No se trata de un tipo de organización nuevo, sino de lo que corrientemente se ha llamado sindicato, cooperativa, ateneo o comité, o de lo que hoy llamamos colectivo, proyecto o red. Todas se caracterizan por no ser jerárquicas, regirse por asambleas y “ensayar modelos económicos compatibles con la anarquía.” Las tácticas de la acción económica van del huerto comunitario, el consumo combativo, el intercambio en especie y la compra colectiva hasta el fraude administrativo, la insolvencia programada y la insumisión fiscal. No estamos ante una simple alternativa agroecológica a la alimentación industrial, pues suponemos que la susodicha acción económica abarca otras experiencias autogestionarias en el campo de la sanidad, la educación, la seguridad social, la vivienda, la energía y el derecho, por poner solo algunos ejemplos. Lo cierto es que sin esa especie de rearme de la sociedad civil, la lucha social urbana y la defensa del territorio no podrán evitar la integración.

 

Desde luego, a fin de no recurrir al dinero, la extensión de una economía paralela no capitalista requiere instrumentos como monedas sociales -aparte de equipamientos eficientes, asesorías jurídicas y ayudas financieras- cuyo empleo incurre forzosamente en contradicciones, pues no olvidemos que estamos dentro de un régimen tecnocapitalista, como quien dice, en el vientre de la ballena. Encuentro además discutible la busca de subvenciones o el recurso a las inversiones que defiende el libro, aunque trate de justificarlo con el argumento de usarlas contra el Estado, algo así como si se fuera tras una expropiación suave y ligera de fondos. Y también cosas que el libro no menciona como los socios benefactores, la autogestión a tiempo parcial o los liberados. Son prácticas que recuerdan algo el discurso en torno a Marinaleda, y, exagerando un poco, el irónico relato de Pessoa, “El Banquero Anarquista”, pero por encima de todo nos trae a colación la autodenominada “Economía Social”, en otras palabras, la autogestión de la miseria, el modo menos violento de administrar la exclusión en beneficio del mercado que la produce. El autor se ve obligado a marcar la línea roja que separa la Acción Económica de aquella, “la rama del capitalismo cuya actividad lucrativa es la crítica al capitalismo y la mercantilización de supuestas alternativas”, y a denunciar como aberrante la terminología seudosolidaria de “precio justo”, “finanzas éticas” “desarrollo sostenible” o “responsabilidad social de las empresas.” Sin embargo, no logra sustraerse a un círculo vicioso: la “desmercantilización” de cualquier actividad sin abolir integralmente el mercado resulta imposible, así como la autogestión generalizada sin salirse de la economía o la autonomía plena sin suprimir el Estado. A mi modo de ver, y supongo que al modo de ver del autor, la única manera de romper el círculo es dejando claro dos cosas: primera, que la actividad autogestionaria y feminista es un medio y no un fin en sí misma. Segunda, que no es más que la vertiente positiva de la lucha social anti-industrial.  

 

El libro, redactado con el espíritu mitad de un pionero de La Cecilia y mitad de un expropiador tipo Marius Jacob, no tiene final. La lista de ejemplos de sabotaje de la economía es larga y abierta. En lo relativo a los métodos ilegales -por ejemplo, la falsificación de documentos o la clonación de tarjetas- conviene más practicarlos silenciosamente en la clandestinidad que alardear de ellos en manuales. A buen entendedor... No busquemos tampoco una valoración suficientemente crítica de los experimentos autogestionarios reales, quizás porque no sea ese el objetivo del libro, que ante todo quería demostrar que, sin la experiencia previa de la autogestión “a fuego lento”, la subversión negadora rodará incesantemente en la oscuridad y se consumirá en su propio fuego. Hoy en día, plantar una tomatera, según cómo, puede ser un acto tan radical como el ir a la huelga o defenderse de la policía, y un humilde potaje de garbanzos, con los ingredientes sociales adecuados, puede convertirse “en un atentado cotidiano contra toda autoridad.”

 

Miguel Amorós, a petición del autor, 12 de marzo de 2021.