Ho appena ricevuto questo
scritto di Miguel Amoros e ve ne propongo la traduzione in italiano.
Sergio Ghirardi
Sauvageon
Una grande figura
dell’anarchismo, Gustav Landauer, si rese conto delle difficoltà che avrebbero
incontrato gli operai rivoluzionari nel costruire un regime socialista dopo
aver rovesciato la classe dirigente e abolito lo Stato. Il problema non
consisteva in una supposta mancanza delle condizioni politiche ed economiche
obiettive per farlo, dato che il socialismo libertario era possibile, a
qualunque stadio fossero lo sviluppo e la compenetrazione dell’economia e dello
Stato, nonostante l’assenza di esperienze autogestionarie di apprezzabile
portata e quindi d’idee pratiche che mostrassero il cammino della sua
realizzazione. Gli enormi ostacoli interni di funzionamento coordinato
incontrati dalle collettività della Rivoluzione spagnola facilitarono il
sabotaggio dei partiti difensori dell’ordine borghese, mentre il corso
sfavorevole della guerra finì per precipitarle nelle fogne statali da cui non
sarebbero mai uscite. L’insediamento nella piazza, lo sciopero e l’occupazione
di edifici pubblici, armi tradizionali della lotta di classe, sono la
negatività in azione che da sola non basta. Nell’attualità è sempre più patente
la necessità di un anticapitalismo affermativo: il fronte della guerra sociale
esige una retroguardia logistica fatta di progetti autogestionari esemplari.
Il libro “Los papeles de Albert
Mason. Volumen
I. La Acción Económica”, anonima selezione di articoli di
qualità diseguale, chiarisce quest’ultimo punto: “la rivoluzione è meno un
costruire sulla distruzione che un distruggere costruendo”. Con questa
clamorosa affermazione si cambia radicalmente la strategia di lotta
tradizionale contro il capitale e lo Stato basata unicamente sulla resistenza
organizzata; il confronto ideologico e politico deve combinarsi con la
creazione di un quadro economico autogestito, antipatriarcale, fuori dal
mercato e indipendente dallo Stato. Il fine non è cambiato se si persegue la
rivoluzione sociale totale e non una riforma qualsiasi.
Per un lettore estraneo
alle strizzatine d’occhio della moda, la lettura si complica per colpa dell’impiego
generico del femminile – prodotto dell’influenza del movimento femminista oggi
più forte e vigoroso del movimento operaio e ideologicamente più creativo –,
cattiva abitudine postmoderna che cerca di giustificarsi con l’idea pellegrina
della ripercussione per millenni del patriarcato sulla grammatica. In accordo
con questa maniera di conversare, un periodo maschilista prolungato nella
storia sarebbe la causa logica e diretta del fatto che il genere maschile nelle
lingue indoeuropee non fosse marcato. Crediamo che l’assioma sia quanto meno
dubbio e che ci siano modi migliori per minare il predominio sociale degli
uomini, rendere visibili le donne, annullare gli stereotipi sessuali che
schiacciano irragionevolmente il linguaggio – opera, in ultima analisi, del
popolo che parla –, con fallaci speculazioni pseudo radicali. Ebbene, per
quanto si contorca la forma, il contenuto non si arricchisce né diventa più
chiaro o più critico. Si dovrebbe procedere a rovescio, creando concetti nuovi
che illuminino la questione come l’hanno fatto i concetti di “patriarcato”,
“attenzione”, “sessismo” eccetera. Secondo me la novlingua inclusiva è un riflesso
identitario di ghetto, come del resto lo sono il nazionalismo, la chiocciola
mail o il fazzoletto palestinese. Il ghetto è un elemento della zona grigia che
si arrangia con la novità senza la minima obiezione, soprattutto se è stata
cucinata nell’università perché non pretende la chiarezza della verità, ma il
velo che più contribuisce al suo scopo, cioè alla sua conservazione.
Questa modesta obiezione,
tuttavia, non intende diminuire i meriti dell’argomento del libro, originale e
utile, che consiste in quel che l’autore chiama azione economica, definita come “la forma specifica adottata dalla
lotta contro il capitalismo – nelle sue due versioni, statale e imprenditoriale
– nell’ambito dell’economia”. È un modo dell’azione diretta contro l’impresa e lo
Stato il cui obiettivo consiste nel danneggiare entrambi il più possibile economicamente.
Disobbedienza civile sul piano economico e amministrativo. La sua forma
organica è l’Associazione Libera. Non si tratta di un tipo nuovo
d’organizzazione, se non di quello correntemente chiamato sindacato,
cooperativa, ateneo o comitato, o di quello che oggi si chiama collettivo,
progetto o rete. Tutte queste forme sono caratterizzate dall’assenza di
gerarchia, dall’essere governate da assemblee e “dalla sperimentazione di
modelli economici compatibili con l’anarchia”. Le tattiche dell’azione
economica vanno dall’orto comunitario al consumo combattivo, allo scambio in
natura e all’acquisto collettivo fino alla frode amministrativa, l’insolvenza
programmata e l’insubordinazione fiscale. Non siamo di fronte a una semplice
alternativa agro ecologica all’alimentazione industriale perché partiamo dal
presupposto che la suddetta azione economica comprenda altre esperienze
autogestite nel campo della salute, dell’educazione, della sicurezza sociale,
dell’alloggio, dell’energia e del diritto, per dare solo qualche esempio. Quel
che è certo è che senza questa specie di riarmamento della società civile, la
lotta sociale urbana e la difesa del territorio non potranno evitare l’integrazione.
Ovviamente per non
ricorrere al denaro, l’estensione di un’economia parallela non capitalista
richiede strumenti come le monete sociali – oltre che attrezzature efficienti,
consulenze legali e assistenza finanziaria – il cui impiego cade forzatamente
in contraddizioni perché non dimentichiamo che siamo dentro a un sistema tecno
capitalista, come si dice, nel ventre della balena. Trovo anche discutibile la
ricerca di sovvenzioni o il ricorso a investimenti che il libro difende, anche
se cerca di giustificare la cosa con l’argomento di usarli contro lo Stato
quasi che questi sparisse dopo una soave e leggera espropriazione di fondi. E
anche cose che il libro non menziona come i soci benefattori, le autogestioni
part-time o liberate. Si tratta di pratiche che ricordano il discorso intorno a
Marinaleda e, esagerando appena, l’ironico racconto di Pessoa, “Il banchiere
anarchico”, ma soprattutto fanno emergere la cosiddetta “Economia sociale”, in
altre parole, l’autogestione della miseria, il modo meno violento di
amministrare l’esclusione a vantaggio del mercato che la produce. L’autore si
vede obbligato a marcare la linea rossa che separa l’Azione Economica da quel “ramo
del capitalismo la cui attività lucrativa è la critica del capitalismo e la
mercificazione di supposte alternative”, e a denunciare come aberrante la
terminologia pseudo solidale del “prezzo giusto” della “finanza etica”, dello “
sviluppo sostenibile” o della “responsabilità sociale delle imprese”. Tuttavia,
non può sfuggire a un circolo vizioso: la “de-mercificazione” di qualunque
attività, senza abolire integralmente il mercato, risulta impossibile, così
come l’autogestione generalizzata senza uscire dall’economia o la piena
autonomia senza sopprimere lo Stato. A mio modo di vedere, e suppongo anche a
quello dell’autore, l’unico modo di rompere il cerchio è dire chiaramente due
cose: primo, che l’attività autogestionaria e femminista è un mezzo e non un
fine in sé. Secondo, che non è altro che l’aspetto positivo della lotta sociale
anti industriale.
Il libro, redatto à metà
con lo spirito di un pioniere de La Cecilia e a metà con quello di un
espropriatore del tipo di Marius Jacob, non ha finale. La lista di esempi del
sabotaggio dell’economia è larga e aperta. Per quel che riguarda i metodi
illegali – per esempio la falsificazione di documenti o la clonazione di carte
– è meglio praticarli silenziosamente nella clandestinità che vantarsi di loro
nei manuali. A buon intenditor... Non troviamo neppure una valutazione
sufficientemente critica degli effettivi esperimenti di autogestione, forse
perché non era questo lo scopo del libro che cercava soprattutto di dimostrare
che senza la previa esperienza dell’autogestione “a fuoco lento”, la
sovversione negatrice roderà incessantemente nel buio consumandosi nel suo
stesso fuoco. Oggi, piantare una pianta di pomodoro può essere, secondo i casi,
un atto tanto radicale quanto uno sciopero o il difendersi dalla polizia;
un’umile zuppa di ceci, con gli ingredienti sociali adeguati, può trasformarsi
in “un attentato quotidiano contro ogni autorità”.
Miguel Amoros, su
richiesta dell’autore, 12 marzo 2021
INCITACIÓN
AL SOCIALISMO AUTOGESTIONARIO
Un gran clásico del
anarquismo, Gustav Landauer, advertía de las dificultades con que se
encontrarían los obreros revolucionarios para construir un régimen socialista
tras derrocar a la clase dirigente y abolir el Estado. El problema no consistía
en una supuesta falta de condiciones políticas y económicas objetivas para
ello, puesto que el socialismo libertario era posible fuese cual fuese el
estadio de desarrollo y compenetración en el que se encontrasen la economía y
el Estado, sino a la falta de experiencias autogestionarias de magnitud
apreciable, y, por lo tanto, a la carencia de ideas prácticas que mostraran los
caminos de su realización. Las enormes trabas internas de funcionamiento
coordinado que tuvieron las colectividades de la Revolución Española facilitaron
el sabotaje que los partidos defensores del orden burgués, mientras el curso
desfavorable de la guerra acababa precipitándolas en la cloaca estatal de la
que nunca saldrían. La ocupación de la calle, la huelga y la toma de edificios
públicos, armas tradicionales de la lucha de clases, son la negatividad en
acción que por si sola no basta. En la actualidad, se hace cada vez más patente
la necesidad de un anticapitalismo afirmativo: el frente de la guerra social
exige una retaguardia logística hecha de proyectos autogestionarios ejemplares.
El libro “Los papeles de Albert Mason. Volumen I. La
Acción Económica”, anónimo, una selección de artículos de calidad desigual,
aclara este último punto: “la revolución es menos un construir sobre la
destrucción que un destruir construyendo”. Con esa rotunda aseveración se
cambia radicalmente la estrategia de lucha tradicional contra el capital y el
Estado basada únicamente en la resistencia organizada; la confrontación
ideológica y política ha de combinarse con la forja de un entramado económico
autogestionario, antipatriarcal, fuera del mercado e independiente del Estado.
La finalidad no ha cambiado puesto que se persigue la revolución social total,
no una reforma cualquiera.
Para un lector
ajeno a los guiños de la moda, la lectura se complica por culpa del empleo del
femenino como genérico -producto de la influencia del movimiento feminista, hoy
en día más fuerte y pujante que el obrero e ideológicamente más creativo-, un
mal hábito posmoderno que intenta justificarse con la peregrina idea de la
repercusión durante milenios del patriarcado en la gramática. De acuerdo con
esta manera de discurrir, un periodo machista prolongado en la historia sería
el causante lógico y directo de que el género masculino en las lenguas
indoeuropeas fuera no marcado. Creemos que el axioma es cuanto menos dudoso y
que existen mejores modos de socavar el dominio social de los varones,
visibilizar a las mujeres y deshacer los estereotipos sexuales que machacar
infundadamente el lenguaje -al fin y al cabo obra del pueblo hablante-, con
falaces especulaciones seudorradicales. Bueno, por más que se contorsione la
forma, el contenido no se enriquece ni se hace más claro y más crítico. Habría
que proceder al revés, creando conceptos nuevos que iluminen la cuestión como
lo han sido los de “patriarcado”, “cuidados”, “sexismo” etc. A mi entender, la
neolengua inclusiva es un reflejo identitario de gueto, como en otras partes lo
son el nacionalismo, las arrobas o el pañuelo palestino. Y el gueto es un
elemento de la zona gris que se acomoda con la novedad sin objeción alguna,
sobre todo si se cocinó en la universidad, pues no pretende la nitidez de la
verdad, sino el velo que más contribuya a su cercado, o sea, a su conservación.
Esta modesta
objeción sin embargo no intenta quitar méritos a la materia del libro, que es
original y provechosa, y que consiste en lo que el autor llama acción económica, definida como “la
forma específica que adopta la lucha contra el capitalismo -en sus dos vertientes,
estatal y empresarial- dentro del ámbito de la economía.” Es un modo de acción
directa contra la empresa y el Estado cuyo objetivo consiste en perjudicar
económicamente todo lo posible a ambos. Desobediencia civil en el plano
económico y administrativo. Su forma orgánica es la Asociación Libre. No se
trata de un tipo de organización nuevo, sino de lo que corrientemente se ha
llamado sindicato, cooperativa, ateneo o comité, o de lo que hoy llamamos
colectivo, proyecto o red. Todas se caracterizan por no ser jerárquicas,
regirse por asambleas y “ensayar modelos económicos compatibles con la
anarquía.” Las tácticas de la acción económica van del huerto comunitario, el
consumo combativo, el intercambio en especie y la compra colectiva hasta el
fraude administrativo, la insolvencia programada y la insumisión fiscal. No
estamos ante una simple alternativa agroecológica a la alimentación industrial,
pues suponemos que la susodicha acción económica abarca otras experiencias
autogestionarias en el campo de la sanidad, la educación, la seguridad social,
la vivienda, la energía y el derecho, por poner solo algunos ejemplos. Lo
cierto es que sin esa especie de rearme de la sociedad civil, la lucha social
urbana y la defensa del territorio no podrán evitar la integración.
Desde luego, a fin
de no recurrir al dinero, la extensión de una economía paralela no capitalista
requiere instrumentos como monedas sociales -aparte de equipamientos
eficientes, asesorías jurídicas y ayudas financieras- cuyo empleo incurre
forzosamente en contradicciones, pues no olvidemos que estamos dentro de un
régimen tecnocapitalista, como quien dice, en el vientre de la ballena.
Encuentro además discutible la busca de subvenciones o el recurso a las
inversiones que defiende el libro, aunque trate de justificarlo con el
argumento de usarlas contra el Estado, algo así como si se fuera tras una
expropiación suave y ligera de fondos. Y también cosas que el libro no menciona
como los socios benefactores, la autogestión a tiempo parcial o los liberados.
Son prácticas que recuerdan algo el discurso en torno a Marinaleda, y,
exagerando un poco, el irónico relato de Pessoa, “El Banquero Anarquista”, pero
por encima de todo nos trae a colación la autodenominada “Economía Social”, en
otras palabras, la autogestión de la miseria, el modo menos violento de
administrar la exclusión en beneficio del mercado que la produce. El autor se
ve obligado a marcar la línea roja que separa la Acción Económica de aquella,
“la rama del capitalismo cuya actividad lucrativa es la crítica al capitalismo
y la mercantilización de supuestas alternativas”, y a denunciar como aberrante
la terminología seudosolidaria de “precio justo”, “finanzas éticas” “desarrollo
sostenible” o “responsabilidad social de las empresas.” Sin embargo, no logra
sustraerse a un círculo vicioso: la “desmercantilización” de cualquier
actividad sin abolir integralmente el mercado resulta imposible, así como la
autogestión generalizada sin salirse de la economía o la autonomía plena sin
suprimir el Estado. A mi modo de ver, y supongo que al modo de ver del autor,
la única manera de romper el círculo es dejando claro dos cosas: primera, que
la actividad autogestionaria y feminista es un medio y no un fin en sí misma.
Segunda, que no es más que la vertiente positiva de la lucha social
anti-industrial.
El libro, redactado
con el espíritu mitad de un pionero de La Cecilia y mitad de un expropiador
tipo Marius Jacob, no tiene final. La lista de ejemplos de sabotaje de la
economía es larga y abierta. En lo relativo a los métodos ilegales -por
ejemplo, la falsificación de documentos o la clonación de tarjetas- conviene
más practicarlos silenciosamente en la clandestinidad que alardear de ellos en
manuales. A buen entendedor... No busquemos tampoco una valoración suficientemente
crítica de los experimentos autogestionarios reales, quizás porque no sea ese
el objetivo del libro, que ante todo quería demostrar que, sin la experiencia
previa de la autogestión “a fuego lento”, la subversión negadora rodará
incesantemente en la oscuridad y se consumirá en su propio fuego. Hoy en día,
plantar una tomatera, según cómo, puede ser un acto tan radical como el ir a la
huelga o defenderse de la policía, y un humilde potaje de garbanzos, con los
ingredientes sociales adecuados, puede convertirse “en un atentado cotidiano
contra toda autoridad.”
Miguel
Amorós, a petición del autor, 12 de marzo de 2021.