Una delle tattiche abituali degli ideologi del dominio ma anche dei servitori volontari della civiltà produttivista consiste nell’identificare la critica radicale del produttivismo con uno stupido rifiuto della produzione dei beni necessari e desiderabili. Lo stesso trucco è stato adottato nei confronti del principio della decrescita economica, ridotto a una mistica decrescita sacrificale e autopunitiva.
Bisogna dire che
spesso gli stessi adepti di una critica radicale della società dei consumi
intrecciano la corda per farsi impiccare teorizzando effettivamente delle
liturgie sacrificali anziché delle destrutturazioni godibili dell’atteggiamento
allucinante diffuso nella società produttivista che sogna una crescita senza
fine in un mondo finito, delimitato. Per mimetizzare l’assurdità demenziale di
questo delirio, la lunga storia dell’alienazione sociale e politica ha educato
le masse e i loro capi ideologici a opporre la rinuncia volontaria come sola
alternativa alla penuria di qualità imposta dall’abbondanza redditizia di merci
inutili o nocive. Di fronte all’imperativo economico onnipresente, i
civilizzati s’accontentano d’inscenare una sobrietà rigida imbevuta di
pauperismo religioso (cristiano o no, poco importa) anziché la sobrietà
gaudente di un abbondante consumo vitale qualitativo, condivisa, scelta e sotto
il controllo di un’autogestione generalizzata della vita quotidiana.
La bulimia
consumistica e l’anoressia del desiderio sono due eccessi opposti fondatori del
produttivismo. Bisognerà curarsi di entrambi opponendo l’abbondanza qualitativa
alla spazzatura produttivista che non smette di crescere. Si può credere con
Epicuro che la sobrietà sia una qualità dell’abbondanza e un elemento della
felicità quando questa abbandona le paludi del consumo e il deserto della
rinuncia.
Siamo chiari:
criticare il produttivismo non significa entrare in una regressione
primitivista. Ciò non ha senso. Il ritorno alle origini non è né possibile né
auspicabile. L’evoluzione della specie, come del vivente in generale, è un
movimento incessante, inarrestabile perché naturale e intrinseco alla vita.
Così come Darwin ci ha insegnato a prendere in considerazione questo mutamento
perpetuo come un dato irrinunciabile, un darwinisme asservito alla classe
dominante ha trasformato la teoria evoluzionista in un supporto fenomenale del
progresso capitalista, accanito sostenitore dell’artificialità economicista di
una società umana recentemente acquisita all’industrializzazione. Da allora
siamo di fronte all’urgenza di chiarire questo processo morboso, ormai in fase
terminale, per eliminare le manipolazioni che hanno condizionato e sviato
l’evoluzione della specie.
Perché tra rumori,
tempeste e catastrofi, ci si dirige verso l’obiettivo finale nichilista di una
vita umana resa definitivamente artificiale e destinata alla sparizione. Il
processo auto distruttore della vita organica della specie ha origini recenti
se si considera la storia globale dell’umanità, ma è molto antico se si misura
con la speranza di vita delle nostre esistenze individuali. È vecchio come il
produttivismo che ha iniziato la sua lunga marcia di colonizzazione dell’umano
circa settemila anni fa e si prepara a concluderla nel trans umanesimo.
Tuttavia il
produttivismo non è una punizione divina né la versione moderna della maledizione
celeste che gli attuali bi millenaristi virtuali denunciano come un complotto
diabolico dalle mille sfaccettature paranoiche, senza accorgersi del loro ruolo
di utili idioti che denunciano un presente immaginario contribuendo a
confortare la propaganda di un’onnipotenza eterna del dominio reale. Il
produttivismo è il risultato della società dominante e delle oligarchie,
plutocrazie, e suprematismi diversi che hanno colonizzato il mondo come
un’immensa colonia penale. Allo scopo di rendere caduca ogni ipotesi che un
tale sviluppo storico diventi finalmente discutibile ed eventualmente superato,
noi siamo educati a identificare il suo inizio con quello della storia umana.
Ebbene, l’umanità ha incominciato a intervenire nella natura ben prima che il produttivismo
apparisse, con un’intelligenza sensibile e un approccio organico nei confronti
della vita totalmente diversi.
Anche limitandosi
a homo sapiens, ominide da cui
deriviamo in gran parte, si rimonta almeno a duecentomila anni prima del nostro
presente. Da allora gli esseri umani o presunti tali non hanno smesso di
produrre degli utensili e dei beni per inventarsi una vita piacevole, guidati dalla
loro intelligenza sensibile accesa dalla complicità poetica del cuore e del
cervello nel corpo individuale e sociale dei mammiferi che siamo. Perché
l’umanità è forse semplicemente la sensibilità vitale per un savoir faire armonizzatore che coordina
tutti gli altri nella sinfonia del vivente.
Orbene, se
accentuare la penuria dei primordi altera i dati della storia, come ce lo ha
ben mostrato Sahlins[1], è sicuro che la creazione
di utensili sempre più perfezionati e di beni godibili di cui approfittare ha
creato le condizioni per un’abbondanza sempre più qualitativa. I primi gruppi
di esseri in via di umanizzazione vaganti sulla terra dei tempi primordiali,
erano immersi in un’abbondanza naturale fuori controllo che la loro
intelligenza sensibile crescente ha imparato a gestire progressivamente.
All’inizio, probabilmente, regnava spesso se non dappertutto, un’abbondanza
quantitativa e una padronanza qualitativa dell’ambiente vitale assai scarsa ma
in costante miglioramento grazie all’attività umana intelligente.
Chiunque oggi ha
imparato a chiamare “lavoro” quest’attività creativa, artistica[2] perché prolungamento delle
protesi corporali e poetica[3] perché espressione del
savoir-faire concreto dell’umanità – Marx incluso che nella sua preziosa
critica radicale dell’economia politica, non ha indicato, però, il
produttivismo come matrice negativa del Capitale che ha denunciato con tanta
precisione. Al contrario, ha contribuito filosoficamente a un amalgama
produttivista tra il lavoro e l’attività vitale, cauzionando così l’alienazione
produttivista. Questa sacralizzazione del lavoro che in Marx non era che
un’interpretazione filosofica discutibile, è diventata, purtroppo, una pratica
di sfruttamento catastrofico tra i bolscevichi suoi eredi autoproclamati. Oltre
il grande apporto alla comprensione della storia e dei meccanismi della lotta
di classe che dobbiamo a Karl Marx, il marxismo ha continuato a teorizzare
l’essenziale e il peggio di quel che pretendeva criticare.
Il solo lavoro
spontaneo veramente umano è quello del saper vivere, mentre è nella progressiva
divisione del lavoro necessario per la vita e nelle specializzazioni che ne
derivano seguendo gli schemi gerarchizzanti del produttivismo che si sono
innescati tutti i progressi e tutte le alienazioni dell’umano che contrassegnano
la storia. Del resto – tanto di cappello a Paul Lafargue che ci ha dato il suo
“Diritto alla pigrizia” come una luce
emancipatrice nel buio stacanovista che si profilava – chiamare quest’attività
vitale complessa “lavoro” è già di per sé un confusionismo, come ci aiuta a
capire l’etimologia delle parole, sempre essenziale.
In tutte le lingue,
la parola “lavoro” denuncia il lato abbrutente, aggressivo, doloroso,
spiacevole imposto dell’attività in questione. Il trepalium, strumento di tortura all’origine in francese e spagnolo
della parola lavoro (travail, trabajo), è nato per reprimere le
rivolte contro la schiavitù organizzata, lo sfruttamento della forza lavoro
altrui, l’accumulazione di beni, lo Stato – tutti segni precursori di un
produttivismo vittorioso. Sfruttare l’altro, ridurlo in schiavitù – persino
mangiarlo in casi estremi e più rari – e comunque dominarlo sempre con l’astuzia
o la violenza di cui lo Stato s’arroga il privilegio legale, erano e sono delle
tendenze predatrici di cui l’essere umano è portatore nella sua disumanità
strutturale. Fin dall’inizio questa tendenza suprematista era tra le opzioni
possibili degli umanoidi.
Perché umano e
disumano sono le due componenti preistoriche da cui è scaturita la comunità
come un’opera d’arte collettiva da cui fuoriesce l’umano, l’individuo libero,
uguale e fraterno per le sorelle quanto per i fratelli; oppure il disumano,
l’individuo brutale e prevaricatore che riduce l’umano a un elemento
indifferenziato dell’orda. Ebbene, io sono convinto che il “lavoro” originario oscillasse
tra queste due tendenze dando vita a società matricentriche acratiche oppure a
gruppi patriarcali, gerarchici e suprematisti. Dopotutto i nostri cugini bonobo
e scimpanzé, purtroppo in via d’estinzione, ci confermano l’esistenza sul piano
animale di questi due modi di funzionamento sociale molto differenti e assolutamente
incompatibili.
Certamente l’attività
necessaria alla vita era comunque spesso faticosa, talvolta pericolosa, facile
o no, ma era la vita vera, l’insieme degli atti necessari al godimento
individuale e collettivo del bere e mangiar bene, riposare al sicuro, fare
l’amore, comunicare, imparare, curarsi, giocare e divertirsi godendo. Era la
vita organica e non la vita artificiale, la vita orgastica e non la
reificazione e l’alienazione oggi diffuse. Se si potesse domandare a un
ipotetico individuo organico primitivo quale sia il suo lavoro, sono sicuro che
troverebbe difficoltà nel rispondere.
Da un lato
l’amore, l’empatia, la comunità umana, dall’altro la comunità bellicosa,
guerriera, costruita sull’indifferenza egocentrica verso il proprio simile,
verso l’altro genere, i selvaggi, gli stranieri, gli untermenchen. Prima l’indifferenza calcolata, l’assenza di empatia,
il risparmio di sé, la ritenzione meccanica dello sfintere che impedisce la dépense emozionale generosa e
l’abbandono al piacere reciproco, il carattere fallico[4] che svilisce l’umano dal
dono allo scambio redditizio; l’odio arriva dopo perché, come l’amore, implica
un’emozione, quindi un’empatia negativa.
I fascismi
caratteriali e politici – rovesciamenti patogeni provocati dalla corazza
caratteriale in cui la peste emozionale accorda all’indifferenza delle
connotazioni aggressive che la paura e le paranoie moltiplicano – erigono
sempre delle comunità morbose fondate su un odio comune. La comunità umana vi è
crudelmente assente, ma è sempre sbandierata come un’icona sacra sui mostruosi
stendardi patriottici di una nazione violentata, fantasmata, posseduta,
umiliata e utilizzata dallo Stato e dai suoi boia, soffocata da una retorica
nazionalista malata di suprematismo.
Una società del
ben vivere organizzerebbe il “lavoro” necessario a creare le condizioni della
felicità per il popolo e con il popolo, senza gerarchie strutturali. Tuttavia,
dopo 7000 anni di produttivismo, bisognerà inventarla a rovescio del lavoro
alienato, cominciando dalla rinascita dell’umano le cui radici si sono rovinate
nella lotta di classe e di genere fino ad alienarsi nel consumismo e nella
reificazione.
Il produttivismo
ha costruito sulla paura della penuria la corsa al privilegio che è il motore
centrale dell’economia politica. Tuttavia, la critica del capitalismo e
dell’economia politica non possono rovesciare la prospettiva del mondo a
rovescio senza mettere in discussione la civiltà produttivista nella sua
totalità e senza riportare al centro quella vita organica che il produttivismo
ha progressivamente indebolito e quasi abolito. Per questo bisogna aver bene in
testa che una democrazia organica sarà ineluttabilmente una demoacrazia, incompatibile con lo
Stato, con le gerarchie di potere e con il minimo suprematismo.
Senza alcuna
certezza, ma senza alternativa possibile, una tale mutazione radicale sta
disegnandosi nell’affiorare di una coscienza di specie che ci ricollega alle
nostre radici organiche senza alcuna nostalgia primitivista. Una nuova
coscienza emerge in quest’epoca pestifera come superamento possibile di una coscienza
di classe sconfitta dal consumismo al punto che i suoi resti malati sono
ridotti a elemosinare una riduzione simbolica dell’inquinamento e dello
sfruttamento, non la loro abolizione radicale.
Un’abolizione
evidentemente ormai altrettanto urgente che necessaria se non sul piano
quantitativo assoluto (vista l’enormità della questione demografica) almeno sul
piano qualitativo che è il più importante perché riguarda tutti e persino la
sopravvivenza della specie. Temo che si pagherà un prezzo altissimo in vite
umane prima di rimettersi in sesto, ma non ci sarà altra scelta, questo è
sicuro. Anche dipinto di verde, il capitalismo non è riformabile né lo vuole, e
il produttivismo che l’ha generato neppure.
Bisogna che il
viaggio della vita cambi radicalmente rotta. Il che significa ineluttabilmente –
più presto sarà, meglio sarà – l’arresto totale delle energie mortifere, la
sostituzione delle energie inquinanti con energie gratuite e rinnovabili, l’eliminazione
delle cause umane dei rischi pandemici e del riscaldamento climatico. Si deve
fermare il produttivismo subito, “a qualunque costo”, come i nostri ridicoli
governanti hanno già dovuto fare a dosi omeopatiche di fronte al piccolo covid
19/84, antipasto del banchetto che la natura e la storia si preparano a servirci.
Mentre assistiamo
stupiti e increduli a pseudo rivolte di schiavi che vogliono continuare a
restarlo in nome di una libertà da servitori volontari e di una delirante
negazione della realtà, non si può che ricostituire alla base, in ogni
situazione locale che getta il suo sguardo sul planetario, la relazione
organica con la natura che il produttivismo ha distrutto. Quest’opzione
strategica essenziale di difesa della vita, che la si scelga o meno, comporta
l'abbandono immediato dell'industrializzazione capitalista e della crescita
economica, riconducendo il savoir-faire tecnico all'utilità collettiva e non
più alla redditività individuale.
Sergio Ghirardi
Sauvageon, 20 luglio 2021
[1] Marshall Sahlins, L'economia dell'età della pietra.
Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980
[2] Particolarmente interessante la
definizione dell’arte data da Aristotele nell’Etica Nicomachea: “Una disposizione produttiva accompagnata da
ragione”.
[3] Dal greco poiein che significa fare.
[4] Vedi W. Reich, Analisi del carattere, Sugar, Milano
1973.
DEMOACRATIE
Pour une libre production
généreuse et jouissive d’une critique radicale du productivisme
Une des tactiques habituelles des idéologues de la
domination mais aussi des serviteurs volontaires de la civilisation
productiviste est d’identifier la critique radicale du productivisme avec le
refus bête de la production des biens nécessaires et désirables. Le même tour
de passe-passe a été fait envers le principe de la décroissance économique, réduit
à une mystique décroissance sacrificielle et autopunitive.
Il faut dire que souvent ces mêmes adeptes d’une critique
radicale de la société de consommation donnent le bâton pour se faire battre en
théorisant effectivement des liturgies sacrificielles à la place des
transformations jouissives de l’attitude cauchemardesque répandue dans la
société productiviste qui rêve d’une croissance sans fin dans un monde fini,
délimité. Pour rendre mimétique l’absurdité démentielle de ce délire, la longue
histoire de l’aliénation sociale et politique a éduqué les masses et leurs
chefs idéologiques à opposer la renonciation volontaire comme seule alternative
à la pénurie de qualité imposée par l’abondance rentable de marchandises
inutiles ou nuisibles. Face à l’impératif économique omniprésent, les civilisés
se contentent de prétexter une sobriété étriquée imbue de paupérisme religieux
(chrétien ou pas, peu importe) plutôt que la sobriété jouissive d’une abondante
consommation vitale qualitative, partagée, choisie et maitrisée par
l’autogestion généralisée de la vie quotidienne.
La boulimie consumériste et l’anorexie du désir sont deux
excès opposés fondateurs du productivisme. Il faudra se soigner des deux en
opposant l’abondance qualitative à la poubelle productiviste qui ne cesse de
croître. On peut croire avec Epicure que la sobriété est une qualité de
l’abondance et un élément du bonheur quand celle-ci abandonne les marécages de
la consommation et le désert de la renonciation.
Soyons clairs : critiquer le productivisme ne
signifie pas rentrer dans une régression primitiviste. Cela n’a pas de sens. Le
retour aux origines n’est ni possible ni souhaitable. L’évolution de l’espèce,
comme du vivant en général, est un mouvement incessant, inarrêtable car naturel
et intrinsèque à la vie. Ainsi que Darwin nous a appris à prendre en
considération cette mutation perpétuelle comme une donnée incontournable, un
darwinisme asservi à la classe dominante a transformé la théorie de l’évolution
en un support phénoménale du progrès capitaliste, souteneur acharné de l’artificialité
économiste d’une societé humaine récemment acquise à l’industrialisation. Depuis,
nous sommes dans l’urgence de clarifier ce processus morbide, désormais en
phase terminale, pour éliminer les manipulations qui ont conditionné et
détourné l’évolution de l’espèce.
Car, entre bruits, tempêtes et catastrophes, on se dirige
vers l’objectif final, nihiliste d’une vie humaine rendue définitivement
artificielle et destinée à la disparition. Le processus autodestructeur de la
vie organique de l’espèce a des origines récentes si on considère l’histoire
globale de l’humanité, mais il est très ancien si on le mesure avec l’espérance
de vie de nôtres existences individuelles. Il est vieux comme le productivisme
qui a entamé sa longue marche de colonisation de l’humain il y a environs sept
millénaires et s’apprête à l’achever par le transhumanisme.
Néanmoins, le productivisme n’est pas une punition divine
ni la version moderne de la malédiction céleste que les bi millénaristes
virtuels d’aujourd’hui dénoncent comme un complot diabolique aux mille facettes
paranoïaques, sans s’apercevoir de leur rôle d’idiots utiles qui dénoncent un
present imaginaire en contribuant à conforter la propagande d’une
toute-puissance éternelle de la domination réelle. Le productivisme est le
produit de la société dominante et des oligarchies, ploutocraties et
suprématismes divers qui ont colonisé le monde comme une immense colonie
pénale. Afin de gommer toute hypothèse qu’une telle démarche historique soit
finalement rendue discutable et éventuellement dépassée, nous sommes éduqués a
identifier son début avec celui de l’histoire humaine. Or, l’humanité a
commencé à intervenir dans la nature bien avant que le productivisme soit
apparu, avec une intelligence sensible et une approche organique de la vie
totalement differentes.
Même en se limitant à homo
sapiens, hominide dont nous dérivons en grande partie, on remonte au moins
à deux cent mille années avant notre present. Depuis, les humains ou présumés
tels n’ont pas arrêté de produire des outils et de biens pour s’inventer une
vie agréable, guidés par leur intelligence sensible, allumée par la complicitè poétique
du cœur et du cerveau dans le corps individuel et social des mammifères que
nous sommes. Car l’humanité est peut-être simplement la sensibilité vitale pour
un savoir-faire harmonisateur qui coordonne tous les autres dans la symphonie
du vivant.
Or, si accentuer la pénurie des débuts fausse les données
de l’histoire, comme nous l’a si bien montré Sahlins[1],
c’est certain que la création d’outils de plus en plus perfectionnés et de
biens agréables dont profiter a crée les conditions pour une abondance de plus
en plus qualitative. Les premiers groupes d’êtres en voie d’humanisation
sillonnant la terre des temps primitifs, baignaient dans une abondance
naturelle hors contrôle que leur intelligence sensible croissante a appris à
maitriser au fur et mesure. Au début, probablement, il régnait souvent, sinon
partout, une abondance quantitative et une maitrise qualitative du milieu vital
assez relative, mais en constante amélioration grâce à l’activité humaine
intelligente.
Aujourd’hui, n’importe qui a appris à appeler
« travail » cette activité créative, artistique[2] car
prolongation des prothèses corporelles et poétique[3]
car expression du savoir-faire concret de l’humanité – Marx inclus qui, dans sa
précieuse critique radicale de l’économie politique, n’a pas impliqué,
toutefois, le productivisme comme matrice négative du Capital qu’il a dénoncé
si précisément. Au contraire, il a contribué philosophiquement à un amalgame
productiviste entre le travail et l’activité vitale, cautionnant ainsi
l’aliénation productiviste. Cette sacralisation du travail que chez Marx
n’était qu’une interprétation philosophique discutable, est devenue, hélas, une
pratique d’exploitation catastrophique chez les bolcheviks, ses héritiers
autoproclamés. Au delà du grand apport à la compréhension de l’histoire et des mécanismes
de la lutte de classes qu’on doit à Karl Marx, le marxisme a continué à
théoriser l’essentiel et le pire de ce qu’il prétendait critiquer.
Le seul travail spontané véritablement humain est celui
de savoir vivre, alors que c’est dans la progressive division du travail nécessaire
à la vie et dans les spécialisations qui en découlent suivant les schémas hiérarchisant
du productivisme que se sont enclenchés tous les progrès et toutes les aliénations
de l’humain qui jalonnent l’histoire. D’ailleurs – chapeau à Paul Lafargue qui
nous a donné son « Droit à la
paresse » comme une lumière émancipatrice dans le noir stakhanoviste qui
s’esquissait –, appeler cette activité vitale complexe « travail »
est déjà en soi un confusionnisme, comme nous aide à comprendre l’étymologie
des mots, toujours essentielle.
Dans toutes les langues le mot « travail » dénonce
le côté éreintant, agressif, douloureux, désagréable, imposé de l’activité en
question. Le trepalium, instrument de
torture à l’origine en français et espagnol du mot travail, est apparu pour
mater les révoltes contre l’esclavage organisé, l’exploitation de la force de travail
d’autrui, l’accumulation des biens, l’Etat – tous signes avant coureurs d’un
productivisme victorieux. Exploiter l’autre, le réduire en esclavage – même,
dans des cas extrêmes et plus rares, le manger – et, de toute façon, le dominer
toujours par la ruse ou la violence dont l’Etat s’arroge le privilège légal,
étaient et sont des penchants prédateurs dont l’être humain est porteur dans
son inhumanité structurelle. Du début, cette tendance suprematiste était parmi
les options possibles des humanoïdes.
Car l'humain et l'inhumain sont les deux composantes
préhistoriques à partir desquelles la communauté a émergé en tant qu'œuvre
d'art collective dont jaillit l’humain,
l’individu libre, égal et fraternel pour les sœurs autant que pour les
frères ; ou sinon l’inhumain, l’individu brutal et prévaricateur qui réduit
l’humain à un élément indifférencié de la horde. Or, je suis convaincu que le
« travail » originaire balançait déjà entre ces deux tendances
donnant vie à des sociétés matri centriques acratiques ou à des groupes
patriarcales, hiérarchiques et suprématistes. Apres tout, nos cousins bonobos
et chimpanzés, hélas en voie de disparition, nous confirment bien l’existence sur
le plan animal de ces deux fonctionnements sociaux très differents et pas du
tout compatibles.
Certes, l’activité nécessaire à la vie était, de toute
façon, souvent fatigante, parfois dangereuse, facile ou pas, mais c’était la vraie
vie, l’ensemble des actes nécessaires pour la jouissance individuelle et
collective de bien manger et boire, se coucher à l’abri, faire l’amour,
communiquer, apprendre, se soigner, jouer et s’amuser en jouissant. C’était la
vie organique et non pas la survie artificielle, la vie orgastique et non pas
la réification et l’aliénation aujourd’hui répandues. Si on pourrait demander à
un hypothétique individu organique primitif quel est son travail, il aurait du
mal à repondre, j’en suis sur.
D’un côté l’amour, l’empathie, la communauté humaine, de
l’autre la communauté belliqueuse, guerrière, bâtie sur l’indifférence
egocentrique envers ses semblables, l’autre genre, les sauvages, les étrangers,
les untermenchen. D’abord
l’indifférence calculée, l’absence d’empathie, l’épargne de soi, la rétention
mécanique du sphincter qui interdit la dépense émotionnelle généreuse et
l’abandon au plaisir réciproque, le caractère phallique[4] qui
fait basculer l’humain du don à l’échange rentable ; la haine vient après car,
comme l’amour, elle implique une émotion, donc une empathie négative.
Les fascismes caractériels et politiques – renversements
pathogènes provoqués par la carapace caractérielle où la peste émotionnelle octroie
à l’indifférence des connotations agressives que la peur et les paranoïas
multiplient – échafaudent toujours des communautés morbides fondées sur une
haine commune. La communauté humaine y est cruellement absente, mais elle est toujours
affichée comme une icône sacrée sur les monstrueux drapeaux patriotiques d’une nation
violée, fantasmée, possédée, humiliée et utilisée par l’Etat et ses bourreaux, étouffée
par une rhétorique nationaliste malade de suprématisme.
Une société du bon vivre organiserait le « travail »
nécessaire à créer les conditions du bonheur pour le peuple et par le peuple, sans
hiérarchies structurelles. Néanmoins, après 7000 ans de productivisme, il
faudra l’inventer à l’envers du travail aliéné, à commencer par la renaissance
de l’humain dont les racines se sont abimées dans la lutte de classe et de
genre jusqu’à s’aliéner dans la consommation et la réification.
Le productivisme a construit sur la peur de la pénurie la
course au privilège qui est le moteur central de l’économie politique. Néanmoins,
la critique du capitalisme et de l’économie politique ne peuvent pas renverser
la perspective du monde à l’envers sans mettre en discussion la civilisation
productiviste dans sa totalité et sans remettre au centre cette vie organique
que le productivisme a progressivement affaiblie et presque abolie. Pour cela
il faut avoir bien en tète qu’une démocratie organique sera inéluctablement une
demoacratie,
incompatible avec l’Etat, avec les hiérarchies de pouvoir et le moindre
suprématisme.
Sans aucune certitude, mais sans alternative possible, une
telle mutation radicale est en train de se dessiner dans l’éclosion d’une
conscience d’espèce qui nous relie à nos racines organiques sans aucune
nostalgie primitiviste. Une conscience nouvelle émerge dans cette époque
pestifère comme le dépassement possible d’une conscience de classe vaincue par
le consumérisme au point que ses restes malades sont réduits à quémander une réduction
symbolique de la pollution et de l’exploitation, non pas leur abolition
radicale.
Une abolition, évidemment, désormais aussi urgente que
nécessaire sinon sur le plan quantitatif absolu (vue l’énormité de la question
démographique), du moins sur le plan qualitatif qui est le plus important parce
qu’il concerne tout le monde jusqu’à la survie même de l’espèce. Je crains
qu’on aille payer un prix extrêmement fort en vies humaines avant de se
ressaisir, mais on n’aura pas d’autres choix, ça c’est sur. Même peint en vert,
le capitalisme n’est pas réformable ni ne le veut et le productivisme qui l’a
généré non plus.
Il faut que le voyage de la vie change radicalement de
cap. Ce qui signifie inéluctablement – plus c’est tôt, mieux c’est – l’arrêt total
des énergies mortifères, la substitution des énergies polluantes par des énergies
gratuites et renouvelables, l’élimination des causes humaines des risques
pandémiques et du réchauffement climatique. On doit arrêter le productivisme tout
suite, « coute que coute », comme nos gouvernants ridicules ont déjà du
faire à doses homéopathiques face au petit Covid 19/84, hors d’œuvre du repas
que la nature et l’histoire vont nous servir.
Alors qu’on assiste ébahis et interloqués à des pseudo
révoltes d’esclaves qui veulent continuer à le rester au nom d’une liberté de
serviteurs volontaires et d’un déni de réalité délirant, on ne peut que reconstituer
à la base, dans chaque situation locale qui lorgne sur le planétaire, la
relation organique avec la nature que le productivisme a détruit. Ce choix
stratégique incontournable de défense de la vie, qu’on le choisit ou pas, passe
par l’abandon immédiat de l’industrialisme capitaliste et de la croissance
économique, ramenant les savoirs faire techniques à l’utilité collective et non
plus à la rentabilité individuelle.
On le fera librement par un choix populaire conscient ou
nos seigneurs minables y seront obligés (peu, mal, dangereusement, rechignant
et de façon contradictoire comme avec la pandemie) par une nature qui ne s’embarrasse
pas de revendications syndicales ni de manifestations revendiquant le retour débile
de la survie consumériste et marchande en pleine syndémie. A nous la liberté de
se réconcilier avec l’humain organique ou de mourir comme des rats gavés de
productivisme. Car celle-ci est la nouveauté qui préannonce la conscience d’espèce
émergeante : la révolution sociale a une nouvelle camarade sans états d’âme,
sans idéologies ni partis et impossible à corrompre – la nature. On gagnera
avec elle ou on mourra contre elle. Choisi ton camp, camarade !
Sergio
Ghirardi Sauvageon, 20 juillet 2021
[1] Marshall Sahlins, Age de pierre,
age d’abondance, Gallimard, Paris 1976.
[2] Particulièrement intéressante la définition de l’art par Aristote dans L’Éthique à Nicomaque : « Une disposition productive accompagnée de raison ».
[3] Du grec poiein qui signifie faire.
[4] Voir W.
Reich, L’Analyse caractérielle,
Payot, Paris 1976.