venerdì 3 febbraio 2023

Crisi agraria e dilemma energetico

 




La penetrazione del capitalismo nelle campagne ha trasformato la proprietà rurale in impresa e la produzione di sussistenza in produzione per il mercato. La rapida crescita della popolazione urbana ha moltiplicato parallelamente la domanda di cibo. La mercificazione ha posto fine alla simbiosi tra agricoltura e allevamento, costringendo entrambi a seguire la propria strada. Di fatto, ha messo fine alla tradizionale società contadina. Tutto fu ridotto al suo valore di scambio: scomparve ogni forma di vita coerente con l'ambiente, svanì la socialità tipica del mondo rurale e così ogni singolarità fu soppressa, la bellezza paesaggistica fu svilita e tutto il patrimonio culturale fu rovinato o museificato. La ricerca esclusiva del beneficio economico implicava lo sfruttamento intensivo, cioè l'industrializzazione dell'attività agricola. Allo stesso modo, le condizioni industriali richiedevano la concentrazione della proprietà, il finanziamento tramite crediti e sussidi e una quantità crescente d’input, principalmente macchinari, energia e acqua in abbondanza, fertilizzanti chimici, erbicidi e pesticidi. La globalizzazione ha amplificato indicibilmente queste condizioni (“Almería, frutteto d'Europa”) ricorrendo a varietà ibride e transgeniche. In questo modo si è interrotto il rapporto più o meno diretto, non solo tra i produttori e i consumatori di cibo, ma anche tra gli stessi contadini e le campagne. L'agricoltore-imprenditore si è dedicato definitivamente alla gestione e alla supervisione delle colture - mansioni digitalizzate - poiché le mansioni specificamente agricole (trattamenti fitosanitari, raccolta e confezionamento) erano a carico dei lavoratori salariati, quasi sempre per stagione e in condizioni di lavoro pessime. L'agricoltura industriale è un'agricoltura senza agricoltori. Lo stesso diremmo dell'allevamento intensivo delle macro aziende agricole. Gli effetti positivi di entrambi si sono rivelati in un apprezzabile aumento della produzione e in una riduzione dei prezzi che hanno determinato un'espansione demografica urbana. Peggiori sarebbero gli aspetti negativi: abbandono della terra ed emigrazione verso le città, perdita di conoscenze e saperi, scomparsa o privatizzazione delle varietà autoctone, deforestazione e distruzione della fauna selvatica, produzione di rifiuti non riciclabili, maggiore resistenza dei parassiti e comparsa di nuove fitopatie, scomparsa dello strato fertile del suolo, sovra sfruttamento delle falde acquifere, contaminazione del suolo e dell'acqua e degrado della qualità degli alimenti. L’argomento maggiore a favore della monocoltura industriale e dell'allevamento intensivo è stato l’eradicazione della fame nel mondo, una promessa chiaramente non mantenuta.

 

Diversi fattori hanno influito sull’invivibilità di molte aziende agricole ma il principale è stato il ristagno della produzione petrolifera dal 2005, elemento determinante dell'attuale crisi (dato corroborato dalle compagnie petrolifere che, stufe di perdere denaro, hanno smesso di investire nel 2014). Il superamento del picco del petrolio ha portato dal 2015 alla diminuzione della produzione di gasolio, così essenziale per la lavorazione meccanica del terreno, e in generale, e fu in generale seguita dai picchi di altre risorse energetiche e minerarie. Le conseguenze non avrebbero potuto essere peggiori sui prezzi di fertilizzanti, pesticidi e plastica, dipendenti dall'industria petrolchimica. Anche il costo dei trasporti è aumentato, compreso quello marittimo (il 92% dell'energia consumata dalla circolazione a motore proviene dal petrolio), cosi come quello dei cereali e di conseguenza dell’alimentazione. La domanda crescente delle economie emergenti (Cina, India, Brasile) non ha fatto altro che aggravare la situazione, anticipando la crisi. Per quanto riguarda gli altri fattori, segnaliamo l’indebitamento e la scarsità d'acqua dovuta alla siccità. I terreni sono dunque diventati disponibili per altre attività transitorie come l’energia rinnovabile Il classico modello di sviluppo industriale è stato ritoccato per diventare molto più tecnico e insostenibile, affidandosi alla fusione di tecno scienza, produzione su larga scala, finanza e logistica, ma senza contrastare di fatto il trend di bassa resa delle colture e la difficoltà di aumentare la superficie coltivata, soprattutto quando la terra irrigata è diventata un bene rifugio. Il recente approdo in campagna dei fondi d’investimento e dei flussi europei del programma Next Generation e del piano RePower, suggerisce che i megaimpianti per il New Green Deal americano cercano nelle rinnovabili di superare i problemi strutturali dell'agro business che impediscono una crescita sufficiente – problemi attribuiti al cambiamento climatico. La cosiddetta transizione energetica si annuncia come il grande rimedio. In effetti, il riscaldamento globale sta destabilizzando tutta la produzione agroindustriale già perturbata e si fa credere che i megaimpianti per le energie rinnovabili contribuiscono alla soluzione mentre producono unicamente elettricità, la quale rappresenta solo il 20-24% dell'energia consumata. In realtà si cerca di mantenere il sistema industriale vigente, con bassi costi di produzione e alti livelli di consumo. Cambiare qualcosa affinché tutto si conservi.

Il vertice sul clima di Parigi (2015) ha segnato una svolta nella marcia del capitalismo. Fissando la "de-carbonizzazione" dell'economia come obiettivo urgente e accordando un forte sostegno finanziario, il capitalismo verde è stato finalmente in grado di proporsi come “transizione energetica”. I problemi di approvvigionamento dovuti alla pandemia e alla guerra in Ucraina ne hanno solo accelerato il decollo. Per quanto riguarda il territorio spagnolo, la proliferazione disordinata e incontrollata d’impianti industriali di energia rinnovabile è succeduta alla precedente ondata d’insediamenti residenziali, grandi magazzini e autostrade. La produzione di energia elettrica prende il posto del mattone come motore economico e primo fattore di degrado del territorio. Il processo di disgregazione dello spazio rurale si sta completando grazie a questo nuovo estrattivismo: stiamo entrando in una sorta di fase metastatica finale del cancro urbano-capitalista che stava inesorabilmente corrodendo la campagna e la natura come già aveva fatto con la città stessa. Nonostante che, imitando la politica, il linguaggio imprenditoriale e finanziariamente corretto abbia incorporato molte parole con connotazioni ecologiste, non c’è una presa di coscienza dei leader mondiali di fronte alla crisi climatica. Il vocabolario ambientalista utilizzato dai dirigenti non deve trarre in inganno, poiché non è altro che una convenzione aggiunta in un'epoca di catastrofi ecologiche per oscurare la comprensione popolare del disastro. Nessuno intende porre fine alla dipendenza dai combustibili fossili, come dimostrano, per esempio, l’impegno nel costruire nuove infrastrutture per il gas o la costruzione di nuove centrali a carbone e il mantenimento di quelle nucleari. D'altra parte, anche in caso di una stagnazione del consumo, il vuoto lasciato dall'uso di benzina, cherosene o gasolio è così profondo che sarebbe impossibile colmarlo con altre risorse. Non c'è realmente un cambiamento di paradigma energetico, né si cerca di sostituire le fonti fossili e nucleari con altre possibilità. Neppure la riduzione delle emissioni di gas serra è seriamente contemplata come si è postulato fin dalla stesura dei Protocolli di Kioto nel 1997. È invece molto più evidente che il mercato dell'energia elettrica e il commercio delle emissioni promettono garanzie considerevoli. Il prezzo della luce, del gas e dei diritti delle emissioni di anidride carbonica (sul mercato dal 2005), dovuto in parte alla ripresa economica post-pandemia, hanno raggiunto i massimi storici lo scorso marzo. A giugno è stato il turno del gasolio e della benzina. Se teniamo conto anche del progressivo calo delle estrazioni petrolifere e di una consistente disponibilità di fondi, avremo tutti i presupposti che stanno riorientando le finanze mondiali verso le energie cosiddette ormai "rinnovabili". La “transizione energetica” concordata a Parigi, i piani nazionali di emergenza climatica, i progetti di contenimento e resilienza e, più recentemente, la volontà europea di tagliare i consumi di gas di un prosaico 15%, hanno già molteplici strumenti finanziari su cui appoggiarsi. È quindi comprensibile che un ampio settore del capitalismo costituito dagli oligopoli dell'elettricità, dalle transnazionali del gas, dalle compagnie petrolifere, dalle grandi società di costruzioni, dalle grandi banche e dai fondi d’investimento, riconosca ipocritamente l'urgenza di lottare contro il riscaldamento globale. Il risultato di una tale repentina combattività è una raffica di derivati “climatici” e centrali elettriche che non riflettono esattamente una preoccupazione corporativa per l'ambiente, la biodiversità e lo sviluppo locale: l'unica scopo perseguito è il profitto privato. Non c'è transizione da una società basata su un modello energetico centralizzato, industriale ed estrattivista, a un mondo decentralizzato, autosufficiente, disurbanizzato e rispettoso del territorio e della natura. La società capitalista prima della transizione pretende di essere la stessa di quella successiva, strutturata allo stesso modo ma con un discorso ecologista. Il capitale non ha un'ideologia fissa, né un linguaggio particolare; la sola preoccupazione dell’improvvisa inclinazione dei dirigenti per l'ecologia è il tornaconto, che ora ruota attorno al verde.

Una cosa è l'elettricità e un'altra l'energia primaria, ossia tutta l’energia naturale disponibile non ancora modificata per il suo uso. Essa proviene da fonti fossili per l'86% (dato del 2019 dello Stato spagnolo) e per la maggior parte non è elettrificabile. Per il modello 100% rinnovabile della transizione in questo campo abbiamo solo l'auto elettrica e l'idrogeno verde, ma entrambi sono troppo costosi e il loro uso massiccio presenta gravi problemi tecnici ancora irrisolti. In verità, le alte autorità vogliono che le cosiddette energie rinnovabili fungano da meccanismo di contenimento della domanda di combustibili, di carbone e, soprattutto, di gas destinati alla produzione di energia elettrica, per ridurre, cioè, l'attività delle centrali termiche senza sostituirle, perché sono necessarie quando non c'è sole né vento (nel 2022 hanno coperto solo il 30,8% del fabbisogno elettrico in Spagna). Questa associazione obbligatoria mette in discussione la natura rinnovabile dell'energia prodotta in "parchi", "orti" e altre "fattorie", pur se non dimentichiamo che i materiali industriali utilizzati nella loro costruzione riflettono una significativa impronta di carbonio di fabbrica: cemento armato e acciaio per le fondazioni, alluminio e rame per l'evacuazione nelle linee ad alta tensione, vetroresina o carbonio rinforzato con plastica per le “lame” o pale, terre rare per i magneti permanenti dei rotori (la cui estrazione e purificazione è un processo altamente inquinante), cialde di poli-silicio e film metallici semiconduttori poco abbondanti per i pannelli solari (alcuni tossici come l’arsenico e il cadmio), materiale per supporti e invertitori di corrente, litio e cobalto per le batterie, ecc. Se a questo aggiungiamo i lavori di sterro, scavo e altri lavori di installazione e manutenzione, che si ripetono al momento dello smantellamento, cioè dopo venti o trent'anni, più il problematico riciclaggio dei rottami metallici, avremo il quadro completo della vera possibilità di rinnovamento di un tipo di energia che dovrebbe essere chiamata più appropriatamente "energia alternativa derivata da combustibili fossili". Non parliamo poi della natura “pulita” di altre energie considerate rinnovabili come quelle che provengono dalla combustione di bio masse o biocarburanti, e della stessa energia idroelettrica. Insomma, le rinnovabili non sono altro che un miraggio. Non risolvono per niente la crisi. Hanno un grande impatto ambientale e scarse ripercussioni economiche locali, non creano posti di lavoro, minacciano foreste e raccolti, causano danni al paesaggio e alla fauna e contribuiscono allo svuotamento delle campagne spagnole tanto quanto l'agro business. Avvantaggiano solo oligopoli energetici e gruppi finanziari, introducono dipendenze tecnologiche non necessarie e, per di più, non sono nemmeno rinnovabili.

Di tutte le presunte rinnovabili, il solare fotovoltaico è quello che ha guadagnato maggior impulso, seguito a grande distanza dall'eolico offshore e dall'idrogeno. I suoi promotori parlano di “rivoluzione solare” per le intenzioni dichiarate nei piani nazionali per l'energia e il clima di quadruplicare la potenza installata nei prossimi otto anni. Sarebbe meglio dire "bolla solare" a giudicare dalle sue caratteristiche speculative. La verità è che dal 2018 gli Stati europei hanno promosso una rapida crescita del mercato fotovoltaico, iniziando a progettare impianti di oltre 100 Mw (più grande è l'installazione, più è duratura). Il fotovoltaico era diventato più economico a causa del calo dei prezzi del silicio cristallino e, quindi, dei pannelli. I progressi tecnologici hanno indicato un sostanziale miglioramento dell'efficienza. Le centrali solari erano meno costose da mantenere rispetto alle centrali eoliche; insomma, nonostante il recente aumento del costo delle materie prime e della logistica, il suo costo di installazione è diminuito dell'82% e il costo di produzione del 90%. Nonostante che il tasso di ritorno energetico (TRE) fosse troppo basso (tre parti di energia ottenuta per una investita), il fotovoltaico è diventato l'energia meno costosa quasi da un giorno all’altro e, tenendo conto che dal novembre 2020 i prezzi del gas e dell'elettricità sono molto volatili, l'opzione solare non solo ha cominciato a essere presente negli uffici delle multinazionali come l’affare del secolo, ma anche nei ministeri come un tema dichiarato di “interesse pubblico”. Per un motivo o per l'altro, il settore fotovoltaico promette di raggiungere in breve tempo dimensioni paragonabili a quelle dell'industria automobilistica. Grazie alla fine della moratoria sulle rinnovabili e alla soppressione della "tassa solare" e all’abolizione del rapporto d’impatto ambientale su impianti di oltre cinquanta ettari, il mercato solare spagnolo è diventato uno dei più grandi e sta crescendo a tutta velocità al calore delle aste del Ministero della Transizione Ecologica, della bassa redditività degli sfruttamenti agricoli, degli espropri forzati delle licenze express e delle iniezioni di capitali stranieri. Il più grande 'macroparco' europeo è stato realizzato tre anni fa a Mula (Murcia) con una capacità di 495 Mw e occupa un migliaio di ettari e altri 500 sono stati recentemente realizzati a Usagre (Badajoz). Tre o quattro di grandezza simile e migliaia di altri meno estesi sono in corso, in terreni rustici e steppe, su colture, zone umide, aree protette e sentieri per il bestiame a volte vicino ad aree popolate. Anche l'installazione di pannelli su tetti, parcheggi e stagni, sovvenzionati dal Programma Solare 2022, ha dato vita a numerose aziende, attratte dalla prospettiva di guadagni nell'autoconsumo commerciale. Siamo di fronte a una potenza installata di 180 GW (in aumento) di cui non abbiamo bisogno, visto che il consumo medio statale non raggiunge i 32 GW. Intanto il paesaggio iberico si sta trasformando a marce forzate e lo spazio solare, quando l'urbanizzazione ha raggiunto il suo apice, diventa, a tutti gli effetti, l'elemento determinante di una pianificazione territoriale "verde" che obbedisce essenzialmente a interessi imprenditoriali e finanziari contingenti.

L'elevato numero d’impianti e la minaccia incombente di sfavorevoli conseguenze sociali, ambientali e paesaggistiche stanno generando conflitti territoriali e, allo stesso tempo, generando una riflessione critica ben orientata contro il modello capitalista di gestione dell'energia che si lega alla critica dell’agroindustriale. Punti di partenza critici sono la considerazione dell'energia come bene comune e la sovranità alimentare – il diritto dei popoli a procurarsi il cibo secondo le consuetudini – postulati che invalidano lo sfruttamento industriale delle fonti rinnovabili e dell’agricoltura, mettendo in discussione la pianificazione nazionale. Ciò che conta sono i bisogni sociali e i diritti fondiari, non gli interessi delle grandi multinazionali. Di conseguenza, la crisi energetica e agraria dev'essere considerata come una crisi del sistema capitalista e dello Stato che lo serve, per il quale si tratta di superare la crisi intervenendo dall’alto con aiuti, bonus, linee guida internazionali e fughe tecnologiche in avanti. L’estensione del disastro contrasta con l’inconsistenza dei rimedi. Le proposte ecologiche ruotano intorno all'autoconsumo, al risparmio energetico, agli impianti condivisi, ai progetti comunitari, al riciclo, alla piccola produzione, alle associazioni di consumatori, ai vincoli di spesa e di mobilità, ecc., iniziative perfettamente valide ma difficili da realizzare in una società sperperatrice, con la popolazione tremendamente consumista stipata in agglomerati suburbani. Senza un dispendio straordinario di risorse, la società del consumo irresponsabile andrebbe in chiaro declino, al quale si resisterebbe ricorrendo all’occorrenza alle armi, giacché è inutile sforzarsi di trovare una soluzione pacifica alla crisi attraverso una “decrescita economica pianificata democraticamente” – da chi? – come se l'economia globale e gli agglomerati urbani accettassero di estinguersi pacificamente. La produzione di energia e di cibo non può essere considerata un fenomeno slegato dal mercato, dal sistema finanziario e dal fatto metropolitano.

Più illusorio è fingere di credere che la transizione energetica promossa dai leader mondiali sia quella che corrisponde al citato modello di prossimità "attuato con la partecipazione dei cittadini" nei parlamenti e nei comuni. Questo è il più grande errore dell'approccio ecologista maggioritario e della critica scientifica onesta che considera lo spazio istituzionale come una zona neutra dove è possibile attuare la difesa “democratica” degli interessi popolari contro la predazione del capitale, difesa che persegue un solenne “patto di Stato” con i suoi medesimi rappresentanti. La questione energetica, come quella ecologica, è inscindibile dalla lotta sociale e politica contro gli oligopoli, i fondi e le istituzioni fatte su misura, regionali, nazionali o internazionali, poiché la sua attuazione richiede una radicale riorganizzazione della società che va oltre l'ambito della legislazione più ardita che si possa realizzare con i movimenti politico-giuridici di cittadinanza. Finché il tessuto sociale non si ricomporrà al di fuori delle istituzioni e in opposizione ad esse, la difesa del territorio sarà debole e cercherà compromessi con l’ideologia dello sviluppo sulla base di accuse che richiedono solo una moratoria temporanea o una riduzione delle dimensioni dei progetti. La confusione tattica dominerà in confronto all’interesse privato e alla complicità istituzionale, poiché la prospettiva anticapitalista sarà deliberatamente nascosta da entrambe le parti. Solo in una fase più avanzata della lotta, immersi in un riscaldamento globale più violento e in una crisi più profonda, quando le masse impoverite smetteranno di essere ornamentali e, spinte da desideri, passioni, utopie e disastri, decideranno di prendere in mano il loro destino, allora verrà fuori il dibattito strategico, le carte saranno necessariamente messe in tavola. Lì si vedrà se l'ecologismo ben intenzionato è, o meno, un mero lubrificante verde dell'ingranaggio capitalista coloniale, gerarchico e centralizzato, un avallo delle sue politiche di sviluppo. Ebbene, il capitalismo non sa contenersi, poiché è nel suo essere non avere freno. Lo arresteranno le infaticabili dimostrazioni di moderazione civica e autolimitazione politica così tipiche del realismo ecologista e della semidissidenza scientifica?

Miquel Amorós

 

 

Conferenza nella Biblioteca sociale El Rebrot Bord de Albaida (Valencia), lotto gennaio 2023, e nel Centro socioculturale Roque Baños de Jumilla (Murcia), organizzata dall’Asociación Naturalista STIPA, l’undici gennaio 2023.

 Miquel Amorós

 

 

Conferenza nella Biblioteca sociale El Rebrot Bord de Albaida (Valencia), lotto gennaio 2023, e nel Centro socioculturale Roque Baños de Jumilla (Murcia), organizzata dall’Asociación Naturalista STIPA, l’undici gennaio 2023.

 


Crise agricole et dilemme énergétique

 

La pénétration du capitalisme dans les campagnes a transformé la propriété rurale en entreprise et la production de subsistance en production pour le marché. La croissance rapide de la population urbaine a parallèlement multiplié la demande alimentaire. La marchandisation a mis fin à la symbiose entre l'agriculture et l'élevage, obligeant les deux à agir pour son compte. En fait, elle a mis fin à la société paysanne traditionnelle. Tout a été réduit à sa valeur d'échange : toute forme de vie cohérente avec l'environnement a disparu, la socialité typique du monde rural a disparu et ainsi toute singularité a été supprimée, la beauté scénique a été dégradée et tout le patrimoine culturel a été ruiné ou muséifié. La recherche exclusive du profit économique impliquait une exploitation intensive, c'est-à-dire l'industrialisation de l'activité agricole. De même, les conditions industrielles nécessitaient une concentration de la propriété, un financement par des crédits et des subventions, et une quantité croissante d'intrants, principalement des machines, une énergie et une eau abondantes, des engrais chimiques, des herbicides et des pesticides. La mondialisation a indiciblement amplifié ces conditions (« Almería, potager de l'Europe ») en recourant aux variétés hybrides et transgéniques. De cette façon, la relation plus ou moins directe était interrompue, non seulement entre les producteurs et les consommateurs de nourriture, mais aussi entre les agriculteurs eux-mêmes et la campagne. L'agriculteur-entrepreneur s'est consacré définitivement à la gestion et à la surveillance des cultures tâches numérisées puisque les tâches spécifiquement agricoles (traitements phytosanitaires, récolte et conditionnement) étaient à la charge de salariés, presque toujours selon la saison et dans de très mauvaises conditions de travail. L'agriculture industrielle est une agriculture sans agriculteurs. On dirait la même chose de l'élevage intensif des macro-fermes. Les effets positifs de l'un et de l'autre se sont avérés être une augmentation sensible de la production et une baisse des prix qui ont conduit à une expansion démographique urbaine. Les aspects négatifs seraient pires : abandon des terres et émigration vers les villes, perte des savoirs et savoir-faire, disparition ou privatisation des variétés indigènes, déforestation et destruction de la faune, production de déchets non recyclables, plus grande résistance des parasites et émergence de nouvelles maladies des plantes, disparition de la couche fertile du sol, surexploitation des aquifères, contamination des sols et de l'eau et dégradation de la qualité des aliments. L'argument majeur en faveur de la monoculture industrielle et de l'élevage intensif a été l'éradication de la faim dans le monde, une promesse clairement non tenue.

Plusieurs facteurs ont influencé l’impossible survie de nombreuses exploitations mais le principal a été la stagnation de la production pétrolière depuis 2005, facteur déterminant dans la crise actuelle (chiffre corroboré par les compagnies pétrolières qui, lassées de perdre de l'argent, ont cessé d'investir en 2014). Depuis 2015, le dépassement du pic pétrolier a entraîné une baisse de la production de diesel, si indispensable pour le travail mécanique des terres, et en général, et a été généralement suivie du dépassement des pics d'autres ressources énergétiques et minérales. Les conséquences n'auraient pas pu être pires sur les prix des engrais, des pesticides et des plastiques dépendants de l'industrie pétrochimique. Le coût des transports a également augmenté, notamment le coût maritime (d’ailleurs 92% de l'énergie consommée par la circulation automobile provient du pétrole), ainsi que celui des céréales et par conséquent des denrées alimentaires. La demande croissante des économies émergentes (Chine, Inde, Brésil) n'a fait qu'aggraver la situation, anticipant la crise. Quant aux autres facteurs, nous soulignons la dette et la rareté de l'eau due à la sécheresse. Le foncier est donc devenu disponible pour d'autres activités éphémères comme les énergies renouvelables. Le modèle développeuriste classique de développement industriel a été retouché pour devenir beaucoup plus technique et non durable, reposant sur la fusion de la techno science, de la production à grande échelle, de la finance et de la logistique, mais sans efficacité à l’heure de contrecarrer la tendance à la baisse des rendements agricoles et la difficulté d'augmenter les surfaces cultivées, surtout lorsque les terres irriguées sont devenues une valeur refuge. L’arrivée récente dans la campagne des fonds d’investissement et des flux européens du programme Next Generation et du plan RePower, laisse penser que les méga-centrales du New Green Deal américain cherchent dans les énergies renouvelables un moyen de pallier les problèmes structurels de l’agrobusiness qui empêchent une croissance suffisante – problèmes attribués au changement climatique. La soi-disant transition énergétique promet d'être le grand remède. En effet, le réchauffement climatique déstabilise toute la production agro-industrielle déjà perturbée et l'on est amené à croire que les méga-centrales pour les énergies renouvelables contribuent à la solution en ne produisant que de l'électricité, qui ne représente que 20-24% de l'énergie consommée. En réalité, on tente de maintenir le système industriel actuel, avec des coûts de production bas et des niveaux de consommation élevés. Changer quelque chose pour que tout soit conservé.

Le sommet de Paris sur le climat (2015) a marqué un tournant dans la marche du capitalisme. En fixant la « dé carbonisation » de l'économie comme un objectif urgent et en lui accordant un soutien financier fort, le capitalisme vert a enfin pu se présenter comme une « transition énergétique ». Les problèmes d'approvisionnement dus à la pandémie et à la guerre en Ukraine n'ont fait qu'accélérer son décollage. En ce qui concerne le territoire espagnol, la prolifération désordonnée et incontrôlée des centrales industrielles d'énergies renouvelables a succédé à la précédente vague de développements résidentiels, de grands magasins et d'autoroutes. La production d'électricité remplace la brique comme moteur économique et principal facteur de dégradation des terres. Le processus de désintégration de l'espace rural s'achève grâce à ce nouvel extractivisme : nous entrons dans une sorte de phase ultime métastatique du cancer urbain-capitaliste qui corrodait inexorablement la campagne et la nature comme il l'avait déjà fait avec la ville elle-même. Malgré le fait que, imitant la politique, le langage entrepreneurial et financièrement correct a incorporé de nombreux mots à connotation écologique, il n'y a aucune prise de conscience des dirigeants mondiaux face à la crise climatique. Le vocabulaire vert utilisé par les dirigeants ne doit pas induire en erreur, car il ne s'agit que d'une convention ajoutée à une époque de catastrophes écologiques pour obscurcir la compréhension populaire de la catastrophe. Bref, il s’agit d’un greenwashing. Personne n'a l'intention de mettre fin à la dépendance aux combustibles fossiles, comme en témoignent, par exemple, l'engagement de construire de nouvelles infrastructures gazières ou la construction de nouvelles centrales au charbon et l'entretien des centrales nucléaires. En revanche, même en cas de stagnation de la consommation, le vide laissé par l'usage de l'essence, du kérosène ou du diesel est si profond qu'il serait impossible de le combler par d'autres ressources. Il n'y a pas vraiment de changement de paradigme énergétique, ni de tentative de remplacer les sources fossiles et nucléaires par d'autres possibilités. Même la réduction des émissions de gaz à effet de serre n'est pas sérieusement envisagée comme cela a été postulé depuis la rédaction des protocoles de Kyoto en 1997. Par contre, il est indéniable que le marché de l'électricité et les échanges d'émissions promettent des gains considérables. Le prix de l'électricité, du gaz et des droits d'émission de dioxyde de carbone (sur le marché depuis 2005), en partie à cause de la reprise économique post-pandémique, a atteint des sommets historiques en mars dernier. En juin, c'était le tour du diesel et de l'essence. Si l'on tient également compte de la baisse progressive de l'extraction pétrolière et d'une importante disponibilité de fonds, on aura toutes les conditions qui réorientent les finances mondiales vers les énergies désormais dites « renouvelables ». La « transition énergétique » convenue à Paris, les plans nationaux d'urgence climatique, les projets d'atténuation et de résilience et, plus récemment, la volonté européenne de réduire la consommation de gaz d'un prosaïque 15%, disposent déjà de multiples outils financiers sur lesquels s'appuyer. On comprend donc qu'un large secteur du capitalisme composé d'oligopoles électriques, de transnationales gazières, de compagnies pétrolières, de grandes entreprises de construction, de grandes banques et de fonds d'investissement, reconnaissent hypocritement l'urgence de lutter contre le réchauffement climatique. Le résultat d'une telle belligérance soudaine est un barrage de dérivés « climatiques » et de centrales électriques qui ne reflètent pas exactement une préoccupation des entreprises pour l'environnement, la biodiversité et le développement local : la seule chose qu'elle poursuit est le profit privé. Il n'y a pas de transition d'une société basée sur un modèle énergétique centralisé, industriel et extractiviste vers un monde décentralisé, autosuffisant, désurbanisé et respectueux de la terre et de la nature. La société capitaliste d'avant la transition se veut la même que la suivante, structurée de la même manière mais avec un discours écologique. Le capital n'a pas d'idéologie fixe, pas de langage particulier ; la seule préoccupation des dirigeants soudain enclins à l’écologie ce sont les affaires, qui tournent désormais autour du vert.

Une chose est l'électricité et une autre est l'énergie primaire, c'est-à-dire toute l'énergie naturelle disponible non encore modifiée pour son utilisation. Elle provient pour 86% de sources fossiles (données 2019 de l'état espagnol) et pour la plupart elle n'est pas électrifiable. Pour le modèle 100% renouvelable de la transition dans ce domaine, nous n'avons que la voiture électrique et l'hydrogène vert, mais les deux sont trop chers et leur utilisation massive pose de sérieux problèmes techniques encore non résolus. En vérité, les hautes autorités veulent que les énergies dites renouvelables agissent comme un mécanisme pour contenir la demande de carburant, de charbon et surtout de gaz destiné à la production d'électricité, c'est-à-dire pour réduire l'activité des centrales thermiques sans les remplacer, car elles sont nécessaires lorsqu'il n'y a ni soleil ni vent (en 2022, elle ne pourvoyaient qu’à 30,8% des besoins en électricité de l'Espagne). Cette association obligatoire interroge le caractère renouvelable de l'énergie produite dans les « parcs », les « jardins » et autres « fermes », d’autant plus que, ne l'oublions pas, les matériaux industriels utilisés dans leur construction grèvent le bilan carbone des usines : béton armé et acier pour les fondations, aluminium et cuivre pour l'évacuation dans les lignes à haute tension, plastique renforcé de fibre de verre ou de carbone pour les « lames » ou pales, terres rares pour les aimants permanents des rotors (terres dont l'extraction et la purification sont des processus très polluants), wafers de poly silicium et films de métaux semi-conducteurs à faible abondance pour les panneaux solaires (dont certains sont toxiques comme l'arsenic et le cadmium), matériau pour les supports et onduleurs de courant, lithium et cobalt pour les batteries, etc. Si l'on ajoute à cela les terrassements, excavations et autres travaux d'installation et d'entretien, qui se répètent au moment du démantèlement, c'est-à-dire après vingt ou trente ans, plus le recyclage problématique de la ferraille, on aura le tableau complet de la possibilité réelle de renouvellement d'un type d'énergie qu'il serait plus juste d'appeler « énergie alternative dérivée des énergies fossiles ». Ne parlons pas du caractère « propre » des autres énergies considérées comme renouvelables comme celles issues de la combustion de la biomasse ou des biocarburants, et de l'énergie hydroélectrique elle-même. Bref, les énergies renouvelables ne sont qu'un mirage. Elles ne résolvent en rien la crise. Elles ont un impact environnemental important et peu d'impact économique local, ne créent pas d'emplois, menacent les forêts et les cultures, causent des dommages au paysage et à la faune et contribuent à l'assèchement des campagnes espagnoles autant que l'agro-industrie. Elles ne profitent qu'aux oligopoles énergétiques et aux groupes financiers, introduisent des dépendances technologiques inutiles, et qui plus est, elles ne sont même pas renouvelables.

De toutes les énergies renouvelables supposées, le solaire photovoltaïque a pris le plus d'ampleur, suivi de près par l'éolien offshore et l'hydrogène. Ses promoteurs parlent de « révolution solaire » en raison des intentions affichées dans les plans nationaux énergie-climat de quadrupler la puissance installée d'ici huit ans. Il vaudrait mieux dire « bulle solaire » à en juger par ses caractéristiques spéculatives. La vérité est que depuis 2018, les États européens ont favorisé une croissance rapide du marché photovoltaïque, commençant à concevoir des centrales de plus de 100 MW (plus l'installation est grande, plus elle est durable). Le photovoltaïque était devenu moins cher en raison de la baisse des prix du silicium cristallin et donc des panneaux. Les progrès technologiques ont marqué une amélioration substantielle de l'efficacité. Les centrales solaires étaient moins chères à entretenir que les parcs éoliens; bref, malgré la récente augmentation du coût des matières premières et de la logistique, leur coût d'installation a diminué de 82% et leur cout de production de 90%. Bien que le taux de retour énergétique (TRE) ait été trop faible (trois parts d'énergie obtenues pour une investie), le photovoltaïque est devenu l'énergie la moins chère presque du jour au lendemain et, compte tenu du fait que depuis novembre 2020 les prix du gaz et de l'électricité sont très volatils, l'option solaire a commencé à être non seulement présente dans les bureaux des multinationales comme l'affaire du siècle, mais aussi dans les ministères comme une question déclarée d'« intérêt public ». Pour une raison ou une autre, la filière photovoltaïque promet d'atteindre rapidement une taille comparable à celle de l'industrie automobile. Grâce à la fin du moratoire sur les énergies renouvelables, à la suppression de l’« impôt solaire » et à l’abolition du rapport d'impact environnemental sur les installations de plus de cinquante hectares, le marché solaire espagnol est devenu l'un des plus importants et se développe à toute vitesse dans le feu des enchères du ministère de la Transition écologique, de la faible rentabilité des exploitations agricoles, des expropriations forcées, des permis express et des injections de capitaux étrangers. Le plus grand « macro-parc » européen a été construit il y a trois ans à Mula (Murcie) avec une capacité de 495 MW et occupe un millier d'hectares et un autre parc de 500MW a été récemment construit à Usagre (Badajoz). Trois ou quatre de même ampleur et des milliers d'autres moins étendus sont en cours, dans des campagnes et des steppes, sur des cultures, des zones humides, des sites protégés et des pistes à bétail, parfois à proximité de zones peuplées. L'installation de panneaux sur les toits, les parkings et les bassins, subventionnée par le Programme Solaire 2022, a également donné naissance à de nombreuses entreprises, attirées par la perspective de profits en autoconsommation commerciale. Nous sommes face à une capacité installée de 180 GW (et en augmentation) dont nous n'avons pas besoin, étant donné que la consommation moyenne de l'Etat n'atteint pas 32 GW. Pendant ce temps, le paysage ibérique est transforme à marches forcées et, alors que l'urbanisation a atteint son apogée, l'espace dévolu au solaire devient, à toutes fins utiles, l'élément déterminant d'un aménagement « vert » du territoire qui obéit essentiellement à des intérêts entrepreneuriaux et financiers momentanés.

Le nombre élevé d'usines et la menace imminente de conséquences sociales, environnementales et paysagères néfastes génèrent des conflits territoriaux et, en même temps, génèrent une réflexion critique décidemment orientée contre le modèle capitaliste de gestion de l'énergie en relation avec la critique du domaine agroindustriel. Les points de départ de cette critique sont la considération de l'énergie comme un bien commun et la souveraineté alimentaire – le droit des peuples à se nourrir selon leur coutume –, des postulats qui invalident l'exploitation industrielle des sources renouvelables et de l'agriculture, remettant en cause l'aménagement du territoire. Ce qui compte, ce sont les besoins sociaux et les droits fonciers, pas les intérêts des grandes consortiums. Par conséquent, la crise énergétique et agraire doit être considérée comme une crise du système capitaliste et de l'État qui le sert, crise que ce dernier prétend surmonter depuis les hautes sphères à coups de plafonds imposés de primes, de directives internationales et de fuites technologiques en avant. L'ampleur du désastre contraste avec l'incohérence des remèdes. Les propositions écologiques tournent autour de l'autoconsommation, des économies d'énergie, des systèmes partagés, des projets solidaires, du recyclage, de la petite production, des associations de consommateurs, des contraintes de dépenses et de mobilité, etc., des initiatives parfaitement valables mais difficilement réalisables dans une société de gaspillage, avec la population extrêmement consumériste entassée dans des agglomérations suburbaines. Sans une dépense incroyable de ressources, la société de la consommation irresponsable entrerait dans un net déclin, auquel on résisterait en recourant éventuellement aux armes, car il est vain de s'efforcer de trouver une solution pacifique à la crise par une « décroissance économique planifiée démocratiquement » – par qui ? – comme si l'économie mondiale et les agglomérations urbaines acceptaient une extinction de bon gré. La production d'énergie et de nourriture ne peut être considérée comme un phénomène sans rapport avec le marché, le système financier et le fait métropolitain.

Il est encore plus illusoire de prétendre croire que la transition énergétique promue par les dirigeants mondiaux est celle qui correspond au modèle de proximité précité « mis en œuvre avec la participation des citoyens » dans les parlements et les conseils municipaux. La plus grande erreur de l'approche écologique majoritaire et de la critique scientifique honnête est de considérer l'espace institutionnel comme une zone neutre où il serait possible de mettre en œuvre la défense « démocratique » des intérêts populaires contre la prédation du capital, une défense qui poursuivrait un « pacte d'État » solennel avec ses propres représentants. La question énergétique, tout comme la question écologique, est indissociable de la lutte sociale et politique contre les oligopoles, les fonds et les institutions crées sur mesure, régionaux, nationaux ou internationaux, car sa mise en œuvre nécessite une réorganisation radicale de la société qui dépasse le cadre de la législation la plus audacieuse réalisable avec les mouvements politico-juridiques de citoyenneté. Tant que le tissu social ne se recomposera pas en dehors des institutions et contre elles, la défense du territoire sera faible et cherchera des compromis avec le développementalisme sur la base d'accusations qui ne demandent qu'un moratoire temporaire ou une réduction de la taille des projets. La confusion tactique dominera dans la confrontation avec l'intérêt privé et la complicité institutionnelle, car la perspective anticapitaliste sera délibérément occultée des deux parties. Ce n'est qu'à un stade plus avancé de la lutte, lorsque l’humanité sera plongée dans un réchauffement climatique plus violent et dans une crise plus profonde, lorsque les masses appauvries cesseront d'être ornementales et, poussées par les désirs, les passions, les utopies et les catastrophes, décideront de prendre en main leur destinée, que le débat stratégique va émerger, que les cartes seront forcément mises sur la table. On verra alors si l'écologisme bien intentionné est ou non un simple lubrifiant vert de la machinerie capitaliste coloniale, hiérarchique et centralisée, un aval de ses politiques de développement. En fait, le capitalisme ne sait pas se limiter, puisqu'il est dans sa nature d’être sans freins. Les inlassables démonstrations de retenue civique et de modération politique si typiques du réalisme écologique et de la semi-dissidence scientifique l'arrêteront-elles ?

Miquel Amorós

Conférence à la bibliothèque sociale El Rebrot Bord de Albaida (Valence), le 8 janvier 2023, et au centre socioculturel Roque Baños de Jumilla (Murcie), organisée par l'Asociación Naturalista STIPA, le 11 janvier 2023.


Crisis agraria y dilema energético

 

     La penetración del capitalismo en el campo transformó la propiedad rural en empresa y la producción de subsistencia, en producción para el mercado. El rápido crecimiento de la población urbana multiplicaba paralelamente la demanda de alimentos. La mercantilización puso fin a la simbiosis entre la agricultura, la ganadería y la silvicultura, forzando a ir cada una por su lado. De hecho, puso fin a la sociedad campesina tradicional. Todo quedó reducido a su valor de cambio: cualquier forma de vida coherente con el medio desapareció, se esfumó la sociabilidad típica del mundo rural y así, cualquier singularidad quedó suprimida, la belleza paisajística se envileció y todo el patrimonio cultural se arruinó o museificó. La búsqueda exclusiva del beneficio económico implicaba la explotación intensiva, o sea, la industrialización de la actividad agraria. Asimismo, las condiciones industriales exigían la concentración de la propiedad, la financiación a través de créditos y subvenciones, y una cantidad creciente de insumos, principalmente maquinaria, energía y agua en abundancia, abonos químicos, herbicidas y plaguicidas. La globalización amplificó lo indecible dichas condiciones (“Almería, huerta de Europa”) recurriendo a variedades híbridas y transgénicas. De esta forma se rompió la relación más o menos directa no solo entre los productores y consumidores de alimentos, sino entre los propios campesinos y el campo. El agricultor-empresario se consagraba definitivamente a la gestión y supervisión de los cultivos -tareas digitalizadas- ya que las tareas propiamente agrícolas (los tratamientos fitosanitarios, la recolección y el embalaje) eran responsabilidad de los trabajadores contratados, casi siempre por temporada y en condiciones laborales pésimas. La agricultura industrial es una agricultura sin agricultores. Lo mismo diríamos de la ganadería intensiva de las macrogranjas. Los efectos positivos de ambas se hicieron notar en un estimable aumento de la producción y una rebaja de precios, que redundó en una expansión demográfica urbana. Peores serían los negativos: abandono de tierras y emigración a las ciudades, pérdida de conocimientos y saberes, desaparición de variedades autóctonas, deforestación y destrucción de la vida silvestre, generación de residuos irreciclables, mayor resistencia de las plagas y aparición de nuevas enfermedades de las plantas, desaparición de la capa fértil del suelo, sobreexplotación de los acuíferos, contaminación de suelos y aguas, y degradación de la calidad de los alimentos. El mayor argumento en pro del monocultivo industrial y la ganadería intensiva había sido la erradicación del hambre en el mundo, promesa a todas luces incumplida.

 

     Varios factores han influido en la inviabilidad de muchas empresas agrarias, siendo el principal el estancamiento de la producción petrolífera desde 2005, el auténtico determinante de la crisis actual (dato corroborado por las compañías petroleras que, hartas de perder dinero, dejaron de invertir en 2014). La superación del pico del petróleo condujo en 2015 al descenso de la producción de diesel, tan imprescindible para el laboreo mecánico, y en general, fue seguida por los picos de otros recursos energéticos y minerales. Las consecuencias no han podido ser peores en los precios de los fertilizantes, pesticidas y plásticos, dependientes de la industria petroquímica. Igualmente, el transporte se ha encarecido, incluido el marítimo (el 92% de la energía consumida por la circulación motora proviene del petróleo), igual que los cereales y, de rebote, la alimentación. La demanda creciente de las economías emergentes (China, India, Brasil) agrava la situación adelantando la crisis. En cuanto a los demás factores, destaquemos el endeudamiento y la escasez de agua a causa de las sequía. Las tierras quedan entonces a disposición de otros negocios pasajeros como el de la energía renovable. El modelo desarrollista clásico ha sido retocado hasta volverse mucho más tecnificado e insostenible, apoyándose en la fusión de la tecnociencia, la producción a gran escala, las finanzas y la logística, pero sin llegar a contrarrestar el bajo rendimiento tendencial de las cosechas y la dificultad de aumentar la superficie cultivada, máxime cuando los terrenos de regadío se han convertido en un valor refugio. El desembarco reciente en el campo de los fondos de inversión y de los caudales europeos del programa Next Generation y del plan RePower da a entender que las megainstalaciones renovables son parte de la solución, pero estas solo producen electricidad, que es más que el 20-24 % de la energía consumida. En realidad se busca mantener el sistema industrial vigente, con los costes de producción bajos y los niveles de consumo altos. Cambiar algo para que todo se conserve. 

 

     La Cumbre Climática de París (2015) significó un punto de inflexión en la marcha del capitalismo. Al fijar como objetivo urgente la “descarbonización” de la economía y acordar un fuerte apoyo financiero, el capitalismo verde pudo por fin desplegarse en tanto que “transición energética”. Los problemas de abastecimiento debidos a la pandemia y a la guerra de Ucrania no han hecho más que acelerar el despegue. En lo relativo al territorio español, la proliferación desordenada y descontrolada de centrales renovables industriales ha sucedido a la oleada anterior de urbanizaciones residenciales, grandes superficies y autopistas. La producción de electricidad toma el relevo del ladrillo como motor económico y primer factor de degradación del territorio. La destrucción del espacio rural se completa gracias a este nuevo extractivismo: entramos en una especie de fase metástasica final del cáncer urbano-capitalista que venía corroyendo implacablemente el campo y la naturaleza como ya lo hacía con la misma ciudad. A pesar de que, imitando a la política, el lenguaje emprendedor y financieramente correcto haya incorporado muchos vocablos de raígambre ecologista, no se trata de una toma de conciencia de los dirigentes mundiales ante la crisis climática. El vocabulario ambientalista empleado por los ejecutivos no debe inducir a engaño, pues no es más que una convención añadida en una época de catástrofes ecológicas con el fin de oscurecer la comprensión popular del desastre. Nadie se propone acabar con la dependencia de los combustibles fósiles, tal como demuestra por ejemplo el afán por construir nuevas infraestructuras gasísticas o la construcción de nuevas térmicas de carbón y el mantenimiento de las nucleares. Por otro lado, aun en el caso de un estancamiento del consumo, el hueco que deja el uso de la gasolina, el queroseno o el gasoil es tan profundo que resulta imposible de llenar con otros recursos. No hay en realidad un cambio de paradigma energético: no se pretende una sustitución de las fuentes fósiles y nucleares por otras alternativas. Ni siquiera se contempla con seriedad la disminución de las emisiones de gases de efecto invernadero, algo que se viene postulando desde la plasmación de los Protocolos de Kyoto en 1997. Es algo mucho más evidente: El mercado de la electricidad y el comercio de emisiones prometen ganancias considerables. Los precios de la luz, del gas y de los derechos de emisión de dióxido de carbono (en el mercado desde 2005), en parte debido a la recuperación económica posterior a la pandemia, alcanzaron el pasado marzo máximos históricos. En junio fue el turno del diesel y la gasolina. Si además tenemos en cuenta el progresivo descenso extractivo del petróleo y una disponibilidad sustanciosa de fondos, tendremos todos los condicionantes que están reorientando las finanzas mundiales hacia las energías que ahora llaman “renovables”. La “transición energética acordada en París, los planes nacionales de emergencia climática, los proyectos de mitigación y resiliencia, y, más recientemente, la voluntad europea de recortar un prosaico 15% el consumo de gas, ya tienen múltibles herramientas financieras donde apoyarse. Así pues, es comprensible que un amplio sector del capitalismo compuesto por los oligopolios eléctricos, las transnacionales gasísticas, las petroleras, las grandes constructoras, los grandes bancos y los fondos de inversión, reconozca hipócritamente la urgencia de luchar contra el calentamiento global. El resultado de tal repentino ánimo belicista es una aluvión de derivados “climáticos” y plantas energéticas que no traduce precisamente una preocupación corporativa por el medio ambiente, la biodiversidad o el desarrollo local: lo único que persigue es el beneficio privado. No hay transición desde una sociedad basada en un modelo energético centralizado, industrial y extractivista, a un mundo descentralizado, autosuficiente, desurbanizado y respetuoso con la tierra y la naturaleza. La sociedad capitalista de antes de la transición pretende ser la misma que la de después, estructurada de la misma manera aunque hable en ecologista. El capital no tiene ideología fija, ni idioma particular; la preocupación exclusiva de la repentina inclinación dirigente por la ecología es el negocio, que ahora gira en torno a lo verde.

 

     Una cosa es la electricidad y otra la energía primaria, es decir, toda la energía natural disponible todavía sin modificar para su uso. Esa proviene de fuentes fósiles en un 86% (dato de 2019 para el estado español) y en su mayoría no es electrificable. Para el modelo 100% renovable de la transición en ese terreno no contamos más que con el coche eléctrico y el hidrógeno verde, pero ambos son demasiado onerosos y su uso masivo presenta graves problemas técnicos aún sin resolver. En verdad, las altas instancias dirigentes quieren que las energías denominadas renovables actúen de mecanismo de contención de la demanda de fuel, carbón y sobre todo gas destinada a producir electricidad, es decir, disminuyan la actividad de las centrales térmicas sin sustituirlas, porque son necesarias cuando no se dispone de sol o de viento (en 2022 han cubierto en España solamente un 30'8% de la demanda eléctrica). Esa asociación obligatoria cuestiona el carácter renovable de la energía producida en los “parques”, “huertos” y demás “granjas”, aunque no olvidemos también que los materiales industriales utilizados en su construcción reflejan una importante huella carbónica de fábrica: hormigón armado y acero para los fundamentos, aluminio y cobre para la evacuación en tendidos de Alta tensión, fibra de vidrio o de carbono reforzada con plástico para los “álabes” o palas, tierras raras para los imanes permanentes de los rotores (cuya extracción y purificación es un proceso altamente contaminante), obleas de polisilicio y películas de metales semiconductores poco abundantes para los paneles solares (algunos tóxicos como el arsénico o el cadmio), material para los soportes y los inversores de corriente, litio y cobalto para las baterías, etc. Si a ello añadimos los movimientos de tierras, excavaciones y demás trabajos de instalación y mantenimiento, que se repiten a la hora de desmantelar, o sea, al cabo de veinte o treinta años, más el problemático reciclaje de la chatarra, tendremos el cuadro completo de la verdadera renovabilidad de un tipo de energía que convendría llamar con más propiedad “energía alternativa derivada de combustibles fósiles”. No hablemos ya de la naturaleza “limpia” de otras energías consideradas renovables como las que provienen de la combustión de biomasa o de biocarburantes, y la misma energía hidroeléctrica. En fin, las renovables no son más que un espejismo. No resuelven en absoluto la crisis. Tienen gran impacto ambiental y escasa repercusión económica local, no crean empleos, amenazan bosques y cultivos, causan daños al paisaje y a la fauna, y contribuyen al vaciado del campo español tanto como el agronegocio. Solamente benefician a los oligopolios energéticos y grupos financieros, introducen dependencias tecnológicas innecesarias y, encima, ni siquiera son renovables.

 

     De todas las presuntas renovables, la solar fotovoltaica es la que ha cobrado mayor impulso, seguida muy de lejos por la eólica marina y el hidrógeno. Sus promotores hablan de “revolución solar” debido a las intenciones afirmadas en los planes nacionales de energía y clima de cuadruplicar la potencia instalada en los próximos ocho años. Mejor sería decir “burbuja solar” a juzgar por sus características especulativas. Lo cierto es que a partir de 2018 los estados europeos propiciaron un rápido crecimiento del mercado fotovoltaico, empezando a proyectarse plantas de más de 100 Mw (cuanto mayor es la instalación, más duradera). La fotovoltaica se había abaratado por la caída de precios del silicio cristalino y, por lo tanto, de los paneles. Los avances tecnológicos apuntaban a una mejora sustancial de la eficiencia. El mantenimiento de las centrales solares resultaba menos costoso que el de las eólicas; en fin, a pesar del reciente encarecimiento de las materias primas y la logística, su coste de instalación había bajado un 82% y el de generación, un 90%. No obstante ser el rendimiento energético (TRE) demasiado bajo (tres partes de energía obtenidas por una invertida), la fotovoltaica se convirtió casi de la noche a la mañana en la energía menos cara, y, teniendo en cuenta que desde noviembre de 2020 los precios del gas y de la electricidad se mostraban muy volátiles, la opción solar ya no solo pasó a estar presente en los despachos de las multinacionales como el negocio del siglo, sino en los ministerios como tema declarado “de interés público”. Por unas cosas u otras, el sector fotovoltaico promete alcanzar en poco tiempo dimensiones comparables a las de la industria automovilística. Gracias a finalizar la moratoria de las renovables, a suprimirse el “impuesto al sol” y a prescindirse del informe de impacto ambiental en las instalaciones de más de 50 Ha, el mercado solar español se ha vuelto uno de los mayores y crece a toda velocidad al calor de las subastas del Ministerio de la Transición Ecológica, la baja rentabilidad de las explotaciones agrarias, las expropiaciones forzosas, las licencias express y las inyecciones de capital foráneo. El mayor 'macroparque' europeo se construyó hace tres años en Mula (Murcia) con una capacidad de 495 Mw y ocupa mil hectáreas, y recientemente se ha levantado otro de 500 en Usagre (Badajoz). Tres o cuatro de similar magnitud y otros miles menos extensos están en camino, en suelo rústico y estepas, sobre sembrados, humedales, parajes protegidos y vías pecuarias, a veces cerca de zonas pobladas. Incluso las instalaciones de placas en los tejados, aparcamientos y estanques, subvencionadas por el Programa Solar 2022, han dado pie a numerosas empresas, atraídas por la perspectiva de ganancias en el autoconsumo comercial. Nos encontramos ante una potencia instalada de 180 GW (y en aumento) que no necesitamos, pues el consumo medio estatal no llega a los 32 GW. Entretanto, el paisaje ibérico se está transformando a marchas forzadas, y el espacio solar, cuando la urbanización ha tocado techo, deviene a todos los efectos el elemento básico de una ordenación territorial “verde” que en lo esencial obedece a momentáneos intereses empresariales y financieros.

 

     El gran número de plantas y la amenaza en ciernes de malas secuelas sociales, ambientales y paisajísticas está dando lugar a conflictos territoriales, y a la vez, generando una reflexión crítica bien encaminada del modelo capitalista de gestión energética que enlaza con la crítica a la agroindustria. Los puntos de partida son la consideración de la energía como bien común y la soberanía alimentaria -el derecho de los pueblos a procurarse los alimentos según la costumbre- postulados que invalidan la explotación industrial de las fuentes renovables y de la agricultura, al tiempo que cuestionan la planificación nacional. Las necesidades sociales y los derechos de la tierra son lo que cuenta, no el interés de los grandes consorcios. En consecuencia, se debería contemplar la crisis energética y agraria como crisis del sistema capitalista y del Estado que lo sirve, a la que se trata de superar desde las altas esferas con topes, bonificaciones, directrices y huidas tecnológicas hacia adelante. Contrasta la magnitud del desastre con la blandenguería de los remedios contestatarios. Las propuestas ecologistas giran en torno al autoconsumo, al ahorro energético, a las instalaciones compartidas, a los proyectos comunitarios, al reciclaje, a la producción a pequeña escala, a los grupos de consumo, a la restricción del gasto y la movilidad, etc., algo perfectamente válido, pero difícil de llevar a cabo en una sociedad despilfarradora, con la población tremendamente consumista apelotonada en conurbaciones. Sin un derroche formidable de recursos, la sociedad del consumo irresponsable entraría en franco declive, al que se resistiría recurriendo a las armas si fuera preciso, visto lo cual es inútil esforzarse en buscar una salida pacífica a la crisis mediante un “decrecimiento económico planificado democráticamente” -¿por quién?- como si la economía global y las aglomeraciones urbanas aceptaran extinguirse por las buenas. La producción de energía y alimentos no puede considerarse un fenómeno deconectado del mercado, del sistema financiero y del hecho metropolitano.

 

     Más ilusorio resulta aparentar creer que la transición energética promovida por los dirigentes mundiales es la que corresponde al susodicho modelo de proximidad “implementado con la participación ciudadana” en los parlamentos y consistorios. Ese es el mayor error del planteamiento ecologista mayoritario y de la crítica científica honesta, considerar el espacio institucional como una zona neutra donde es factible la defensa “democrática” de los intereses populares frente a la depredación del capital, defensa que persigue un solemne “pacto de Estado” con sus mismísimos representantes. La cuestión energética, tanto como la ecológica, es inseparable de la lucha social y política contra los oligopolios, los fondos y las instituciones hechas a su medida, autonómicas, nacionales o internacionales, pues su implementación exige una reorganización radical de la sociedad que sobrepasa el alcance de la legislación más osada que se pueda conseguir con las movidas político-jurídicas ciudadanistas. Mientras el tejido social no se reconstruya al margen de las instituciones y en oposición a ellas, la defensa del territorio será débil, y buscará componendas con el desarrollismo a base de alegaciones que únicamente exijan una moratoria temporal o a una reducción del tamaño de los proyectos. La confusión táctica dominará en la confrontación con el interés privado y la complicidad institucional, puesto que la perspectiva anticapitalista quedará deliberadamente oculta por ambos bandos. Solamente en una fase más avanzada de la lucha, inmersos en un calentamiento global más violento y una crisis más profunda, cuando las masas empobrecidas dejen de ser ornamentales y, motivadas por deseos, pasiones, utopías y desastres, decidan tomar el propio destino en sus manos, entonces se planteará en su seno el debate estratégico y las cartas se pondrán necesariamente sobre la mesa. Ahí se verá si el ecologismo bienintencionado es o no es un mero lubricante verde del engranaje colonial, jerárquico y centralizado capitalista, un aval de sus políticas desarrollistas. Pues el capitalismo no se sabe contener, ya que está en su ser el no tener freno. ¿Lo detendrán las incansables muestras de moderación cívica y autolimitación política tan típicas del realismo ecologista y de la semidisidencia científica?

 

Miquel Amorós

Charlas en la Bibioteca social El Rebrot Bord de Albaida (Valencia), el 8 de enero de 2023, y en el Centro sociocultural Roque Baños de Jumilla (Murcia), organizada por la Asociación Naturalista STIPA, el 11 de enero.