La
Décroissance: Secondo
Lei “l’aspetto positivo di questa crisi
che non fa che cominciare è la diffidenza generale di fronte alle menzogne
incredibili del governo e alla sua incompetenza criminale, la costatazione
dell’impotenza dello Stato in situazione d’urgenza e l’evidenza che la
reattività, l’iniziativa, il buon senso, la solidarietà sono venuti dalla
società a dispetto di tutte le ostruzioni amministrative delle burocrazie
statali[2]”.
Non è piuttosto il fatto che siamo stati trasformati in “pecore paranoiche
infantilizzate” come anche Lei scrive?
Jacques Philipponneau:
I diversi detournement delle
assurdità governative durante il primo confinamento ricordano la notevole
creatività dell’humour sovietico quando la libertà d’espressione si esercitava
nelle cucine di casa. Per una parte della nostra vita recente la nostra
situazione era la stessa e, parafrasando Freud, si trattava di una sorta di
vittoria paradossale della coscienza in condizioni disperanti.
Dare credito ai fantasmi
di dominio totale (assolutamente reali, come
sogni, come molti altri progetti della stessa natura da quando esiste una
società divisa in classi) è l’altro versante, disfattista, di una compensazione
psicologica della coscienza isolata e impotente di cui l’humour nero
rappresenta il lato esultante della vita nonostante
tutto.
LD:
Questo progetto di dominio totale è ben reale...
JP: Non si tratta di
negare l’esistenza di questo progetto nelle antiche democrazie rappresentative
poiché esse guardano apertamente con gelosia la supposta efficacia di un
totalitarismo asiatico diventato reale. Già i gesuiti invidiavano la meccanica
totalitaria dell’impero cinese che pensavano di poter mettere al loro servizio;
ma, come si sa, c’è distanza tra il sogno e la realtà e la fine della storia
resta il sogno inaccessibile di tutte le dominazioni.
È
evidente che esiste una congiunzione obiettiva tra i tre soggetti automatici
che producono questa rapida evoluzione: degli Stati in cerca di controllo
sociale compiuto, il capitalismo dei nuovi mercati della digitalizzazione
completa dell’esistenza e la tecno scienza al servizio di entrambi perseguono il
loro ideale di riduzione della vita a un puro funzionalismo biologico.
Tuttavia,
concepire una società digitale totalitaria realmente capace di escludere ogni
capacità di rovesciamento, vuol dire concedere loro una coscienza sovra storica unificata di cui sono
assolutamente incapaci. Non c’è evidentemente alcun complotto di fronte a
programmi così anticamente pubblici, così costantemente reiterati, così
compiacentemente promossi dai media e così facilmente accettati da una
maggioranza.
Il
“Great Reset” di cui vi fate l’eco realizza il crollo effettivo di tutte le
stabilità che hanno permesso il mantenimento e la trasformazione conflittuale
della società industriale da due secoli.
Il
dominio è diventato apertamente catastrofista per forza di cose e deve integrare
il riformismo ecologico in quella sovra burocratizzazione del mondo che sola è
capace di gestire, in questa società,
le catastrofi che essa produce.
Questo
ecologismo da caserma, normativo e colpevolizzante, ultimo avatar del peccato
cristiano (le indulgenze pontificali dell’impronta ecologica, il
flygskam – la
vergogna di prendere l’aereo del luteranesimo nordico –, la stupidità antispecistica anglosassone) che non attacca mai
frontalmente lo Stato né il capitalismo, ma soltanto le loro “deviazioni” o i
loro “eccessi”, rimpiazza la vecchia socialdemocrazia morta sul lavoro nella
sua funzione integrativa della società così
com’è.
La crisi sanitaria attuale
(qualunque sia l’origine e la gravità che le si accorda) ha costretto il
dominio a rendere pubblico il suo programma. La sua concezione della vita.
Essa si riassume in questo: il modo
di vita industriale non è negoziabile e le rappresentazioni catastrofiste,
diffuse con tanta compiacenza da una decina d’anni, non sono concepite per
rinunciarvi ma per fare accettare le restrizioni e gli aggiustamenti che
permetteranno di perpetuarlo. All’ingrosso fare regredire la libertà umana alla
sua sola funzione animale di “conservare la specie”, la “vita nuda” ridotta
alla sua sola realtà biologica: l’esempio più trivialmente attuale è il
sollievo vigliacco di fronte a una vaccinazione – di fatto obbligatoria – che
permetta di ritrovare la vita “normale”.
LD: Lei pensa che un tale progetto
non si realizzerà?
JP: Un tal progetto
non va da sé perché, per essere efficace supporrebbe una specie di governo
mondiale di cui non si vede oggi l’ombra di un inizio. Beninteso, però, il più
grande ostacolo a questo “reset” risiede nell’accettazione perenne da parte
delle popolazioni di un tale programma. Cambiare tutto perché non cambi niente,
agire cioè radicalmente per la perpetuazione di una società gerarchizzata, non
è mai scevro di pericoli.
Il
turbamento della primavera scorsa di fronte alla saturazione degli ospedali e
alle previsioni apocalittiche (500000 morti pronosticati in Gran Bretagna e in
Francia dall’Imperial College) ha trasformato in un primo tempo l’immensa
maggioranza della popolazione in un gregge impaurito. Con il passare del tempo,
però, di fronte a una propaganda mondiale inedita e a un ministero della verità
che elimina ogni opinione critica (assimilata a un complottismo delirante),
numerosi refrattari alla tirannia sanitaria o eretici del non pensiero medico
ufficiale si sono nonostante tutto manifestati in modi molto diversi.
Non
c’è finora un punto di vista unificato – e tanto meglio – di un’altra
concezione della vita di fronte all’abiezione che ci è proposta, ma un rifiuto
minoritario più o meno cosciente, più o meno globale di una totalità mortifera
dove la rinuncia alla libertà non garantisce affatto una qualunque sicurezza.
Questa
libertà che se ne va e questa sicurezza che scompare riuniranno certamente il
partito della paura attorno a soluzioni autoritarie, ma moltiplicheranno anche
i disertori pratici (quando è possibile) e i dissidenti del pensiero (è sempre
possibile) in un partito della resistenza attiva. In questo la nostra epoca è
profondamente storica pur se, beninteso, non esiste alcuna certezza concernente
l’evoluzione di questo conflitto.
LD: Lei scrive che “se tutte le rivolte
viste nel mondo da due anni, [...] hanno tutte fallito è perché la questione
fondamentale di ogni insurrezione – quale società noi vogliamo – è rimasta e
rimane ancora dovunque senza risposta positiva nell’immensità e nella
complessità di una tale incombenza”. Per Lei la sola via emancipatrice sta
“nella distruzione razionale della società industriale”. Che cosa intende con
questo e come cominciare a farlo?
JP: Non c’è né
programma né ricetta per uscire dalla società industriale se non alcuni grandi
orientamenti di massima (noti a tutti) impossibili da mettere in atto (se non
marginalmente e parzialmente) con la celerità e l’energia che l’urgenza
implica, senza una trasformazione rivoluzionaria della società.
Pensare
di combattere la società industriale senza abolire il capitalismo o volerlo
abolire senza disfarlo, riconquistare la libertà individuale e collettiva che
permetta la padronanza del destino dell’umanità senza sopprimere lo Stato,
sostenere la democrazia diretta o l’autogestione generalizzata senza uscire
dall’economia e senza abolire il denaro, ecco l’essenziale delle impossibilità
pratiche che le alternative emancipatrici dovranno assumere sperimentalmente
nel crollo in corso.
[1] Membro della scomparsa
Enciclopedia delle nocività.
[2] “Lettera a Piero... di qui e di altrove” del 22 gennaio 2021,
disponibile su Barravento pensiero.
Réponses
de Jacques Philipponneau[1]
au questionnaire de La Décroissance envoyées le 12 février 2021 et refusées par
son comité de rédaction.
La
Décroissance: Selon vous «l'aspect positif de cette crise qui ne fait que
commencer [c'est] la défiance générale devant les mensonges inouïs du
gouvernement et son incompétence criminelle, la constatation de l’impuissance
de l’État en situation d’urgence et l’évidence que la réactivité, l’initiative,
le bon sens, la solidarité sont venus de la société en dépit de toutes les
obstructions administratives des bureaucraties étatiques[2]».
N'est-ce pas plutôt le fait que nous ayons été transformés en « moutons
paranoïaques infantilisés » ainsi que vous l'écrivez également ?
Jacques Philipponneau: Les détournements divers
des absurdités gouvernementales durant le premier confinement rappellent la
créativité remarquable de l’humour soviétique quand la liberté d’expression
tenait sa cour dans les cuisines d’appartements. Pour une part de notre vie
récente nous en étions là et, en paraphrasant Freud, il s’agissait d’une sorte
de victoire paradoxale de la conscience dans des conditions désespérantes.
Accorder crédit aux fantasmes de domination totale
(tout à fait réels, comme rêves,
ainsi que l’on été d’innombrables projets de même nature depuis que la société
de classes existe) est l’autre versant, défaitiste,
d’une compensation psychologique de la conscience isolée et impuissante, dont
l’humour noir représente le côté jubilatoire de la vie malgré tout.
LD:
Ce projet de domination totale est bien réel...
JP: Il n’est pas question de nier l’existence de ces
projets dans les anciennes démocraties représentatives puisqu’elles jalousent
ouvertement l’efficacité supposée d’un totalitarisme asiatique réalisé. Déjà
les jésuites enviaient la mécanique totalitaire de l’empire chinois qu’ils
pensaient pouvoir mettre à leur service ; mais comme on sait il est loin
du rêve à la réalité et la fin de l’histoire est celui inaccessible de toutes les
dominations.
Il est évident
qu’il existe une conjonction objective entre les trois sujets automates
produisant cette évolution rapide : des États en quête de contrôle social
achevé, le capitalisme des nouveaux marchés de la numérisation complète de
l’existence et la techno-science au service des deux précédents, poursuivant
son idéal de réduction de la vie à un pur fonctionnalisme biologique.
Mais concevoir
une société numérisée totalitaire capable réellement
d’exclure toute possibilité de renversement, c’est leur prêter une conscience supra-historique unifiée dont ils sont
bien incapables. Il n’y a évidemment aucun complot devant des programmes si
anciennement publics, si constamment réitérés, si complaisamment promus par les
médias et si bien acceptés majoritairement.
Le « great reset » dont vous vous faites l’écho
acte l’effondrement effectif de toutes les stabilités qui ont permis le
maintien et la transformation conflictuelle de la société industrielle depuis
deux siècles.
La domination est devenue ouvertement catastrophiste
et par la force des choses, elle doit intégrer le réformisme écologique dans
cette sur-bureaucratisation du monde seule à même de gérer, dans cette société, les catastrophes qu’elle
produit.
Cet écologisme de caserne, normatif et culpabilisant,
dernier avatar du péché chrétien (les indulgences pontificales du bilan
carbone, le flygskam – la honte de
prendre l’avion du luthérianisme nordique –, la niaiserie antispéciste
anglo-saxonne) qui n’attaque jamais frontalement l’État ni le capitalisme, mais
seulement leurs « dévoiements » ou leurs « excès »,
remplace la vieille social- démocratie morte à la tâche dans sa fonction
intégrative à la société telle qu’elle
est.
La crise sanitaire actuelle (quelle que soit son
origine et la gravité qu’on lui accorde) a contraint la domination à afficher
son programme. Sa conception de la vie.
Elle se résume à
celle-ci : le mode de vie industriel n’est pas négociable et les représentations catastrophistes, si
complaisamment diffusées depuis une dizaine d’années, ne sont pas conçues pour
y faire renoncer mais pour faire accepter les restrictions et aménagements qui
permettront de le perpétuer. En gros, faire régresser la liberté humaine à sa
seule fonction animale de « conserver l’espèce », la « vie
nue » réduite à sa seule réalité biologique : l’exemple le plus
trivialement actuel en est le lâche soulagement devant une vaccination – de
fait obligatoire – permettant de retrouver la vie « normale ».
LD:
Vous pensez qu'un tel projet ne se réalisera pas ?
JP: Un tel projet ne va pas de soi car, pour être
efficace, il supposerait une sorte de gouvernement mondial dont on ne voit pas
aujourd’hui l’amorce d’un commencement. Mais bien entendu le plus grand
obstacle à un tel « reset » réside dans l’acceptation pérenne des
populations à un tel programme. Tout changer pour que rien ne change,
c’est-à-dire agir radicalement pour la perpétuation d’une société hiérarchisée
n’est cependant jamais sans danger.
La sidération du printemps dernier devant la
saturation des hôpitaux et les prévisions apocalyptiques (500 000 décès
pronostiqués en Grande Bretagne et en France par l’Imperial Collège) a
transformé dans un premier temps l’immense majorité de la population en un
troupeau apeuré. Mais le temps passant, face à une propagande mondiale inédite
et un ministère de la vérité chassant toute opinion critique (assimilée à un
complotisme délirant), de nombreux réfractaires à la tyrannie sanitaire ou
hérétiques de l’officielle non-pensée médicale se sont malgré tout manifestés
de très diverses façons.
Il n’y a à ce jour pas de point de vue unifié -et
c’est heureux- d’une autre conception de la vie face à l’abjection qui nous est
proposée, mais un refus minoritaire plus ou moins conscient, plus ou moins
global d’une totalité mortifère où le renoncement à la liberté ne garantit en rien
quelque sécurité que ce soit.
Cette liberté qui s’en va et cette sécurité qui
disparaît vont certes rassembler le parti de la peur autour de solutions
autoritaires mais aussi multiplier déserteurs pratiques (quand c’est possible)
et dissidents de la pensée (c’est toujours possible) dans un parti de la
résistance active. C’est en ceci que notre époque est profondément historique
sans qu’il n’existe bien entendu aucune certitude quant à l’évolution de ce
conflit.
LD:
Vous écrivez que « si toutes les révoltes que l’on a vues de par le
monde depuis deux ans, […] ont toutes échoué c’est parce que la question
fondamentale de toute insurrection - quelle société voulons nous ? - est
restée et reste encore partout sans réponse positive devant l’immensité et la
complexité de la tâche ». Pour vous, la seule voie émancipatrice tient
dans « la destruction rationnelle de la société industrielle ».
Qu'entendez-vous par là ? Et comment (commencer à) s'y prendre ?
JP: Il n’y a non plus ni
programme ni recette pour sortir de la société industrielle, tout au plus
quelques grandes orientations (connues de tous) impossibles à mettre en œuvre
(sauf marginalement et partiellement) avec la célérité et l’énergie que
l’urgence implique, sans une transformation révolutionnaire de la société.
Penser combattre la société industrielle sans abolir
le capitalisme ou vouloir l’abolir sans défaire celle-ci, recouvrer la liberté
individuelle et collective permettant la maitrise du destin de l’humanité sans
supprimer l’État, prôner la démocratie directe ou l’autogestion généralisée
sans sortir de l’économie et sans abolir l’argent, voilà l’essentiel des
impossibilités pratiques que les alternatives émancipatrices devront assumer
expérimentalement dans l’effondrement qui vient.