Scambio con Agostino
Ciao Sergio, ti mando un articolo che mi pare condivisibile.
Un abbraccio Agostino
Ti piace il presidente Draghi?»: «No. Non mi
piace»
Tomaso Montanari, 13-02-2021
Si può ritenere che la gestione della crisi sia stata, a tratti, opaca?
Per esempio, nel colpo di scena (evidentemente non tale per tutti) per cui le
Camere in nessun caso sarebbero state sciolte? Si può dissentire, anche
radicalmente, dal Presidente della Repubblica, sostenendo che la scelta di
Draghi sia non già un balsamo, ma invece un serio vulnus, per la nostra
democrazia? Si può mettere in dubbio lo status messianico del Presidente del
consiglio incaricato, ricordando che la sua intera carriera e il suo operato
pendono dalla parte di chi ha reso il nostro mondo ciò che è (e cioè
mostruosamente ingiusto, e diseguale), e non dalla parte di chi ha provato a
migliorarlo? Si può auspicare, infine, che qualcuno, in Parlamento, abbia
sufficiente autonomia politica e morale per «disobbedire al presidente
Mattarella» (magari per non governare coi fascisti), questa inimmaginabile
condotta da reprobi?
In pochi giorni, l’articolo 1 della Costituzione è stato riscritto così:
«L’Italia è una Repubblica paternalista, fondata sui migliori». E uso
“paternalismo” in senso proprio: nascendo quella parola per definire una
«politica […] caratterizzata da una bonaria e sollecita attenzione verso i
bisogni dei sudditi, escludendoli però completamente dal controllo delle
attività dello Stato e da una qualsiasi forma di partecipazione alla gestione
della cosa pubblica» (così il Grande dizionario della lingua italiana).
Il nuovo mantra dell’antipolitica ha assunto toni monarchici,
autoritari, repressivi. «È finita la ricreazione! È entrato il preside: ora
sono tutti muti, a capo chino»; «finalmente sono stati commissariati, quegli
incapaci del Parlamento!»; «ha parlato il Presidente, nella sua saggezza, ora
non vola una mosca»; «il Presidente sarebbe “infastidito” dalle condizioni
poste dai partiti», e via dicendo. Il fasto del Palazzo del Quirinale ha
eclissato le aule sorde e grigie del Parlamento esercitando, ancora una volta,
la sua malia autocratica: i fantasmi di papi e re hanno ripreso la scena,
rimettendo al proprio posto il popolo bue, e i suoi bovini rappresentanti. Imponendo
il nome di Draghi senza sottoporlo a consultazioni preventive (l’Eletto ne
sarebbe uscito svilito); annunciando che un «alto profilo» spazzava finalmente
via i populisti trogloditi; teorizzando un governo «che non debba identificarsi
con alcuna formula politica», il Presidente ha inferto una mazzata micidiale al
Parlamento: che vede divorato, sul colle più alto, un governo cui aveva appena
rinnovato la fiducia.
Ora, più ancora di questa mossa con pochi (e discutibili) precedenti –
ma comunque dentro i confini formali della Carta – sconcerta il plauso con cui
tutti l’hanno accolta: te deum, ceri, inni, vitelli grassi sgozzati. Era il
funerale della democrazia parlamentare, così debole, impotente, screditata da
esser pugnalata a morte da un sicario saudita, e poi sepolta frettolosamente da
un Padre severo: eppure i morti ballavano, e bevevano. Quanto è profonda la
disillusione, anzi il disprezzo, verso la democrazia parlamentare, se tutti
gioiscono perché le decisioni circa il bene comune vengono ora prese da una
persona sola, con una regressione plurisecolare? Il godimento masochista di
un’intera democrazia che, vedendosi umiliata, grida: «dai, frustami ancora!».
I pochissimi che, a sinistra, dichiarano anche in pubblico la loro
avversità per il nascente governo degli ottimati, lo fanno additando la
presenza non già del Caimano prossimo alla mafia, ma della Lega, punto di
riferimento di neofascisti e neonazisti, e legatissima in Europa alle estreme
destre xenofobe. Ma questa nefastissima inclusione non è un effetto collaterale
imprevisto: è un esito fortemente voluto, per due ragioni.
La prima è il coinvolgimento del partito di Salvini in un’operazione
chiaramente atlantica: un’operazione che lo allontani da Putin e lo faccia
entrare nella cerchia occidentale che condivide onori e oneri del vampirismo
turbo finanziario. Un’iniziazione, un’affiliazione.
La seconda, più velenosa e sottile, è la volontà di affermare l’unico
vero dogma ideologico del mondo in cui Draghi è protagonista: TINA, There Is No
Alternative allo stato delle cose. Non c’è alternativa alla monorotaia
dell’ordine economico occidentale: e dunque le differenze politiche (destra e
sinistra, fascisti e democratici, conservatori e progressisti) sono solo
cosmetiche, folkloristiche, buone per i talk: tenere tutti insieme (da Leu alla
Lega) sotto l’ombrello paternalistico del Grande Banchiere intronizzato sul
seggio dell’Esecutivo significa abrogare le ragioni stesse della politica. Il
bene della nazione, il bene del popolo, il bene dell’Italia sono dati a priori:
decisi, sul Colle più alto, dal padre della Nazione, e affidati al Governo di
Alto Profilo. Quel che è non più nemmeno immaginabile è il conflitto: il
conflitto sociale che diventa conflitto politico, e che in Parlamento trova una
mediazione cui il governo dà attuazione. Tutto da dimenticare: niente
conflitto, perché il Bene della Nazione lo conosciamo già.
Peccato che i ricchi non vogliano le stesse cose di cui hanno bisogno i
poveri. Ma proprio questo è il punto. Perché questo “governo del Presidente”
(cioè “governo non parlamentare se non proforma”) è aristocratico intimamente:
programmaticamente. Da Berlusconi ai giornali degli Elkann, tutti invocano il
“governo dei migliori”. Si glossa: dei competenti. Vano chiedere competenti su
cosa (domanda lecita, viste le prime uscite sulla scuola: da bar dello sport
dei Parioli). Vano ricordare che se l’Italia è messa com’è messa, è colpa non
dei populisti ma dell’élite più ignorante, corrotta, familista, incapace del
pianeta. Vano perché, come è chiaro fin dai tempi di Aristotele, si scrive
aristocrazia, si legge oligarchia: governo dei pochi. Cioè dei ricchi. È
davvero il culmine italiano dell’ordoliberismo: «uno Stato sotto sorveglianza
del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello Stato» (Foucault).
In un momento in cui i tre uomini più ricchi d’Italia possiedono quanto i sei
milioni di cittadini più poveri, in un momento in cui il massimo pericolo per
la democrazia è che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri più poveri, si
affida il governo della Repubblica all’uomo Goldman Sachs. Uomo nel senso di
maschio, innanzitutto: perché il paternalismo è, per definizione, maschilista.
E l’uomo di potere deve essere accompagnato, due passi indietro, da una «moglie
di gran classe che non parla neppure se interrogata» (Aspesi). Maschio solo al
comando: farà tanto meglio, in quanto non dovrà trattare con gli spregevoli
partiti per i nomi dei suoi ministri.
È chiaro che stiamo imboccando l’oligarchia come via d’uscita dalla
crisi della democrazia parlamentare? Con tanto di cronache a getto continuo dal
buen retiro umbro della famiglia
reale: che fa una vita così normale, signora mia! Stiamo cadendo da una
(orribile) padella a una (fatale) brace. Una brace che ben conosciamo: «è da
vedere se questo modo di pensare, molto diffuso, non sia un residuo della
trascendenza cattolica, e dei vecchi regimi paternalistici», si chiedeva
Antonio Gramsci.
«Costruire la democrazia equivale a distruggere le oligarchie – ha
scritto Gustavo Zagrebelsky – con la precisa consapevolezza che a un’oligarchia
distrutta subito seguirà la formazione di un’altra, composta da coloro che
hanno distrutto la prima». In questo caso – è il dramma – l’oligarchia è quella
di prima, che torna: mai distrutta. Quella che ha portato il Paese al disastro,
il Pianeta sull’orlo dell’abisso. Mentre il costume e la retorica tornano a
prima del 1789, o, a tutto concedere, a un dispotismo illuminato in cui il
monarca-padre decideva per il “bene” di sudditi eternamente minori.
Siccome il danno, l’involuzione, prima che istituzionali sono culturali,
se ne esce, se se ne esce, solo a dosi massicce di pensiero critico: pensiero
contro, insubordinato, eretico, non conforme. Una mobilitazione di pensiero
nelle scuole e nelle università, nei luoghi dove ancora si può cercare,
attraverso una «erudizione implacabile» (ancora Foucault) di non piegare le
ginocchia di fronte a padri saturnini. Occorre «il senso della rivolta», e la
«capacità di sfruttare appieno le rare opportunità di discorso concesse» (Said).
E, con il Tommasino di casa Cupiello, occorre saper rispondere, a chi chiede
ossessivamente «ti piace il presidente Draghi?»: «no. Non mi piace».
Post scriptum: Dopo aver ascoltato Draghi leggere la lista dei
ministri è stata subito ben chiara una cosa: nessuna tragedia politica, in
Italia, è separabile dalla farsa. Il «Governo di alto profilo che non debba
identificarsi con alcuna formula politica» annunciato da Mattarella è una
specie di pletorico governicchio tardodemocristiano-berlusconiano costruito con
la più bieca spartizione da manuale Cencelli. Altro che articolo 92 della
Costituzione: è il trionfo della partitocrazia (15 politici contro 8
“tecnici”), mentre il Parlamento viene umiliato. Un vero capolavoro
istituzionale. Nani, ballerine, servi di
partito, scienziati-manager in quota saudita. Brunetta alla Pubblica
Amministrazione da solo vale il viaggio. All’inferno. Poche donne (tra cui la
Gelmini, la Carfagna, la Stefani… santoddio…), quasi tutte senza portafoglio, e
addette a faccende secondarie. Le uniche in primo piano, di area ciellina: con
salde convinzioni circa il rispetto della famiglia tradizionale. Di Maio ancora
agli Esteri, Speranza alla Salute. L’eterno Franceschini, incollato
letteralmente alla poltrona, che ottiene il titolo lugubre di Ministro della
Cultura: voluto da Mussolini nel 1937, abolito nel 1944. Figuriamoci se fosse stato il Governo dei peggiori.
Renzi, Mattarella e Draghi ci hanno regalato un governo di destra. Davvero non
so con quale stomaco LeU e i Cinque Stelle potranno votare la fiducia a questo
Bar di Guerre Stellari. Ma, come ci ricorda Giorgetti allo Sviluppo, non c’è
nulla ridere: il disastro è appena cominciato.
Una versione ridotta dell’articolo è comparsa su Il Fatto
Quotidiano del 12 febbraio
Holla, e grazie per il testo,
Nel coro di elogi sperticati all'avanspettacolo
italiano (umilianti per l’intelligenza sensibile che resta) questo articolo che
mi proponi denuncia effettivamente la mostruosità mafiosa che il popolo
digitalizzato subisce cattolicamente inginocchiato. Sempre pronto, come al
solito, a salire sul carro del vincitore di turno che in realtà è,
gattopardamente, sempre lo stesso: il Leviatano produttivista definitivamente
legato alla sorte del suo modo di produzione capitalista in fase terminale. A vincere dappertutto, ma fragile
e nudo come non è mai stato neppure Pirro, è quello stesso mondo che dilaga
coniugando il progetto di artificializzazione definitiva della vita e la
riduzione dell’umano (molto avanzata grazie alla digitalizzazione invasiva del
reale) a veicolo passivo ma imprescindibile della valorizzazione economica. La
crisi del coronavirus mostra tutto questo più chiaramente che mai, ma peggiora
la situazione perché toglie ogni imbarazzo alla disumanità trionfante, messa
alle strette dalla crisi. Dappertutto il virus viene utilizzato come una scusa
per accelerare la corsa economicista verso quel muro contro il quale stiamo
andando in quanto specie, con le classi povere in prima linea, evidentemente.
La “LORO” crisi economica non è la “NOSTRA” crisi sanitaria (del resto resa più
grave dalla propaganda mediatica e dall’imperizia dei gestori di ogni bordo).
La forma italiana di questo delirio/delitto è solo un modo particolare di
seguire il gregge globale e, qui come altrove, per chi non si rassegna al ruolo
di pecora e ora di cavia, si tratta di passare dalla coscienza di classe
sconfitta dal consumismo alla coscienza di specie che ne è il possibile
superamento dialettico e l’ultima occasione di una società organica e non
artificiale, cioè umana.
Per iniziare questa traiettoria necessaria alla
vita ma anche, in prospettiva, alla sopravvivenza stessa della specie, bisogna
andare oltre il giusto ma insufficiente disgusto di Montanari. La democrazia parlamentare è essa
stessa la malattia e non è tradita dalla volgarità della situazione italiana ma
ne è anzi l’apogeo. Questa truffa oligarchica che si nasconde dietro il
feticcio democratico messo in scena da secoli prima dai colonialisti
suprematisti in America e perfezionato poi dai moderni schiavisti francesi del
"Terrore rivoluzionario", è nata sui cadaveri delle sezioni parigine
del 1789 (bras-nus o sanculotti che dir si voglia) e più tardi della Comune
(1871) al fine di soffocare la rivoluzione sociale in ebollizione.
Ghigliottinato prima e fucilato poi con epicentro a Parigi, ma politicamente
dappertutto nel mondo, il cadavere della democrazia diretta è stato consegnato
alla “borghesia proletarizzata” di destra e di sinistra (dai giacobini ai
leninisti, passando per i Versagliesi, e i Franchisti).
Con il coronavirus che rode, siamo oggi alla fine
di tutto il ciclo della civiltà economicista.
In attesa del trans umanismo, soluzione finale
della società produttivista digitalizzata, la profonda superficialità mafiosa del
potere all’italiana rende quasi appetibile la truffa parlamentarista che in
Italia non è mai stata altro che una maschera grottesca ben più che altrove. La
politica italiana è in decomposizione particolarmente avanzata, il che rende
difficile l’emergere di una coscienza chiara della truffa parlamentarista alla
base della modernità capitalista che sta mettendo fine alla vita organica e
all’umano che ne dipende.
Il disgusto di Montanari per la partouze
parlamentare diretta dal cavaliere senza macchia e senza paura che lotta contro
il drago chiamandosi Draghi è anche il mio, dietro la risata acida che la
situazione provoca, ma il mio ribrezzo si spinge molto più lontano ed è questo
territorio abbandonato, inquinato e devitalizzato della politica che oggi
dovremmo rioccupare individualmente e collettivamente per salvare il salvabile
e all’occorrenza la vita.
Grazie per lo stimolo a riflettere che la tua
proposta di dialogo favorisce. Da queste poche considerazioni di getto si
tratta di partire e come molti altri provo a farlo, modestamente ma
sinceramente.
Amitiè, sergio