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Sotto un regime monopartitico temperato dalla corruzione, avvenne il salto definitivo dalla bottega alla fabbrica. Effettivamente, lo sviluppo di un'industria nazionale destinata a sostituire le importazioni, fu protagonista di quello che i vertici del PRI definirono un “miracolo economico”, responsabile di un'urbanizzazione fuori controllo centrata sulla capitale dello Stato che, principalmente con l'aiuto dei tram elettrici, poi dei filobus e della metropolitana dal 1962 e, in generale, di una variegata rete di trasporti pendolari, iniziò a far mostra dei propri meriti. Era circondata da conurbazioni e nel 1970 era già diventata una metropoli di undici milioni di abitanti. La capitale era il motore principale dell'economia nazionale, la sua cassaforte. L'opposizione tra campagna e città è stata esacerbata dalla meccanizzazione, dai pesticidi e dai fertilizzanti, risolvendosi in un esodo rurale che ha avuto conseguenze. La terra ha definitivamente cessato di essere il crogiolo della cultura e della vita sociale. Lo squilibrio territoriale e la deturpazione del paesaggio agrario si aggravarono ancora di più con l'estrazione del petrolio e la costruzione di dighe idrauliche che costrinsero violenti spostamenti dei residenti, mentre la città industriale, di fronte all'ondata di disoccupati e al proliferare dell'automobile, è diventata incapace di far fronte alla domanda di edilizia popolare, al deficit di trasporto pubblico, alla mancanza di attrezzature e alla mancanza di infrastrutture. Gli esperti dello Stato paternalistico erano consapevoli del disordine e della disorganizzazione che la crescita economica aveva causato nelle città, ma lungi dal metterlo in discussione, si proposero di risolvere i loro mali attraverso la “pianificazione”, cioè cercando soluzioni tecniche anziché sociali. I Piani regolatori, urbanistici e insediativi che lo Stato autoritario ordinò ai suoi tecnici di elaborare in nome dell'ordine e del progresso negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, rivelarono un'ideologia funzionalista mutuata dai CIAM e dalla scuola di Chicago. La città era ora vista come lo spazio di razionalizzazione corrispondente alle esigenze tecniche e poliziesche del regime capitalista. Le strade e le piazze pubbliche furono soppresse come luoghi d’incontro, scambio e libera espressione, per riconvertirsi in spazi di circolazione. Non stupiamoci che la divisione in zone o la suddivisione della città-macchina in aree di lavoro, abitative e ricreative abbia ricreato una città schematica basata su aggregati, “cellule” e “zone” nettamente separate in cui i suoi abitanti si erano adattati come a un letto di Procuste. Si voleva intronizzare un nuovo ordine spaziale sostenuto da un'architettura uniforme e monotona fatta di unità o progetti abitativi (in Spagna erano chiamati “poligoni”), magazzini e paesaggi, riflesso della mentalità d'apparato il cui potere pretendeva simboleggiarsi in grattacieli come la Torre Latinoamericana o il complesso del WTC. Il risultato è stato un mosaico di frammenti sparsi senza identità la cui realizzazione ha ignorato le relazioni sociali mentre alimentava la speculazione immobiliare e facilitava il dominio. Gli allineamenti hausmanniani, gli allargamenti, i corridoi, i viali monumentali e i grandi spazi aperti (come la Plaza Tapatía a Guadalajara) hanno causato notevoli perdite patrimoniali e distrutto il tessuto sociale dei quartieri interessati dal regolamento; le differenze di potere d'acquisto segregarono le fasce povere della popolazione e anche le classi medie, trasferendole nelle dense periferie, ridotte alla funzione di dormitorio.
Il periodo di sviluppo terminò nel 1982, quando il mercato nazionale non riuscì a sostenere il tasso di crescita richiesto, facendo precipitare il paese in una profonda crisi che si tradusse in debito, povertà e, per cambiare, in un sorprendente aumento della popolazione urbana. La sub urbanizzazione continuò nonostante la battuta d'arresto economica, diventando autonoma. La classe dirigente messicana, come tutte le altre, ha obbedito ai dettami del WTO e del FMI virando al neoliberismo. Così, attraverso vari trattati e accordi, ha eliminato tutte le barriere alla finanza globale, comportando tagli ai sussidi, privatizzazioni di aziende pubbliche (alcune importanti come banche, telefoni, ferrovie, aeroporti e comunicazioni satellitari), la fine della pianificazione urbana, il boom delle imprese maquiladoras (sfruttatrici di mano d’opera) e la consegna del territorio a promotori turistici e a multinazionali estrattive.
Il settore terziario ha preso il comando (i servizi costituivano il 76% del PIL nel 2000) e, infine, c'è stato un cambiamento qualitativo nella società messicana. D'ora in poi, lo stato avrebbe svolto un ruolo sussidiario di un'economia mondiale che assorbisse e digerisse le economie nazionali. La tendenza alla concentrazione della popolazione nelle aree metropolitane si accentuò con questo "aggiustamento strutturale", e la forza centripeta delle metropoli divenne incontrollabile. La conurbazione intorno alla capitale contava 27 milioni di abitanti nel 2000. Frank Lloyd Wright, osservando gli schemi confusi delle grandi città statunitensi, disse che erano "la forma universale dell'angoscia". Quindici agglomerati urbani messicani superavano il milione di abitanti, ma la caratteristica più sorprendente è stata la crescita delle città di medie dimensioni. Il numero delle regioni metropolitane nel 2000 era salito a 56, con la particolarità che le corone esterne superavano in numero di abitanti i centri, mostrando chiaramente la frattura sociale di un'espansione senza senso. La baraccopoli divenne onnipresente quanto la disuguaglianza: due terzi delle case erano auto costruite e mancavano dei servizi più elementari. La popolazione urbana ha raggiunto i 66 milioni, circa il 70% del totale: il Messico ha smesso di essere semplicemente urbano per diventare un Paese metropolitano. La metropolizzazione, strettamente legata alla globalizzazione, ha imposto una brutale riconfigurazione del territorio. Gli imperativi di accessibilità e mobilità richiedevano ora grandi strade ad alta velocità, un vasto parco automobilistico, reti di trasporto pubblico private, ampi parcheggi e nuovi aeroporti più grandi. Per quanto riguarda il trasporto pubblico non redditizio, e quindi difficile da privatizzare, a Città del Messico, ad esempio, è stata creata nel 2000 una rete di autobus, la RTP, per provvedere allo spostamento nei quartieri marginali oltre le stazioni dalla metropolitana, ma negli anni successivi si tentò di costruire un sistema di corridoi a più lungo raggio (Metrobús). Infine, dopo diversi progetti falliti per conflitti d’interesse tra i diversi apparati burocratici e imprese edili straniere, nel 2008 è stata inaugurata una linea ferroviaria suburbana dell'Area Metropolitana, “la via rapida verso il benessere”, cioè la globalizzazione. Crescevano, invece, in maniera esponenziale i bisogni delle aree metropolitane: gli approvvigionamenti richiedevano dighe, acquedotti, gasdotti, importazioni, nuove fonti di energia, eccetera e cosi via. Insomma, il Paese funzionava, in altre parole, come un sistema policentrico metastatico coronato da una megalopoli ben integrata nel mercato globale, senza limiti e con un deficit cronico di arterie. Il fenomeno urbano era già ovunque, si era diffuso, però, allo stato brado, come non-città, come periferia totale, come regno disumano della completa separazione.
La generalizzazione dell'urbano è un fenomeno universale, ma nei paesi in cui le condizioni prevalenti non sono sufficientemente capitalistiche – ed è per questo che vengono chiamate "sottosviluppate" o "in via di sviluppo" – presenta caratteristiche specifiche che ne intensificano la fragilità e l'instabilità. Abbiamo già segnalato la moltiplicazione dei ghetti dovuta allo sviluppo caotico, sfrenato e autonomo degli agglomerati urbani in America Latina. La mancanza di capitali era un’altra causa, qualcosa di paradossale poiché l'Area Metropolitana della Valle del Messico era la principale destinataria degli investimenti stranieri e lì erano concentrati gli uffici della maggior parte delle corporazioni internazionali. La crescita ipertrofica segnalata era una conseguenza palpabile, così come l'inadeguatezza, l'insicurezza e il cattivo funzionamento dei trasporti pubblici, o la congestione del traffico endemica e il tempo perso nei veicoli, che poteva arrivare fino a sei ore per giorno. Allo stesso modo, le discariche clandestine, lo stress idrico nelle falde acquifere vicine, l'inquinamento e il costo ambientale conseguente. Altra specificità: un fattore di stabilizzazione importante quanto il ceto medio, due terzi della popolazione nei paesi turbo capitalisti, supera di poco un terzo in America Latina (meno nelle campagne, un po' più negli agglomerati urbani) e non si mostra molto conformista. Per contro, l'esclusione che in Spagna era vicina al 20%, in Messico ha superato il 40% nel 2016 (nel Distretto Federale era del 64%). Approssimativamente la metà dei posti di lavoro sono precari, mal pagati e senza copertura sociale, e il settore informale dell'economia rappresenta il 23% del PIL (in Spagna l'economia “sotterranea” ha un peso simile). Il mercato nero del lavoro assorbe più lavoro del settore formale, controllato da sindacati corrotti. Sei su dieci in Messico per uno su dieci in Spagna. Inoltre, mezzo milione di persone lavora per la criminalità organizzata. L'eccessiva violenza quotidiana rivela non solo l'abbondanza di predatori sociopatici tipica della condizione metropolitana, ma la presenza di una classe numerosa che Marx chiamava sottoproletariato e Jack London denominava popolo dell’abisso. È la caratteristica più differenziata della metropolizzazione terzomondista. Non si tratta in assoluto di un nuovo soggetto storico. La ribellione cieca, disperata e manipolabile dell'abisso porta inesorabilmente a uno scenario mafioso e prefascista da cui trarranno vantaggio solo lo Stato repressivo, i capi corrotti e le bande criminali. Fuori dalla barbarie urbana, ma non al riparo da essa, nelle campagne, le successive "ristrutturazioni" vanno direttamente contro la piccola proprietà, la proprietà collettiva e la sovranità alimentare. Il modello di autosufficienza alimentare caratteristico dell'agricoltura della Riforma divenne un ostacolo all'espansione delle grandi corporazioni agroalimentari e alla conversione del territorio in capitale. La reazione contadina allora si ribellò contro la burocrazia e la politica: nessun partito o istituzione la rappresentava. Allora, la questione sociale non poteva più essere mostrata come un semplice problema politico come voleva l'opposizione populista, né poteva certo essere risolta con le elezioni. Da un lato emergerà come questione urbana, dall'altro come difesa del territorio. Entra così in scena una società civile attraverso nuovi attori extra-politici – giovani cittadini, donne, contadini, emarginati, popolazione mobilitata contro progetti dannosi – e si inaugura una nuova riflessione critica antipatriarcale, ambientalista e antisviluppo. La repressione dispiegata contro di loro indica che oggi la reale correlazione di forze è meno favorevole agli oppressori e che il cambiamento di tendenza dal globale al locale non è del tutto impossibile.
Potenti interessi corporativi vogliono l'intero territorio – compreso l'ambiente naturale, l'acqua e il sottosuolo – svincolato dai vincoli comunitari e trattabile come merce, in balia di progetti di sviluppo di ogni genere. In America Latina, l'estrattivismo ha assunto la forma di una guerra di espropriazione che non esita a impiegare metodi terroristici. I suoi responsabili fanno sul serio perché i benefici in gioco sono enormi e l'urgenza delle trasformazioni scoraggia le trattative con gli interessati, sempre lunghe e complicate, e quindi troppo costose. Si comprano decisioni e non si rifugge dai massacri. Per contro, la difesa del territorio pone i contadini in prima linea e le comunità indigene in testa. La libertà aveva disertato le città che un tempo ne erano la culla per riapparire ora dalla parte dei contadini insorti. Le prime mobilitazioni degli anni '70 contro le centrali petrolifere, la costruzione di un reattore nucleare, il disboscamento a uso comunale, l'apertura di miniere o di complessi turistici furono la risposta popolare allo sfruttamento industriale delle risorse territoriali. Tuttavia, le prime battaglie in difesa della terra, pur riconsiderando modalità di resistenza collettiva contro il capitalismo neoliberista, la burocrazia statale, i sindacati filo-governativi e le forze dell'ordine, non hanno cristallizzato un progetto sociale alternativo, o meglio, un piano di autogoverno, fino al 1994, anno quando ebbe luogo il pronunciamiento zapatista in Chiapas. Al culmine di un processo di autorganizzazione indigena nella lotta contro i grandi latifondisti e la politica repressiva del governatore, le comunità zapatiste hanno costituito un ostacolo esemplare contro la marea estrattivista. Hanno significato il risveglio rivendicativo dei diritti del popolo indigeno (diventato poi manifesto con la creazione di un Congresso Nazionale Indigeno), che, a giudicare dal sostegno ottenuto e dalle lotte che ispirò in tutto il paese, fu ancora una volta al centro della questione sociale. La riforma dell'articolo 27 della Costituzione nel 1992, che ha liquidato le conquiste agrarie della Rivoluzione, aveva riscaldato l'ambiente, che è andato in ebollizione con l'espropriazione criminale delle terre, principalmente del contado e comunali, per costruire le grandi infrastrutture inutili che chiedevano "il progresso e la modernizzazione", cioè il diktat dei mercati internazionali. Le mobilitazioni autonome contro la costruzione d’invasi, le concessioni minerarie e di disboscamento e, soprattutto, il conflitto per il nuovo aeroporto di Atenco, hanno rivelato la difesa del territorio come l'asse centrale della nuova lotta di classe. Molte volte, le lotte per la sopravvivenza hanno generato forme di autogestione, autodifesa e giustizia basate su organizzazioni assembleari, come nella Comune di Oaxaca, nell'Istmo di Tehuantepec, in Santa María Ostula o Cherán. Hanno anche rivitalizzato il tequio e l'aiuto reciproco e rivendicato i diritti delle donne e l'autodeterminazione dei popoli. La globalizzazione ha fatto del territorio il principale fattore strategico, ei suoi difensori, la personificazione del nuovo soggetto rivoluzionario, estraneo ai mercati e refrattario allo Stato e alle metropoli. Questo soggetto scopre che il suo modo di vivere, che la sua stessa esistenza come comunità, si oppone alla mercificazione del territorio e trova nell'autonomia territoriale – l'autodeterminazione – il primo grande obiettivo che rende possibili tutti gli altri. Un certo embrione di civiltà libertaria rifiorisce sulla terra.
Nonostante le resistenze, il flusso sovversivo della difesa del territorio si diluisce di fronte all'oceano urbano. Lo spirito comunitario – “la ritrovata gioia di vivere insieme” di cui parla Raoul Vaneigem – non è riuscito a entrare nelle metropoli postmoderne e, quindi, al loro interno non si sono sviluppate contro-istituzioni autonome e forme di vita libere da vincoli commerciali simili a quelli agrari. Al contrario, la critica radicale non è arrivata a influenzare le città in modo efficace e i programmi anticapitalisti sono stati messi da parte a beneficio di un possibilismo politico grossolano. Per questo, la reazione anti-neoliberista che si è risvegliata nel 2000 nel continente portando al potere dei movimenti populisti, ha consacrato lo Stato come strumento fondamentale d’intervento nella sfera economico sociale. Le organizzazioni che li promuovevano o li sostenevano erano immancabilmente cooptate e trasformate in strumenti di smobilitazione e controllo, mentre apparati di assistenza erano innalzati dall'alto per contenere le classi disagiate e mantenerle calme, addormentate, sulla base di programmi sociali. All'interno di un'economia globale inalterata, la macchina redistributiva del populismo ha funzionato mentre la domanda internazionale di materie prime era forte, ma la debacle economica del 2008-2012 ha costretto i governi populisti a prendere una svolta conservatrice verso modelli più estrattivi e di sviluppo al fine di mantenere il voto prigioniero. In Messico una sorta di nazional-populismo interclassista è rinata nelle metropoli con la crisi della partitocrazia e la sua ultima versione non ha tardato a mostrare il suo vero volto con megaprogetti come il Corridoio Transoceanico, il Treno Maya, il nuovo aeroporto o il Progetto Integrale di Morelos. Mumford ha avvertito nel suo libro "The City in History" che le metropoli erano "un mondo in cui le grandi masse della popolazione, incapaci di raggiungere uno stile di vita più pieno e soddisfacente, vivono la loro vita per interposta persona, in qualità di elettori, spettatori, ascoltatori e osservatori passivi”. La complessità e la dimensione dei conglomerati urbani vietavano la minima socialità e l’ancora più esigua cultura politica, con la conseguenza di precludere qualsiasi approccio di classe generalizzato. Che tipo di progetto libertario, ad esempio, potrebbe essere realizzato in un’incontrollabile tirannopoli di 30 milioni di abitanti? Nonostante l'alto grado di disaggregazione politica e sociale del Paese, le condizioni patologiche di una vita urbana estremamente artificiale e dipendente, monetizzata, incentrata sulla vita privata, sull'anonimato e sul consumismo individuale, non lasciano spazio alla costituzione di una società civile indipendente dallo Stato. L’anomia condanna la popolazione imprigionata negli agglomerati urbani a essere nient'altro che un pubblico passivo, indolente e smemorato di un caudillo redentorista, e una massa di manovra per il "riassetto elettorale" di un sistema partitico in bancarotta.
Le metropoli hanno superato il limite che le rende gestibili, poiché lo spreco economico che la loro amministrazione richiede è impossibile da assumere e porta alla morte del fenomeno urbano. La crisi finale del sistema di produzione dello spazio urbano è servita e il collasso sociale sarà inevitabile, così che sebbene l'adattamento al disastro sia lo slogan interno del nuovo capitalismo, lo smantellamento metropolitano deve essere l'asse del pensiero critico e dell'azione trasformativa radicale. Tutto va ricostruito, ma in una direzione diametralmente opposta a quella indicata dal capitalismo della “resilienza”. La lotta per una società libera ed equilibrata deve essere una lotta per la città intesa nella sua concezione originaria di comunità autogovernata e paritaria con il proprio territorio. Tuttavia, solo un processo desurbanizzante e municipalista permetterebbe ai suoi frammenti autogestiti di convergere in spazi di libertà cittadina in un comune sforzo di emancipazione con le comunità agrarie. Si creerebbero così le condizioni favorevoli all'autonomia in tutti i suoi aspetti, riuscendo a smantellare le metropoli e a provocare un ritiro comunalista capace di favorire la vita attiva di cui ci ha parlato Hannah Arendt. Tuttavia, una tal eventualità non sarà possibile dall'interno finché i flussi di capitale saranno così potenti e onnipresenti. Una strategia anti-sviluppo che voglia l'uscita dal capitalismo dovrebbe cercare di metterli in cortocircuito. Recuperare la memoria, de-mercificare il mondo, de-metropolizzare la vita. Di questo è questione.
Lucubraciones hechas desde lejos sobre la condición
metropolitana en México
Mi conferencia tratará de evocar el
desarrollo de lo urbano como una especie de genealogía del desastre, con la
intención de hacer visibles las grietas de la dominación que faciliten la
revuelta vital contra el capitalismo mortífero. Desde hace algún tiempo, el
debate sobre la expansión de las metrópolis y los males que ocasiona redunda en
la conclusión de los antiguos críticos de las ciudades industriales, a saber,
que el aire de la ciudad enferma. Sin embargo, nos permitimos objetar que a la
metrópolis posmoderna no se la puede de ninguna manera llamar ciudad, pues se
trata del hogar de la depredación financiera, un lugar estéril e insalubre,
embrutecedor y superpoblado, desvinculado tanto de la historia de los
trabajadores que la conformaron en parte, como del estilo de vida urbana de la
burguesía originaria. Pero una enorme aglomeración amorfa disfuncional, sin
objetivos “cívicos” ni más fin que el de concentrar poder comporta la
destrucción de los valores libertarios atribuibles a los proyectos colectivos
de convivencia, y, por consiguiente, la pérdida total de la condición ciudadana.
“El aire de la ciudad te hará libre” decía
un proverbio alemán que celebraba la libertad gozada por los vecinos de los
burgos medievales. Murray Bookchin llegó a imaginar en esas asociaciones de
labradores, artesanos y mercaderes llamadas ciudades “el florecimiento de la
razón en la historia” y Lewis Mumford las consideró la creación cultural más
grande de la humanidad. En efecto, a partir del siglo X, la comuna europea,
levantada a escala humana y organizada democráticamente, fue la cuna de la
política y el hogar del pensamiento, la ciencia, la industria y el arte. Nacida
en un contexto histórico concreto, era un tipo artificial de asociación con
características particulares, contractual, dinámica, regulada por leyes y
orientada hacia el progreso, muy diferente de la sociedad tribal, orgánica,
estática, comunista, predominantemente rural, regulada por la tradición y
apegada al mito. La población de la mayoría de ciudades-mercado en la Europa
del siglo XVI oscilaba entre los dos mil y cinco mil vecinos. Su recinto
urbano, acotado por perímetros defensivos y edificado sobre una trama irregular
de calles desembocando en espacios abiertos o plazas, contrasta con la retícula uniforme subordinada al palacio o
catedral barroca típica del urbanismo colonial, y más todavía con el sentido
geométrico y cósmico que emanan los monumentos ceremoniales de las ciudades
amerindias. Los conquistadores españoles trajeron consigo, junto con la
cuadrícula, una forma nueva de administración ciudadana, el municipio, cuando
este ya no descansaba en la asamblea general y había perdido casi toda su
independencia en provecho de un poder exterior encarnado por la autoridad real.
Por eso mismo, los municipios de la Nueva España estuvieron lastrados desde el
principio por las servidumbres del régimen colonial. No obstante, conforme la
ley española, su funcionamiento se sustentaba sobre bienes “propios” que no
podían enajenarse, aduanas interiores que gravaban el comercio y “arbitrios”
cuyo empleo se hallaba estrictamente fijado. Por otra parte, la misma
legislación establecía que los indígenas solamente podían acceder a la tierra
en forma comunal. Se tuvieron en cuenta prácticas comunitarias anteriores a la
colonización y el empleo vehicular de la lengua náhuatl. Así pues, en los
municipios de “naturales” o en aquellos en cuyo gobierno participaban “indios”
se mantuvieron las costumbres del “calpulli” -la célula básica de la aniquilada
civilización azteca, autosuficiente y autogobernada (como el “aylu” en el Perú
incaico y el “lof” en el pueblo Mapuche). Tal proceder encontró una sólida base
en los llamados “bienes de comunidad” -que junto con los “propios” constituían
por entonces algo más de la mitad del territorio mexicano- y en el “tequio”, el
trabajo no remunerado que todo indígena debía a su gente, sobre el que
redactaron ordenanzas. Los usos y aprovechamientos de tierras cultivables,
bosques, praderas y aguas consolidaron una economía doméstica que permitió
resistir las acometidas del despotismo esclavista. El sepulcro de la libertad
permaneció cerrado bajo siete llaves hasta que la invasión napoleónica de la
Península Ibérica forzó su apertura. Los funcionarios municipales convocaron a
“cabildo abierto” a todos los vecinos, algo que el derecho administrativo
colonial contemplaba solo para situaciones extraordinarias. Inesperadamente, la
soberanía popular transformó los cabildos en espacios públicos de
fraternización, y más concretamente, en juntas gubernativas al margen de la
autoridad colonial. El hecho se repitió en los levantamientos por la
Independencia, donde los cabildos abiertos desempeñaron un papel decisivo,
destituyendo autoridades y formando gobiernos locales que tomaron decisiones,
promulgaron leyes y formularon proyectos constitucionales. Sin embargo, el
desarrollo del nuevo Estado nacional apagó todo el fuego autonómico de la
sociedad civil y bajo la dirección de la fracción burguesa liberal preparó el
terreno al capitalismo, el régimen económico que iba a determinar en el futuro
la evolución de las ciudades y el campo. El trabajo, una actividad entre
tantas, se volvería ocupación total para la mayoría, mientras que el espacio
urbano se reordenaría según los designios de una nueva divinidad tan abstracta
como la deidad solar o el dios católico: el dinero.
El México moderno no se construirá desde las ciudades, o sea, desde la primitiva escena política, sino desde el Estado, el factor antisocial por excelencia. A lo largo del siglo XIX, la burguesía mexicana llevó a la práctica su idea federal y se deshizo de todos los obstáculos que se interponían a su cosmovisión liberal y a su enriquecimiento privado: las propiedades de la Iglesia y de los municipios, la autonomía administrativa y jurídica local, los bienes comunales, el usufructo de bosques, praderas y aguas, los terrenos baldíos y las trabas gremiales a la explotación del trabajo. En resumen, lo que dio en llamarse inviolabilidad de la propiedad individual, desamortización y libre mercado. Luego elaboró una constitución democrática pero solo para no cumplirla, porque su propia naturaleza caciquil y latifundista le impedía forjar un régimen de apariencia democrática fiable, con división efectiva de poderes, grandes partidos estables y sufragio universal directo, sin corrupción ni fraude. De todas formas, esas carencias políticas, agravadas durante el Porfiriato, no significaron inconveniente alguno para el deslinde de las tierras del común y su arriendo a inversionistas privados, y estimularon la construcción de puertos, tendidos eléctricos y del ferrocarril. De esta manera se conformaría un México capitalista, oligárquico, agropecuario y exportador. A principios del siglo XX solo había caminos, no siempre seguros: la primera carretera, la que comunicó el Distrito Federal con Puebla, se construyó en 1926. Así pues, fue principalmente gracias al tren que los parias de la tierra pudieron huir del trabajo forzado de las haciendas, pero solo para acabar hacinándose en las “vecindades” de las ciudades (en Argentina las llamaron “conventillos”, en Cuba, “ciudadelas”, en Perú, “quintas”). ¡Ciudad de México alcanzaba en 1900 la friolera de medio millón de habitantes! La vida reproducía la separación operada en la producción: este tipo de vivienda con habitáculos reducidos y con espacios compartidos fue la solución para los pobres al problema del alojamiento, y aunque las autoridades las consideraron focos de miseria y degradación moral, lo cierto es que en dichos espacios se dio un alto grado de ayuda mutua y conciencia de clase. La cuestión social estuvo ausente en todos los bandos de la Revolución -con la excepción del zapatista, partidario del regreso a la aldea comunal, y del magonista, que quería el socialismo. Los vencedores se consideraban continuadores de la “modernización” liberal económica de la época anterior, y, tan pronto como pudo establecerse una alianza entre la burocracia política engendrada tras el periodo revolucionario -que patrimonializaba la administración y controlaba los sindicatos- y la oligarquía financiero-empresarial ligada a consorcios norteamericanos, debutó un periodo de industrialización acelerado, acompañado por la construcción de bloques y carreteras, que cambió radicalmente la morfología de las ciudades mexicanas. Las menos de cincuenta que había en 1930 aumentaron a 174 en 1980, momento en que se consolidó la red viaria. En pocas décadas, la nación pasó con todas sus consecuencias de país rural a urbano.
Bajo un régimen de partido único
atemperado por la corrupción se produjo el salto definitivo del taller a la
fábrica. Efectivamente, el desarrollo de una industria nacional destinada a
sustituir las importaciones protagonizó lo que los dirigentes priistas
calificaron de “milagro económico”, responsable de una desbocada urbanización
centrada en la capital del Estado, la que, con la ayuda primero de los tranvías
eléctricos, trolebuses después, metro a partir de 1962 y, en general, una
variopinta red de transportes de cercanías, empezó a modelar en derredor su propio
decorado. Se rodeó de conurbaciones y para 1970 ya se había convertido en una
metrópolis de once millones de habitantes. La capital era el motor principal de
la economía nacional, su caja de caudales. La oposición entre campo y ciudad se
exacerbó con la mecanización, los plaguicidas y los fertilizantes,
resolviéndose en un éxodo rural que tuvo consecuencias. Definitivamente, la
tierra dejó de ser el crisol de la cultura y la vida social. El desequilibrio
territorial y la desfiguración del paisaje agrario empeoraron aún más con la
extracción de petróleo y la construcción de presas hidráulicas, que forzaron
desplazamientos violentos de pobladores, mientras que la urbe industrial, ante
la oleada de desocupados y la proliferación del automóvil, se veía incapaz de
hacer frente a la demanda de vivienda pública, al déficit del transporte
colectivo, a la falta de equipamientos y a la carencia de infraestructuras. Los
expertos del Estado paternalista eran conscientes del desorden y desarreglo que
el crecimiento económico había provocado en las ciudades, pero lejos de
cuestionarlo, se dispusieron a despachar sus males mediante la “planeación”, es
decir, que buscaron soluciones técnicas en vez de sociales. Los Planes de
Regulación, Desarrollo Urbano y Asentamiento que el Estado autoritario mandó
elaborar a sus técnicos en nombre del orden y el progreso durante los sesenta y
setenta del siglo pasado, traslucían una ideología funcionalista tomada
prestada de los CIAM y la escuela de Chicago. La ciudad se contemplaba ahora
como el espacio de racionalización correspondiente a las exigencias técnicas y
policiales del régimen capitalista. Las calles y plazas públicas se suprimían
como lugares de encuentro, intercambio y libre expresión, para reconvertirse en
espacios de circulación. No nos extrañemos ante el hecho de que la zonificación
o división de la ciudad-máquina en áreas de trabajo, habitación y esparcimiento
recrease una ciudad esquemática a base de agregados, “células” y “zonas”
netamente separadas a la que sus habitantes se habían de adaptar como a un
lecho de Procusto. Se quería entronizar un nuevo orden espacial apoyado en una
arquitectura uniforme y monótona hecha a base de unidades o proyectos
habitacionales (en España se llamaron “polígonos”), naves y ajardinamientos,
reflejo de la mentalidad de aparato cuyo poder pretendía simbolizarse en
rascacielos como la Torre Latinoamericana o el complejo WTC. El resultado fue
un mosaico de fragmentos dispersos sin identidad cuya realización ignoraba las
relaciones sociales al tiempo que alimentaba la especulación inmobiliaria y
facilitaba la dominación. Los alineamientos hausmannianos, ensanches,
corredores, avenidas monumentales y grandes espacios abiertos (como el de la
Plaza Tapatía en Guadalajara) ocasionaron pérdidas patrimoniales importantes y
destruyeron el tejido social de los barrios afectados por la regulación; las
diferencias en el nivel adquisitivo segregaron a las capas pobres de población
e incluso a las clases medias, transfiriéndolas a los suburbios densificados,
reducidos a la función de dormitorio. En paralelo, la burguesía huía del centro
hacia urbanizaciones privadas exclusivas similares a las norteamericanas. Ya
que la velocidad era la característica mayor del progreso económico, el
tránsito rodado era el eje donde pivotaba el urbanismo de los planes
reguladores y los negocios. Su racionalización alumbró trazados rectilíneos
inacabables, glorietas, rotondas, túneles, autopistas y accesos, que, lejos de
vertebrar las nuevas ciudades terminaron por desconyuntarlas. Finalmente, el
crecimiento demográfico explosivo propició la autoconstrucción de asentamientos
irregulares en suelo ocupado no urbanizable por parte del gentío excluido de
todos los mercados, del laboral al de la vivienda, dando lugar a un contraurbanismo
marginal, una eclosión de edificaciones improvisadas que en Brasil se
denominaron favelas, en Chile, callampas, en Venezuela, ranchos, y en
Argentina, villas miseria. Con el tiempo, los frutos de la “tugurización”
llegarían a ocupar entre el 30 y el 60% de la superficie de las metrópolis
latinoamericanas. La creación histórica que llamaron ciudad escapó
definitivamente al control de sus mismos dirigentes perdiendo su forma y sus
límites: sencillamente estalló. Dejó de ser el lugar civilizado de la historia
para ser el escenario salvaje de la economía. La protesta surgió desde dentro,
desde el México culto y “desarrollado”, debido a la ruptura de la juventud de
las nuevas clases medias con el statu quo de la burocracia corrupta. La masacre
de 1968 significó entre otras cosas el final del consenso interclasista
relativo al proceso de modernización tutelada de la sociedad mexicana.
El periodo desarrollista acabó en 1982,
cuando el mercado nacional no pudo sostener la tasa de crecimiento requerida,
sumiendo al país en una crisis profunda que se tradujo en endeudamiento,
pobreza y para variar, en un
sorprendente incremento de la población urbana. La suburbanización prosiguió a
pesar del parón económico: se volvió autónoma. La clase dirigente mexicana,
como todas las demás, obedeció los dictados de la OMC y el FMI y viró hacia el
neoliberalismo. Así pues, mediante diversos tratados y acuerdos eliminó todas
las barreras a las finanzas mundiales, lo que comportaría recortes de
subsidios, privatizaciones de empresas públicas (algunas tan importantes como
la Banca, teléfonos, ferrocarriles, aeropuertos y comunicación por satélite),
el fin del planeamiento urbano, el auge de las maquiladoras y la entrega del
territorio a los promotores turísticos y a las multinacionales extractivas. El
sector terciario tomó la delantera (los servicios constituyeron el 76% del PIB
en el 2000), y, en fin, se produjo un cambio cualitativo en la sociedad
mexicana. En lo sucesivo, el Estado desempeñaría un papel subsidiario de una
economía-mundo que absorbía y digería las economías nacionales. La tendencia a
la concentración poblacional en áreas metropolitanas se acentuó con ese “ajuste
estructural”, y la fuerza centrípeta de las metrópolis se hizo incontrolable.
El conjunto conurbado alrededor de la capital sumaba 27 millones de habitantes
en el 2000. Frank Lloyd Wright, al observar las confusas tramas de las grandes
urbes estadounidenses, dijo que eran “la forma universal de la angustia”. Quince
conurbaciones mexicanas superaban el millón de habitantes, pero el rasgo más
llamativo fue el crecimiento de las ciudades medianas. El número de regiones
metropolitanas en el 2000 se había elevado a 56, con la particularidad de que
las coronas exteriores superaban en habitantes a los centros, evidenciando
claramente la fractura social de una expansión sin sentido. El chabolismo se
hacía ubicuo a la par que la desigualdad: las dos terceras partes de las
viviendas eran autoconstruidas y carecían de los más elementales servicios. La
población urbana alcanzaba los 66 millones, cerca del 70% del total: México
dejaba de ser simplemente urbano para convertirse en un país metropolitano. La
metropolitanización, muy ligada a la mundialización, forzaba una
reconfiguración brutal del territorio. Los imperativos de accesibilidad y
movilidad exigían ahora grandes vías de alta velocidad, un parque
automovilístico extenso, redes privadas de transporte colectivo, amplias zonas
de aparcamiento y nuevos aeropuertos más extensos. En lo que respecta al
transporte publico no rentable, y por lo tanto, de difícil privatización, en
Ciudad de México, por ejemplo, se constituyó en el 2000 una red de autobuses,
la RTP, para atender el desplazamiento en las barriadas marginales hacia
estaciones del metro, pero en los años siguientes se intentó construir un
sistema de corredores (Metrobús) de mayor alcance. Finalmente, tras varios
proyectos fallidos a causa de los conflictos de intereses entre los diferentes
aparatos burocráticos y las constructoras foráneas, en 2008 se inauguró una
línea del tren suburbano de la Zona Metropolitana, “la vía rápida al
bienestar”, o sea, a la globalización. Por otra parte, las necesidades de las
áreas metropolitanas se elevaban exponencialmente: los suministros requerían
presas, acueductos, gasoductos, importaciones, nuevas fuentes de energía, etc.,
y así sucesivamente. En definitiva, el país funcionaba, es un decir, como un
sistema policéntrico metastásico coronado por una megalópolis bien integrada en
el mercado global, sin límites y con un déficit crónico de arterias. El
fenómeno urbano ya estaba en todas partes, se había generalizado, pero a lo
bestia, como no-ciudad, como suburbio total, como reino inhumano de la completa
separación.
La generalización de lo urbano es un
fenómeno universal, pero en los países donde las condiciones reinantes no son
suficientemente capitalistas – y por eso los llaman “subdesarrollados” o “en
vías de desarrollo”- presenta rasgos específicos que intensifican su fragilidad
e inestabilidad. Ya señalamos la multiplicación de los guetos debida al
desarrollo caótico, desenfrenado y autónomo de las aglomeraciones urbanas en
América Latina. La falta de capitales era otra, algo paradójico pues la Zona
Metropolitana del Valle de México fue el principal destino de las inversiones
extranjeras y en ella se concentraron las oficinas de la mayoría las
corporaciones internacionales. El crecimiento hipertrófico informe era una
consecuencia palpable, igual que la insuficiencia, inseguridad y mal
funcionamiento del transporte público, o la congestión endémica del tráfico y
el tiempo perdido dentro de los vehículos, que podía llegar a las seis horas
diarias. Asimismo, los basureros clandestinos, el estrés hídrico de los
acuíferos próximos, la contaminación y el coste ambiental asociado. Otra
especificidad: un factor de estabilización tan importante como las clases
medias, los dos tercios de la población en los países turbocapitalistas, apenas
sobrepasan el tercio en Latinoamérica (menos en el campo, algo más en las
conurbaciones) y no se muestran tan conformistas. En cambio, la exclusión, que
en España se acercaba al 20%, en México sobrepasaba el 40% en 2016 (en el
Distrito Federal era el 64%). Aproximadamente la mitad de los empleos son
precarios, mal pagados y sin cobertura social, y el sector informal de la
economía alcanza el 23% del PIB (en España la economía “sumergida” tiene un
peso similar). El mercado negro del trabajo absorbe más mano de obra que el
sector formal, controlado por sindicatos corrompidos. Seis de cada diez en
México por uno de cada diez en España. Además, medio millón de personas
trabajan para el crimen organizado. La excesiva violencia cotidiana revela no
solo la abundancia de depredadores sociópatas propia de la condición
metropolitana, sino la presencia de una clase numerosa a la que Marx llamó
lumpenproletariado y Jack London denominaba pueblo del abismo. Es la
característica más diferencial de la metropolitanización tercermundista. No se
trata en absoluto de un nuevo sujeto histórico. La rebelión ciega, desesperada
y manipulable del abismo conduce inexorablemente a un escenario mafioso y
prefascista del que solo sacarán partido el Estado represor, los dirigentes
corruptos y las bandas criminales. Fuera de la barbarie urbana pero no a salvo
de ella, en el campo, las sucesivas “reestructuraciones” van directamente
contra la pequeña propiedad, la propiedad colectiva y la soberanía alimentaria.
El modelo de autosuficiencia alimenticia característico de la agricultura de la
Reforma devino un obstáculo para la expansión de las grandes corporaciones
agroalimentarias y la conversión del territorio en capital. La reacción
campesina se revolvió entonces contra la burocracia y la política: ningún
partido ni ninguna institución la representaba. Entonces, la cuestión social ya
no podía mostrarse como simple problema político tal como pretendía la
oposición populista, ni por supuesto solucionarse con elecciones. Por una parte
surgirá como cuestión urbana, y por la otra, como defensa de la tierra. Así
entra en escena una sociedad civil a través de nuevos actores extrapolíticos - jóvenes
urbanitas, mujeres, campesinos, marginados, población movilizada contra
proyectos lesivos- y se inaugura una nueva reflexión crítica antipatriarcal,
ecologista y antidesarrollista. La represión desplegada en su contra indica que
hoy por hoy la correlación real de fuerzas es menos favorable a los opresores,
y que el cambio de tendencia de lo mundial a lo local no es imposible del
todo.
Poderosos intereses corporativos quieren a
todo el territorio -incluido el medio natural, el agua y el subsuelo- liberado
de ataduras comunitarias y tratable como mercancía, a merced de proyectos
desarrollistas de todo tipo. En América Latina, el extractivismo ha tomado la
forma de una guerra de despojo que no duda en emplear métodos terroristas. Sus
responsables no se andan con chiquitas, pues los beneficios en juego son
enormes y la urgencia de las transformaciones desaconseja las negociaciones con
los afectados, siempre largas y complicadas, y, por consiguiente, demasiado
caras. Se compran voluntades y no se retrocede ante las masacres. En
contrapartida, la defensa del territorio coloca en primera línea al
campesinado, y a la cabeza, a las comunidades indígenas. La libertad había
huido de las ciudades que antaño fueron su cuna para reaparecer ahora en el
bando insurgente campesino. Las primeras movilizaciones de los años 70 contra
las plantas petroleras, la construcción de un reactor nuclear, la tala de
bosques de uso comunal, la apertura de minas o los complejos turísticos fueron
la respuesta popular a la explotación industrial de recursos territoriales. No
obstante, las primeras batallas en defensa de la tierra, si bien replantearon
modos de resistencia colectiva frente al capitalismo neoliberal, a la
burocracia estatal, a los sindicatos oficialistas y a las fuerzas del orden, no
cristalizaron un proyecto social alternativo, o mejor, un Plan de autogobierno,
hasta 1994, cuando tuvo lugar el pronunciamiento zapatista de Chiapas.
Culminando un proceso de autoorganización indígena en combate contra los
grandes propietarios y la política represora del gobernador, las comunidades
zapatistas constituyeron un ejemplar escollo contra la marea extractivista.
Significaron el despertar reivindicativo de los derechos del pueblo nativo
(puesta luego de manifiesto en la creación de un Congreso Nacional Indígena),
que, a juzgar por los apoyos obtenidos y las luchas que inspiró en todo el
país, se colocaba de nuevo en el centro de la cuestión social. La reforma del artículo
27 de la Constitución en 1992 que liquidaba las conquistas agrarias de la
Revolución, había caldeado el ambiente, el cual entró en ebullición con la
expropiación criminal de tierras, principalmente ejidales y comunales, de cara
a construir las grandes infraestructuras inútiles que exigía “el progreso y la
modernización”, es decir, el dictamen de los mercados internacionales. Las
movilizaciones autónomas contra la construcción de embalses, las concesiones
mineras y madereras, y, por encima de todo, el conflicto del nuevo aeropuerto
de Atenco, revelaron la defensa del territorio como eje central de la nueva
lucha de clases. A menudo, las luchas por sobrevivir han generado formas de
autogestión, autodefensa y justicia basadas en organismos asamblearios, como en
la Comuna de Oaxaca, el Istmo de Tehuantepec, Santa María Ostula o Cherán.
También han revitalizado el tequio y la ayuda mutua, y reivindicado los
derechos de las mujeres y la autodeterminación de los pueblos. La globalización
ha convertido el territorio en factor estratégico principal, y a sus
defensores, en la personificación del nuevo sujeto revolucionario, ajeno a los
mercados y refractario al Estado y las metrópolis. Dicho sujeto descubre que su
modo de vida, que su propia existencia como comunidad, se opone a la
mercantilización del territorio y encuentra en la autonomía territorial -la
autodeterminación- el primer gran objetivo que hace posible todos las demás. Un
cierto embrión de civilización libertaria florece de nuevo en la tierra.
A pesar de las resistencias, el caudal
subversivo de la defensa del territorio se diluye ante el océano urbano. El
espíritu comunitario -“la alegría recobrada de convivir” de la que habla Raoul
Vaneigem- no ha conseguido entrar en las
metrópolis posmodernas y, por lo tanto, no se han desarrollado en su seno
contrainstituciones autónomas ni formas de vida libres de apremios mercantiles
similares a las agrarias. Bien al contrario, la crítica radical no ha llegado a
influir de forma efectiva en las urbes y los programas anticapitalistas se han
ido arrinconando en beneficio de un posibilismo político ramplón. Por eso, la
reacción anti-neoliberal que despertó el 2000 en el continente y llevó al poder
a movimientos populistas, consagró al Estado como instrumento fundamental de
intervención en la esfera económica y social. Las organizaciones que los
impulsaron o apoyaron fueron invariablemente cooptadas y transformadas en
instrumentos de desmovilización y control, mientras que se levantaban desde
arriba aparatos asistenciales destinados a contener las clases desfavorecidas y
mantenerlas en calma, adormecidas, a base de programas sociales. Dentro de una
economía global inalterada, la maquinaria redistributiva del populismo funcionó
mientras la demanda internacional de materias primas fue pujante, pero la
debacle económica de 2008-2012 obligó a los gobiernos populistas a dar un giro
conservador hacia modelos más extractivistas y desarrollistas a fin de mantener
el voto cautivo. En México, una suerte de nacionalpopulismo interclasista
renació en las metrópolis con la crisis de la partitocracia, y su última
versión no ha tardado en mostrar su verdadera cara con megaproyectos como el
Corredor Transoceánico, el Tren Maya, el nuevo aeropuerto o el Proyecto
Integral de Morelos. Mumford advertía en su libro “La Ciudad en la historia”
que las metrópolis eran “un mundo donde las grandes masas de la población,
incapaces de alcanzar un medio de vida más pleno y satisfactorio, viven su vida
por persona interpuesta, en calidad de electores, espectadores, oyentes y
observadores pasivos.” La complejidad y tamaño de los conglomerados urbanos
prohibían la menor sociabilidad y la más mínima cultura política; por
consiguiente, impedían cualquier planteamiento de clase generalizado. ¿Qué tipo
de proyecto libertario, por ejemplo, podría llevarse a cabo en una
incontrolable tiranópolis de 30 millones de habitantes? A pesar del elevado
grado de desagregación política y social del país, las condiciones patológicas
de una vida urbana extremadamente artificial y dependiente, monetarizada,
centrada en la vida privada, el anonimato y el consumismo individual, no dejan
espacio para la constitución de una sociedad civil apartada del Estado. La
anomia condena la población aprisionada en las conurbaciones a no ser más que
público pasivo, indolente y desmemoriado de un caudillo redentorista, y masa de
maniobra para el “reajuste electoral” de un sistema de partidos en bancarrota.
Las metrópolis han sobrepasado el límite
que las hace gestionables, pues el despilfarro económico que requiere su
administración es imposible de asumir y desemboca en la muerte del fenómeno
urbano. La crisis final del sistema de producción del espacio urbano está
servida y el colapso social será inevitable, por lo que si bien la adaptación
al desastre es la consigna interna del nuevo capitalismo, el desmantelamiento
metropolitano ha de ser el eje del pensamiento crítico y la acción radical
transformadora. Hay que reconstruirlo todo, pero en dirección diametralmente
opuesta a la que indica el capitalismo de la “resiliencia”. La lucha por una
sociedad libre y equilibrada ha de ser una lucha por la ciudad entendida en su
concepción original de comunidad autogobernada en pie de igualdad con su
territorio. No obstante, solamente un proceso desurbanizador y municipalista
que, al crear condiciones propicias para la autonomía en todos sus aspectos,
logre desmontar las metrópolis y provoque un repliegue comunal capaz de
propiciar la vita activa en la que
incidía Hannah Arendt, haría que sus fragmentos autogestionados confluyeran
como espacios de libertad ciudadana en un mismo esfuerzo emancipador con las
comunidades agrarias. Pero tal eventualidad no será posible desde dentro
mientras los flujos de capital sean tan potentes y sigan tan omnipresentes. Una
estrategia antidesarrollista que buscara la salida del capitalismo debería
tratar de cortocircuitarlos. Recuperar
la memoria, desmercantilizar el mundo, desmetropolitanizar la vida. Esa es la
cuestión.
Miguel Amorós.
Contribución
al seminario La lucha por la vida en las ciudades. Defensa del territorio,
irrupciones subterráneas, proyectos de autonomía, organizado por la
Cátedra Jorge Alonso de la Universidad de Guadalajara (México). Sesión del
16-06-2021.