lunedì 18 novembre 2019

MANIFESTO PER I “PRODOTTI” DI ALTA NECESSITA' Martinica-Guadalupe-Guyana-Reunion





jardin-kreyol de Balata


Camarades, (splendida parola francese che abbraccia compagne e compagni senza distinguo di genere)
Vi ho tradotto da un bel francese creolo questo documento ormai vecchio di qualche anno (2009) che contiene molte specificità ma anche stati d’animo, dubbi, riflessioni e prese di coscienza che l’attualità torna a mettere prepotentemente al centro dell’attenzione. Non è facile per dei poveri europei cogliere pienamente la specificità creola, ma l’apporto di lucidità poetica di questo testo mi pare importante. A voi di valutare la sua attualità internazionalista.
Dovunque, infatti, in un pianeta malato dei suoi mammiferi umanoidi, il totalitarismo light di una democratura elettoralistica diffusa come un antidoto truffaldino alle arcaiche dittature esplicite, non nasconde più alle popolazioni arrabbiate e scontente la realtà di classe di una democrazia parlamentare che non è altro che la difesa accanita dei privilegi di una casta oligarchica dall'’hybris patologica.
Il testo che segue è certamente chiaro su un punto centrale: nella specificità della loro nazione caraibica gli autori ci ricordano che ogni alternativa alla mondializzazione produttivista presuppone la rivalutazione del “mangiare-paese” (le manger-pays), cioè la ricostituzione di un’autonomia locale perduta politicamente e socialmente. Ciò è vero dappertutto, ben oltre la loro situazione in gran parte insulare di colonie di oltremare. Sotto il dominio del Capitale reale, siamo comunque tutti degli indigeni pesantemente colonizzati da un sistema produttivo che ha fatto del profitto il dogma assoluto e dei cittadini degli aborigeni da sottomettere al totalitarismo della merce venuta a civilizzarli.
Nella civiltà produttivista, la nazione non è che la comunità immaginaria dello Stato così come la massa dei consumatori è la comunità immaginaria del mercato. Con lo Stato, la comunità sparisce e poiché lo Stato è incompatibile con la democrazia reale, quest’ultima non potrà realizzarsi che attraverso un’organizzazione consiliare diretta e autogestita della cosa pubblica e del quotidiano comune di ogni nazione antropologica radicata nel locale e sensibile a una fraternità planetaria.
La fine del produttivismo, del capitalismo e delle gerarchie che confortano il dominio di entrambi gli aspetti del Leviatano (Stato e Mercato) sono l’unica alternativa possibile al tracollo tragico già in corso della società umana esistente. Attendere ancora, prima di rovesciare radicalmente la prospettiva della vita, comporta il rischio crescente di una decisione diventata inutile perché tardiva.
Una rabbia e una lucidità nuove si manifestano oggi, prepotentemente, dal Cile al Rojava, dall’Algeria a Hong Kong, passando per l’Ecuador, ma anche altrove e di nuovo in Francia, lumière spesso anticipatrice di un’Europa ancora assopita nel suo recente super Stato economicista.
Che l’uguaglianza degli ineguali che siamo, diversi per genere, convinzioni, desideri, fantasie e creatività ci guidi tutti verso una libertà autogestita da tutte e da tutti, per tutte e per tutti. E che la radicalità che la poesia di questo testo esprimeva già qualche anno fa, anticipando l’eruzione recente dei Gilet Jaunes francesi, ci aiuti a migliorare le nostre coscienze e a tradurle in pratica emancipatrice dovunque noi siamo.
Sergio Ghirardi
Martinica-Guadalupe-Guyana-Reunion
MANIFESTO PER I “PRODOTTI” DI ALTA NECESSITA
Ernest BRELEUR, Patrick CHAMOISEAU, Serge DOMI, Gérard DELVER, Edouard GLISSANT, Guillaume PIGEARD DE GURBERT, Olivier PORTECOP, Olivier PULVAR, Jean-Claude WILLIAM

Nel momento in cui il signore, il colonizzatore proclamano “qui non c’è mai stato un popolo”, il popolo che manca è un divenire, s’inventa nelle bidonville e nei campi, oppure nei ghetti, nelle nuove condizioni di lotta alle quali un’arte necessariamente politica deve contribuire.
Gilles Deleuze, L’Image-temps
Ciò non può significare che una cosa: non che non c’è via di uscirne, ma che l’ora è venuta di abbandonare tutte le vie antiche.
Aimé Césaire, Lettera a Maurice Thorez

È con piena solidarietà e senza alcuna riserva che noi salutiamo il profondo movimento sociale che si è istallato in Guadalupe, poi in Martinica e che tende ed espandersi in Guyana e nell’isola della Réunion. Nessuna delle nostre rivendicazioni è illegittima. Nessuna è irrazionale in se e soprattutto non più enorme dei meccanismi del sistema con il quale si confronta. Nessuna di esse deve dunque essere negletta in quel che rappresenta, né in quel che implica riguardo all’insieme delle altre rivendicazioni. La forza di questo movimento è, infatti, di avere saputo organizzare su una stessa base quel che finora si era visto separatamente, vuoi isolato nella cecità categoriale – per esempio le lotte finora inaudibili nelle amministrazioni, negli ospedali, nelle scuole, negli stabilimenti, nelle collettività territoriali, nel mondo associativo, in tutte le professioni artigianali o liberali ...
Tuttavia, il più importante è che per la dinamica del Lyannaj [1] – che significa andare e raggruppare, legare riunire e collegare tutto quel che si trovava desolidarizzato – la sofferenza reale della maggior parte della gente (confrontata a un delirio di concentrazioni economiche, di alleanze e di profitti) si ricongiunge con aspirazioni diffuse, ancora difficili da esprimere ma ben reali, tra i giovani, gli adulti, i dimenticati, gli invisibili e altri sofferenti indecifrabili delle nostre società. La maggior parte di quelli che sfilano in massa scopre (o ricominciano a ricordarsi) che si può prendere l’impossibile per il collo o scalzare il trono della nostra rinuncia di fronte alla fatalità.
Questo sciopero è dunque più che legittimo e più che benefico e quanti titubano, temporizzano, tergiversano, rinunciano a dargli delle risposte decenti, si rimpiccoliscono e si condannano. Per conseguenza, dietro la prosaicità del “potere d’acquisto” o della “borsa della spesa” si profila l’essenziale che ci manca e che dà un significato all’esistenza, vale a dire il poetico. Ogni vita umana un po’ equilibrata si articola tra le necessità immediate del bere-sopravvivere-mangiare (in chiaro: il prosaico) da un lato e dall'’altro l’aspirazione a un appagamento di se stessi che si nutre della dignità, dell’onore, della musica, di canti, di sport, di danze, di letture, di filosofia, di spiritualità, d’amore, di tempo libero dedicato al compimento del grande desiderio intimo (cioè il poetico). Come propone Edgar Morin, il vivere per vivere così come il vivere per sé, non sboccano su nessuna pienezza senza il donare da vivere a quel che noi amiamo, a quelli che amiamo, agli impossibili e ai superamenti ai quali aspiriamo. “L’aumento dei prezzi” o “la vita cara” non sono dei piccoli diavoli ziguidi[2] che sorgono davanti a noi per crudeltà spontanea o semplicemente dalla coscia di qualche puro béké[3]. Sono i risultati di una dentatura di sistema in cui regna il dogma del liberalismo economico. Quest’ultimo si è impadronito del pianeta, pesa sulla totalità dei popoli e presiede in tutti gli immaginari – non a un’epurazione etnica ma a una sorta di epurazione etica (intendere disincanto, dissacrazione, desimbolizzazione e persino decostruzione) di tutto il fatto umano.
Questo sistema ha confinato le nostre esistenze in individuazioni egoistiche che ci sopprimono ogni orizzonte e ci condannano a due miserie profonde: essere “consumatore” oppure essere “produttore”. Il consumatore non lavora che per consumare quel che produce la sua forza-lavoro diventata merce; mentre il produttore riduce la sua produzione all’unica prospettiva di profitti senza limiti per dei consumi fantasmatici senza confini. Il tutto apre a quella socializzazione antisociale di cui parlava Gorz in cui l’economico diventa dunque la sua stessa finalità e diserta tutto il resto. Allora, quando il “prosaico” non apre alle elevazioni del “poetico”, quando diventa la sua stessa finalità e dunque si consuma, abbiamo tendenza a credere che le aspirazioni della nostra vita e il suo bisogno di senso, possano situarsi nei codici barre che sono il “potere d’acquisto” o “la borsa della spesa”. E peggio: finiamo per pensare che la gestione virtuosa delle miserie più intollerabili dipenda da una politica umana o progressista. È dunque urgente accompagnare i prodotti di prima necessità con un’altra categoria di derrate o di fattori che rileverebbero decisamente di “un’alta necessità”.
Per quest’idea di “alta necessità” invitiamo a prendere coscienza del poetico già all’opera in un movimento che, oltre il potere d’acquisto, porta in sé un’esigenza esistenziale reale, un richiamo molto profondo agli aspetti più nobili della vita.
Allora che cosa mettere in questi “prodotti” di alta necessità?
È tutto quel che costituisce il cuore del nostro sofferto desiderio di fare popolo e nazione, di entrare in dignità sul grande palcoscenico del mondo con un’esigenza che non si trova oggi al centro dei negoziati in Martinica o in Guadalupe ma che si esprimerà presto, senza dubbio, in Guyana e alla Réunion.
Prima di tutto, non si potranno avere miglioramenti sociali soddisfatti di se stessi. Ogni avanzata sociale non si compie veramente che in un’esperienza politica capace di trarre le lezioni strutturanti da quel che è successo. Questo movimento ha messo in luce il tragico sgretolamento istituzionale del nostro paese e l’assenza di potere che gli serve da ossatura. Il “determinante”, oppure il “decisivo”, si ottiene tramite dei viaggi o per telefono. La competenza non arriva che tramite emissari. La disinvoltura e il disprezzo circolano a tutti i livelli. La distanza, la cecità e la deformazione presiedono alle analisi. Gli pseudo poteri Regione-Dipartimento-Prefetto, così come quella cosa che è l’associazione dei sindaci, hanno mostrato la loro impotenza e persino il loro disfacimento, quando una seria rivendicazione di massa si esprime in un’entità culturale storica, identitaria, umana, distinta da quella della metropoli amministrante, ma che non si è mai vista trattare come tale. Gli slogan e le domande hanno subito saltato oltre i nostri “presidenti locali” per andarsene altrove. Purtroppo, ogni vittoria sociale così ottenuta (con questo salto oltre a noi stessi) che si fermasse lì, rinforzerebbe la nostra assimilazione, confortando dunque la nostra inesistenza nel mondo e i nostri pseudo poteri.
Questo movimento deve dunque germogliare in visione politica la quale dovrà aprirsi a una forza politica di rinnovamento e di proiezione atta a farci accedere alla responsabilità di noi per noi stessi e al potere di noi su noi stessi. Anche se un tale potere non risolvesse davvero nessuno di questi problemi, ci permetterebbe almeno di abbordarli finalmente in sana responsabilità, affrontandoli dunque, anziché acquiescere alle gestioni esterne. La questione békee e dei ghetti che germogliano qui e là è una piccola questione che una responsabilità politica endogena può risolvere. Lo stesso vale da tutti i punti di vista per la ripartizione e la protezione delle nostre terre così come per l’accoglienza preferenziale dei nostri giovani. Quella di un’altra giustizia o della lotta contro il flagello della droga ne dipende largamente ... Il deficit di responsabilità crea amarezza, xenofobia, paura dell’altro, diminuzione della fiducia in se stessi... La questione della responsabilità è dunque di alta necessità. È nell’irresponsabilità collettiva che proliferano i blocchi persistenti negli attuali negoziati. Ed è nella responsabilità che si acquisisce l’inventività, la souplesse, la creatività, la necessità di trovare delle soluzioni endogene praticabili. È nella responsabilità che lo scacco o l’impotenza diventano occasioni di effettiva esperienza e di maturazione. È con la responsabilità che si tende più rapidamente e positivamente verso quel che è essenziale tanto nelle lotte che nelle aspirazioni o nelle analisi.
In seguito, c’è l’alta necessità di comprendere che il labirinto oscuro e inestricabile dei prezzi (margini, sottomargini, commissioni occulte e profitti indecenti) è iscritto in una logica del sistema liberale mercantile che si è esteso a tutto il pianeta con la forza cieca di una religione. Gli organi di potere sono anche infognati in un’assurdità coloniale che ci ha sviato dal nostro “mangiare-paese”, dal nostro ambiente prossimo e dalle nostre realtà culturali per consegnarci ai modi alimentari europei senza pantaloni e senza jardins bo kay [4]. È come se la Francia fosse stata formattata per importare tutta la sua alimentazione e i suoi prodotti di grande necessità da molte migliaia di chilometri. Negoziare in questo quadro coloniale assurdo con l’insondabile catena degli operatori e degli intermediari può certamente alleviare qualche sofferenza nell’immediato; tuttavia, l’illusorio beneficio di questi accordi sarà presto spazzato via dal principio del “Mercato” e da tutti quei meccanismi che creano una nube di voracità (dunque dei comportamenti approfittatori nutriti dallo “spirito coloniale” e regolati dalla distanza) che i premi, i geli, gli arrangiamenti virtuosi, le riduzioni opportuniste, risibili trucchi del dominio d’oltre mare, non potrebbero limitare.
C’è dunque un’alta necessità di viverci come caraibici nei nostri import-export vitali, di pensarci americani per la soddisfazione delle nostre necessità, della nostra autosufficienza energetica e alimentare. L’altra altissima necessità è poi d’iscriversi in una contestazione radicale del capitalismo contemporaneo che non è una perversione ma precisamente la pienezza isterica di un dogma. L’alta necessità è di tentare subito di gettare le basi di una società non economica in cui l’idea di sviluppare una crescita continua sarebbe scartata a vantaggio della realizzazione di una condizione in cui, impiego, salario, consumo e produzione sarebbero dei luoghi di creazione di sé e di compimento dell’umano. Se il capitalismo (nel suo principio più puro che ne è la forma contemporanea) ha creato questo Frankenstein consumatore che si riduce al suo paniere di necessità, genera anche dei ben miseri “produttori” – padroni, impresari e altri socio professionisti inetti – incapaci di affliggersi di fronte a un aumento improvviso di sofferenza e all’imperiosa necessità di un altro immaginario politico, economico, sociale e culturale. E in proposito non ci sono campi differenti. Siamo tutti vittime di un sistema sfuocato, globalizzato, che dobbiamo affrontare insieme. Operai e piccoli padroni, consumatori e produttori, portano in loro, da qualche parte, silenziosa ma irriducibile, quell’alta necessità che bisogna risvegliare: vale a dire il vivere la vita e la propria vita elevandola costantemente verso la sua forma più nobile e più esigente, dunque la più soddisfacente.
Ciò che significa vivere la propria vita e la vita collettiva con tutta l’ampiezza del poetico.
Si può mettere in ginocchio la gran distribuzione mangiando sano e altrimenti.
Si possono mettere fuori gioco la SARA (Società Anonima della Raffineria delle Antille) e le compagnie petrolifere rompendo con il tutto automobile.
Si possono bloccare le agenzie dell’acqua, i loro prezzi esorbitanti, prendendo in conto, immediatamente, la minima goccia come un bene prezioso da proteggere dappertutto, da utilizzare come fossero gli ultimi spiccioli di un tesoro che appartiene a tutti.
Non si può vincere né superare il prosaico restando nella caverna del prosaico; bisogna aprirsi al poetico, alla decrescita, alla sobrietà. Nessuna delle istituzioni oggi tanto arroganti e potenti (banche, multinazionali, supermercati, business men della salute e della telefonia mobile ...) saprebbe né potrebbe resistergli.
Infine sulla questione dei salari e dell’impiego. Anche a questo proposito bisogna determinare l’alta necessità.
Il capitalismo contemporaneo riduce la parte salariale nella misura in cui aumenta la sua produzione i suoi profitti. La disoccupazione è una conseguenza diretta della diminuzione del suo bisogno di mano d’opera. Quando delocalizza, non è alla ricerca di una mano d’opera abbondante, ma si preoccupa di un crollo accelerato della parte salariale. Ogni deflazione salariale produce dei profitti che vanno immediatamente nel gran gioco della finanza. Reclamare un aumento di salario conseguente non è dunque per nulla illegittimo: è l’inizio di un’equità che deve diventare mondiale.
Quanto all’idea del “pieno impiego”, ci è stata introdotta nell’immaginario dalle necessità dello sviluppo industriale e dalle epurazioni etiche che l’hanno accompagnato. Il lavoro era all’origine iscritto in un sistema simbolico e sacro (d’ordine politico, culturale, personale) che ne determinava le estensioni e il senso. Sotto la regia capitalista ha perso il suo senso creatore e la sua virtù realizzatrice nella misura in cui diventava nello stesso tempo, a detrimento di tutto il resto, un semplice “impiego” e l’unica colonna vertebrale delle nostre settimane e dei nostri giorni. Il lavoro ha finito per perdere ogni significato quando, diventato esso stesso una semplice merce, si è messo a non rendere possibile che il consumo.
Siamo ormai in fondo al baratro.
Dobbiamo reinstallare il lavoro in seno al poetico. Per quanto accanito, faticoso esso sia, che torni a essere un luogo di realizzazione, d’invenzione sociale e di costruzione di sé, altrimenti che sia solo un utensile secondario tra altri. Esistono miriadi di competenze, di talenti, di creatività, di follie benefiche che si trovano in questo momento sterilizzate nei corridoi dell’ANPE (Agence Nationale Pour l’Emploi) e nei campi senza filo spinato della disoccupazione strutturale nata dal capitalismo. Anche quando ci saremo sbarazzati del dogma mercantile, i progressi tecnologici (votati alla sobrietà e alla decrescita selettiva) ci aiuteranno a trasformare il valore lavoro in una specie di arcobaleno che va dal semplice utensile accessorio fino all’equazione di un’attività ad alta incandescenza creatrice. Il pieno impiego non farà parte del prosaico produttivista, ma s’intenderà per quel che si può creare di socializzazione, di autoproduzione, di tempo libero, di tempo morto, per quel che potrà permettere di solidarietà, di condivisione, di sostegno ai più in difficoltà, di rivitalizzazione ecologica del nostro ambiente ... Si coglierà in “tutto quel che fa sì che la vita valga la pena di essere vissuta”.
Ci sarà del lavoro e dei salari di cittadinanza in quel che stimola, che aiuta a sognare, che spinge a meditare e che apre la via alle delizie della noia, che istalla nella musica, che orienta verso un’escursione nel paese dei libri, delle arti, del canto, della filosofia, dello studio o del consumo di alta necessità che invita alla creazione – creaconsumo.
In valore poetico, non esistono né disoccupazione, né pieno impiego, né assistenzialismo ma auto rigenerazione e auto organizzazione, ma del possibile all’infinito per tutti i talenti, tutte le aspirazioni. In valore poetico, il PIB delle società economiche rivela la sua brutalità.
Ecco un primo paniere di esigenze che portiamo a tutti i tavoli di discussione e ai loro prolungamenti: che il principio di gratuità sia stabilito per tutto quel che permette un distacco delle catene, un’amplificazione dell’immaginario, uno stimolo delle facoltà cognitive, una messa in creatività di tutti, uno sbocco autonomo dell’intelligenza sensibile. Che questo principio marchi il cammino verso i libri, i racconti, il teatro, la musica, il ballo, le arti visive, l’artigianato, la cultura e l’agricoltura ...
An gwan lodyans[5] che non teme né fugge i grandi brividi dell’utopia.
Invitiamo dunque a quelle utopie in cui il politico non sarebbe ridotto alla gestione delle miserie inammissibili né alla regolazione delle barbarie del “Mercato”, ma dove ritroverebbe invece la sua essenza al servizio di tutto quel che conferisce un’anima al prosaico, superandolo o usandolo nella maniera più stretta.
Facciamo appello a un’alta politica, a un’arte politica che istalli l’individuo, la sua relazione all’Altro, al centro di un progetto comune dove regni quel che la vita ha di più esigente, di più intenso e di più eclatante, dunque di più sensibile alla bellezza.
Così, cari compatrioti, sbarazzandoci degli arcaismi coloniali, della dipendenza e dell’assistenzialismo, iscrivendoci risolutamente nella realizzazione ecologica dei nostri paesi e del mondo a venire, contestando la violenza economica e il sistema mercantile, noi nasceremo al mondo con una visibilità aumentata dal superamento del capitalismo e da un rapporto ecologico globale con gli equilibri del pianeta ...
Allora, ecco la nostra visione: piccoli paesi improvvisamente nel cuore nuovo del mondo, improvvisamente immensi per essere i primi esempi di società postcapitaliste, capaci di mettere in atto una realizzazione umana che s’iscrive nell’orizzontale pienezza del vivente ...



[1] Nella lingua della Guadalupe, lyannaj significa il legame collettivo, neologismo forgiato durante gli anni di lotta dal LKP (Liyannaj Kont Pwofitasyon, Alleanza contro il profitto) il cui porta parola è Elie Domata.
[2] Riferimento alle favole di Guyana di Alfred et Auguste Saint-Quentin (19° secolo) riprese da Pierre Appolinaire Stephenson per i bambini e i loro genitori.
[3] Creoli delle Antille con ascendenti bianchi.
[4] Questo giardino creolo s’iscrive in una lunga tradizione dall’epoca degli indiani kalinagos e dei loro « ichalis ». Vero riflesso della cultura creola, è un misto d’influenze amerindie, africane, europee … Giardino di auto sussistenza per eccellenza, vi si mescolano le piante commestibili, le piante medicinali e le piante ornamentali in un sapiente insieme nello spazio e nel tempo che permette una produzione familiare abbondante in uno spazio ristretto. Un vero modello per l’agroecologia.
[5] Elogio di un genere letterario di origine haitiana – La lodyans – caratterizzato da un discorso breve
simile al racconto.