Democrazia radicale
La
democrazia radicale è incompatibile con l’economia politica la cui messa in
discussione è immediatamente la critica radicale dell’appropriazione privativa.
Questa critica non è tanto quella dell’atto spontaneo di appropriarsi di
qualcosa per la propria utilità o piacere, quanto del fatto di compierlo
danneggiando gli altri, escludendoli dal loro sacrosanto diritto di avere accesso allo stesso bene e alla qualità
di vita che esso può soggettivamente secernere. Non è dunque la proprietà che
pone problema ma la sua privazione per tutti gli altri. La soluzione del
problema è dunque una sola: la creazione di un’abbondanza qualitativa e la sua
distribuzione equa per tutti. Questa concreta uguaglianza dei diseguali, tema di cui parla con cognizione di
causa Murray Bookchin, si oppone alla diseguaglianza di fatto dei cittadini formalmente
uguali nella democrazia fittizia, rappresentativa e parlamentarista, architettata
dai dominanti. Una democrazia reale, incompatibile con lo Stato, presuppone,
infatti, un’organizzazione orizzontale e acratica di una socialità che Marx
definiva precisamente, nel suo tedesco originario, gemeinwesen – comunità umana organica, storicamente la Comune.
Non
c’è dubbio che neppure il comunismo autoritario restituisce il potere al
popolo. Il punto più debole dell’ideologia comunista, debitrice di Marx ed
evoluta in peggio dopo di lui, è la critica della proprietà privata personale
sostituita dalla “nazionalizzazione” che dissimula, di fatto, un’appropriazione
statale della proprietà parallela e sintonica con la dottrina della violenza
legittima di cui lo Stato si pretende il depositario. Lo Stato, non il popolo, è
il nuovo proprietario esclusivo, cioè privativo, di cui i burocrati del Partito
sono i gestori autoritari che sottomettono e prendono possesso della comunità.
Il
fenomeno politico comunista è stato storicamente l’appropriazione spettacolare concentrata
da parte di una burocrazia politica della comunità, laddove la democrazia rappresentativa
del capitalismo liberale è soltanto la caricatura spettacolare diffusa dell’esigenza
di autogestione della vita quotidiana confiscata da una burocrazia economica al
servizio dei possidenti arcaici. Tanto la continuità liberale del produttivismo
che la sua rivoluzione ideologica sedicente comunista, confermano il diritto di
proprietà nella forma dell’appropriazione privativa garante del produttivismo
originario. In entrambi i casi, i beni comuni spariscono e di comune resta solo
l’etichetta statale, nemica intima della comunità umana. Lo Stato nasce,
infatti, storicamente, come alternativa alla comunità umana. Esso contrappone
la sua gemeinschaft (comunità
artificiale, societas, basata su
un’associazione di commercianti e guerrieri che garantiscono la schiavitù e le servitù
necessarie al funzionamento del produttivismo) alla gemeinwesen strutturale delle comunità organiche. La gemeinschaft è l’ambito della
progressiva artificializzazione della socialità.
Società e socialità
La
socialità è la tendenza umana all’aiuto reciproco e alla solidarietà laddove il
sociale è il livello raggiunto in concreto da questa tendenza. Meno il sociale
realizza la socialità, più l’individualismo dell’economia politica genera la
sua società artificiale espellendone tutte le manifestazioni sopravvissute della
gemeinwesen come “asociali”, appunto
perché organiche – non civilizzate. La società civile è storicamente la
socialità artificiale imposta dallo Stato ai suoi sudditi, cioè il controllo
autoritario della socialità umana organica. Così, nei tempi moderni,
l’Antropocene ha instaurato e diffuso una civiltà alienata e reificata in lotta
perentoria contro ogni scintilla di Rinascimento e Illuminismo, movimenti
emancipatori recuperati e ridotti a fragili voti di un’umanità in via di
archiviazione.
La
trappola economicista è fondata su questo stratagemma: una volta instaurata
l’appropriazione privativa giustificata come una proprietà personale, nessuna
riforma può più rimetterla in discussione radicalmente. L’economia politica è
come il nucleare: una volta in marcia solo gli specialisti dell’una come
dell’altro possono interrompere il processo in corso, sotto pena di gravi
rischi per l’incolumità degli individui coinvolti. Questo ricatto,
congiuntamente tecnocratico e politico, rischia oggi di rendere l’artificialità
ineluttabile per inquietante e deleteria che sia. Non si può fermare il
progresso... verso il baratro.
Per
uscire dalla trappola, l’umanità è dunque costretta a una delicata transizione contro
la quale il Leviatano usa il metodo descritto nel Gattopardo di Tommasi di Lampedusa: “Che tutto muti affinché nulla cambi dell’essenziale” – vale a dire
il processo feticistico di valorizzazione economica della merce in tutte le sue
manifestazioni, dalle cose alla forza lavoro (compresa l’energia consumistica),
merce tra le merci.
Meglio
delle rivoluzioni sociali incompiute, troppo spesso inquinate da un estremismo
che ne impedisce la radicalità, le pandemie hanno oggettivamente innescato un
inizio di transizione verso una società più egualitaria, obbligando il potere a
ridurre o interrompere temporaneamente la sua logica privativa e il suo
sfruttamento cinico della forza lavoro. È verificato storicamente[1] che ogni epidemia
pestifera ha diminuito incredibilmente le disuguaglianze aprendo un varco alla
decisione collettiva della loro sparizione. Il fenomeno si è registrato
puntualmente, prima che l’economia politica ristabilisse il dominio dopo ogni
crisi epidemica. Tuttavia, nessuna riforma agraria (la proprietà della terra è
l’appropriazione privativa che favorisce tutte le altre fino alla schiavitù),
molto spesso storicamente accompagnata da una grande violenza dopo ogni crisi
pandemica, ha mai fatto regredire radicalmente e definitivamente le
disuguaglianze[2].
Tutte
le pandemie della storia hanno drasticamente ridotto le disuguaglianze come un
effetto meccanico cui è mancata una coscienza umana capace di spingere il
processo fino al superamento dell’economia politica nella sintesi dialettica di
una società organica totalmente nuova. Il Leviatano produttivista ha sempre saputo
riprendere in mano le redini del sociale indebolito dalla pandemia di turno, ristabilendo
sempre lo sfruttamento d’origine sui beni comuni e sul lavoro umano. Cosi è
stato fino a ieri (quando la popolazione mondiale era ancora di un miliardo e trecentomila
individui nel 1830) in conseguenza di un tasso di mortalità pandemica giunto
talvolta fino al 50% della popolazione. Oggi, invece, una crescita demografica
forsennata, arrivata ormai oltre i sette miliardi di persone, ha reso caduco il
rapporto tra il numero di vittime della peste e l’aumento del costo della
forza-lavoro.
L’abbondanza
sovra numeraria dei potenziali lavoratori sopravvissuti al virus riduce il
rischio meccanico di una diminuzione automatica delle disuguaglianze
economiche. Tuttavia, il rischio nuovo di una fine della specie sposta il
cursore della coscienza umana che determina i comportamenti verso una coscienza
di specie obbligata a confrontarsi con l’insieme di artificializzazioni omicide
operate da un Antropocene fuori controllo.
Diventa
dunque urgente accompagnare la pur necessaria letteratura poetica e sociologica
anticapitalista oltre i lamenti e gli esorcismi politici, con un progetto di
transizione concreto che non permetta il recupero da parte dell’economia
politica dell’insurrezione inevitabile. La questione ormai non è se ci sarà una
rivoluzione sociale, ma chi ne sarà il soggetto durante il delicato e inevitabile
periodo di transizione. Passaggio necessario per gettare le basi di un nuovo
mondo umano e solidale perché le sue radici sono, purtroppo, impiantate in una
storia ampiamente manipolata dai vincitori diversi che l’hanno scritta e
diffusa. Tanto più oggi con la facilità e l’abbondanza becera del virtuale.
Tutte
le ideologie rivoluzionarie (cioè le peggiori nemiche della teoria/prassi
rivoluzionaria da produrre collettivamente come un primo risultato concreto dell’autogestione
generalizzata della vita quotidiana) hanno installato il loro potere controrivoluzionario
secondo i metodi totalitari con cui i Bolscevichi al potere hanno osannato il sedicente
socialismo sovietico come un antipasto della società comunista, mentre si
trattava dell’ennesima restaurazione omicida dell’economia politica. L’ironia
della storia vuole che il sottotitolo di tutte le opere maggiori marxiane dal
1857 fino al Capitale (diventato la Bibbia dell’ideologia comunista, ma usato perversamente
al meglio dai capitalisti liberali più svegli) sia: Per la critica dell’economia politica.
Una
critica assai poco comunista, finita a fucilate contro il popolo e una
repressione feroce a Cronstadt e nella Machnovcina ucraina, che ha internato i
rivoluzionari, i disubbidienti e tutti i recalcitranti in Siberia, dietro il
muro di Berlino, in Cina, in Cambogia eccetera, mentre la forma volgarmente liberale
di una peste produttivista plurimillenaria continuava la sua opera mafiosa nel
resto capitalista del mondo cosiddetto libero, libero soltanto di sottomettersi
volontariamente al lavoro forzato di un salariato diffuso quanto il feticismo
della merce.
Il mondo post Covid 19/84
Non
credo assolutamente che una continuità con il passato sia possibile. L’ennesima
pandemia prodotta dall’incrociarsi del progresso produttivista con la sua
alienazione in maniera finalmente visibile (visibilità che mancava ai molti
episodi precedenti d’invasioni virali micidiali) implica la presa di coscienza
umana che un altro mondo possibile è ormai necessario. Se l’uomo non si decide
a rispettare la natura di cui fa parte, ne pagherà il prezzo definitivo perché
la natura non si vendica, ma continua il suo corso. Nessun vaccino ci riporterà
al mondo di prima. Nel migliore dei casi (e non evoco i peggiori possibili) obbligherà a bucarsi ripetutamente come eroinomani, non per anestetizzarsi in
paradisi artificiali, ma per potere uscire e continuare a consumare in
purgatori consumistici che assomiglieranno sempre di più a un artificiale
inferno planetario.
La
pubblicità della merce, merci-cose e merci umane ormai equiparabili in un mondo
virtuale che le accomuna, è più invadente che mai, virus o non virus, ma sempre
più ridicola, patetica, stupida, insopportabile. Non si rendono ancora ben conto,
i sacerdoti della merce, che il loro è ormai un discorso inaudibile che rischia
di produrre se non una coscienza radicale delle reazioni patologiche sempre più
irrazionali e violente come tutti gli oscurantismi religiosi hanno sempre
prodotto e continuano a farlo. I suicidi e gli omicidi sono e saranno
conseguenza del confinamento della vita in una sopravvivenza ormai chiaramente
claustrofobica ma che era già insopportabile prima che lo diventasse
visibilmente con la lente d’ingrandimento del Covid 19/84.
Il
loro mito della sicurezza che usano per addomesticare le orde di servitori volontari terrorizzati che li seguono, alimenta
in realtà sempre di più la violenza diffusa al quotidiano. La distruzione
dell’umano, dell’altro come simile ridotto a portatore potenziale della peste,
potenziale terrorista, vuoi un nemico di genere, di “razza” o di nazionalità, corrobora
la peste emozionale che il produttivismo veicola fin dalle origini, quando
l’irruzione della morale sessuale patriarcale ha introdotto il dominio, lo
stupro e il furto nelle società a centralità femminile acratica, disfacendola[3].
Siamo
al redde rationem, non più socialismo o barbarie ma umano organico
o disumano artificiale, transumanista.
E
qui mi fermo, per ora, ma non per smettere. Per cominciare insieme.
Sergio
Ghirardi Sauvageon, 6 maggio 2021
[1] Walter
Scheidel, Une histoire des inégalités –
de l’age de pierre au XXI siècle, Actes Sud, Arles 2021.
[2] Walter Scheidel, op.
cit.
[3] B.
Malinowski, La vita sessuale dei selvaggi
nella Melanesia nord-occidentale, Feltrinelli, Milano 1968; B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale,
Newton Compton, Roma 1973; W. Reich, L’irruzione
della morale sessuale coercitiva, Sugar, Milano 1972; Marija Gimbutas, « The Three Waves
of Kurgan People into Old Europe, 4500-2500 BC », Archives suisses
d’anthropologie générale, 1979, vol. 43, n° 2, pp. 113-137.
LA VIE – Biens communs et
propriété privée
Démocratie radicale
La démocratie radicale est incompatible avec l’économie politique dont la
mise en discussion est immédiatement la critique radicale de l’appropriation
privative. Cette critique ce n’est pas tant celle de l’acte spontané de
s’approprier quelque chose pour sa propre utilité ou son plaisir , mais
plutôt le fait de le faire en nuisant aux autres, en les excluant de leur droit
sacro-saint d’avoir accès au même
bien et à la qualité de vie que celui-ci peut sécréter subjectivement. Ce n’est
donc pas la propriété qui pose problème mais sa privation pour tous les autres.
Il n’y a donc qu’une seule solution au problème : la création d’une abondance
qualitative et sa distribution équitable pour tous. Cette concrete egalité des inégaux, thème dont Murray
Bookchin parle en connaissance de cause, s’oppose à l’inégalité factuelle des citoyens
formellement égaux de la démocratie fictive, représentative et parlementariste,
échafaudée par les dominants. Une démocratie réelle, incompatible avec l’Etat,
présuppose, en fait, une organisation horizontale et acratique d’une socialité que
Marx définissait précisément, dans son allemand d’origine, gemeinwesen – communauté humaine organique, historiquement la Commune.
Il n’y a pas de doute que le communisme autoritaire non plus ne restitue le
pouvoir au peuple. Le point le plus faible de l’idéologie communiste, redevable
à Marx et évoluée en pire après lui, est la critique de la propriété privée
personnelle remplacée par la « nationalisation » qui dissimule, en
fait, une appropriation étatique de la propriété parallèle et en syntonie avec la
doctrine de la violence légitime dont l’Etat se prétend le dépositaire. L’Etat,
et non pas le peuple, est le nouveau propriétaire exclusif, c'est-à-dire
privatif, dont les bureaucrates du Parti sont les gérants autoritaires qui
soumettent et prennent possession de la communauté.
Le phénomène politique communiste a été historiquement l’appropriation
spectaculaire concentrée par une bureaucratie politique de la communauté, alors
que la démocratie représentative du capitalisme libéral n’est que la caricature
spectaculaire diffuse de l’exigence d’autogestion de la vie quotidienne
confisquée par une bureaucratie économique aux ordres des possédants
archaïques. La continuité libérale du productivisme, autant que sa révolution
idéologique soi-disant communiste, confirme le droit de propriété dans la forme
de l’appropriation privative garantissant le productivisme d’origine. Dans les
deux cas les biens communs disparaissent et reste de commun uniquement
l’étiquette étatique, ennemie intime de la communauté humaine. Historiquement,
en fait, l’Etat nait comme alternative à la communauté humaine. Il oppose sa gemeinschaft (communauté artificielle, societas, basée sur une association de
marchands et de guerriers qui garantissent l’esclavage et les servitudes
nécessaires au fonctionnement du productivisme) à la gemeinwesen structurelle des communautés organiques. La gemeinschaft est le lieu de
l’artificialisation progressive de la socialité.
Société et socialité
La socialité est la tendance humaine à l’entraide et à la solidarité alors
que le social est le niveau pratiquement atteint par cette tendance. Moins le
social réalise la socialité, plus l’individualisme de l’économie politique
génère sa société artificielle en expulsant toutes les manifestations
survivantes de la gemeinwesen comme
« asociales », précisément parce qu’elles sont organiques – non
civilisées. La société civile est historiquement la socialité artificielle imposée
par l’Etat à ses sujets, c'est-à-dire le contrôle autoritaire de la socialité
humaine organique. Ainsi, dans les temps modernes, l’Anthropocène a instauré et
répandu une civilisation aliénée et réifiée en lutte péremptoire contre toute étincelle
de Renaissance et Lumière, mouvements émancipateurs récupérés et réduits à des vœux
fragiles d’une humanité en voie de disparition.
Le piège économiste repose sur ce stratagème : une fois établie l’appropriation
privative justifiée comme une propriété personnelle, aucune reforme ne peut
plus la remettre en question radicalement. L’économie politique est comme le
nucléaire : une fois en marche, seuls les spécialistes de l’un comme de
l’autre peuvent interrompre le processus en cours, sous peine de risques graves
pour la sécurité des personnes concernées. Ce chantage, technocratique et
politique en même temps, risque aujourd’hui de rendre l’artificialité
inéluctable, peu importe combien elle soit inquiétante et délétère. On arrête pas
le progrès… vers l’abîme.
Pour sortir du piège, l’humanité est donc obligée à une délicate transition
contre laquelle le Léviathan utilise la méthode décrite dans le Guepard de Tommasi de Lampedusa :
« Que tout permute afin que rien de
l’essentiel ne change » – c'est-à-dire le processus fétichiste de
valorisation économique de la marchandise dans toutes ses manifestations, des
choses à la force de travail (l’énergie consumériste incluse), marchandise
parmi les marchandises.
Mieux que les révolutions sociales inachevées, trop souvent polluées par un
extrémisme qui empêche leur radicalité, les pandémies ont objectivement déclenché
un début de transition vers une société plus égalitaire, forçant le pouvoir à
réduire ou interrompre temporairement sa logique privative et son exploitation
cynique de la force de travail. Il est historiquement vérifié[1]
que chaque épidémie pestifère a fortement réduit les inégalités en ouvrant la
voie au choix collectif de leur disparition. Le phénomène a été enregistré
ponctuellement, avant que l’économie politique retablisse sa domination après
chaque crise épidémique. Cependant, aucune reforme agraire (la propriété de la
terre est l’appropriation privative qui favorise toutes les autres, jusqu’a
l’esclavage), historiquement accompagnée très souvent par une grande violence
après chaque crise pandémique, n’a jamais fait régresser radicalement et
définitivement les inégalités[2].
Toutes les pandémies de l’histoire ont drastiquement réduit les inégalités
comme un effet mécanique dépourvu d’une conscience humaine capable de pousser
le processus jusqu’au dépassement de l’économie politique dans la synthèse
dialectique d’une société organique totalement nouvelle. Le Léviathan
productiviste a toujours su reprendre les rênes de la socialité fragilisée par l’énième
pandemie, rétablissant toujours l’exploitation d’origine sur les biens communs
et le travail humain. Ce fut le cas jusqu’à hier (quand la population mondiale
était encore de 1,3 milliard en 1830) en raison d’un taux de mortalité pandémique
touchant parfois le 50% de la population. Maintenant, par contre, une
croissance démographique effrénée, désormais au-delà des sept milliards d’individus,
rend caduc le rapport entre le nombre de victimes de la peste et l’augmentation
du coût de la force de travail.
L’abondance surnuméraire des potentiels travailleurs rescapés au virus
réduit le risque mécanique d’une diminution automatique des inégalités
économiques. Néanmoins, le risque nouveau d’une disparition de l’espèce déplace
le curseur de la conscience humaine qui détermine les comportements vers une
conscience d’espèce obligée à se confronter avec l’ensemble
d’artificialisations meurtrières mises en branle par un Anthropocène
hors-control.
Il devient donc urgent d’accompagner la nécessaire littérature poétique et
sociologique anticapitaliste au-delà des lamentations et des exorcismes
politiques, par un projet concret de transition qui ne permet pas à l’économie
politique de récupérer l’inévitable soulèvement. Car la question n’est plus
désormais si il y aura ou pas une révolution sociale, mais qui en sera le sujet
pendant la période délicate et inévitable de transition. Passage nécessaire
pour jeter les bases d’un nouveau monde humain et solidaire car ses racines sont
implantées, hélas, dans une histoire largement manipulée par les differents
vainqueurs qui l’ont écrite et répandue. Encore plus aujourd’hui avec la
facilité et l’abondance bête du virtuel.
Toutes les idéologies révolutionnaires (c'est-à-dire les pires ennemies de
la théorie/pratique révolutionnaire qu’on a à produire collectivement comme un premier
résultat concret de l’autogestion généralisée de la vie quotidienne) ont
installé leur pouvoir contrerévolutionnaire selon les méthodes totalitaires
utilisées par les Bolcheviks au pouvoir afin de saluer le socialisme soi-disant
soviétique comme un hors-d’œuvre de la société communiste, alors qu’il s’agissait
d’une nouvelle restauration meurtrière de l’économie politique. L’ironie de
l’histoire veut que le sous-titre de toutes les œuvres majeures de Marx depuis
1857 jusqu’au Capital (qui devint la Bible de l’idéologie communiste, mais fut utilisé
perversement au mieux par les capitalistes libéraux les plus malins)
soit : Pour la critique de
l’économie politique.
Une critique très peu communiste, en fait, qui s’est terminé par des coups
de feu contre le peuple et une répression féroce à Kronstadt et dans la
Machnovcina ukrainienne, qui a interné les révolutionnaires, les désobéissants
et tous les réfractaires en Sibérie, derrière le mur de Berlin, en Chine, au
Cambodge etcetera, tandis que la forme vulgairement libérale d’une peste
productiviste vieille de plusieurs milliers d’années, a continué son travail
mafieux dans le reste capitaliste du soi-disant monde libre, libre seulement de
se soumettre volontairement au travail forcé d’un salariat aussi répandu que le
fétichisme de la marchandise.
Le monde post Covid 19/84
Je ne crois pas une seconde que la continuité avec le passé soit possible.
La énième pandemie produite par le croisement du progrès productiviste avec son
aliénation de manière finalement visible (visibilité qui manquait pendant les
nombreux épisodes précédents d’invasions virales meurtrières) implique la
conscience humaine qu’un autre monde possible est désormais nécessaire. Si
l’homme ne décide pas de respecter la nature à laquelle il appartient, il en
paiera le prix final car la nature ne se venge pas mais continue son cours.
Aucun vaccin ne nous ramènera au monde d’avant. Dans le meilleur des cas (et je
n’évoque pas les pires possibles) il nous obligera à nous shooter à répétition
comme des héroïnomanes, non pas afin de nous anesthésier dans des paradis
artificiels, mais pour pouvoir sortir et continuer à consommer dans des purgatoires
consuméristes de plus en plus semblables à un artificiel enfer planétaire.
La publicité de la marchandise, marchandises-choses et
marchandises-humaines désormais comparables dans un monde virtuel qui les unit,
est plus intrusive que jamais, avec ou sans le virus, toujours plus ridicule,
pathétique, stupide, insupportable. Les prêtres de la marchandise ne se rendent
pas encore pleinement compte que leur discours est devenu inaudible et risque
de produire, sinon une prise de conscience radicale, des réactions
pathologiques de plus en plus irrationnelles et violentes semblables à celles que
les obscurantismes religieux ont toujours produit et continuent de le faire.
Les suicides et les meurtres sont et seront une conséquence de l’enfermement de
la vie dans une survie maintenant clairement claustrophobe, ma déjà
insupportable avant qu’elle ne le devienne visiblement à la loupe du Covid
19/84.
Leur mythe de la sécurité qu’ils utilisent pour domestiquer les hordes de serviteurs volontaires
terrorisés qui les suivent, alimente, en fait, de plus en plus, la violence
diffuse dans le quotidien. La destruction de l’humain, de l’autre comme
semblable réduit à un porteur potentiel de la peste, un terroriste potentiel,
voire un ennemi de genre, de « race » ou de nationalité, corrobore la
peste émotionnelle que le productivisme a véhiculé depuis ses origines, lorsque
l’irruption de la morale sexuelle patriarcale a introduit la domination, le
viol et le vol dans les sociétés acratiques centrées sur le féminin, en les défaisant[3].
Nous sommes au redde rationem,
non plus socialisme ou barbarie, mais
humain organique ou inhumain artificiel, transhumaniste.
Et je termine ici, pour le moment, mais pas pour arrêter. Pour commencer
ensemble.
Sergio Ghirardi Sauvageon, 6 mai 2021
[1] Walter Scheidel, Une
histoire des inégalités – de l’age de pierre au XXI siècle, Actes Sud,
Arles 2021.
[2] Walter Scheidel, op.
cit.
[3] B. Malinowski, Mœurs et
coutumes des Mélanésiens. Trois essais sur la vie sociale des indigènes
trobriandais ː Le crime et la coutume dans les sociétés primitives, Le mythe
dans la psychologie primitive et La chasse aux esprits dans les mers du
sud » Payot, Paris 1934 ; B.
Malinowski, Les Argonautes du Pacifique Occidental, Gallimard, Paris 1963 ; W. Reich, L’irruption de la morale sexuelle,
Payot, Paris 1972 ; Marija Gimbutas, « The Three Waves of Kurgan
People into Old Europe, 4500-2500 BC », Archives suisses
d’anthropologie générale, 1979, vol. 43, n° 2, pp. 113-137.