Questo testo un po'complesso e con
qualche complicazione, coglie secondo me dei punti radicalmente importanti
nella lettura della situazione, permettendo di sottrarsi a quella logica
binaria che produce frotte contrapposte di utili idioti. Vi farete il vostro
parere. Io ve l'ho tradotto con piacere, come al solito.
Traduzione dal
francese di Sergio Ghirardi Sauvageon dal sito En finir avec ce monde.
La società moderna si
caratterizza oggi attraverso una doppia disfatta: essa ha distrutto la
dimensione collettiva, “olistica”, del vivere insieme che ha distinto tutte le
civiltà precedenti e ha reso patente lo scacco dell’individualismo asociale che
aveva segnato l’utopia dal suo sviluppo fino alla fine del ventesimo secolo.
Il cuore della coscienza sociale riposa in gran parte su
una specie di consenso non formulato, su concetti e nozioni largamente al di
qua della coscienza, su una risonanza senza parole, senza parole davvero
adeguate... Ci sono periodi della vita delle società in cui questa coscienza sociale,
mutevole, dinamica, trova delle espressioni e delle formulazioni più o meno
largamente ed esplicitamente condivise; altre, come la nostra, in cui le parole
soffrono nel rendere conto della realtà percepita. Ci sono periodi in cui le
parole e i discorsi girano letteralmente a vuoto e danno soltanto l’impressione
di fare buchi nell’acqua.
Nel contesto
dell’ideologia dominante, la solitudine, la povertà relazionale sono
essenzialmente il risultato dell’esclusione dai circuiti economici. Uno dei
rari “meriti” della crisi sanitaria è senza dubbio di permettere di precisare
questo meccanismo: nella misura in cui una larga frangia dell’economia prospera
sulla distruzione delle relazioni sociali dirette, nonostante il covid, si
arriverà forse a concludere che la distruzione dei legami sociali non ha per
origine il covid, il quale non è neppure il pretesto del loro impoverimento...
Siamo qui di fronte a uno straordinario inconveniente: il tentativo di
giustificare l’impoverimento continuo e permanente dei legami sociali dovuto
allo sviluppo “normale” dell’economia in nome del necessario ma provvisorio e
congiunturale distanziamento fisico interumano provocato dalla crisi sanitaria.
Il fatto di non
differenziare questi due obiettivi contraddittori, la desocializzazione
economica e il distanziamento fisico sanitario, è politicamente devastatore: si
vede chiaramente che è interesse evidente degli attori dominanti mantenere con forza questa confusione, quest’amalgama, questa nebbia e dissimulare l’una
dietro l’altro.
*
Il mito del progresso
vedeva l’avvenire come l’orizzonte radioso dell’umanità, la sua inversione
nelle diverse varianti della collapsologia vede, al contrario, l’avvenire come
il suo orizzonte dantesco. Il punto comune tra i due è che c’è effettivamente
una zona tampone, una temporalità irriducibile tra il presente e questa attesa
escatologica, un campo temporale che conviene dissodare, in un senso o in un
altro, per far avvenire o no un orizzonte teleologicamente determinato,
predeterminato.
La crisi del covid ci
permette forse di riconsiderare questa temporalità. Mi sembra che ci permetta
di poter finalmente considerare che il punto di svolta dell’orizzonte di attesa
di tutte le narrazioni storiche che hanno cercato di strutturare il nostro
presente è ormai chiaramente alle nostre spalle. In altre parole, questo punto
di svolta tanto temuto o sperato, non l’abbiamo visto passare collettivamente!
Questo punto di svolta non è più situato in un avvenire anche prossimo, come ci
allertano per esempio le narrazioni ecologiste, è ormai dietro di noi: è infine quel tempo di latenza tra il presente e un punto di rottura futuro
che può essere considerato come l’ultimo alibi inventato dal sistema per
gestire la sua vita.
Come con la freccia di
Zenone che non raggiunge mai il bersaglio, siamo presi in un errore di
ragionamento simile che c’impedisce di vedere che abbiamo superato il punto di
svolta, quel punto a partire dal quale le logiche del passato non rendono più
realmente conto del presente, sono nell’incapacità di riempire lo scarto
crescente tra il risentito e il formulato che esse rendono possibile e
contemporaneamente limitano.
La catastrofe ha già avuto luogo, non è più in arrivo davanti a noi, a
venire, ma già bella e fatta. Si può
forse del tutto evitare di mettere in relazione l’emergenza di una pandemia
con l’aggravarsi dell’impoverimento della bio diversità del pianeta da parte di
un capitalismo che imperversa ormai dappertutto, evitare di mettere in
relazione l’aumento della velocità di diffusione della pandemia – qualche mese
per ritrovarla su tutti i continenti – con la standardizzazione delle
condizioni di esistenza o almeno la standardizzazione delle condizioni di
esclusione economica?
Sarei tentato di fare un
parallelo, un’analogia, tra la diffusione esponenziale del virus e lo sviluppo
degli uragani giganti. Nello stesso modo in cui il cambiamento climatico
produce una dispersione dei fenomeni estremi (aumento delle differenze tra
picchi di calore e di freddo, crescita della misura e delle capacità distruttive
dei cicloni, ecc.), il cambiamento economico conduce ugualmente a un
approfondimento dell’ampiezza delle disuguaglianze e della scala di aggiustamenti periodici (aumento fenomenale della dimensione e della potenza dei
grandi gruppi mondiali contemporaneo a un’esplosione di nano imprese
uberizzate, impennata stratosferica degli interessi finanziari e concomitante
aggravamento delle difficoltà di semplice sopravvivenza, ecc.). Lo stesso
tipo di ragionamento potrebbe applicarsi alle pandemie: le epidemie sono,
infatti, sempre esistite, quello cui stiamo assistendo è il loro allargamento
spaziale in sequenze temporali sempre più corte – si potrebbe persino ipotizzare che il declino della biodiversità globale potrebbe portare a una
riorganizzazione selvaggia e moltiplicata nel suo complesso a partire dal
basso, cioè a livello microbico.
Penso sia un errore dire
che la pandemia rinforza i poteri stabiliti perché la sua diffusione segue le
linee di debolezza del sistema e le aggrava; ed è appunto per tentare di
contenere queste fratture che le istituzioni consolidate tentano universalmente
di scongiurare il loro straripamento con misure di contenimento e con l’aggiunta di
un irrigidimento di tipo poliziesco per cercare di arginare il “rumore”
sociale che sale dagli interstizi, dal fessurarsi sempre più percepibile
delle convenzioni stabilite. Una cosa è che questi irrigidimenti delle misure
di sicurezza siano conseguenza di una data percezione dei problemi, un’altra
che ne misurino una pertinente adeguatezza.
Penso che un movimento
come quello dei Gilets jaunes non sia comprensibile come una specie di “ritorno
del rimosso”, come una specie di rinascita di una tradizione di lotta che
sarebbe stata sepolta sotto le promesse ingannevoli di un consenso consumistico,
quanto, piuttosto, come l’irruzione sulla piazza pubblica di un nuovo paradigma
di distanziamento in rapporto all’esistente dovuto alla fine prevedibile di un
blocco delle coscienze da parte delle tradizioni politiche della modernità. I
GJ potrebbero essere sul piano sociale quel che è la diffusione massiccia
dell’astensione sul piano politico, conseguenza dell’aumento quasi generale
della diffidenza nei confronti di tutti i quadri amministrativi che abbiamo
ereditato. In questo processo domina la dissoluzione, la disgregazione, la
sfiducia, l’incapacità di identificarsi con le grandi tradizioni che
definivano, sia positivamente che negativamente, un potenziale di normalità.
*
L’ultima operazione di
manipolazione ideologica in corso sembra essere la sottolineatura del “disagio”
psicologico dei giovani, lasciando credere che se gli studenti potessero
riprendere i corsi nelle loro classi, l’ordine delle cose ritroverebbe il corso
radioso della normalità. Va di moda iniziare a chiamare gli attuali gruppi in
età scolastica “generazione perduta” perché non possono approfittare a fondo di
tutta la potenza di formattazione che è loro consacrata. Tuttavia, la crisi del
covid rivela che non è in primis l’isolamento che colpisce tutti a gradi
diversi, ma la disperazione delle “normali” condizioni di esistenza che
rinchiudono la gente in appartamenti di 9 metri quadri, famiglie intere in
spazi interni ristretti, in quartieri e zone urbane relegate, in spazi che si
pretendono collettivi e che sono desocializzati (le strade, le zone
commerciali, i trasporti, ecc.). Il confinamento sanitario è duro da sopportare
in primo luogo perché le condizioni della vita e della socialità quotidiana,
pretese come normali, sono estremamente degradate e indegne. Non è tanto il confinamento
che è scandaloso quanto le condizioni di sopravvivenza preesistenti al covid
che erano già inammissibili precedentemente: il covid non fa che mettere in
evidenza lo scacco del funzionamento normale della società precedente al covid.
La mistificazione consiste nel mettere sul dorso del covid le conseguenze del
modo di funzionamento “normale” della società, conseguenze in generale
semplicemente amplificate dalla crisi sanitaria.
Fin dall’inizio io parto
dal principio che il confinamento e il distanziamento fisico (anche se il loro
contenuto e i loro limiti dovrebbero potersi discutere) sono una soluzione
antitecnologica, su scala umana, che implica la responsabilità individuale di
ciascuno nell’abbordare la basilare e necessaria gestione della crisi
sanitaria. Il grosso problema è che confinamento e distanziamento, come sono
attuati, sono soltanto modalità di default, nell’attesa di una risposta
tecnologica, massiccia e unilaterale, che evita d’interrogarsi sulla coerenza
preesistente dello stato effettivo della socializzazione residua. È soltanto
perché il confinamento è concepito dalle istanze statali come una soluzione
d’attesa che la questione di un approccio democratico ai suoi vincoli è blindata. Poiché le nostre società sono diventate dei mostri tecnici –
altrettanto nella materialità del processo di produzione e di distribuzione che nei
loro processi amministrativi e burocratici di gestione e di organizzazione –,
si assiste, di fatto, a un abbassamento drastico della soglia di resilienza che
permette di mantenere il loro funzionamento “normale”. Il funzionamento
dell’ospedale è qui un esempio paradigmatico: il minimo imprevisto sanitario
appena significativo corre il rischio di mettere, o mette effettivamente, il
sistema globale a terra.
Penso che l’arresto
(relativo) del sistema economico messo in atto dalla crisi sanitaria a livello
mondiale abbia qualcosa a che vedere con un blocco del funzionamento just in time[1]
della macchina economica globale. È perché il covid rischiava di disorganizzare
il funzionamento globale dell’economia che le strategie di confinamento sono
state attuate, l’emergenza possibile di tensioni sociali essendo beninteso un
elemento chiave di questa disorganizzazione – sia che queste tensioni emergano
dal superamento di un numero “inaccettabile” di malati e di morti oppure da una
non accettazione delle misure profilattiche attuate, giacché i livelli di
accettabilità di questi due elementi restano in gran parte ignoti. Gli
irrigidimenti sulla sicurezza sono delle risposte a questi dati sconosciuti,
risposte necessariamente approssimative che permettono di misurare la paura
vissuta dalle istituzioni di un possibile trabocco: quando alcuni affermano che
“la paura deve cambiare campo” bisogna interpretare la cosa in senso letterale,
cioè che sono i potenti che devono esorcizzare la loro paura.
È notevole che il covid
sia un evento su scala planetaria, ma che continui a essere interpretato solo
su scala nazionale: ciò è particolarmente sorprendente riguardo alle strategie
di vaccinazione dove “ognuno per sé prima di tutto” rafforza la guerra
commerciale di Big Pharma (pur con
una sfumatura particolare per la strategia europea).
Quel che rivela questa
crisi presentata come essenzialmente sanitaria, è l’incapacità ormai raggiunta
dal sistema globale d’incassare il minimo imprevisto appena significativo, con
l’intensità di questo dato sintomatico, del resto, in costante ribasso;
l’integrazione economica globale è stata spinta così lontano che ormai il
minimo inconveniente tecnico concernente un subappaltatore qualunque può
bloccare il pianeta, come il volo di una farfalla che potrebbe scatenare una
tempesta dall’altra parte del globo.
Mi pare proprio che non
sia il politico che ha fermato l’economia, in pretesa aperta contraddizione con
una pratica ricorrente e continua che, dall’inizio dell’era moderna, non ha
fatto che aumentare la sottomissione crescente delle preoccupazioni riguardanti
l’umano a preoccupazioni astratte di potenza. La situazione non è cambiata con
il covid, come dimostra ampiamente la continuazione e l’intensificazione della
digitalizzazione dell’economia. L’arresto, molto relativo, dell’economia è la
conseguenza dell’incapacità d’introdurre una dose troppo forte di aleatorio nel
funzionamento “normale” delle catene planetarie di valore. Per fare un esempio,
farei riferimento a una rete di treni: se è in panne solo qualche locomotiva il
disordine sarà limitato, ma non ci vuole molto, però, perché tutto il piano
globale di corrispondenze e di piani di circolazione diventi impraticabile; nel
qual caso resta più semplice fare un “shut down” il più ordinato possibile...
Dunque secondo me, sarebbe piuttosto la disorganizzazione economica che,
introducendo un numero aleatorio di malati e di decessi nel funzionamento dei
cicli normalizzati e interdipendenti di lavoro, spiegherebbe le strategie
politiche di rallentamento controllato dell’economia e, forse ancor di più, le
strategie di controllo della circolazione del virus; virus trattato come un
problema particolare di gestione della fluidità funzionale globale del sistema.
Parlando di malati, si fa
essenzialmente sempre riferimento alla capacità degli ospedali di trattare in
modo ottimale il flusso di pazienti da trattare, la crisi sanitaria restando
strutturalmente una questione tecno amministrativa: se gli ospedali fossero in
grado di sostenere lo choc non ci sarebbe, forse, più alcuna ragione
d’interrogarsi sul covid e sulla disorganizzazione del sistema-mondo di cui è
un rivelatore? Si tratta anche e altrettanto, però, di saper gestire in modo
ottimale le assenze causate dalla pandemia nei cicli produttivi, assenze che
riguardano sia gli uomini sia gli altri fattori.
L’insistenza posta sulla
dimensione medica e psicologica della pandemia può assolutamente dipendere da
un’incapacità ideologica nel capire la dimensione sociale della salute [vedi
il concetto di sindemia][2], il che non toglie che il
fatto d’inventare politicamente un “problema sanitario” totalmente slegato dal
funzionamento generale della società, è tutt’altro che innocente: “l’assegno psy”[3] tirato fuori dal cilindro
per gli studenti, ubbidisce a una logica funzionale precisa, rendere, cioè,
invisibili tutte le ragioni sociali all’origine del malessere e tentare
d’isolare un problema vissuto, ampiamente condiviso, nel quadro ristretto di una
categoria sociale limitata e ridotta alla sua espressione individualistica più
semplice.
Il rifiuto ostinato delle élites di concedere la sia pur povera estensione dello RSA[4] a tutta la popolazione adulta ha come origine il rifiuto ideologico di ammettere il fallimento della capacità effettiva del sistema d’insegnamento ad assicurare l’integrazione economica dei giovani e, simmetricamente, di ammettere l’incapacità dell’economia globale di permettere una vera integrazione sociale per tutti, indipendentemente dalla questione dell’insegnamento. La logica dell’assegno psy è chiaramente quella di tentare di medicalizzare un problema sociale svicolando con una strategia d’individualizzazione e di colpevolezza indiretta: è anche il senso e la funzione delle innumerevoli “cellule di sostegno psicologico” messe in moto alla minima occasione per tentare di soffocare, ridurre, sciogliere i nodi strutturali di conflittualità in un senso unilaterale. Non resisto alla certo facile tentazione di collegare le “cellule” di sostegno psicologico con le “cellule” carcerarie o con quelle monacali, senza dimenticare il cellulare (i telefoni portatili in italiano), in quanto utensili di distanziamento sociale. Senza dubbio è quel che si dice curare il male con il male... Più in generale, la gestione dello RSA (4) assomiglia a una sorta di ultimo baluardo, a una forma di esorcismo, non per alleviare un po’ le più vistose miserie materiali, ma per salvaguardare ancora un po’ una parvenza di coesione ideologica attorno al lavoro.
Tutta la gestione
effettiva della società moderna andava già nel senso del distanziamento
sociale, tranne che questo distanziamento era finora una conseguenza indiretta
della sua dinamica: la gestione della crisi sanitaria fa soltanto emergere
questa caratteristica in primo piano, non fa che renderla cosciente, evidente.
Il sistema non cambia logica, contrariamente a quel che pretende; tutte le
pesanti tendenze di distanziamento sociale esistenti prima dell’emergere del
coronavirus erano già in azione ed escono, di fatto, rinforzate da questa
sequenza. È sbagliato affermare che il covid serva da pretesto per instaurare
la desocializzazione, che sia lo strumento di un nuovo livello di
desocializzazione, ciò che spinge persino alcuni ad affermare l’inesistenza effettiva
del virus in nome di una presa di coscienza di questa desocializzazione – che
spunterebbe per così dire dal nulla. Si deve invece sottolineare che il covid
diventa il rivelatore dell’impossibilità di spingere la desocializzazione già
realizzata molto più lontano di quanto già sia. Questa desocializzazione ha già
raggiunto, secondo me, un livello, un limite strutturale che rende impossibile
di prospettare un ritorno troppo semplice a uno statu quo anteriore.
Il rifiuto della
desocializzazione dev’essere condotto in nome della logica strutturale del
sistema e non per ragioni che dipendono soltanto dalle modalità di gestione
della crisi sociale vista sotto il ristretto aspetto sanitario, la cui
risoluzione passa contemporaneamente per un inevitabile ma temporaneo (almeno
si spera) distanziamento fisico e per una ridefinizione di quel che costituisce
o dovrebbe costituire la base di una nuova socializzazione. Le diverse forme di
confinamento orchestrate dagli Stati devono servire a denunciare le logiche di
desocializzazione alla base dello sviluppo della modernità. Con la
precisazione, però, che le attuali strategie di contenimento messe in atto per
cercare di controllare la pandemia sono solo la goccia di troppo, quella che fa
traboccare il vaso anche se, lo ripeto, un minimo di distanziamento fisico (da
distinguere imperativamente dal distanziamento sociale) dev’essere operato in
modo congiunturale. La negazione occasionale della realtà stessa della pandemia
è tutt’altro che aneddotica, essa ubbidisce a una profonda razionalità e
traduce una relazione acritica al sistema fondata su un’inversione
“semplicistica” di valori. La mancata distinzione tra questi due momenti
equivale, in ultima analisi, a negare la pandemia oppure a negare la logica di
desocializzazione già clandestinamente all’opera da troppo tempo; equivale
dunque a sostenere ancora una volta la logica sociale dello Stato, vietando
di fare il passo di lato capace di rovesciare la prospettiva.
Mentre la modernità si è
costruita su una separazione netta tra il politico e l’economico, almeno sul
piano filosofico, sul piano delle rappresentazioni, la presente pandemia e le
risposte che suscita non segnano in alcun modo un “ritorno” del politico sulla
scena: la pandemia è solo il rivelatore della fine di una ripartizione
tradizionale e concordata dei poli del politico e dell’economico; essa segna soltanto, se non un fallimento, almeno, come minimo, una ridefinizione di un
equilibrio secolare, non nel senso dello spostamento di un cursore della loro
potenza rispettiva, ma, secondo me, nel senso di una ridefinizione all’opera
del loro comune “contenitore” storico. Più che un ritorno del politico, quel
che forse emerge dall’attuale sequenza è piuttosto l’emergenza pratica del
fallimento filosofico della loro separazione che ha fondato il mondo attuale.
La negazione
dell’autonomia dell’economia non può essere compensata da una riaffermazione
del politico: autonomia dell’economia e autonomia del politico sono
storicamente complementari. La logica dell’economia riposa sulla
desocializzazione dei rapporti umani, mentre la logica del politico si fonda
specularmente sulla presa di distanza da questa desocializzazione attraverso
l’organizzazione dell’autonomia del campo economico. Quel che fa l’originalità
della crisi sanitaria è l’emergenza di una totale commistione tra il campo del
politico e quello dell’economia mentre la modernità si era precisamente
costruita sulla loro separazione. L’incapacità della logica economica nel
rendere conto della realtà è stata sovente sottolineata; lo è stata meno,
invece l’incapacità simmetrica della logica politica nel fare la stessa cosa; a
partire da ciò, diventa ugualmente inconseguente voler considerare che la
logica statale sarebbe più adeguata per riuscire a costituire un’alternativa
a-economica e a-politica. La logica dello Stato è, in effetti, un risultato
dell’autonomia storica del campo politico da quello economico, autonomia da cui
resta dipendente.
L’economia funziona, di
fatto, come una collettività integrata nel nome di un’ideologia individualista,
mentre il politico funziona, di fatto, a rovescio, su una base individualista
in nome di un’ideologia collettiva. Il politico ha difeso una visione
particolare del collettivo con la logica di un individualismo desocializzato,
mentre l’economico ha difeso una visione particolare dell’individualismo con la
logica di un collettivo desocializzato. La separazione tra il politico e
l’economico riposa dunque su una cesura particolare tra queste due dimensioni
dell’esistenza: la crisi del presente può dunque essere letta come una crisi di
questa cesura, come una crisi di legittimazione di questo equilibrio che ha
fondato la modernità.
La crisi del covid e del
suo trattamento segna un’inversione perversa di quest’antico statu quo: si
assiste al crollo della dimensione individualista, associata alla cittadinanza,
nella crisi del campo politico che si esprime con la negazione di un certo
principio di responsabilità e di autonomia individuale per creare, porre in
essere, un’individualizzazione disincarnata e priva di ogni sostanza. È questa
individualità spersonalizzata, privata di soggettività, che fa l’oggetto di
misure di confinamento, che è anche l’oggetto della legge sulla “sicurezza
globale”, creando negativamente un falso collettivo, un collettivo per così
dire vuoto, privo di senso. Al contrario, si può altrettanto considerare che
anche la dimensione “collettiva” incarnata nell’economico si è dissolta in un
collettivo disincarnato e reso totalmente astratto, rivelando una falsa
individualità, un individuo, per così dire, vuoto.
Di fronte a questa doppia
situazione di deliquescenza che coniuga un’erosione del collettivo e
contemporaneamente un’erosione dell’individuale, diventa possibile intendere
l’azione dello Stato come dovuta piuttosto a una strategia di contenimento –
maldestramente preventiva e goffamente difensiva –; come una deriva dalle
conseguenze imprevedibili per lo scioglimento di una specie di permafrost della
normalità istituzionalizzata – da non interpretare come una sorta di carica,
spada in pugno e bandiere al vento, per approfittare militarmente di una forma
falsamente apparente e superficiale di sgomento e di anestesia della
popolazione. Il che non giustifica assolutamente il carattere inaccettabile di
quest’accentuazione securitaria.
Louis, Colmar, 3
febbraio 2021
[1] Metodo industriale inventato da Toyota che implica l’abbandono volontario dello stoccaggio di pezzi di ricambio. Atteggiamento applicato alla salute pubblica con l’eliminazione crescente di letti, respiratori e maschere di protezione (NdT).
[2] Questo
concetto di sindemia in relazione al
covid è stato difeso nel settembre 2020 da Richard Horton, caporedattore della
rivista The Lancet – articolo
tradotto e disponibile sul sito “Et vous
n’avez encore rien vu” – nota addizionale del 9/2/21.
[3] Assegno psicologico, sussidio elargito dal governo francese agli
studenti psicologicamente in crisi per la pandemia (NdT).
[4] Revenu
de Solidarité Active,
sussidio di sostegno agli indigenti (NdT).
PARADOXES ET APORIES DE LA PANDEMIE
La société moderne, aujourd’hui, se caractérise par un
double échec : elle a détruit la dimension collective,
« holiste », du vivre-ensemble qui a marqué l’ensemble des
civilisations précédentes, et elle a rendu patent l’échec de l’individualisme
asocial qui avait marqué l’utopie de son développement jusqu’à la fin du XXe
siècle.
Le cœur de la conscience sociétale repose en grande
partie sur une sorte de consensus informulé, sur des concepts et des notions
largement en-deçà de la conscience, sur une résonance sans mots, sans mots
véritablement adéquats… Il y a des périodes de la vie des sociétés où cette
conscience sociétale, mouvante, dynamique, trouve des expressions et des
formulations plus ou moins largement et explicitement partagées ; il en
est d’autres, comme la nôtre, où les mots peinent à rendre compte de la réalité
ressentie. Il est des périodes où les mots et les discours tournent
littéralement à vide et donnent seulement l’impression de brasser du vent.
Dans le contexte de l’idéologie dominante, la
solitude, la pauvreté relationnelle, sont pour l’essentiel la résultante de l’exclusion
des circuits économiques. Un des rares « mérites » de la crise
sanitaire est sans doute de permettre de préciser ce mécanisme : dans la
mesure où une large frange de l’économie prospère sur la destruction des
relations sociales directes malgré le covid, peut-être en arrivera-t-on à
conclure que la destruction des liens sociaux n’a pas pour origine le covid,
qu’il n’est même pas le prétexte de leur appauvrissement… On a ici affaire à un
extraordinaire brouillage : la tentative de justifier l’appauvrissement
continu et permanent des liens sociaux entraîné par le développement
« normal » de l’économie au nom de la nécessaire mais provisoire et
conjoncturelle distanciation physique interhumaine entraînée par la crise
sanitaire.
La non différenciation de ces deux enjeux
contradictoires, la désocialisation économique et la distanciation physique
sanitaire, est politiquement dévastatrice : on voit très bien qu’il est de
l’intérêt évident des acteurs dominants d’entretenir à toute force cette confusion,
cet amalgame, ce brouillard, et de masquer la première derrière la seconde.
*
Le mythe du progrès voyait l’avenir comme l’horizon
radieux de l’humanité ; son inversion dans les diverses variantes de la
collapsologie voit au contraire l’avenir comme son horizon dantesque. Le point
commun entre les deux est qu’il y a bien une zone tampon, une temporalité
irréductible entre le présent et cette attente eschatologique, un champ
temporel qu’il convient de labourer, dans un sens ou un autre, pour faire
advenir ou non un horizon téléologiquement déterminé, prédéterminé.
La crise du covid nous permet peut-être de
reconsidérer cette temporalité. Il me semble qu’elle nous permet d’enfin
pouvoir considérer que le point de basculement de l’horizon d’attente de tous
les récits historiques qui ont cherché à structurer notre présent est désormais
clairement derrière nous. Autrement dit, ce point de basculement tant redouté
ou espéré, nous ne l’avons collectivement pas vu passer ! Ce point de
basculement n’est plus situé dans un avenir même proche, comme nous alertent
par exemple les récits écologistes, il est désormais derrière nous : c’est
finalement ce temps de latence entre le présent et un point de rupture futur
qui peut être considéré comme le dernier alibi inventé par le système pour
gérer sa survie.
Comme avec la flèche de Zénon qui n’atteint jamais sa
cible, nous sommes pris dans une erreur de raisonnement similaire qui nous
empêche de voir que nous avons dépassé le point de basculement, ce point à
partir duquel les logiques du passé ne rendent plus réellement compte du
présent, sont dans l’incapacité de combler l’écart grandissant entre le
ressenti et le formulé, qu’elles permettent et en même temps limitent.
La catastrophe a déjà eu lieu, elle n’est plus devant
nous, à advenir, mais bel et bien déjà réalisée. Peux-t-on totalement éviter de
mettre en relation l’émergence d’une pandémie avec l’aggravation de
l’appauvrissement de la diversité biologique de la planète par un capitalisme
qui sévit désormais partout, de mettre en relation l’augmentation de la vitesse
de diffusion de la pandémie – quelques mois pour être repérable sur tous les
continents – avec l’uniformisation des conditions d’existence, à tout le moins
l’uniformisation des conditions d’exclusion économique ?
Je serai tenté de faire un parallèle, une analogie,
entre la diffusion exponentielle du virus et le développement des ouragans
géants. De la même manière que le dérèglement climatique produit une dispersion
des phénomènes extrêmes (accroissement des différences entre les pics de
chaleur et de froid, accroissement de la taille et des capacités destructrices
des cyclones, etc.) de la même manière le dérèglement économique conduit
également à un approfondissement de l’amplitude des inégalités et de l’échelle des
réajustements périodiques (augmentation phénoménale de la taille et de la
puissance des grands groupes mondiaux en même temps qu’à une explosion des nano
entreprises ubérisées, envolée stratosphérique des enjeux financiers et
creusement concomitant des difficultés de simple survie, etc.). Le même type de
raisonnement pourrait s’appliquer aux pandémies : les épidémies ont de
fait toujours existé, ce à quoi on assiste c’est à leur élargissement spatial
dans des séquences temporelles de plus en plus courtes – on pourrait même
émettre l’hypothèse que la baisse de la biodiversité globale pourrait entraîner
une réorganisation sauvage et démultipliée d’ensemble par la bas, c’est-à-dire
au niveau microbien.
Je pense que c’est une erreur de dire que la pandémie
renforce les pouvoirs établis car sa diffusion suit les lignes de faiblesse du
système et les aggrave : et c’est bien pour tenter de contenir ces
fractures que les institutions établies tentent universellement de conjurer
leur débordement par des mesures de confinement, doublées d’un raidissement de
type policier pour essayer d’endiguer le « bruit » sociétal qui monte
des interstices, de la fissuration de plus en plus perceptible des conventions
établies. Que ces raidissements sécuritaires renvoient à une certaine
perception des enjeux est une chose, qu’ils en mesurent une adéquation
pertinente en est une autre.
Je pense qu’un mouvement comme celui des GJ n’est pas
compréhensible comme une sorte de « retour du refoulé », comme une
sorte de renaissance d’une tradition de lutte qui aurait été enfouie sous les
fallacieuses promesses d’un consensus consumériste, mais bien plutôt comme
l’irruption sur la place publique d’un nouveau paradigme de distanciation par
rapport à l’existant, dû à la fin envisageable d’un verrouillage des
consciences par les traditions politiques de la modernité. Les GJ pourraient
être sur le plan social ce qu’est la diffusion massive de l’abstention sur le
plan politique, ce qu’est l’aggravation en voie de généralisation de la défiance
à l’égard de tous les cadres administrés dont nous avons hérité. Ce qui domine
dans ce processus, c’est la dissolution, le délitement, la méfiance,
l’incapacité à s’identifier aux grandes traditions qui définissaient, tant
positivement que négativement, un potentiel de normalité.
*
La dernière opération de brouillage idéologique en
cours semble être la mise en avant de la « détresse » psychologique
de la jeunesse, laissant entendre que si les étudiants pouvaient rejoindre à
nouveau les salles de classe et de cours, l’ordre des choses retrouverait le
cours radieux de la normalité. Il est de bon ton de commencer à qualifier les
présentes classes d’âge en cours de scolarité de « génération
perdue », parce qu’elle ne pourrait pas profiter pleinement de toute la
puissance de formatage qui lui est pourtant consacrée. Mais ce que révèle la
crise du covid, ce n’est pas d’abord l’isolement qui frappe tout un chacun à
des degrés divers, mais la désespérance des conditions modernes
« normales » d’existence, qui enferment les gens dans des studios de
9 m², des familles entières dans des espaces confinés intérieurs, dans des
quartiers et des zones urbaines reléguées, dans des espaces prétendument
collectifs et pourtant de fait désocialisés (les rues, les zones commerciales,
les transports, etc.). Le confinement sanitaire n’est dur à supporter en
premier lieu que parce que les conditions prétendument normales de la vie et de
socialité quotidiennes sont extrêmement dégradées et indignes. Ce n’est pas
tant le confinement qui est scandaleux que les conditions de survie
préexistantes au covid, qui étaient déjà inadmissibles auparavant : le
covid ne fait que mettre en évidence l’échec du fonctionnement normal de la
société d’avant le covid. La mystification consiste à mettre sur le dos du
covid les conséquences du mode de fonctionnement « normal » de la
société, conséquences en général simplement amplifiée par les crises sanitaires.
Depuis le début je pars du principe que le confinement
et la distanciation physique (même si leur contenu et leurs limites devraient
pouvoir être discutées) sont une solution anti-technologique, à échelle
humaine, qui implique la responsabilité individuelle de chacun, pour aborder
l’incontournable et nécessaire gestion de cette crise sanitaire. Le gros
problème, c’est que confinement et distanciation, tels que mis effectivement en
place, sont seulement des modalités par défaut, dans l’attente d’une réponse
technologique massive et unilatérale, qui évite de s’interroger sur la
cohérence préexistante de l’état effectif de la socialisation résiduelle. C’est
seulement parce que le confinement est conçu par les instances étatiques comme
une solution d’attente, que la question d’une approche démocratique de ses
contraintes est mise sous le boisseau. Nos sociétés étant devenues des monstres
techniques, – aussi bien dans la matérialité des processus de production et de
transport que dans ses processus administratifs et bureaucratiques de gestion
et d’organisation –, on assiste de fait à un abaissement drastique des seuils
de résilience permettant de préserver leur fonctionnement
« normal » : le fonctionnement de l’hôpital est ici un exemple
paradigmatique : le moindre imprévu sanitaire un peu significatif risque
de mettre, ou met effectivement, le système global à plat. Je pense que l’arrêt
(relatif) du système économique mis en branle par la crise sanitaire à
l’échelle mondiale a quelque chose à voir avec un grippage du fonctionnement en
flux tendus de la machine économique globale. C’est parce que le covid risquait
de désorganiser le fonctionnement global de l’économie que les stratégies de
confinement ont été mises en place, l’émergence possible de tensions sociales
étant bien entendu un élément clé de cette désorganisation – que ces tensions
émergent par le dépassement d’un seuil « inacceptable » de malades et
de morts, et/ou bien qu’elles émergent d’une non-acceptation des mesures
prophylactiques mises en place, les niveaux d’acceptabilité de ces deux seuils
étant largement des inconnues. Les raidissements sécuritaires sont des réponses
à ces inconnues, réponses nécessairement approximatives, qui permettent de
mesurer la peur vécue par les institutions d’un possible débordement :
lorsque d’aucuns prétendent que « la peur doit changer de camp », il
faut l’entendre au sens littéral, à savoir que ce sont les puissants qui
doivent exorciser leur peur.
Il est remarquable que le covid soit un événement
d’échelle planétaire, et que pourtant il continue d’être appréhendé aux seules
échelles nationales : cela est particulièrement frappant concernant les
stratégies vaccinales, où le « chacun pour soi d’abord » renforce la
guerre commerciale des big pharma (avec cependant une nuance particulière pour
la stratégie européenne).
Ce que révèle cette crise présentée comme essentiellement
sanitaire, c’est l’incapacité désormais atteinte par le système global
d’encaisser le moindre imprévu un peu significatif, l’intensité de ce
significatif s’orientant d’ailleurs à la baisse : l’intégration économique
globale a été poussée si loin que désormais le moindre hoquet technique chez un
sous-traitant lambda est en mesure de faire caler la planète, tel le vol d’un
papillon qui pourrait déclencher une tempête à l’autre bout de la planète.
Il me semble bien que ce n’est pas le politique qui a
mis à l’arrêt l’économie, prétendument en contradiction ouverte avec une
pratique récurrente et continue, qui n’a fait qu’amplifier depuis le début de
l’ère moderne la soumission grandissante des préoccupations relatives à
l’humain à des préoccupations abstraites de puissance. La situation n’a pas
changée avec le covid, comme le démontre amplement la poursuite et
l’aggravation de la numérisation de l’économie. La mise à l’arrêt, toute
relative, de l’économie est la conséquence de l’incapacité d’introduire une
trop forte dose d’aléatoire dans le fonctionnement « normal » des
chaînes de valeur planétaires. Pour prendre un exemple, je ferais référence à
un réseau de trains : si ce ne sont que quelques locomotives qui sont en
pannes, le désordre introduit sera limité, mais il n’en faut cependant pas
beaucoup pour que tout le planning global des correspondances et des plans de
circulation devienne impraticable ; et dans ce cas le plus simple est
encore de faire un « shut down » aussi ordonné que possible… Ce serait
donc plutôt, à mon avis, la désorganisation économique qu’introduit un nombre
aléatoire de malades et de décès dans le fonctionnement des cycles normalisés
et interdépendants de travail qui expliquerait les stratégies politiques de
ralentissement contrôlé de l’économie, et peut-être encore plus les stratégies
de contrôle de la circulation du virus, virus traité comme un problème
particulier de gestion de la fluidité fonctionnelle globale du système. En
parlant de malades, on fait essentiellement toujours référence à la capacité
des hôpitaux à traiter de façon optimale les flux de patients à traiter, la
crise sanitaire restant structurellement une question
techno-administrative : si les hôpitaux étaient en mesure d’encaisser le
choc, n’y aurait-il plus aucune raison de s’interroger sur le covid et sur la
désorganisation du système-monde dont il est un révélateur ? Mais il
s’agit tout autant et au même titre d’être capable de gérer de façon optimale
les absences qu’entraîne la pandémie dans les cycles de production, absences
qui concernent aussi bien les hommes que les autres intrants.
L’insistance mise sur la dimension médicale et
psychologique de la pandémie peut bien résulter d’un incapacité idéologique à
comprendre la dimension sociétale de la santé [cf. le concept de syndémie][1], il n’empêche que le fait
d’inventer politiquement un « problème sanitaire » totalement
déconnecté du fonctionnement général de la société est tout sauf
innocent : le « chèque psy », sorti du chapeau pour les
étudiants, obéit à une logique fonctionnelle précise, à savoir
l’invisibilisation de toutes les raisons sociétales à l’origine du mal-être, et
la tentative d’isoler un problème vécu, largement partagé, dans le cadre
restreint d’une catégorie sociale limitée, et réduite à sa plus simple
expression individualiste.
Le refus obstiné des élites de concéder le pourtant
pauvre élargissement du RSA à toute la population adulte a pour origine le
refus idéologique d’admettre la faillite de la capacité effective du système d’enseignement
à assurer l’intégration économique des jeunes, et symétriquement le refus
idéologique d’admettre l’incapacité de l’économie globale de permettre une
véritable intégration sociale pour tous, indépendamment de la question de
l’enseignement. La logique du « chèque psy » est clairement de tenter
de médicaliser un problème sociétal en bottant en touche avec une stratégie
d’individualisation et de culpabilisation indirecte : c’est aussi le sens
et la fonction des innombrables « cellules de soutien psychologique »
mises en branle à la moindre occasion pour tenter de noyer, de réduire, de
dissoudre les nœuds structurels de conflictualité dans un sens unilatéral. Je
ne résiste pas à la (certes facile) tentation de relier les « cellules »
de soutien psychologiques avec les « cellules » carcérales ou bien
les « cellules » monacales, sans oublier le cellulare (téléphones « cellulaires », en Italie), comme
outils de distanciation sociale. C’est sans doute ce qui s’appelle soigner le
mal par le mal… Plus largement, la gestion du RSA ressemble à une sorte de
dernier rempart, à une forme d’exorcisme, non pas pour soulager un tant soit
peu les misères matérielles les plus criantes, mais pour sauvegarder encore un
tout petit peu un semblant de cohésion idéologique autour du travail.
Toute la gestion effective de la société moderne
allait déjà dans le sens de la distanciation sociale, à ceci près que cette
distanciation était jusqu’à présent une conséquence indirecte de sa
dynamique : la gestion de la crise sanitaire fait seulement émerger cette
caractéristique au premier plan, ne fait que la rendre consciente, évidente. Le
système ne change pas de logique, contrairement à ce qu’il prétend, toutes les
tendances lourdes de distanciation sociale qui existaient avant l’émergence du
coronavirus étaient déjà en place et sortent de fait renforcé de cette
séquence. Ce qu’il convient de pointer, ce n’est pas que le covid sert de
prétexte à l’instauration de la désocialisation, que le covid est l’outil d’un
nouveau palier de désocialisation, permettant même à certains de conclure à
l’inexistence foncière du virus au nom d’une prise de conscience de cette
désocialisation – qui sortirait pour ainsi dire de nulle part –, ce qu’il faut
au contraire souligner c’est que le covid devient le révélateur de
l’impossibilité de pousser la désocialisation déjà réalisée beaucoup plus loin
qu’elle ne l’est déjà. Cette désocialisation a selon moi atteint un palier, une
limite structurelle, qui empêche d’envisager un trop simple retour à un statu
quo antérieur.
Le refus de la désocialisation doit être mené au nom
de la logique structurelle du système et pas pour des raisons qui tiennent
« seulement » aux modalités de gestion de la crise sociétale vue
restrictivement sous l’angle sanitaire, dont la résolution passe simultanément
par une incontournable mais provisoire (du moins on peut l’espérer)
distanciation physique, et par une redéfinition de ce qui constitue, de ce qui
devrait constituer les fondements d’une nouvelle socialisation. Les diverses
formes de confinement orchestrées par les Etats doivent servir à dénoncer les
logiques de désocialisation au fondement du développement de la
modernité : mais à ce détail près que les actuelles stratégies de
confinement mises en place pour tenter de contrôler la pandémie sont seulement
la goutte de trop, la goutte qui fait déborder le vase, quand bien même, je le
répète, un minimum de distanciation physique (à distinguer impérativement de la
distanciation sociale) doit être mis en œuvre de façon conjoncturelle. La
négation occasionnelle de la réalité même de la pandémie est loin d’être
anecdotique, elle obéit à une rationalité profonde et traduit une relation
acritique au système, fondée sur une inversion « simpliste » de
valeurs. Ne pas distinguer ces deux moments revient au final soit à nier la
pandémie, soit à nier la logique de désocialisation déjà souterrainement à
l’œuvre depuis trop longtemps, donc à cautionner une nouvelle fois la logique
sociétale de l’État, en interdisant de faire le pas de côté capable de changer
la perspective.
Alors que la modernité s’est construite sur une
séparation stricte du politique et de l’économique, au moins sur le plan
philosophique, sur le plan des représentations, la présente pandémie et les
réponses qu’elle suscite ne marquent en rien un « retour » du
politique sur le devant de la scène : la pandémie est seulement le
révélateur de la fin d’une répartition traditionnelle et convenue des pôles
politiques et économiques, elle marque seulement sinon une faillite du moins, a
minima, une redéfinition d’un équilibre séculaire, non dans le sens du
glissement d’un curseur de leur puissance respective, mais, à mon sens, d’une
redéfinition à l’œuvre de leur « contenant » historique commun. Ce
qui ressort peut-être de la présente séquence, c’est, plutôt que d’un retour du
politique, l’émergence pratique de la faillite philosophique de leur
séparation, qui a fondé le monde actuel.
La négation de l’autonomie de l’économie ne peut être
compensée par une réaffirmation du politique : autonomie de l’économie et
autonomie du politique sont historiquement complémentaires. La logique de
l’économie repose sur la désocialisation des relations humaines, alors que la
logique du politique repose en miroir sur la mise à distance de cette désocialisation
par l’organisation de l’autonomisation du champ économique. Ce qui fait
l’originalité de la crise sanitaire c’est l’émergence d’un brouillage complet
entre le champ du politique et le champ de l’économique, alors que la modernité
s’était précisément construite sur leur cloisonnement. L’incapacité pour la
logique économique à rendre compte du réel a maintes fois été souligné ;
ce qui l’a moins été, c’est l’incapacité symétrique de la logique politique à
également en rendre compte ; partant de là, il devient également
inconséquent de vouloir considérer que la logique étatique serait mieux placée
pour ce faire, pour constituer une alternative a-économique et a-politique. La
logique de l’État est en effet une résultante de l’autonomisation historique des
champs politique et économique, autonomisation dont elle reste tributaire.
L’économie fonctionne de fait comme une collectivité
intégrée au nom d’une idéologie individualiste, alors que le politique
fonctionne, de fait, à l’inverse, sur une base individualiste au nom d’une
idéologie collective. Le politique a défendu une vision particulière du
collectif avec la logique d’un individualisme désocialisé, quand l’économique a
défendu une vision particulière de l’individualisme avec la logique d’un
collectif désocialisé. La séparation entre le politique et l’économique repose
ainsi sur une césure particulière entre ces deux dimensions de
l’existence : la crise du présent peut donc être lue comme une crise de
cette césure, comme une crise de légitimation de cet équilibre qui aura fondé
la modernité.
La crise du covid et de son traitement marque une
inversion perverse de cet ancien statu quo : on assiste à l’effondrement
de la dimension individualiste, associée à la citoyenneté, dans la crise du
champ politique, qui s’exprime dans la négation d’un certain principe de
responsabilité et d’autonomie individuelle pour créer, mettre en place, une
individualisation désincarnée et vide de toute substance. C’est cette
individualité dépersonnalisée, désubjectivisé, qui fait l’objet des mesures de
confinement, qui est également l’objet de la loi « sécurité
globale », créant négativement un faux collectif, un collectif pour ainsi
dire en creux, vide de sens. A rebours, on peut tout autant considérer que la
dimension « collective » incarnée dans l’économique s’est également
dissoute dans un collectif désincarné et totalement abstractisé, révélant une
fausse individualité, un individu pour ainsi dire en creux.
Face à cette double situation de déliquescence, qui
conjugue un effritement du collectif et en même temps un effritement de
l’individuel, il devient possible de comprendre l’action de l’État davantage
comme relevant d’une stratégie d’endiguement – maladroitement préventif et
gauchement défensif –, des conséquences imprévisibles d’une fonte d’une sorte
de permafrost de la normalité instituée – à distinguer d’une sorte de charge,
sabre au clair et oriflammes au vent, pour profiter militairement d’une forme
faussement apparente et superficielle de désarroi et d’anesthésie de la population.
Ce qui n’enlève bien entendu rien au caractère inacceptable de ce renforcement
sécuritaire.
Louis, Colmar le 03 février 2021
[1] Ce
concept de syndémie en relation avec le covid vient d'être défendu en septembre
2020 par Richard Horton, rédacteur en chef de la revue The Lancet –
article traduit et disponible sur le site "Et vous n’avez encore rien vu" –
note additionnelle du 9/2/21.