In un'epoca come la nostra, in
cui ogni merce deve essere piazzata sul mercato e rapidamente consumata per poi
rinascere più bella e desiderabile (la cosiddetta „catarsi della merce“), il
concetto di bellezza ed i superlativi connessi all'aggettivo "bello"
sono sottoposti ad una tale usura che si stenta a capire quali possano essere,
se esistono, i canoni di riferimento epocali che ci consentono di cogliere
l'essenza transitoria del bello.
Per tentare di sbrogliare questa
intricata matassa ci sforzeremo di illustrare per sommi capi il percorso di tale
concetto nelle epoche che ci hanno preceduto. La bellezza, pur essendo un fatto
quasi esclusivamente soggettivo legato al gusto, implica una serie ineludibile
di elementi culturali e psicologici che finiscono per condizionare consciamente
e inconsciamente il nostro giudizio "personale". Un tempo si pensava
che attraverso dei canoni precisi (oggettivi), legati ad un determinato periodo
storico, fosse possibile pervenire ad una definizione compatta del concetto di
"bello". Oggigiorno quest'impresa ci pare assai ardua, se non
impossibile.
Per quanto concerne la tradizione
occidentale la bellezza e dunque l'arte, secondo alcuni, è l'antidoto che i
greci produssero per contrastare la tragicità della vita. Paradigmatico è il
mito greco che narra la nascita della dea della bellezza e dell'amore,
Afrodite. Gea, la madre terra, - prima realtà materiale della creazione apparsa
improvvisamente dal Caos informe e al di là del tempo e dello spazio -
governava il creato assieme al suo sposo Urano. Urano, ossessionato dall'idea
che i suoi mostruosi figli potessero privarlo un giorno del dominio
dell'universo vide bene di farli sprofondare al centro della terra. Adirata per
la sorte destinata ai figli Gea estrasse del ferro dalle proprie viscere,
forgiò una falce, radunò i figli e chiese loro di ribellarsi al padre. Solo il
più giovane, il titano Crono, ebbe il coraggio di farsi armare la mano dalla
madre. Si nascose nelle viscere della Terra e attese l'arrivo del padre che
ogni notte discendeva dal cielo per unirsi a Gea nell'oscurità. Crono sorprese
il padre e dopo averlo immobilizzato lo evirò. I genitali di Urano caddero nel
mare e dalla miscela di alcune gocce di sperma e di spuma delle onde creatasi
dalla loro caduta si generò Afrodite, la dea della bellezza, dell'amore, della
sensualità, della lussuria. La nascita della bellezza, stando al mito greco, è
dunque indissolubilmente legata e connaturata alla tragicità della vita, al
dolore, al negativo, al male, cioè ai suoi opposti. Infatti, quando pensiamo
alla bellezza ci vengono in mente il bene, l'armonia, il positivo. Il mito,
invece, s'incarica di portare alla luce la natura intrinseca dell'idea di
bellezza disvelandone la cifra occultata: la compresenza degli opposti
(bellezza/bruttezza, gioia/dolore, piacere/sofferenza, bene/male,
armonia/disarmonia, simmetria/asimmetria).
Platone, a sua volta gran
inventore di miti, pare non tenere in dovuto conto la lezione dei suoi
predecessori e si orienta verso la bellezza intelligibile che, com'è risaputo,
è priva di forma, colore, sapore. Il filosofo ateniese, negando la dimensione sensoriale,
finisce per sacrificare la bellezza sensibile sull'altare del mondo
"iperuranico" delle idee, delle astrazioni. Arte e poesia travandosi
nella posizione di essere rinviate oltre se stesse, al mondo delle idee, e in
ultima analisi all'Uno, finiscono con l'essere conseguentemente e logicamente
bandite dalla tirannica Repubblica ideale del filosofo. Quale spazio
possono infatti avere in sifatta costellazione colori che imitano l'idea di
colore in sé, forme che non rappresentano altro che imitazioni dell'idea di
forma, artisti che scatenano tra i giovani passioni invece di governarle e via
di questo passo? Nessuno, ovviamente! Secondo la ben nota concezione platonica
la realtà (il mondo naturale) non è altro che una copia, un'imitazione
(mimèsis) del mondo perfetto delle idee. E l'opera d'arte essendo a sua volta
imitazione della natura, si riduce ad essere una sbiadita copia della copia e
quindi non è in grado di esprimere la verità se non in grado infimo. Il
filosofo, infatti, individua nell'Uno (Plotino lo chiamerà poi Dio) il creatore
del mondo delle idee che rappresentano l'essenza della realtà immateriale
(immutabile, eterna, universalmente valida) e dunque il Vero. L'artigiano, dal canto suo, forgiando un oggetto
materiale, copia dal mondo delle idee. Seguendo questo ragionamento un tavolo,
per esempio, non è altro che una copia materiale dell'idea assoluta di tavolo,
dell'essenza dell'idea "tavolo". In questa scala discendente, l'artista
mimetico viene a trovarsi su un gradino ancora inferiore poiché non solo non è
in grado di cogliere il primo riflesso dell'idea "tavolo" (colto
invece dall'artigiano che lo fabbrica), ma dipingendo un tavolo finisce per
coglierne solo il riflesso del riflesso, la copia della copia, appunto. Ben lontana dal vero è dunque l'arte mimetica, e
perciò, a quanto pare, riesce a fabbricare ogni cosa, perché coglie solo una
piccola parte di ogni singolo oggetto, e per giunta una mera parvenza. Così
diciamo, il pittore ci dipingerà un calzolaio, un falegname e gli altri artigiani,
senza intendersi affatto dell'arte di nessun di costoro. (1) La bellezza nella
dottrina platonica gioca un ruolo centrale soprattutto per quanto attiene
l'idea suprema del bene. Scopo fondamentale dell'esistenza dell'uomo è quello
di elevarsi per mezzo dell'anima al mondo perfetto, immutabile ed eterno delle
idee. Nel mondo delle idee il posto centrale è occupato dall'idea di bene che
si rivela all'uomo tramite la bellezza. Il medium che ci consente di elevarci
alla bellezza è l'amore che, non a caso, per il filosofo ateniese è desiderio
di bellezza e di bene.
Con Aristotele il concetto di bellezza assume altri contorni. La critica radicale della teoria platonica delle idee da parte del pensatore di Stagira, secondo il quale non vi può essere una separazione netta tra il mondo intelliggibile e quello sensibile, finisce per investire anche l'idea di bellezza. Nella realtà concreta l'idea di bellezza non esiste di per sé. - Come può pensare Platone che essa esista in forma sostanziale? - Qualcuno di noi ha forse mai visto l'idea riflessa di bellezza a passeggio? Per Aristotele l'opera d'arte non è il simulacro di un idea data, bensì creazione da parte di un individuo. Attualizzando il pensiero di Aristotele potremmo dire che nell'opera artistica individuale si fondono forma e materia non tanto come risultanti di un'idea immutabile quanto, invece, di una forma ideale scaturita dalla mente dell'artista che plasma la materia secondo la sua idea. Ma cosa facevano i disprezzati "artisti" mentre i nostri filosofi pensavano? Scolpivano corpi statuari, armonici e proporzionati, incantevoli divinità femminili, costruivano templi ed edifici che sono al contempo belli e rispettosi delle regole introdotte dalla geometria e dalla matematica, dipingevano vasi di terraccotta decorati con ornamenti di rara profondità e complessità espressiva, componevano dei suoni armonici, producevano versi.
In sostanza, pur rifiutando una
visione lineare sia della storia che dei concetti che caratterizzano le varie
civiltà, la realtà delle cose, e ciò vale per ogni epoca, è sempre più
complessa, stratificata, ramificata, discontinua e contraddittoria di quel che
possiamo immaginare o ri-costruire tramite le scuole di pensiero che si
accavallano e susseguono, possiamo sinteticamente dire che per i greci - vuoi
per gli influssi della religione, vuoi per quelli della vita politica -
l'ideale della misura pare essere predominante in tutte le manifestazioni della
vita e dell'arte. I greci, attraverso le espressioni in cui si manifesta il
loro bisogno di misura (la bellezza, il bene, il vero), creano le fondamenta su
cui poggerà l'edificio della cultura occidentale. Ma al contempo, come ha fatto
notare Nietzsche, accanto alla bellezza "apollinea" che si fonda
sull'armonia, intesa come ordine e misura, e che trae probabilmente la sua
forza dal tentativo di arginare il Caos da cui è scaturito il mondo, è presente
un'altra forma di bellezza, la bellezza "dionisiaca". Essa
rappresenta il lato oscuro, folle, pericoloso, instabile, eccessivo, enigmatico,
terribile, lacerante della bellezza."Apollineo"e
"Dionisiaco" giorno e notte, bene e male, lucentezza e tenebra,
dialettica dei contrari, armonia e disarmonia che nel loro titanico scontro si
rafforzano a vicenda dominando la natura ellenica. Già in Grecia, dunque, le
cose non paiono seguire un'ordine così lineare, armonico e solare, anche se di
fatto non sarà dalla tradizione "dionisiaca", ma dall'ibrido Platone
che prenderanno le mosse le due concezioni principali della bellezza elaborate
nei secoli successivi: la bellezza come armonia e proporzione delle parti e la
bellezza ideale, splendente, distinta dall'oggetto sensibile che la esprime.
Per Platone, ricordiamolo, il corpo è la prigione dell'anima e quindi, come si
intuisce leggendo la Repubblica, o si studia la filosofia e si perviene
ad una visione intellettuale della bellezza e si governano gli uomini e le
città, oppure non resta che arruolarsi nell'esercito dei guerrieri o fare gli
schiavi. Il problema qui è il mondo sensibile! A lasciarci i genitali non sono
solo gli dei della mitologia greca per mano dei propri figli, ma anche i Padri
della Chiesa che, come nel caso di Origene, decidono di risolvere di propria
mano i problemi legati a tale sfera (2). Meno si ha a che fare con i sensi
(mondo sensibile), più si ottiene nell'aldilà il mondo delle idee e le sue
torsioni: l'Uno, Dio. Nel Medioevo, soprattutto attraverso la Scolastica,
influenzata dall'ombra lunga di Platone, il modello sviluppato a partire dai
greci raggiunge il suo periodo aureo. Ora non sono più solo i filosofi, tramite
l'intelletto, ad essere in grado di pervenire all'essenza della bellezza, della
verità, del bene ma, per mezzo della fede, tutti possono accedere al mondo
dell'aldilà, al mondo delle idee. Mutatis mutandis, anche nel Medioevo
le sensazioni estetiche che si provano in presenza della bellezza sensibile non
si risolvono sul piano dell'universo sensibile in sé, ma vengono veicolate in
direzione della bellezza intelligibile, la Bellezza assoluta. Ogni forma di
bellezza viene così spogliata, deturpata, scannata, spolpata e condannata a
recitare il ruolo di controfigura sensibile e spettrale della reale e unica
essenza di tutte le cose (e dunque anche di tutte le forme di bellezza):
l'Idea, l'Uno, Dio. L'arte medioevale, pur con tutti i suoi grappoli di teorie
affascinanti, contraddittorie, innovative e originali resta nel suo complesso
un'arte pedagogica votata alla sacralità. Un'arte che al di là dei suoi
grandiosi sviluppi intrinseci s'incarica sostanzialmente di mettere in scena,
narrandola, la Storia Sacra con il suo corteo di santi, madonne, martiri,
bestiari, grifoni, torturatori di Cristo, Cristi torturati, esseri mitologici,
creazioni fantastiche. Un'arte che, pur con tutte le sue tensioni, resta
fondamentalmente asservita alla volontà del suo principale committente
terreno, la chiesa. Gradualmente, e grazie al concorso di numerosi artisti tra
i quali spiccano Cimabue e il suo probabile discepolo Giotto, il mondo
sensibile comincia ad intrufolarsi nel marmoreo edificio artistico creando
delle crepe in cui si insinua il sentire dell'artista. Le figure idealizzate,
ammantate di bellezza o bruttezza extrasensoriale, irreale, mitologica cedono a
poco a poco il passo a personaggi dai volti e dagli atteggiamenti realistici.
Personaggi dotati di sentimenti, emozioni, umanità. L'arte comincia ad
intraprendere quel cammino che la porterà a celebrare non soltanto il divino,
ma anche l'umano. Il Rinascimento, con tutti gli eccessi e le contraddizioni
che accompagnano i periodi rivoluzionari, s'incaricherà di portare a compimento
questo rovesciamento di prospettiva, mettendo al centro dell'universo non più
Dio ma l'Uomo. L'uomo si libera dall'abbraccio fatale con la divina Provvidenza
dando inizio ad un processo di autodeterminazione che lo porterà a divenire il
vero soggetto del mondo, della storia, della sua storia. Si apre così un
periodo teso non solo alla conquista geografica e scientifica del pianeta ma
anche del sé, dei propri limiti e potenzialità come soggetto umano inserito in
una scansione temporale terrena non più fondata sulle certezze della fede e
sulla speranza nel godimento finale e a-temporale in quella che Agostino ha
chiamato la Città di Dio. L'uomo inizia a forgiare se stesso commettendo anche
eccessi ed errori imperdonabili. Tra dubbi, errori, fallimenti, ripensamenti,
il cammino della coscienza moderna procede anche nel campo artistico. L'arte
rinascimentale, una volta abbandonati gli influssi bizantini che avevano
caratterizzato il periodo precedente, tende a ricercare un equilibrio tra la
sfera soggettiva e quella oggettiva, tra l'interno e l'esterno, tra l'uomo e il
mondo circostante. Si assiste ad un originalissimo ritorno all'arte classica
interpretata da artisti la cui sensibilità è influenzata sia dalla scienza, che
dalla cultura cristiana. All'oppressiva architettura gotica del XII e XIII
secolo, che aveva la funzione propedeutica di mettere i devoti che entravano
nelle cattedrali nella condizione di sentirsi dei nulla ontologicici di fronte
all'immensità del divino, fanno da controcanto la riscoperta di elementi
architettonici dell'arte classica più tesa alla ricerca dell'armonia,
dell'equilibrio, delle proporzioni che non all'edificazione dell'onnipotenza di
Dio. La natura comincia ad essere studiata scientificamente in modo da poter
essere rappresentata e imitata in sé e per sé e non più trasfigurata. La
concezione della bellezza come imitazione della natura, condannata da Platone,
viene riabilitata dal movimento dell'Umanesimo neoplatonico che, nelle sue
espressioni simboliche, si focalizza proprio sull'immagine della Venere
(Afrodite per i greci). La dea dell'amore e della lussuria è uno dei soggetti
più frequentemente raffigurati dagli artisti dell'epoca. Essa viene fissata
sulle tele nella duplice veste di Venere Celeste e Venere Terrena. Amor sacro e
amor profano (titolo di una celebre opera del Tiziano), alto e basso, spirito e
carne, elevazione e sprofondamento, vertigine e abisso sono i poli entro i
quali oscillano due distinte manifestazioni di un unico ideale di Bellezza. Ed
è proprio con la Venere di Botticelli che, come faceva notare Aby Warburg, la
rappresentazione della bellezza fa un passo in avanti in direzione del
realismo. I capelli mossi dal vento delle ancelle, le loro vesti, tutto si
mette un'altra volta in movimento. Un
movimento conoscitivo, dato dallo studio della statuaria greca e romana che
allora veniva ri-studiata un'altra volta. Un'uscita definitiva da quella
ieraticità delle pose, tutta cristiana e bizantina, che aveva caratterizzato
l'arte medievale, e che continuerà invece ad essere il tratto tipico dell'arte
orientale ed ortodossa (lo scisma è di questo periodo!). Botticelli è forse il
pittore che, meglio di ogni altro, riesce a interpretare e fissare sulla tela,
rendendola visibile, la concezione della bellezza intesa come ideale sublime di
armonia e proporzione delle parti sviluppata dalla corrente neoplotiniana
promossa da Marsilio Ficino. Secondo Ficino l'amore, diffuso nell'universo
dalla bontà del Creatore (il quale come aveva già osservato Plotino stesso è
pura energia traboccante senza un fine), è anche il mezzo per ricongiungersi a
Lui (in Platone la stessa funzione è svolta da Eros che funge da tramite
tra il mondo sensibile e quello intelliggibile) e la bellezza rappresenta lo
strumento principe di cui Amore dispone per promuovere la volontà di Dio. L'influsso del neoplatonismo sulle arti liberali è senza alcun dubbio un
elemento determinante che concorre alla definizione della bellezza nel XV
secolo, ma non è certamente l'unico. Altri elementi convergenti sono la
scoperta della prospettiva in Italia, il diffondersi della pittura ad olio
nelle Fiandre, il favore che gli artisti incontrarono presso le corti dei
principi italiani e le più ricche e potenti famiglie della penisola. L'ingresso
sulla scena artistica di questi nuovi committenti non solo pone un limite al
monopolio della chiesa sull'arte, ma parallelamente favorisce la diffusione
della ritrattistica. L'arte diviene un mezzo di promozione della classe
borghese e, per contro, la realtà della società politica, culturale e mondana
diviene oggetto di indagine per l'artista. Mentre, come abbiamo visto, sono
armonia e razionalismo a dominare il mondo artistico rinascimentale, nel
barocco sono l'efflorescenza e l'esagerazione, la pompa e il fasto d'influsso
spagnolo a dominare tutti i campi. Basti pensare al teatro di Lope de Vega,
alla poesia superficiale e manierista di Salvator Rosa e Giovanni Battista
Marino, alle sacre rappresentazioni, all'ipertrofica ornamentazione delle facciate
delle chiese. Una correzione arriverà soltanto con il „secolo dei lumi“, con
l'arte neoclassica, paragonata da Goethe alla superficie dell'acqua che rimane
calma e quasi immobile anche quando al di sotto c'è un tumulto di correnti
nascoste. L'Occidente, spinto ancora una volta all'imitazione dei greci -
soprattutto dalla nascita dell'archeologia come scienza e dagli scavi di Pompei
nel 1738 - recupera la proporzione e l'armonia, gli spazi aperti di quieta
grandezza dell'arte classica e ne fa la misura della nuova sensibilità,
conquistata sulle ceneri degli eccessi barocchi e rococò. Nasce solo ora la
vera progettazione urbanistica. Città come San Pietroburgo vengono pianificate
da sovrani illuminati sulla base di concetti artistici neoclassici, con l'introduzione
dello spazio e dell'apertura, del respiro a misura d'uomo e con l'abbandono
dell'angustia delle stradine medioevali. Da ora a tutto il novecento, e magari
con poco rispetto verso la storia, le città e le strade d'Europa si rifaranno
il maquillage sulla base di concetti di bellezza improntati alla
solarità, allo spazio, al viaggio conoscitivo.
Il declino della
bellezza intelligibile
La Rivoluzione francese (1789)
diede avvio ad un cambiamento epocale non solo dal punto di vista politico e
sociale, ma anche estetico. Sotto la lama della ghigliottina finiscono non solo
le teste impomatate e le surreali parrucche dei sovrani, dei nobili, dei figli
della Rivoluzione e del Terrore, ma anche gli eccessi assunti dal concetto di
bellezza nei secoli XVII e XVIII. Alla maniacale e ossessiva ricerca di una
bellezza improntata al lusso sfrenato, alla mondanità, alla superficialità dei
volti imbellettati, al vuoto assoluto che si cela dietro la teatralità dei
gesti, si sostituisce una nuova forma di "bello" più semplice, più
sobrio. I pittori cominciano a ritrarre la bellezza genuina di fanciulle e
popolane dagli abiti meno suntuosi e dai visi struccati. A poco a poco si
afferma un nuovo ideale di bellezza, la bellezza romantica con tutti i suoi
tormenti e le sue pene. Un anno dopo l'avvio della Rivoluzione, nell'appartata
cittadina di Königsberg, il filosofo tedesco Immanuel Kant completa la stesura
dell'ultima parte di un'opera destinata a rivoluzionare il concetto di
bellezza, La critica del Giudizio. Strano ometto quel Kant. Nel
1762 nel tentativo di dimostrare l'esistenza di Dio sulla base della ragione (L'unico
argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio) aveva
finito per fornire al secolo gli strumenti per dimostrarne l'inesistenza; poi,
a poco più di vent'anni di distanza, darà corso ad una nuova rivoluzione
copernicana trascinando una volta per tutte la bellezza dal cielo alla terra.
Nella parte della Critica del Giudizio dedicata alla "critica del
giudizio estetico" Kant si propone di fornire una "critica del
gusto" prendendo in esame la nostra capacità di giudizio estetico. Il
ragionamento è più o meno questo: se mi metto ad osservare un quadro in un
museo si stabilisce una relazione tra una rappresentazione particolare (il
contenuto del quadro) e una sorta di piacere o dispiacere che provo
nell'osservarlo. Il piacere o dispiacere provato è un sentimento indipendente
da altre finalità (rubare il quadro per rivenderlo, poterlo imitare alla
perfezione, sfregiarlo, contemplarlo intensamente per darsi arie da
intenditore) e si fonda esclusivamente sulla relazione che si stabilisce tra la
mia immaginazione e il mio intelletto mentre lo osservo. Ora, il giudizio di
gusto concerne oggetti dei sensi ma non per determinarne un concetto per l'intelletto;
perché esso non è un giudizio di conoscenza. E quindi, in quanto
rappresentazione intuitiva individuale relativa al sentimento di piacere, è un
giudizio privato, e perciò la sua validità sarebbe ristretta all'individuo
giudicante; l'oggetto è per me oggetto di piacere, e per gli altri individui
può non avere questa qualità; - ognuno ha il proprio gusto. (3) Secondo
Kant i giudizi di gusto, pur non contribuendo in nessun modo alla conoscenza
delle cose, sono comunicabili e fondati su una sorta di "senso
comune" estetico. In altre parole; i giudizi di gusto sono dotati non
tanto di una universalità oggettiva ma di una universalità
"soggettiva" sui generis. La frittata è fatta! Kant, tra una
passeggiata e l'altra per le vie di Königsberg, recide il cordone ombelicale
che da Platone in poi teneva unito il mondo sensibile a quello sovrasensibile,
liberando la bellezza che, sino ad allora, era stata costretta a presentarsi
sotto mentite spoglie; quelle del Divino, dell'Assoluto. La bellezza si individualizza,
non è più legata alla riproducibilità di un'idea all'infinito; non è più il
ponte tra un mondo e l'altro. Ciò vale tanto per il bello dell'arte che per
quello della natura. Il bello, artistico o naturale che sia, non è più
riconducibile ad un concetto, un oggetto o una sua rappresentazione, ma piace
perché piace, e il piacere dipende dal gusto dell'osservatore. Ora, sono i
sensi ad impadronirsi del mondo dell'arte e della natura, con buona pace delle
idee assolute e delle essenze sovrasensibili. Come ha fatto notare Tzvetan
Todorov, con la Rivoluzione francese giunge a piena maturazione il processo di
emancipazione dalla tutela religiosa e l'arte impara a celebrare l'uomo e
non più solo Dio. (4) Non a caso, osserva Todorov, nella Dichiarazione
dei diritti dell'uomo e del cittadino scritta il 26 agosto del 1789 dai
membri dell'Assemblea costituente non si fanno riferimenti a Dio, né alla
chiesa. La Nazione diventa l'incarnazione dell'assoluto terreno. Il sacro è
così trasferito da Dio all'uomo. (5) Tutto ciò avrà delle ricadute immense
non solo sul piano politico, religioso e sociale ma anche sugli sviluppi
dell'arte e del "bello". Friedrich Schiller, pur ammirando il
tentativo dei rivoluzionari di creare uno stato fondato sulla ragione piuttosto
che sulla fede non condivide né il clima di barbarie instauratosi in Francia a
partire dal 1792, né la sacralizzazione dello stato. L'assoluto, secondo lui,
deve rimanere retaggio dell'esperienza umana e non incarnarsi nello stato e
nelle istituzioni. Nel 1795, il Poeta pubblica le Lettere sull'educazione
estetica dell'uomo in cui espone le sue idee sull'educazione morale
dell'uomo attraverso la bellezza. L'arte educherà l'umanità semplicemente
fornendole l'esempio di una attività libera che trova la propria finalità in se
stessa, senza essere sottomessa a un principio esterno. Nello stesso tempo,
l'arte è incontro di sensibile e intelligibile, materiale e spirituale; e così
diventa una "rappresentazione dell'assoluto". Come Dio, la bellezza
designa l'assoluto; a contatto con le belle arti l'uomo potrà perfezionarsi. (6)
Per un artista un programma di questo genere è come un invito a nozze. Il
gruppetto di giovani amici febbricitanti che gravitava intorno a Schiller lo
farà proprio, impegnandosi a realizzarlo. L'arte diventa religione, e il bello
il suo Dio. Il pennello, i colori, la tela, lo scrittoio, la penna, lo
scalpello, il marmo e la pietra si trasformano in strumenti rituali con cui
celebrare l'eucarestia del Bello. L'artista, finora non distinto dall'artigiano,
diventa l'intermediario tra la Natura e l'Uomo comune, colui che grazie alla
sua sensibilità sviluppata (spesso fino ai limiti della nevrosi e della pazzia)
crea, spingendosi sempre più in là alla ricerca del Bello e del Vero. Nella
musica questo passaggio si vede già con lo status sociale di un Beethoven
rispetto ai suoi maestri Mozart e Haydn, ancora legati alla commissione e al
lavoro ininterrotto, con o senza ispirazione. Beethoven è invece intelletto
romantico, un Napoleone dell'arte, che può permettersi di trattare a pesci in
faccia un qualsiasi altro individuo, nobile o meno. Nasce il „maestro“ nel
senso di individuo che „apre“ le percezioni della massa grazie al suo sforzo
solitario. E da parte della massa comincia l'idolatria. L'arte non solo si
libera della religione, ma nasce la religione dell'arte. Inizia il gioco della
totalità risolto nell'immanenza dell'infinito nel mondo sensibile, nella
natura. L'infinito a cui tendere non è più il mondo dell'iperuranio ma il mondo
sublunare, gli abissi, il mondo del sottosuolo. La natura non viene più
descritta, bensì direttamente sperimentata. I romantici si dispongono
misticamente all'ascolto della natura. Ma l'essenza della natura non si lascia
cogliere e sfugge tra le nuvole che avvolgono inquietanti ghiacciai alpini, si
dilegua tra le nebbie nella vastità degli oceani, si mimetizza come una cernia
nei fondali degli abissi marini. I romantici, nel loro sforzo di penetrare i
segreti della natura, liberano dal vaso di Pandora la bellezza dionisiaca che i
greci avevano tentato di sottrarre allo sguardo diretto, disperdendo per le
contrade dell'Occidente la bellezza del caos, dell'informe, del tenebroso, del
demoniaco, del mortuario. La Germania di quegli anni è tutto un proliferare di
spiriti inquieti e tormentati, anime melanconiche e lacerate, amanti sofferenti
e sull'orlo del precipizio. Mai furono registrati tanti suicidi in Europa che
nell'anno in cui uscì I dolori del giovane Werther di Goethe (si
ipotizzano almeno duemila suicidi tra i lettori del romanzo, pubblicato nel
1774). Nel campo della pittura è forse Caspar David Friedrich che meglio di
ogni altro riesce a fissare lo spirito della bellezza romantica. Nei suoi
quadri la natura viene rappresentata in tutta la sua sconfinatezza e potenza.
Le forze della natura simboleggiate dai mari inquieti, da scogliere
vertiginose, da paesaggi melanconici trasmettono la sensazione dell'infinitezza
della natura. L'uomo, dipinto quasi sempre di spalle, si inserisce nella
cornice con tutta la sua finitezza di fiero osservatore incantato e quasi
stupito dalla rappresentazione dall'immensità delle forze dell'assoluto in
movimento.
Il XIX secolo, la storia
contemporanea e gli sviluppi del concetto di bellezza saranno segnati non solo
dalla rivoluzione francese, ma anche da quella industriale che, a partire dalla
metà dell'800, dispiegherà tutta la sua potenza allargando il sistema di
produzione industriale dal settore tessile a quello delle macchine utensili,
del ferro e dell'acciaio. Il progressivo affermarsi del sistema capitalistico
farà emergere nuove forze sociali e nuovi movimenti di idee antagoniste che, in
nome della nuova classe generatasi dalla rivoluzione industriale, il
proletariato, tenteranno di liquidare l'inumano sistema messo in campo dalla
classe borghese e dall'industrializzazione. Le trasformazioni industriali
producono degli sconvolgimenti urbanistici senza precedenti nella storia. Masse
di contadini abbandonano le campagne e si riversano nelle metropoli dando vita
tra sporcizia, condizioni igieniche impensabili e miseria a vere e proprie
baraccopoli a ridosso delle fabbriche e delle città. Le metropoli entrano nel
caos e gli artisti pure. In reazione alle masse anonime, agli sconvolgimenti
innescati dal mondo industriale l'artista disgustato si ritira in se stesso
assolutizzando la bellezza al punto da trasformare la sua stessa vita in opera
d'arte o di dedicarsi esclusivamente alla ricerca del "bello". Questo
tipo di atteggiamento, che si prolungherà fino ai primi decenni del XX secolo, si
ritroverà in tutte le espressioni artistiche poi catalogate con i nomi di arte
per l'arte, estetismo, decadentismo, dandyismo. L'arte si chiude a riccio in se
stessa. Della natura, tanto osannata dai romantici, non resta più traccia se
non quella del fiore che finirà per dare origine ad una tendenza, il liberty.
La bellezza, di cui i romantici avevano messo in luce anche il lato negativo,
finisce col nascondersi e, non a caso, il compito che si assumono i poeti
simbolisti è quello di decifrarla e di riportarla alla luce con tutti i mezzi
possibili: l'uso di sostanze stupefacenti, la frequentazione dei bordelli e dei
bassifondi parigini. L'eccesso diventa la regola che permette all'artista di
portare alla luce i simboli celati. Con l'introduzione della fotografia nel mondo
dell'arte (1839) - si pensi alle opere del grande fotografo Nadar, il Tiziano
della fotografia - e il progressivo dominio della tecnica l'opera d'arte perde
la sua "aura", la sua unicità. La bellezza diventa seriale,
accessibile a tutti e l'artista reagisce ritraendosi nel mondo della
conoscenza, dei sentimenti, delle emozioni delle linee, dei punti. Dopo Picasso
non ha più senso parlare di bellezza. L'arte diventa sperimentale, astratta.
Nell'arte contemporanea la materia da mezzo si trasforma in fine. Nella pittura
informale, per esempio, macchie e sgocciolii vengono a trovarsi al centro del
discorso estetico, l'informe assume lo statuto della forma. La bellezza finisce
per rivelarsi attraverso le sensazioni che proviamo nell'osservare una colata di
colore o un artista che si taglia pezzetti di carne durante una performance.
Dunque, che cosa ci resta del
concetto di bellezza? L'estetica da Baumgartner a Kant è formale, e in quanto
tale prefigura l'arte moderna astratta, che privilegia le forme e il senso di
armonia o piacere che esse possono dare. D'altro canto l'estetica di Hegel è
materiale e rimanda al legame tra l'arte moderna e i suoi contenuti, superando
il concetto di bello in quanto tale. Hegel prefigura così l'estetica del brutto
(e chi non penserà alla scapigliatura italiana, al gusto dell'orrido, ai
romanzi dell'orrore, e alla fascinazione per il deforme, il cimiteriale che
dall'epoca romantica ci siamo portati dietro fino alla televisione e ai
fumetti?)
La bellezza allora è un concetto
o un'esperienza? Vedere il David di Donatello ci dà un'impressione di bellezza
quasi oggettiva, impressione dovuta dalle proporzioni armoniche, dalla
simmetria, dalla comprensibilità per comparazione. Eppure, davanti ad un quadro
che non comprendiamo, o davanti ad una donna o ad un uomo imperfetti, secondo i
canoni, quante volte li troviamo belli in un senso del tutto soggettivo, non
condiviso dalla maggioranza delle persone? Allora la bellezza è un'esperienza,
il cui fascino sta nel mistero. Il mistero resta tale nel tempo, un concetto
quando è compreso invecchia. I cosiddetti canoni della bellezza sono solo
tentativi della ragione, destinati a modificarsi nel tempo e nei luoghi in base
alle differenti culture. Le donnone dei quadri di Rubens oggi fanno
rabbrividire lo spettatore medio, ma presto forse anche le nostre modelle
anoressiche provocheranno lo stesso effetto. La belllezza ci offre quindi un
duplice appiglio: oggettivo in quanto conoscitivo e matematico ma anche
esperienziale, fatto di soggettività, di preferenza, di libero arbitrio. Questa
dualità è uno dei doni che la Natura ci ha offerto: la libertà di dissentire
davanti alla Gioconda e dire: „secondo me non sta ridendo“, di commuoversi
davanti ad una statua lignea dei Dogon, di derivare esperienze sublimi da
Mondrian o da Ingres. La bellezza è scelta e canone allo stesso momento. Il
Tempo ci ha insegnato che la Bellezza assoluta non esiste. Crono è il padre di Venere.
NOTE: (1) Platone, La
Repubblica, Libro X, Sansoni, Firenze, 1970, p. 352. (2) Come ha fatto
notare Michel Onfray, La cura dei piaceri, Ponte alle Grazie, Milano
2009, Origene, forse il più grande teologo del III secolo dopo Cristo, inciampa
prima nella lettura di questo versetto di Matteo: "vi sono eunuchi che si
sono fatti eunuchi per il regno dei cieli" (Mt XIX, 12), poi in quello di
Marco: "Se la tua mano ti scandalizza, tagliala" (Mc IX, 43).
(N.d.R.). (3) Kant, Critica del Giudizio, Parte prima, Sezione II,
57, Editori Laterza, Bari 1987, pp. 201, 202. (4) Tzvetan Todorov, La
bellezza salverà il Mondo, Garzanti, Milano 2010, p. 214. (5) Ibid., p. 215. (6) Ibid., p. 219.