giovedì 20 maggio 2021

Venere e Crono - Note sul concetto di bellezza nella storia (di Marco Minoletti)

 


La bellezza non è una qualità delle cose stesse: esiste solo nella mente che la contempla; e ogni mente percepisce una bellezza diversa. (David Hume)

 

In un'epoca come la nostra, in cui ogni merce deve essere piazzata sul mercato e rapidamente consumata per poi rinascere più bella e desiderabile (la cosiddetta „catarsi della merce“), il concetto di bellezza ed i superlativi connessi all'aggettivo "bello" sono sottoposti ad una tale usura che si stenta a capire quali possano essere, se esistono, i canoni di riferimento epocali che ci consentono di cogliere l'essenza transitoria del bello.

Per tentare di sbrogliare questa intricata matassa ci sforzeremo di illustrare per sommi capi il percorso di tale concetto nelle epoche che ci hanno preceduto. La bellezza, pur essendo un fatto quasi esclusivamente soggettivo legato al gusto, implica una serie ineludibile di elementi culturali e psicologici che finiscono per condizionare consciamente e inconsciamente il nostro giudizio "personale". Un tempo si pensava che attraverso dei canoni precisi (oggettivi), legati ad un determinato periodo storico, fosse possibile pervenire ad una definizione compatta del concetto di "bello". Oggigiorno quest'impresa ci pare assai ardua, se non impossibile.

Per quanto concerne la tradizione occidentale la bellezza e dunque l'arte, secondo alcuni, è l'antidoto che i greci produssero per contrastare la tragicità della vita. Paradigmatico è il mito greco che narra la nascita della dea della bellezza e dell'amore, Afrodite. Gea, la madre terra, - prima realtà materiale della creazione apparsa improvvisamente dal Caos informe e al di là del tempo e dello spazio - governava il creato assieme al suo sposo Urano. Urano, ossessionato dall'idea che i suoi mostruosi figli potessero privarlo un giorno del dominio dell'universo vide bene di farli sprofondare al centro della terra. Adirata per la sorte destinata ai figli Gea estrasse del ferro dalle proprie viscere, forgiò una falce, radunò i figli e chiese loro di ribellarsi al padre. Solo il più giovane, il titano Crono, ebbe il coraggio di farsi armare la mano dalla madre. Si nascose nelle viscere della Terra e attese l'arrivo del padre che ogni notte discendeva dal cielo per unirsi a Gea nell'oscurità. Crono sorprese il padre e dopo averlo immobilizzato lo evirò. I genitali di Urano caddero nel mare e dalla miscela di alcune gocce di sperma e di spuma delle onde creatasi dalla loro caduta si generò Afrodite, la dea della bellezza, dell'amore, della sensualità, della lussuria. La nascita della bellezza, stando al mito greco, è dunque indissolubilmente legata e connaturata alla tragicità della vita, al dolore, al negativo, al male, cioè ai suoi opposti. Infatti, quando pensiamo alla bellezza ci vengono in mente il bene, l'armonia, il positivo. Il mito, invece, s'incarica di portare alla luce la natura intrinseca dell'idea di bellezza disvelandone la cifra occultata: la compresenza degli opposti (bellezza/bruttezza, gioia/dolore, piacere/sofferenza, bene/male, armonia/disarmonia, simmetria/asimmetria).

Platone, a sua volta gran inventore di miti, pare non tenere in dovuto conto la lezione dei suoi predecessori e si orienta verso la bellezza intelligibile che, com'è risaputo, è priva di forma, colore, sapore. Il filosofo ateniese, negando la dimensione sensoriale, finisce per sacrificare la bellezza sensibile sull'altare del mondo "iperuranico" delle idee, delle astrazioni. Arte e poesia travandosi nella posizione di essere rinviate oltre se stesse, al mondo delle idee, e in ultima analisi all'Uno, finiscono con l'essere conseguentemente e logicamente bandite dalla tirannica Repubblica ideale del filosofo. Quale spazio possono infatti avere in sifatta costellazione colori che imitano l'idea di colore in sé, forme che non rappresentano altro che imitazioni dell'idea di forma, artisti che scatenano tra i giovani passioni invece di governarle e via di questo passo? Nessuno, ovviamente! Secondo la ben nota concezione platonica la realtà (il mondo naturale) non è altro che una copia, un'imitazione (mimèsis) del mondo perfetto delle idee. E l'opera d'arte essendo a sua volta imitazione della natura, si riduce ad essere una sbiadita copia della copia e quindi non è in grado di esprimere la verità se non in grado infimo. Il filosofo, infatti, individua nell'Uno (Plotino lo chiamerà poi Dio) il creatore del mondo delle idee che rappresentano l'essenza della realtà immateriale (immutabile, eterna, universalmente valida) e dunque il Vero. L'artigiano, dal canto suo, forgiando un oggetto materiale, copia dal mondo delle idee. Seguendo questo ragionamento un tavolo, per esempio, non è altro che una copia materiale dell'idea assoluta di tavolo, dell'essenza dell'idea "tavolo". In questa scala discendente, l'artista mimetico viene a trovarsi su un gradino ancora inferiore poiché non solo non è in grado di cogliere il primo riflesso dell'idea "tavolo" (colto invece dall'artigiano che lo fabbrica), ma dipingendo un tavolo finisce per coglierne solo il riflesso del riflesso, la copia della copia, appunto. Ben lontana dal vero è dunque l'arte mimetica, e perciò, a quanto pare, riesce a fabbricare ogni cosa, perché coglie solo una piccola parte di ogni singolo oggetto, e per giunta una mera parvenza. Così diciamo, il pittore ci dipingerà un calzolaio, un falegname e gli altri artigiani, senza intendersi affatto dell'arte di nessun di costoro. (1) La bellezza nella dottrina platonica gioca un ruolo centrale soprattutto per quanto attiene l'idea suprema del bene. Scopo fondamentale dell'esistenza dell'uomo è quello di elevarsi per mezzo dell'anima al mondo perfetto, immutabile ed eterno delle idee. Nel mondo delle idee il posto centrale è occupato dall'idea di bene che si rivela all'uomo tramite la bellezza. Il medium che ci consente di elevarci alla bellezza è l'amore che, non a caso, per il filosofo ateniese è desiderio di bellezza e di bene.

Con Aristotele il concetto di bellezza assume altri contorni. La critica radicale della teoria platonica delle idee da parte del pensatore di Stagira, secondo il quale non vi può essere una separazione netta tra il mondo intelliggibile e quello sensibile, finisce per investire anche l'idea di bellezza. Nella realtà concreta l'idea di bellezza non esiste di per sé. - Come può pensare Platone che essa esista in forma sostanziale? - Qualcuno di noi ha forse mai visto l'idea riflessa di bellezza a passeggio? Per Aristotele l'opera d'arte non è il simulacro di un idea data, bensì creazione da parte di un individuo. Attualizzando il pensiero di Aristotele potremmo dire che nell'opera artistica individuale si fondono forma e materia non tanto come risultanti di un'idea immutabile quanto, invece, di una forma ideale scaturita dalla mente dell'artista che plasma la materia secondo la sua idea. Ma cosa facevano i disprezzati "artisti" mentre i nostri filosofi pensavano? Scolpivano corpi statuari, armonici e proporzionati, incantevoli divinità femminili, costruivano templi ed edifici che sono al contempo belli e rispettosi delle regole introdotte dalla geometria e dalla matematica, dipingevano vasi di terraccotta decorati con ornamenti di rara profondità e complessità espressiva, componevano dei suoni armonici, producevano versi.

In sostanza, pur rifiutando una visione lineare sia della storia che dei concetti che caratterizzano le varie civiltà, la realtà delle cose, e ciò vale per ogni epoca, è sempre più complessa, stratificata, ramificata, discontinua e contraddittoria di quel che possiamo immaginare o ri-costruire tramite le scuole di pensiero che si accavallano e susseguono, possiamo sinteticamente dire che per i greci - vuoi per gli influssi della religione, vuoi per quelli della vita politica - l'ideale della misura pare essere predominante in tutte le manifestazioni della vita e dell'arte. I greci, attraverso le espressioni in cui si manifesta il loro bisogno di misura (la bellezza, il bene, il vero), creano le fondamenta su cui poggerà l'edificio della cultura occidentale. Ma al contempo, come ha fatto notare Nietzsche, accanto alla bellezza "apollinea" che si fonda sull'armonia, intesa come ordine e misura, e che trae probabilmente la sua forza dal tentativo di arginare il Caos da cui è scaturito il mondo, è presente un'altra forma di bellezza, la bellezza "dionisiaca". Essa rappresenta il lato oscuro, folle, pericoloso, instabile, eccessivo, enigmatico, terribile, lacerante della bellezza."Apollineo"e "Dionisiaco" giorno e notte, bene e male, lucentezza e tenebra, dialettica dei contrari, armonia e disarmonia che nel loro titanico scontro si rafforzano a vicenda dominando la natura ellenica. Già in Grecia, dunque, le cose non paiono seguire un'ordine così lineare, armonico e solare, anche se di fatto non sarà dalla tradizione "dionisiaca", ma dall'ibrido Platone che prenderanno le mosse le due concezioni principali della bellezza elaborate nei secoli successivi: la bellezza come armonia e proporzione delle parti e la bellezza ideale, splendente, distinta dall'oggetto sensibile che la esprime. Per Platone, ricordiamolo, il corpo è la prigione dell'anima e quindi, come si intuisce leggendo la Repubblica, o si studia la filosofia e si perviene ad una visione intellettuale della bellezza e si governano gli uomini e le città, oppure non resta che arruolarsi nell'esercito dei guerrieri o fare gli schiavi. Il problema qui è il mondo sensibile! A lasciarci i genitali non sono solo gli dei della mitologia greca per mano dei propri figli, ma anche i Padri della Chiesa che, come nel caso di Origene, decidono di risolvere di propria mano i problemi legati a tale sfera (2). Meno si ha a che fare con i sensi (mondo sensibile), più si ottiene nell'aldilà il mondo delle idee e le sue torsioni: l'Uno, Dio. Nel Medioevo, soprattutto attraverso la Scolastica, influenzata dall'ombra lunga di Platone, il modello sviluppato a partire dai greci raggiunge il suo periodo aureo. Ora non sono più solo i filosofi, tramite l'intelletto, ad essere in grado di pervenire all'essenza della bellezza, della verità, del bene ma, per mezzo della fede, tutti possono accedere al mondo dell'aldilà, al mondo delle idee. Mutatis mutandis, anche nel Medioevo le sensazioni estetiche che si provano in presenza della bellezza sensibile non si risolvono sul piano dell'universo sensibile in sé, ma vengono veicolate in direzione della bellezza intelligibile, la Bellezza assoluta. Ogni forma di bellezza viene così spogliata, deturpata, scannata, spolpata e condannata a recitare il ruolo di controfigura sensibile e spettrale della reale e unica essenza di tutte le cose (e dunque anche di tutte le forme di bellezza): l'Idea, l'Uno, Dio. L'arte medioevale, pur con tutti i suoi grappoli di teorie affascinanti, contraddittorie, innovative e originali resta nel suo complesso un'arte pedagogica votata alla sacralità. Un'arte che al di là dei suoi grandiosi sviluppi intrinseci s'incarica sostanzialmente di mettere in scena, narrandola, la Storia Sacra con il suo corteo di santi, madonne, martiri, bestiari, grifoni, torturatori di Cristo, Cristi torturati, esseri mitologici, creazioni fantastiche. Un'arte che, pur con tutte le sue tensioni, resta fondamentalmente asservita alla volontà del suo principale committente terreno, la chiesa. Gradualmente, e grazie al concorso di numerosi artisti tra i quali spiccano Cimabue e il suo probabile discepolo Giotto, il mondo sensibile comincia ad intrufolarsi nel marmoreo edificio artistico creando delle crepe in cui si insinua il sentire dell'artista. Le figure idealizzate, ammantate di bellezza o bruttezza extrasensoriale, irreale, mitologica cedono a poco a poco il passo a personaggi dai volti e dagli atteggiamenti realistici. Personaggi dotati di sentimenti, emozioni, umanità. L'arte comincia ad intraprendere quel cammino che la porterà a celebrare non soltanto il divino, ma anche l'umano. Il Rinascimento, con tutti gli eccessi e le contraddizioni che accompagnano i periodi rivoluzionari, s'incaricherà di portare a compimento questo rovesciamento di prospettiva, mettendo al centro dell'universo non più Dio ma l'Uomo. L'uomo si libera dall'abbraccio fatale con la divina Provvidenza dando inizio ad un processo di autodeterminazione che lo porterà a divenire il vero soggetto del mondo, della storia, della sua storia. Si apre così un periodo teso non solo alla conquista geografica e scientifica del pianeta ma anche del sé, dei propri limiti e potenzialità come soggetto umano inserito in una scansione temporale terrena non più fondata sulle certezze della fede e sulla speranza nel godimento finale e a-temporale in quella che Agostino ha chiamato la Città di Dio. L'uomo inizia a forgiare se stesso commettendo anche eccessi ed errori imperdonabili. Tra dubbi, errori, fallimenti, ripensamenti, il cammino della coscienza moderna procede anche nel campo artistico. L'arte rinascimentale, una volta abbandonati gli influssi bizantini che avevano caratterizzato il periodo precedente, tende a ricercare un equilibrio tra la sfera soggettiva e quella oggettiva, tra l'interno e l'esterno, tra l'uomo e il mondo circostante. Si assiste ad un originalissimo ritorno all'arte classica interpretata da artisti la cui sensibilità è influenzata sia dalla scienza, che dalla cultura cristiana. All'oppressiva architettura gotica del XII e XIII secolo, che aveva la funzione propedeutica di mettere i devoti che entravano nelle cattedrali nella condizione di sentirsi dei nulla ontologicici di fronte all'immensità del divino, fanno da controcanto la riscoperta di elementi architettonici dell'arte classica più tesa alla ricerca dell'armonia, dell'equilibrio, delle proporzioni che non all'edificazione dell'onnipotenza di Dio. La natura comincia ad essere studiata scientificamente in modo da poter essere rappresentata e imitata in sé e per sé e non più trasfigurata. La concezione della bellezza come imitazione della natura, condannata da Platone, viene riabilitata dal movimento dell'Umanesimo neoplatonico che, nelle sue espressioni simboliche, si focalizza proprio sull'immagine della Venere (Afrodite per i greci). La dea dell'amore e della lussuria è uno dei soggetti più frequentemente raffigurati dagli artisti dell'epoca. Essa viene fissata sulle tele nella duplice veste di Venere Celeste e Venere Terrena. Amor sacro e amor profano (titolo di una celebre opera del Tiziano), alto e basso, spirito e carne, elevazione e sprofondamento, vertigine e abisso sono i poli entro i quali oscillano due distinte manifestazioni di un unico ideale di Bellezza. Ed è proprio con la Venere di Botticelli che, come faceva notare Aby Warburg, la rappresentazione della bellezza fa un passo in avanti in direzione del realismo. I capelli mossi dal vento delle ancelle, le loro vesti, tutto si mette un'altra volta in movimento. Un movimento conoscitivo, dato dallo studio della statuaria greca e romana che allora veniva ri-studiata un'altra volta. Un'uscita definitiva da quella ieraticità delle pose, tutta cristiana e bizantina, che aveva caratterizzato l'arte medievale, e che continuerà invece ad essere il tratto tipico dell'arte orientale ed ortodossa (lo scisma è di questo periodo!). Botticelli è forse il pittore che, meglio di ogni altro, riesce a interpretare e fissare sulla tela, rendendola visibile, la concezione della bellezza intesa come ideale sublime di armonia e proporzione delle parti sviluppata dalla corrente neoplotiniana promossa da Marsilio Ficino. Secondo Ficino l'amore, diffuso nell'universo dalla bontà del Creatore (il quale come aveva già osservato Plotino stesso è pura energia traboccante senza un fine), è anche il mezzo per ricongiungersi a Lui (in Platone la stessa funzione è svolta da Eros che funge da tramite tra il mondo sensibile e quello intelliggibile) e la bellezza rappresenta lo strumento principe di cui Amore dispone per promuovere la volontà di Dio. L'influsso del neoplatonismo sulle arti liberali è senza alcun dubbio un elemento determinante che concorre alla definizione della bellezza nel XV secolo, ma non è certamente l'unico. Altri elementi convergenti sono la scoperta della prospettiva in Italia, il diffondersi della pittura ad olio nelle Fiandre, il favore che gli artisti incontrarono presso le corti dei principi italiani e le più ricche e potenti famiglie della penisola. L'ingresso sulla scena artistica di questi nuovi committenti non solo pone un limite al monopolio della chiesa sull'arte, ma parallelamente favorisce la diffusione della ritrattistica. L'arte diviene un mezzo di promozione della classe borghese e, per contro, la realtà della società politica, culturale e mondana diviene oggetto di indagine per l'artista. Mentre, come abbiamo visto, sono armonia e razionalismo a dominare il mondo artistico rinascimentale, nel barocco sono l'efflorescenza e l'esagerazione, la pompa e il fasto d'influsso spagnolo a dominare tutti i campi. Basti pensare al teatro di Lope de Vega, alla poesia superficiale e manierista di Salvator Rosa e Giovanni Battista Marino, alle sacre rappresentazioni, all'ipertrofica ornamentazione delle facciate delle chiese. Una correzione arriverà soltanto con il „secolo dei lumi“, con l'arte neoclassica, paragonata da Goethe alla superficie dell'acqua che rimane calma e quasi immobile anche quando al di sotto c'è un tumulto di correnti nascoste. L'Occidente, spinto ancora una volta all'imitazione dei greci - soprattutto dalla nascita dell'archeologia come scienza e dagli scavi di Pompei nel 1738 - recupera la proporzione e l'armonia, gli spazi aperti di quieta grandezza dell'arte classica e ne fa la misura della nuova sensibilità, conquistata sulle ceneri degli eccessi barocchi e rococò. Nasce solo ora la vera progettazione urbanistica. Città come San Pietroburgo vengono pianificate da sovrani illuminati sulla base di concetti artistici neoclassici, con l'introduzione dello spazio e dell'apertura, del respiro a misura d'uomo e con l'abbandono dell'angustia delle stradine medioevali. Da ora a tutto il novecento, e magari con poco rispetto verso la storia, le città e le strade d'Europa si rifaranno il maquillage sulla base di concetti di bellezza improntati alla solarità, allo spazio, al viaggio conoscitivo.

 

 

Il declino della bellezza intelligibile

 

La Rivoluzione francese (1789) diede avvio ad un cambiamento epocale non solo dal punto di vista politico e sociale, ma anche estetico. Sotto la lama della ghigliottina finiscono non solo le teste impomatate e le surreali parrucche dei sovrani, dei nobili, dei figli della Rivoluzione e del Terrore, ma anche gli eccessi assunti dal concetto di bellezza nei secoli XVII e XVIII. Alla maniacale e ossessiva ricerca di una bellezza improntata al lusso sfrenato, alla mondanità, alla superficialità dei volti imbellettati, al vuoto assoluto che si cela dietro la teatralità dei gesti, si sostituisce una nuova forma di "bello" più semplice, più sobrio. I pittori cominciano a ritrarre la bellezza genuina di fanciulle e popolane dagli abiti meno suntuosi e dai visi struccati. A poco a poco si afferma un nuovo ideale di bellezza, la bellezza romantica con tutti i suoi tormenti e le sue pene. Un anno dopo l'avvio della Rivoluzione, nell'appartata cittadina di Königsberg, il filosofo tedesco Immanuel Kant completa la stesura dell'ultima parte di un'opera destinata a rivoluzionare il concetto di bellezza, La critica del Giudizio. Strano ometto quel Kant. Nel 1762 nel tentativo di dimostrare l'esistenza di Dio sulla base della ragione (L'unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio) aveva finito per fornire al secolo gli strumenti per dimostrarne l'inesistenza; poi, a poco più di vent'anni di distanza, darà corso ad una nuova rivoluzione copernicana trascinando una volta per tutte la bellezza dal cielo alla terra. Nella parte della Critica del Giudizio dedicata alla "critica del giudizio estetico" Kant si propone di fornire una "critica del gusto" prendendo in esame la nostra capacità di giudizio estetico. Il ragionamento è più o meno questo: se mi metto ad osservare un quadro in un museo si stabilisce una relazione tra una rappresentazione particolare (il contenuto del quadro) e una sorta di piacere o dispiacere che provo nell'osservarlo. Il piacere o dispiacere provato è un sentimento indipendente da altre finalità (rubare il quadro per rivenderlo, poterlo imitare alla perfezione, sfregiarlo, contemplarlo intensamente per darsi arie da intenditore) e si fonda esclusivamente sulla relazione che si stabilisce tra la mia immaginazione e il mio intelletto mentre lo osservo. Ora, il giudizio di gusto concerne oggetti dei sensi ma non per determinarne un concetto per l'intelletto; perché esso non è un giudizio di conoscenza. E quindi, in quanto rappresentazione intuitiva individuale relativa al sentimento di piacere, è un giudizio privato, e perciò la sua validità sarebbe ristretta all'individuo giudicante; l'oggetto è per me oggetto di piacere, e per gli altri individui può non avere questa qualità; - ognuno ha il proprio gusto. (3) Secondo Kant i giudizi di gusto, pur non contribuendo in nessun modo alla conoscenza delle cose, sono comunicabili e fondati su una sorta di "senso comune" estetico. In altre parole; i giudizi di gusto sono dotati non tanto di una universalità oggettiva ma di una universalità "soggettiva" sui generis. La frittata è fatta! Kant, tra una passeggiata e l'altra per le vie di Königsberg, recide il cordone ombelicale che da Platone in poi teneva unito il mondo sensibile a quello sovrasensibile, liberando la bellezza che, sino ad allora, era stata costretta a presentarsi sotto mentite spoglie; quelle del Divino, dell'Assoluto. La bellezza si individualizza, non è più legata alla riproducibilità di un'idea all'infinito; non è più il ponte tra un mondo e l'altro. Ciò vale tanto per il bello dell'arte che per quello della natura. Il bello, artistico o naturale che sia, non è più riconducibile ad un concetto, un oggetto o una sua rappresentazione, ma piace perché piace, e il piacere dipende dal gusto dell'osservatore. Ora, sono i sensi ad impadronirsi del mondo dell'arte e della natura, con buona pace delle idee assolute e delle essenze sovrasensibili. Come ha fatto notare Tzvetan Todorov, con la Rivoluzione francese giunge a piena maturazione il processo di emancipazione dalla tutela religiosa e l'arte impara a celebrare l'uomo e non più solo Dio. (4) Non a caso, osserva Todorov, nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino scritta il 26 agosto del 1789 dai membri dell'Assemblea costituente non si fanno riferimenti a Dio, né alla chiesa. La Nazione diventa l'incarnazione dell'assoluto terreno. Il sacro è così trasferito da Dio all'uomo. (5) Tutto ciò avrà delle ricadute immense non solo sul piano politico, religioso e sociale ma anche sugli sviluppi dell'arte e del "bello". Friedrich Schiller, pur ammirando il tentativo dei rivoluzionari di creare uno stato fondato sulla ragione piuttosto che sulla fede non condivide né il clima di barbarie instauratosi in Francia a partire dal 1792, né la sacralizzazione dello stato. L'assoluto, secondo lui, deve rimanere retaggio dell'esperienza umana e non incarnarsi nello stato e nelle istituzioni. Nel 1795, il Poeta pubblica le Lettere sull'educazione estetica dell'uomo in cui espone le sue idee sull'educazione morale dell'uomo attraverso la bellezza. L'arte educherà l'umanità semplicemente fornendole l'esempio di una attività libera che trova la propria finalità in se stessa, senza essere sottomessa a un principio esterno. Nello stesso tempo, l'arte è incontro di sensibile e intelligibile, materiale e spirituale; e così diventa una "rappresentazione dell'assoluto". Come Dio, la bellezza designa l'assoluto; a contatto con le belle arti l'uomo potrà perfezionarsi. (6) Per un artista un programma di questo genere è come un invito a nozze. Il gruppetto di giovani amici febbricitanti che gravitava intorno a Schiller lo farà proprio, impegnandosi a realizzarlo. L'arte diventa religione, e il bello il suo Dio. Il pennello, i colori, la tela, lo scrittoio, la penna, lo scalpello, il marmo e la pietra si trasformano in strumenti rituali con cui celebrare l'eucarestia del Bello. L'artista, finora non distinto dall'artigiano, diventa l'intermediario tra la Natura e l'Uomo comune, colui che grazie alla sua sensibilità sviluppata (spesso fino ai limiti della nevrosi e della pazzia) crea, spingendosi sempre più in là alla ricerca del Bello e del Vero. Nella musica questo passaggio si vede già con lo status sociale di un Beethoven rispetto ai suoi maestri Mozart e Haydn, ancora legati alla commissione e al lavoro ininterrotto, con o senza ispirazione. Beethoven è invece intelletto romantico, un Napoleone dell'arte, che può permettersi di trattare a pesci in faccia un qualsiasi altro individuo, nobile o meno. Nasce il „maestro“ nel senso di individuo che „apre“ le percezioni della massa grazie al suo sforzo solitario. E da parte della massa comincia l'idolatria. L'arte non solo si libera della religione, ma nasce la religione dell'arte. Inizia il gioco della totalità risolto nell'immanenza dell'infinito nel mondo sensibile, nella natura. L'infinito a cui tendere non è più il mondo dell'iperuranio ma il mondo sublunare, gli abissi, il mondo del sottosuolo. La natura non viene più descritta, bensì direttamente sperimentata. I romantici si dispongono misticamente all'ascolto della natura. Ma l'essenza della natura non si lascia cogliere e sfugge tra le nuvole che avvolgono inquietanti ghiacciai alpini, si dilegua tra le nebbie nella vastità degli oceani, si mimetizza come una cernia nei fondali degli abissi marini. I romantici, nel loro sforzo di penetrare i segreti della natura, liberano dal vaso di Pandora la bellezza dionisiaca che i greci avevano tentato di sottrarre allo sguardo diretto, disperdendo per le contrade dell'Occidente la bellezza del caos, dell'informe, del tenebroso, del demoniaco, del mortuario. La Germania di quegli anni è tutto un proliferare di spiriti inquieti e tormentati, anime melanconiche e lacerate, amanti sofferenti e sull'orlo del precipizio. Mai furono registrati tanti suicidi in Europa che nell'anno in cui uscì I dolori del giovane Werther di Goethe (si ipotizzano almeno duemila suicidi tra i lettori del romanzo, pubblicato nel 1774). Nel campo della pittura è forse Caspar David Friedrich che meglio di ogni altro riesce a fissare lo spirito della bellezza romantica. Nei suoi quadri la natura viene rappresentata in tutta la sua sconfinatezza e potenza. Le forze della natura simboleggiate dai mari inquieti, da scogliere vertiginose, da paesaggi melanconici trasmettono la sensazione dell'infinitezza della natura. L'uomo, dipinto quasi sempre di spalle, si inserisce nella cornice con tutta la sua finitezza di fiero osservatore incantato e quasi stupito dalla rappresentazione dall'immensità delle forze dell'assoluto in movimento.


Il XIX secolo, la storia contemporanea e gli sviluppi del concetto di bellezza saranno segnati non solo dalla rivoluzione francese, ma anche da quella industriale che, a partire dalla metà dell'800, dispiegherà tutta la sua potenza allargando il sistema di produzione industriale dal settore tessile a quello delle macchine utensili, del ferro e dell'acciaio. Il progressivo affermarsi del sistema capitalistico farà emergere nuove forze sociali e nuovi movimenti di idee antagoniste che, in nome della nuova classe generatasi dalla rivoluzione industriale, il proletariato, tenteranno di liquidare l'inumano sistema messo in campo dalla classe borghese e dall'industrializzazione. Le trasformazioni industriali producono degli sconvolgimenti urbanistici senza precedenti nella storia. Masse di contadini abbandonano le campagne e si riversano nelle metropoli dando vita tra sporcizia, condizioni igieniche impensabili e miseria a vere e proprie baraccopoli a ridosso delle fabbriche e delle città. Le metropoli entrano nel caos e gli artisti pure. In reazione alle masse anonime, agli sconvolgimenti innescati dal mondo industriale l'artista disgustato si ritira in se stesso assolutizzando la bellezza al punto da trasformare la sua stessa vita in opera d'arte o di dedicarsi esclusivamente alla ricerca del "bello". Questo tipo di atteggiamento, che si prolungherà fino ai primi decenni del XX secolo, si ritroverà in tutte le espressioni artistiche poi catalogate con i nomi di arte per l'arte, estetismo, decadentismo, dandyismo. L'arte si chiude a riccio in se stessa. Della natura, tanto osannata dai romantici, non resta più traccia se non quella del fiore che finirà per dare origine ad una tendenza, il liberty. La bellezza, di cui i romantici avevano messo in luce anche il lato negativo, finisce col nascondersi e, non a caso, il compito che si assumono i poeti simbolisti è quello di decifrarla e di riportarla alla luce con tutti i mezzi possibili: l'uso di sostanze stupefacenti, la frequentazione dei bordelli e dei bassifondi parigini. L'eccesso diventa la regola che permette all'artista di portare alla luce i simboli celati. Con l'introduzione della fotografia nel mondo dell'arte (1839) - si pensi alle opere del grande fotografo Nadar, il Tiziano della fotografia - e il progressivo dominio della tecnica l'opera d'arte perde la sua "aura", la sua unicità. La bellezza diventa seriale, accessibile a tutti e l'artista reagisce ritraendosi nel mondo della conoscenza, dei sentimenti, delle emozioni delle linee, dei punti. Dopo Picasso non ha più senso parlare di bellezza. L'arte diventa sperimentale, astratta. Nell'arte contemporanea la materia da mezzo si trasforma in fine. Nella pittura informale, per esempio, macchie e sgocciolii vengono a trovarsi al centro del discorso estetico, l'informe assume lo statuto della forma. La bellezza finisce per rivelarsi attraverso le sensazioni che proviamo nell'osservare una colata di colore o un artista che si taglia pezzetti di carne durante una performance.

Dunque, che cosa ci resta del concetto di bellezza? L'estetica da Baumgartner a Kant è formale, e in quanto tale prefigura l'arte moderna astratta, che privilegia le forme e il senso di armonia o piacere che esse possono dare. D'altro canto l'estetica di Hegel è materiale e rimanda al legame tra l'arte moderna e i suoi contenuti, superando il concetto di bello in quanto tale. Hegel prefigura così l'estetica del brutto (e chi non penserà alla scapigliatura italiana, al gusto dell'orrido, ai romanzi dell'orrore, e alla fascinazione per il deforme, il cimiteriale che dall'epoca romantica ci siamo portati dietro fino alla televisione e ai fumetti?)

La bellezza allora è un concetto o un'esperienza? Vedere il David di Donatello ci dà un'impressione di bellezza quasi oggettiva, impressione dovuta dalle proporzioni armoniche, dalla simmetria, dalla comprensibilità per comparazione. Eppure, davanti ad un quadro che non comprendiamo, o davanti ad una donna o ad un uomo imperfetti, secondo i canoni, quante volte li troviamo belli in un senso del tutto soggettivo, non condiviso dalla maggioranza delle persone? Allora la bellezza è un'esperienza, il cui fascino sta nel mistero. Il mistero resta tale nel tempo, un concetto quando è compreso invecchia. I cosiddetti canoni della bellezza sono solo tentativi della ragione, destinati a modificarsi nel tempo e nei luoghi in base alle differenti culture. Le donnone dei quadri di Rubens oggi fanno rabbrividire lo spettatore medio, ma presto forse anche le nostre modelle anoressiche provocheranno lo stesso effetto. La belllezza ci offre quindi un duplice appiglio: oggettivo in quanto conoscitivo e matematico ma anche esperienziale, fatto di soggettività, di preferenza, di libero arbitrio. Questa dualità è uno dei doni che la Natura ci ha offerto: la libertà di dissentire davanti alla Gioconda e dire: „secondo me non sta ridendo“, di commuoversi davanti ad una statua lignea dei Dogon, di derivare esperienze sublimi da Mondrian o da Ingres. La bellezza è scelta e canone allo stesso momento. Il Tempo ci ha insegnato che la Bellezza assoluta non esiste. Crono è il padre di Venere.

 

NOTE: (1) Platone, La Repubblica, Libro X, Sansoni, Firenze, 1970, p. 352. (2) Come ha fatto notare Michel Onfray, La cura dei piaceri, Ponte alle Grazie, Milano 2009, Origene, forse il più grande teologo del III secolo dopo Cristo, inciampa prima nella lettura di questo versetto di Matteo: "vi sono eunuchi che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli" (Mt XIX, 12), poi in quello di Marco: "Se la tua mano ti scandalizza, tagliala" (Mc IX, 43). (N.d.R.). (3) Kant, Critica del Giudizio, Parte prima, Sezione II, 57, Editori Laterza, Bari 1987, pp. 201, 202. (4) Tzvetan Todorov, La bellezza salverà il Mondo, Garzanti, Milano 2010, p. 214. (5) Ibid., p. 215. (6) Ibid., p. 219.