grazie Silvia della foto bellissima del tuo papà |
non è certo nuovo ma l'ho riletto ieri e lo copio su barravento
copiato da :
http://digilander.libero.it/biblioego/Cesaranieri.htm
Il primo di luglio del 2000 si tenne a Bologna
(Villa Serena) un convegno su Giorgio Cesarano (1928-1975). Quella che
pubblichiamo è la testimonianza di Paolo Ranieri letta nell'occasione.
dalla diserzione della cultura alla corporeità insurrezionale
ricordando Giorgio Cesarano
Quando l’ho conosciuto era il settembre
del 1969: io avevo diciassette anni appena e mi riusciva difficile non
usare il lei per rivolgermi a Giorgio e all’immancabile Flo Corona, fido
e sorridente Kammamuri di un così umbratile, corrucciato e
inaccessibile Tremal-Naik.
Ho sempre ignorato se, aldilà della sua maniera
cortese, lui avesse il desiderio o anche solo il modo di distinguermi
davvero, e con me vedere tanti altri ragazzi risoluti a cogliere
l’occasione proposta dalla storia, d’essere giovani in un momento in cui
il mondo era giovane. Solo con il volgere del tempo sono riuscito a
comprendere quanto la cospicua differenza d’età che ci separava potesse
costituire un problema altrettanto e forse più per lui che per me; e,
ancor di più quanto anche per lui quei giorni concitati fossero una
scoperta assoluta e sconvolgente, quanto egli pure vivesse un mutamento
decisivo, tanto più destabilizzante perché sopravvenuto in qualche modo
di sorpresa. Negli anni seguenti, poi, nonostante l’intreccio di comuni
amicizie e di prese di posizione relativamente concordi, circostanze e
scelte non ci diedero mai l’occasione di costruire una specifica
confidenza.
Perciò, se non ho indubbiamente la preparazione e la
competenza che altri possono vantare, per affrontare le sue tesi con la
profondità appropriata, nemmeno posso apportare un decisivo contributo
personale al ritratto di un compagno la cui vita è senza dubbio
legittimo oggetto di indagine appassionata almeno quanto e forse più
delle opere stesse.
Posso unicamente portare un ricordo mio, e provarmi a
sviluppare questo spunto nell’ambito del nostro tempo e delle sue
possibilità, poco meno inesplorate di quanto Giorgio ce le avesse
lasciate, così tanti anni fa.
Indelebile per me rimane il ricordo d’aver veduto in
mano a Giorgio, avvolto e quasi celato da un fascio di giornali che
regolarmente l’accompagnava, il Traité di Vaneigem, nella
prima storica edizione Gallimard, vera chiave alchemica della teoria
situazionista. Teoria situazionista che in quei giorni cruciali che
accompagnarono la nascita di Ludd, primo tentativo italiano di dare
forma collettiva alla critica della vita quotidiana. si spandeva in
Italia con la stessa sporadicità e lo stesso segreto, veniva atteso e
ricevuto con un’emozione simile a quella con cui tante persone (in
parecchi casi le stesse) di lì a pochi anni avrebbero atteso i primi
arrivi di morfina da Peshawar o di brown sugar da Amsterdam.
Ciò che ho scoperto sulla libertà, come pure ciò che ho
appreso della lingua francese l’ho imparato insieme ad altri in quelle
letture matte e sregolatissime, ingegnandomi di giungere al fondo di
quei testi, nelle pause delle riunioni, sui tram, nelle osterie, sulle
panchine, nei corridoi del liceo.
Racconto questo per sottolineare come, nella mia
memoria, la scoperta di Vaneigem (conoscevo già certi frammenti di
Debord e di Khayati, seppure nelle traduzioni fantasiose e spudorate in
circolazione a quel tempo) rimane per me parte del ricordo di Giorgio,
del suo montone e di quell’inverno.
D’altra parte, anche a uno sguardo meno personale,
l’analisi di Cesarano verte incontestabilmente su temi prossimi, per
certi aspetti complementari, per certi altri integralmente
sovrapponibili con quella di Vaneigem. Nell’indagine di entrambi questi
rivoluzionari la capillare pervasività delle relazioni mercantili nel
corpo degli esseri umani, e del pari l’ostinata irriducibilità dei corpi
a tali imperativi, rimane dal principio alla fine nella linea del
mirino. Entrambi passeranno l’intera loro vita di sovversivi su questo
fronte, quello della "vera guerra".
Non è possibile però non riconoscere con uguale
prontezza che ben diverse – e talvolta francamente opposte – sono le
sensibilità con cui i due affrontano la medesima materia: e che diversi
potrebbero risultare gli esiti della loro opera, se di esiti in un campo
come la vita fosse possibile parlare.
Il definitivo e storicamente irreversibile dislocarsi
della "lotta di classe" – definizione ormai ogni giorno più impropria,
utilizzabile più per il potere evocativo verso un filo ininterrotto di
avventure della libertà che per la sua attuale praticabilità in senso
letterale – nella vita, nel corpo stesso degli individui, che entrambi
non solo riconoscono, ma decisamente precorrono facendone il centro
delle loro riflessioni già trent’anni orsono, appare in Vaneigem, come
l’occasione finalmente offerta di giocare in casa, con tutti gli
elementi della vita in proprio favore, liberi da quelle sovrastrutture
che ostacolavano il dispiegarsi sovversivo del vivente; in Cesarano
viceversa l’irrompere dell’alienazione mercantile all’interno stesso dei
corpi viventi, appare come "l’ultima trincea " di un assedio sempre più
drammatico e incalzante, come la vigilia di una battaglia che non è
possibile perdere, e che proprio per questo si annuncia illuminata di
lampi sinistri. Assumendo come valido il suggerimento di Francesco Kukky
Santini, che Giorgio dovesse una specifica illuminazione della propria
opera di quegli anni alle sue sperimentazioni con l’LSD, potremmo
concludere, scherzosamente ma non troppo, che l’assenzio che accompagnò
la stesura delle vaneigemiane Banalità di Base appare capace di produrre allucinazioni meno esposte alle fughe paranoiche di quelle lisergiche…
Certamente, aldilà di queste note a margine, è
indubitabile che entrambe le possibili letture del progressivo
configurarsi del confronto per la liberazione umana, come scontro fra il
vivente e il non vivente, fra la vita e la morte, fra il corpo vivo e
il lavoro morto, presentano un proprio legittimo fondamento.
E che, per conseguenza, appaiono superficiali, sterili,
riduttive, foriere di risentimento, di contemplazione e di immobilismo.
le polarizzazioni sempre più frequenti e cocciute, al punto di dar vita
a vere e proprie correnti, fra questi due rivoluzionari. Atteggiamenti
che contrappongono di volta in volta la fiduciosa "naiveté" del belga,
definita come patriarcale, riconciliata, infantile, rimbambita perfino,
al sulfureo tormento di Giorgio, dagli oppositori presentito a sua volta
come romantico, autolesionista, illeggibile, al limite menagramo.
Risalendo alle fonti, per individuare quanta di questa
opposizione possa trovare fondamento, è possibile affermare con certezza
che Giorgio prestò per un periodo profonda attenzione all’opera di
Vaneigem, in particolare complicità con Eddie Ginosa, un compagno
l’importanza del cui contributo alla teoria rivoluzionaria, per
discrezione forse o magari semplicemente per la folgorante brevità della
sua meteora, non è stata, io credo, riconosciuta a dovere. Viceversa
risulta che Vaneigem lesse solo "Apocalisse e rivoluzione" in italiano –
lingua che padroneggia imperfettamente – e che, in effetti, ne ricavò
un ricordo, a sua detta, romantico e confuso.
Occorre altresì considerare per confrontare lealmente
l’azione e l’opera dei due che il breve arco di tempo che Giorgio ha
concesso alla propria ricerca, come pure il clima specifico di quegli
anni precipitosi, segna i testi di Cesarano di una patina assai simile a
quella che caratterizza gli scritti coevi di molti altri compagni, e
dello stesso Vaneigem nelle opere precedenti al "Libro dei piaceri",
volti gli uni e gli altri a quell’opera di semplificazione, di
accelerazione, di riduzione all’essenza, di scarnificazione quasi, che è
il marchio oscuro di quel periodo.. E’ impossibile dire ora quanto – in
condizioni diverse e più felici – lo sviluppo potenziale della ricerca
di Giorgio non avrebbe saputo riaprire possibili canali di
intercomunicazione, la cui esplorazione rimane un avventuroso invito ai
teorici di oggi e di domani.
In particolare, nella critica radicale del periodo
1969-1975, è ravvisabile, e non soltanto nei due rivoluzionari che ho
l’ambizione di portare insieme alla luce della vostra attenzione, ma un
po’ in tutte le voci diverse e discordi che la memoria ci riporta (si
pensi per esempio a "Comontismo" o al gruppo genovese riunitosi intorno a
Gianfranco Faina, dopo che l’esperienza di Ludd si era spenta), la
convinzione, che lo scatenarsi della "vera guerra" debba comportare come
corollario l’abbandono, il rifiuto e l’oblio di ogni complessità, di
ogni sovrastruttura, di ogni mediazione, per mirare viceversa ad
afferrare "nella sua essenza" il punto di rottura possibile, situato nel
punto della massima alienazione, precisamente dove il capitale nel
proprio processo si fa carne viva. Ricordo ancora nello storico crocevia
sovversivo di Balbi, sede delle facoltà umanistiche dell’università di
Genova, la scritta – temperata nella propria solennità dall’essere
vergata in dialetto genovese – "il dominio reale è il capitale fatto
uomo". Il non aver compreso che all’opera mortifera di riduzione
all’essenza operata dal capitale, non poteva contrapporsi una riduzione
uguale ma di segno contrario, di ricerca di un momento di
irrecuperabilità assoluta e catartica; ma piuttosto una ricerca della
molteplicità, della sovrabbondanza e anche della leggerezza, una
moltiplicazione fourierista delle passioni e delle soggettività, è
quanto, a mio modo di vedere, segna in maniera negativa, a volte
tragicamente negativa, quegli anni che molti di noi hanno avuto in sorte
di attraversare e che Giorgio invece ha scelto come ambito storicamente
concluso del suo passaggio nella storia.
Se appare improprio, perciò, mettere a confronto e
quasi in competizione due compagni che nell’arco della loro vita
pensarono sempre di por mano al medesimo progetto di affrancamento
dell’umanità dalla preistoria, non c’è dubbio, tuttavia, che la
ricomposizione in un compatto universo teorico dell’opera dell’uno e
dell’altro appare francamente impossibile, tali e tante sono le
sensibilità discrepanti, le percezioni contraddittorie, i segni
divergenti. Sono convinto, però, che tale impossibilità vada ripensata
nell’ambito di una rinnovata capacità di fare interagire diversi
progetti sovversivi, come pure differenti modi di vivere con inimicizia
l’esistente: quella capacità rinnovata che è, a mio giudizio, il più
significativo portato recente del movimento di liberazione umana, quale
con rinnovato vigore si affaccia sul millennio in arrivo.
Per sottolineare il mio ragionamento, mi piace
ricorrere qui a una parabola tratta precisamente dal Traité; una
narrazione che mi coinvolge a fondo, tanto che non è la prima volta che
me ne avvalgo a sostegno dei miei argomenti. Se é probabile che tutti
coloro che mi prestano ascolto la conosceranno già, mi auguro tuttavia
che vorranno essere indulgenti con la mia scelta di riproporvela:
"In un villaggio, due fratelli
avevano la mania di riporre in un sacco delle pietre bianche o delle
pietre nere per segnare, alla fine della giornata, l’uno i momenti di
felicità, l’altro i momenti di dolore. Benché conducessero vite assai
simili, il sacco di uno si riempiva solo di pietre bianche, quello
dell’altro solo di pietre nere. Incuriositi, interrogarono al riguardo
un uomo noto per la saggezza delle sue parole, la cui risposta fu "Voi non vi parlate abbastanza, ciascuno motivi all’altro le ragioni della propria scelta" (corsivo mio).
Poiché, anche in tal modo, il mistero pur
definendosi più precisamente si manteneva tale, i due fratelli posero
all’intero villaggio la domanda posta loro dal saggio "Perché il gioco
delle pietre ci appassiona tanto?" e l’intero villaggio, meno i notabili
e i capi, vi si era appassionato, tanto da trascurare ogni altra
attività.
Pochi giorni più avanti, al termine di una notte
agitata, la gioia regnava nel villaggio e il sole illuminava le teste
tagliate e fissate alle palizzate, le teste dei notabili e dei capi".
Notiamo in questa storia che Vaneigem narra per
rappresentare ciò che tutti, dopo di lui, chiamiamo "rovesciamento di
prospettiva", due punti essenziali:
- pari dignità, pari sensibilità, pari fondatezza vengono riconosciute al fratello delle pietre bianche, posseduto dalla passione di desiderare e di rendere ad ogni istante più intensi e più duraturi i propri godimenti, (e come non riconoscere in questa figura Vaneigem stesso, bambino malizioso e appassionato, ricercatore e catalogatore di piaceri senza fine, vero Fourier del nostro tempo?) e il fratello delle pietre nere che non riesce più a convivere con il proprio tormento (e non possiamo individuare qui colui che era allora il fratello in passioni di Vaneigem, quel Debord che – come riferiscono concordi i suoi biografi – "non rideva mai"?; e non possiamo, all’interno di questo nostro ragionamento, rilevare la somiglianza del medesimo con Giorgio, affascinato e quasi ipnotizzato dall’orrore antropomorfico del capitale, la cosa vivente che si muove nei corpi?); in nessun momento Vaneigem sottintende che l’una o l’altra modalità siano in qualche misura più coerenti con quel discorso di liberazione in cui sono entrambe iscritte;
- ciò che è essenziale e che scatena il processo che condurrà in un precipitare alchemico, alla liberazione, al momento cioè, come ci informa il saggio, la questione non si porrà più , consiste nel fatto che i due, e dopo di loro tutti, tutti coloro che non riconoscono propri interessi in questo mondo (quelli che lo vivono come insoddisfacente e quelli che lo percepiscono come troppo invasivo), si parlino e fra loro confrontino le proprie ragioni.
Se non mi riesce di trovare una piena identificazione
con nessuno dei due fratelli e magari il contenuto del mio sacco
finirebbe per risultare, a seconda dei periodi e delle circostanze,
odiosamente punteggiato di bianco e di nero, incontro ugualmente una
certa difficoltà – almeno per ora – a svolgere il ruolo del saggio
vegliardo. Anche se forse occorre prendere coscienza che è urgente che
delle voci si levino per dire "voi non vi parlate abbastanza" ai mille e
mille appassionati, come pure ai mille e mille tormentati che
attraversano le nostre giornate e magari hanno perso anche la fiducia
necessaria per chiedere "come mai? Che cosa ci ha condotti qui?". Ma
anche se sono restio ad accettare la condizione, sgradevolmente
irreversibile, del saggio veggente. Pur tuttavia, reputo indispensabile
ed urgente riguardare questi due filoni della critica della vita
quotidiana, quello che potremmo chiamare "apocalittico" e quello che
potremmo definire "armonico", nello spirito non già di farne prevalere
uno, indicando nei seguaci dell’altro dei reprobi, come pure si è
talvolta fatto e qualcuno continua a fare; né di cavarne un’improbabile
sintesi, che nella più fortunata delle ipotesi finirebbe per svigorire e
neutralizzare quanto di irriducibilmente umano e creativo è presente
nel contributo di questi compagni: ma piuttosto di far parlare e rendere
capaci di ascoltarsi a vicenda abbandono alle passioni e insorgere
della rivolta, corpi appagati e corpi offesi, desiderio sempre rinnovato
e rifiuto rabbioso di ogni costrizione, così da rendere davvero critica
quella massa muta di scontenti su cui merce e spettacolo volano, nella
stessa maniera in cui Geova volava corrucciato e colmo di cattive
intenzioni sopra l’oceano primordiale.
La soluzione del nodo apparentemente inestricabile
delle vite alienate e dei corpi irrigiditi e insensibili, se di
soluzione è possibile parlare, sta innanzitutto in una ritrovata volontà
di mettere in comunicazione fra loro i mille diversi modi di voler
godere e di non voler più soffrire. Sta nel creare situazioni capaci di
questo, di far sì che la parola torni a gettare echi, che l’azione
ricominci a creare il mondo.
Mi si potrebbe dire, anzi sicuramente qualcuno dirà che
questa stessa proposta e lettura delle possibilità del presente è in
fondo una proposta ottimista, da irriducibile "pietra bianca": e in
effetti, sì, personalmente sono convinto che se una pietra sarà capace
di spezzare quello schermo, quella vetrina, che ci tengono separati
dalla nostra vita, quella pietra sarà bianca, sarà la pietra del
desiderio smisurato che travolge ogni ostacolo.
Ma se qualcuno vorrà farsi innanzi e provarsi nella
stessa impresa con la propria pietra nera, magari ricercata nell’ancora
parzialmente inesplorata soggettività ribelle che Giorgio ci ha
regalato, questo qualcuno si faccia innanzi senza indugio: sarà sempre e
in ogni momento il benvenuto.
Paolo Ranieri
Paolo Ranieri
Milano, giugno 2000