lunedì 21 aprile 2014

SBLOCCARE IL BLACK BLOC




« Ho seguito il corteo autorizzato, come dire che non abbiamo camminato molto poiché la maggior parte del percorso dichiarato in prefettura era stato vietato. Per la prima volta una manifestazione è stata vietata in tutto il centro di Nantes fino al Corso des Cinquante-Otages. Come ultima provocazione, le immense barricate fatte dai CRS e dai poliziotti in numero smisurato. Tutto era fatto apposta per suscitare il fastidio generale e far montare la tensione. Anch’io mi sono innervosita di fronte a questa dimostrazione di forza e di numero volta a impressionare o irritare i manifestanti inizialmente molto gioiosi e festanti. Sono stata sorpresa anche dal vedere uomini in jeans, tute e cappuccio “cambiare campo” e ricongiungersi coi poliziotti rimettendo i loro caschi e i loro bracciali.»
Nantes, 22 febbraio 2014, testimonianza di Milou raccolta da http://www.lavoiedujaguar.net

Sono risolutamente a favore dei difensori della zona[1] confiscata a Notre Dame des Landes dai servitori volontari del produttivismo e sostengo a fondo gli auto costruttori che si battono contro l’orribile progetto insensato di un nuovo aeroporto a Nantes.
Poco importa, del resto quale impalcatura ideologica motivi quanti si battono contro il nichilismo totalitario della società produttivistica e del modo di produzione capitalistico che la sfrutta senza ritegno. L’importante è la ZAD, tutte le ZAD, dalla Val di Susa al Chiapas, dalla penisola Calcidica alla vita quotidiana di ciascuno.
Un solo atteggiamento ideologico non è assolutamente accettabile né dalla mia rabbia né dalla mia coscienza. Non posso ammettere che si combatta l’alienazione con metodi alienati perché ciò riproduce come meglio non si potrebbe il Leviatano totalitario che si vorrebbe indebolire per riuscire a vincerlo.
Ho letto sul giornale padronale[2] Libération del 17 aprile 2014, un articolo intitolato: A Nantes, la strategia del Black Bloc. Redatto da attivisti in lotta contro il progetto di aeroporto a Notre Dame des Landes, lo scritto ha in quest’ultima definizione anche la sola firma dell’articolo.
Il testo rivendica di appartenere alla tendenza Black Bloc definita (non so se dagli autori stessi o da Libération) “quella dei militanti che rivendicano l’uso della violenza a fini politici, come nel caso del 22 febbraio scorso a Nantes[3].
Leggendo l’articolo si capisce bene che “il Black Bloc non è un’organizzazione ma una strategia d’azione in strada, una strategia potente perché diffusa”[4].
Ne consegue, coerentemente, che “tutti quelli che prendono il Black Bloc per un gruppo sono contro il Black Bloc”[5].
Eppure, almeno a posteriori, come in questo articolo, il Black Bloc si manifesta effettivamente come un gruppo, informale, certo, ma in possesso di una tattica e di una strategia e, se non di capi, almeno di attivisti che parlano a nome di tutti gli altri.
Certamente questi rivoltosi sinceri non sono né di destra né di sinistra. Tanto meglio, ma ciò non garantisce affatto che gli effetti della loro guerriglia - dalle conseguenze sul movimento sociale più teoriche che pratiche, del resto - prenda piede altrove che nello spettacolo manipolato a piacimento dalle destre, dalle sinistre, dalla Polizia e dallo Stato, ognuno di loro nel proprio settore specifico del supermercato dell’ideologia spettacolare.
Tutti i servitori volontari specializzati del capitalismo di Stato o di Mercato (il più delle volte tutti e due insieme) se ne fottono del Black Bloc e delle sedicenti danneggiamenti e danni (le banche, per esempio, sono assicurate e rischiano addirittura di guadagnarci qualcosa). Il loro unico scopo è vendere ai loro schiavi spettatori, il cui consenso li fa vivere e ne giustifica l’esistenza, una protezione ispirata all’ideologia della sicurezza dedita a salvare i poveri cittadini in pericolo dai diavoli cattivi e sovversivi che impediscono alla democrazia di funzionare normalmente.
Ecco perché si vedono talvolta uomini in jeans, tute e cappuccio “cambiare campo” e ricongiungersi coi poliziotti rimettendo i loro caschi e i loro bracciali !
Mica si tratta d’insinuare - che sia ben chiaro ! - che il Black Bloc sia un nido di infiltrati. Lasciamo un tale sospetto calunnioso ai militanti di sinistra che difendono le loro messe elettorali contro questi spontaneisti vestiti di nero. La mia critica, piuttosto, già dal G8 del 2001, è che partecipano allo spettacolo che pretendono di criticare senza indebolirlo; che si preoccupano di dialogare con i poliziotti spiegando loro che “«spaccare del poliziotto» non significa voler fare concorrenza alla polizia sul piano militare ma semplicemente che è naturale dare la prova che tra tutte le possibilità esistenziali, alcune sono intollerabili”[6]. A parte i poliziotti e i loro amici, chi altro ha bisogno di una tale lezione pedagogica portata dall’esterno?
Se lo scopo di una manifestazione è quello di manifestare le buone ragioni di una lotta a quanti ne dubitano ancora, l’obiettivo è decisamente fallito. Se non è che un’occasione per mostrarsi belli come i rivoluzionari di una volta ci si trova nello spettacolo patetico e irritante di fantasmi esibizionisti. The show must go on, ma la vita non è ancora incominciata e la rivoluzione nemmeno. Questi Zorro rivoluzionari agiscono come un corpo separato che si pretende oggettivamente avanguardia senza chiamarsi tale ma facendolo sapere per via di stampa. Volenti o nolenti, mostrano di consentire ai giochi di ruoli con il potere; giochi ai quali il sistema invita per meglio separare la rabbia dall’intelligenza sensibile, l’auto costruzione di un altro mondo possibile da un gran numero di partigiani potenziali di un rovesciamento di prospettiva radicale. Numerosi, infatti, sono quelli che titubano lasciandosi bloccare dalla paura e dalla diffidenza di fronte al disordine.
Io continuo a pensare con Debord che bisogna fare il disordine senza amarlo, sapendo che nelle condizioni spettacolari la critica radicale deve saper attendere. Non c’entrano l’opportunismo, l’attendismo o che so io di altre calunniose accuse usate dal militantismo fanatico - alla maniera di qualunque morale, rivoluzionaria o no - per giudicare la critica radicale come un astensionismo contemplativo e assillare la lucidità di chi osa negare come fosse un comportamento da rinnegati. Già Marx, ai suoi tempi, notò questa odiosa tendenza dello spirito religioso infiltrato nella classe della coscienza, ma noi l’abbiamo soprattutto abbondantemente sperimentata durante i deliranti “anni di piombo”, quando l’elogio totemico del fucile ha tanto contribuito a spezzare definitivamente le reni di una gioiosa rivolta incompiuta.
Bisognerebbe che il Black Bloc si sbloccasse un po’. Che si ricordasse della vecchia talpa anziché ispirarsi alle tigri nello zoo. Bisognerebbe, soprattutto che smettesse di prendersi per un’avanguardia senza nome che giustifica i suoi atti a nome del movimento. Il movimento sociale non appartiene a nessuno e tanto meglio, poiché nessuna levatrice specializzata lo farà alzare prima del tempo, semmai questo tempo è destinato ad arrivare.
Lasciamo dunque la distruzione al capitalismo e ai suoi sgherri che lo fanno così bene. Pazienza se i poliziotti non avranno accesso a una coscienza di classe.
Si è, oppure no, dei rivoluzionari indipendentemente dall’epoca che si attraversa. Nel 1968, quando ci si è ribellati per la prima volta nella storia contro la società produttivistica, o “nel 2014, quando, con i due piedi nella catastrofe, basta non staccare gli occhi da un po’ di fiducia in se stessi e serbare qualche amico, per diventare rivoluzionar”i[7].
Nemmeno io, come gli autori dell’articolo, vivo nel sogno del Larzac francese degli anni settanta, ma non sogno neppure di Black Bloc perché la fiducia in se stessi e le amicizie di cui sopra sono ben lontane dall’essere acquisite e non sarà certo una pietra in faccia a un poliziotto che ce le accorderà. Esse si nutrono dell’esempio costruttivista in tutte le ZAD del mondo piuttosto che della violenza che s’oppone alla violenza di Stato. Il che non toglie che difendersi dal fascismo legale dello Stato, come da ogni altro fascismo, non è solo un diritto ma una necessità anch’essa “legale” come ogni legittima difesa.
Quel che mi dà più fastidio in ogni militantismo offensivo è che s’illudano i potenziali seguaci abbacinandoli con una rivolta affidata alla critica delle armi ben oltre l’arma della critica. Si tratta di un esorcismo che fa di fatto regredire nello spettacolo perché l’arma della critica la si supera solo praticando l’auto costruzione e l’auto organizzazione di un nuovo mondo psicogeografico, non inviando messaggi conflittuali agli avversari mercenari di un gioco di ruoli dove il solo vincitore è sempre il sistema dominante.
Condivido assolutamente l’idea che fare a meno dello Stato sia una necessità evidente per l’autogestione generalizzata della vita quotidiana alla quale la rivoluzione sociale, incompiuta o tradita, aspira da un buon secolo. Fare invece chiaramente a meno della società e dell’economia, come affermato con facilità semplicistica nell’articolo qui commentato, non è questione di una frase o di un gioco di prestigio, neanche se sostenuto da una macchina che brucia o da una vetrina in frantumi.
Il termine società è effettivamente un’invenzione della borghesia trionfante sull’Ancien Régime, ma la comunità umana, diventata società con il capitalismo, è un’identità collettiva che non può essere confiscata né messa da parte da nessuna avanguardia senza perdersi in un universo totalitario, indipendentemente dal colore delle bandiere o dell’abbigliamento usato.
Gestire bene la casa (questo significa economia) è un’esigenza strutturale degli esseri umani che siamo. Certamente non la sola e forse non la più importante, ma pur sempre abbastanza perché ci si ponga concretamente la questione del come passare da un’economia della catastrofe a un’economia del dono.
Negare ciò con il rovescio di una mano che lancia una pietra mentre l’altra ci fotografa mentre lo facciamo[8] non supera il problema dell’organizzazione sociale ma meramente lo ignora sulla spinta di una mistica rivoluzionaria millenarista da gentili fanatici dell’apocalisse.
“C’è l’atteggiamento rivoluzionario. Vivere oltre i compartimenti, tra le cose. Passare oltre. Tessere legami e non funzionare. Tutto per l’amicizia, la condivisione, l’elaborazione infinita, infinitesimale, di una sensibilità. Le cose sono delle porte e non più dei muri. La norma non è che l’indice della nostra debolezza. Quel che è nulla diventa potente appena si sa comune. Una tale attitudine è incompatibile con la civiltà. Il che la rende suscettibile, accessoriamente, di sopravviverle”[9].
Io dico che le cose sono solo cose e che una reificazione alternativa a quella dominante resta un’alienazione che non apre nessuna porta all’emancipazione. Tuttavia, come non commuoversi di fronte a un tale slancio poetico e come non notare, al contempo, che il suo passaggio all’atto[10] presuppone un confronto aperto e generalizzato con tutta la comunità reale e non solo tra adepti mascherati di una stessa ideologia; a meno di accontentarsi di restaurare l’odiosa ipotesi di una dittatura sul proletariato mascherata da riscatto.
Senza dimenticare che il superamento di una civiltà è un’altra civiltà, il principio di piacere resta sempre l'obiettivo, ma bisogna saper essere anche abbastanza laici e materialisti dialettici per confrontarsi davvero con la complessità del reale al fine di smuoverlo fino a un orgasmo della storia che realizzi collettivamente, e non in un’illusione settaria, quel che intendiamo per rivoluzione.
Sergio Ghirardi, attorno al 1 maggio 2014



[1]  Per i partigiani del sistema affaristico dominante ZAD significa Zone dAmenagement Differé (zona di ricostruzione differita), per quelli che a Nantes, come in Val di Susa o nella penisola Calcidica, lottano contro il sistema, ZAD significa Zone A Défendre (zona da difendere).
[2]  Tutti i giornali sono padronali quando vivono all’ombra della cappella pubblicitaria mercantile.
[3] Citazione dall’articolo in questione che ci ricorda anche come, a causa di qualche danneggiamento commesso durante la manifestazione contro il progetto d’aeroporto, quattro persone sono state condannate a inizio aprile.
[4] Citazione dall’articolo in questione.
[5] Citazione dall’articolo in questione.
[6] Citazione dall’articolo in questione.
[7] Citazione dall’articolo in questione.

[8] Durante il G8 di Genova, nel 2001, diversi compagni sono stati incriminati perché trovati in possesso di foto che li immortalavano mentre spaccavano una vetrina o nell’esercizio di altre piccole vendette di classe.
[9] Citazione dall’articolo in questione.
[10] Poesia, dal greco ποιέω (poiéo = io faccio) significa letteralmente passaggio all’atto.

il dibattito è aperto:



In rosso alcune considerazioni, non nuove, anzi un po’ ripetitive: ma purtroppo accade che gli anni avanzano ritornando inesorabilmente sui loro passi…
                                                                                 Paolo Ranieri


SBLOCCARE IL BLACK BLOC

« Ho seguito il corteo autorizzato, come dire che non abbiamo camminato molto poiché la maggior parte del percorso dichiarato in prefettura era stato vietato. Per la prima volta una manifestazione è stata vietata in tutto il centro di Nantes fino al Corso des Cinquante-Otages. Come ultima provocazione, le immense barricate fatte dai CRS e dai poliziotti in numero smisurato. Tutto era fatto apposta per suscitare il fastidio generale e far montare la tensione. Anch’io mi sono innervosita di fronte a questa dimostrazione di forza e di numero volta a impressionare o irritare i manifestanti inizialmente molto gioiosi e festivi. Sono stata sorpresa anche dal vedere uomini in jeans, tute e cappuccio “cambiare campo” e ricongiungersi coi poliziotti rimettendo i loro caschi e i loro bracciali.»
Nantes, 22 febbraio 2014, testimonianza di Milou raccolta da http://www.lavoiedujaguar.net

Sono risolutamente a favore dei difensori della zona[1] confiscata a Notre Dame des Landes dai servitori volontari del produttivismo e sostengo a fondo gli auto costruttori che si battono contro l’orribile progetto insensato di un nuovo aeroporto a Nantes.
Poco importa, del resto quale impalcatura ideologica motivi quanti si battono contro il nichilismo totalitario della società produttivistica e del modo di produzione capitalistico che la sfrutta senza ritegno. L’importante è la ZAD, tutte le ZAD, dalla Val di Susa al Chiapas, dalla penisola Calcidica alla vita quotidiana di ciascuno.
Un solo atteggiamento ideologico non è assolutamente accettabile né dalla mia rabbia né dalla mia coscienza. Non posso ammettere che si combatta l’alienazione con metodi alienati perché ciò riproduce come meglio non si potrebbe il Leviatano totalitario che si vorrebbe indebolire per riuscire a vincerlo.(Non combattere l’alienazione con mezzi alienati, è di sicuro un obiettivo, per il quale ci battiamo da numerosi decenni, e che resta grandemente attuale: ma a condizione che si consideri che il potere separato, finché si mantiene  in sella, aliena inesorabilmente  ogni attività umana. E che quindi è possibile affrancarsene solo per brevi momenti, per poi scivolare altrove, in quegli spazi dove la società non è ancora arrivata. In altre parole ciò che non è alienato mentre viene vissuto, si ripresenta come alienato mentre viene fissato e reificato, elevando la sua inerzia potente contro i suoi medesimi autori)
Ho letto sul giornale padronale[2] Libération del 17 aprile 2014, un articolo intitolato: A Nantes, la strategia del Black Bloc. Redatto da attivisti in lotta contro il progetto di aeroporto a Notre Dame des Landes, lo scritto ha in quest’ultima definizione anche la sola firma dell’articolo.
Il testo rivendica di appartenere alla tendenza Black Bloc definita (non so se dagli autori stessi o da Libération) “quella dei militanti che rivendicano l’uso della violenza a fini politici, come nel caso del 22 febbraio scorso a Nantes[3].
Leggendo l’articolo si capisce bene che “il Black Bloc non è un’organizzazione ma una strategia d’azione in strada, una strategia potente perché diffusa”[4].
Ne consegue, coerentemente, che “tutti quelli che prendono il Black Bloc per un gruppo sono contro il Black Bloc”[5].
Eppure, almeno a posteriori, come in questo articolo, il Black Bloc si manifesta effettivamente come un gruppo, informale, certo, ma in possesso di una tattica e di una strategia e, se non di capi, almeno di attivisti che parlano a nome di tutti gli altri. (Più che altro, non si tratta di un gruppo in possesso di una tattica e di una strategia, ma precisamente di una tattica e di una strategia, praticate da alcuni. Chiaro che se si è in molti che ricorrentemente  si impiegano le medesime tattiche  e si perseguono le medesime strategie, per molti aspetti ci si può percepire e si può essere percepiti come un gruppo: ma questo sta nelle cose stesse.
Che poi gli attivisti parlino a nome di molti, sarà sicuramente vero, ma su quale base affermare che parlano a nome di “tutti gli altri”?)
Certamente questi rivoltosi sinceri non sono né di destra né di sinistra. Tanto meglio, ma ciò non garantisce affatto che gli effetti della loro guerriglia - dalle conseguenze sul movimento sociale più teoriche che pratiche, del resto - prenda piede altrove che nello spettacolo manipolato a piacimento dalle destre, dalle sinistre, dalla Polizia e dallo Stato, ognuno di loro nel proprio settore specifico del supermercato dell’ideologia spettacolare. (Indiscutibile, ma questo accade perché NULLA, MAI garantisce un simile obiettivo: a ben rifletterci, il concetto medesimo di garanzia è estraneo alla prospettiva di quel perpetuo divenire cui la rivoluzione mira ed aspira)
Tutti i servitori volontari specializzati del capitalismo di Stato o di Mercato (il più delle volte tutti e due insieme) se ne fottono del Black Bloc e delle sedicenti degradazioni e danni (le banche, per esempio, sono assicurate e rischiano addirittura di guadagnarci qualcosa). Il loro unico scopo è vendere ai loro schiavi spettatori, il cui consenso li fa vivere e ne giustifica l’esistenza, una protezione ispirata all’ideologia della sicurezza dedita a salvare i poveri cittadini in pericolo dai diavoli cattivi e sovversivi che impediscono alla democrazia di funzionare normalmente. (Chiaro che questo è l’obiettivo dei difensori dell’esistente: l’obiettivo dei vandali è in sostanza quello di proporre una scelta fra la sicurezza nell’obbedienza e nella noia e il piacere di disporre a piacimento dell’arredo urbano. In sostanza si tratta di dimostrare che la sicurezza è morte, e non solo non va  perseguita, ma va sbriciolata in ogni occasione possibile)
Ecco perché si vedono talvolta uomini in jeans, tute e cappuccio “cambiare campo” e ricongiungersi coi poliziotti rimettendo i loro caschi e i loro bracciali ! (In realtà si vedono per due motivi: in parte per avere un controllo capillare, da vicino, dell’azione dei sovversivi; ma soprattutto per farsi vedere e filmare e dimostrare in tal modo che il vandalo potrebbe essere soggettivamente un poliziotto, LA QUAL COSA DIMOSTRA CHE TUTTI I VANDALI SONO OGGETTIVAMENTE ASSIMILABILI CON I POLIZIOTTI)
Mica si tratta d’insinuare - che sia ben chiaro ! - che il Black Bloc sia un nido di infiltrati. Lasciamo un tale sospetto calunnioso ai militanti di sinistra che difendono le loro messe elettorali contro questi spontaneisti vestiti di nero. La mia critica, piuttosto, già dal G8 del 2001, è che partecipano allo spettacolo che pretendono di criticare senza indebolirlo; che si preoccupano di dialogare con i poliziotti spiegando loro che “«spaccare del poliziotto» non significa voler fare concorrenza alla polizia sul piano militare ma semplicemente che è naturale dare la prova che tra tutte le possibilità esistenziali, alcune sono intollerabili”[6]. A parte i poliziotti e i loro amici, chi altro ha bisogno di una tale lezione pedagogica portata dall’esterno? (Molti: li hai citati tu prima, quelli che si fanno attrarre dalle chimere della sicurezza o, ed è quasi peggio, della legalità; quelli che in fondo il poliziotto fa quello che fa perché è il suo lavoro, e ha una famiglia da mantenere)
Se lo scopo di una manifestazione è quello di manifestare le buone ragioni di una lotta a quanti ne dubitano ancora, l’obiettivo è decisamente fallito. Se non è che un’occasione per mostrarsi belli come i rivoluzionari di una volta ci si trova nello spettacolo patetico e irritante di fantasmi esibizionisti. The show must go on, ma la vita non è ancora incominciata e la rivoluzione nemmeno.
(In realtà la vita è talmente già incominciata che per molti di noi già volge al tramonto, fatti i debiti scongiuri. E anche la rivoluzione è già incominciata, per chi vi si è disposto: che le manifestazioni siano un luogo secondarissimo di tale processo, è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta.) Questi Zorro rivoluzionari agiscono come un corpo separato che si pretende oggettivamente avanguardia senza chiamarsi tale ma facendolo sapere per via di stampa. Volenti o nolenti, mostrano di consentire ai giochi di ruoli con il potere; giochi ai quali il sistema invita per meglio separare la rabbia dall’intelligenza sensibile, l’auto costruzione di un altro mondo possibile da un gran numero di partigiani potenziali di un rovesciamento di prospettiva radicale. Numerosi, infatti, sono quelli che titubano lasciandosi bloccare dalla paura e dalla diffidenza di fronte al disordine. (a me francamente tutti questi trotskismi dialettici – volenti o nolenti, oggettivamente…- fanno girare potentemente i coglioni: cioè, chi vuole agire dovrebbe ridursi alla contemplazione per non turbare l’animo tremulo dei titubanti e dei cagoni?)
Io continuo a pensare con Debord che bisogna fare il disordine senza amarlo, sapendo che nelle condizioni spettacolari la critica radicale deve saper attendere.
(Attenzione che, a furia di non amare il disordine, non si finisca, come molti anarchici hanno fatto e fanno, per amare l’”ordine nuovo” di una futura società. E consideriamo che la critica radicale attende da un pezzo e non si capisce bene che cosa, visto che le condizioni spettacolari non si estingueranno certo da sé,  ma precisamente grazie a coloro che avranno scelto di non attendere oltre) Non c’entrano l’opportunismo, l’attendismo o che so io di altre calunniose accuse usate dal militantismo fanatico - alla maniera di qualunque morale, rivoluzionaria o no - per giudicare la critica radicale come un astensionismo contemplativo e assillare la lucidità di chi osa negare come fosse un comportamento da rinnegati. Già Marx, ai suoi tempi, notò questa odiosa tendenza dello spirito religioso infiltrato nella classe della coscienza, ma noi l’abbiamo soprattutto abbondantemente sperimentata durante i deliranti “anni di piombo”, quando l’elogio totemico del fucile ha tanto contribuito a spezzare definitivamente le reni di una gioiosa rivolta incompiuta. (Non ci siamo: invertendo l’ordine degli eventi si perviene a una falsificazione totale. E’ proprio perché la rivolta, essendo incompiuta, aveva cessato di essere gioiosa, che molti si sono orientati verso la scorciatoia armata,  alcuni precisamente perché si erano stufati di attendere il gong della critica radicale)
Bisognerebbe che il Black Bloc si sbloccasse un po’. Che si ricordasse della vecchia talpa (Posso dirlo? A me quella della vecchia talpa è sempre apparsa una cazzata: il movimento di liberazione umana ha bisogno di luce e non di cunicoli, deve scavare sì, ma dall’alto e non dal basso) anziché ispirarsi alle tigri nello zoo. Bisognerebbe, soprattutto che smettesse di prendersi per un’avanguardia senza nome che giustifica i suoi atti a nome del movimento. Il movimento sociale non appartiene a nessuno (perché appartiene a ciascuno che si muova qui ed ora) e tanto meglio, poiché nessuna levatrice specializzata lo farà alzare prima del tempo, semmai questo tempo è destinato ad arrivare. (e se non dovesse arrivare? Ciascuno vive il tempo della propria vita e non quello della storia: se non insorge oggi, quando?)
Lasciamo dunque la distruzione al capitalismo e ai suoi sgherri che lo fanno così bene. Pazienza se i poliziotti non avranno accesso a una coscienza di classe.
Si è, oppure no, dei rivoluzionari indipendentemente dall’epoca che si attraversa. Nel 1968, quando ci si è ribellati per la prima volta nella storia contro la società produttivistica, o “nel 2014, quando, con i due piedi nella catastrofe, basta non staccare gli occhi da un po’ di fiducia in se stessi e serbare qualche amico, per diventare rivoluzionar”i[7].
Nemmeno io, come gli autori dell’articolo, vivo nel sogno del Larzac francese degli anni settanta, ma non sogno neppure di Black Bloc perché la fiducia in se stessi e le amicizie di cui sopra sono ben lontane dall’essere acquisite e non sarà certo una pietra in faccia a un poliziotto che ce le accorderà. Esse si nutrono dell’esempio costruttivista in tutte le ZAD del mondo piuttosto che della violenza che s’oppone alla violenza di Stato. Il che non toglie che difendersi dal fascismo legale dello Stato, come da ogni altro fascismo, non è solo un diritto ma una necessità anch’essa “legale” come ogni legittima difesa.
Quel che mi dà più fastidio in ogni militantismo offensivo è che s’illudano i potenziali seguaci abbacinandoli con una rivolta affidata alla critica delle armi ben oltre l’arma della critica. Si tratta di un esorcismo che fa di fatto regredire nello spettacolo perché l’arma della critica la si supera solo praticando l’auto costruzione e l’auto organizzazione di un nuovo mondo psicogeografico, non inviando messaggi conflittuali agli avversari mercenari di un gioco di ruoli dove il solo vincitore è sempre il sistema dominante. (Come di consueto, contrapponi costruzione e distruzione quasi fossero due processi differenti, mentre si tratta di un unico processo, semplicemente guardato da opposti punti di vista: il vandalo che scalfisce l’arredo urbano e sociale, costruisce al tempo stesso relazioni e ambientazioni diverse e opposte. Negli anni Settanta, per segnalare la nostra solidarietà con Ulrike Meinhof uccisa in carcere, fu data alle fiamme la sede di Lufthansa a Milano. Che rimase per anni così, inerte e nera, non si trattava di una costruzione? Distruggere prigioni per farne piazze dove adunarsi e discutere e praticare la libertà, non è forse costruire? Oppure chiese, fabbriche, tribunali, borse valori, caserme? Il vero problema semmai è che le distruzioni operate da questi nostri compagni, rimangono troppo al di qua per costruire qualcosa che non rimanga un semplice SOS nel buio dello spettacolo. E’ perché la distruzione è troppo poco diffusa e radicale che la si può far passare per un incubo da cui cercare il risveglio nella sicurezza del lavoro, della famiglia, dello Stato. I compagni dei Black Bloc ci appaiono sovente come avanguardie, perché è l’armata che dovrebbe seguirli a fare difetto , lasciandoli isolati sotto i riflettori del nemico)
Condivido assolutamente l’idea che fare a meno dello Stato sia una necessità evidente per l’autogestione generalizzata della vita quotidiana alla quale la rivoluzione sociale, incompiuta o tradita, aspira da un buon secolo. Fare invece chiaramente a meno della società e dell’economia, come affermato con facilità semplicistica nell’articolo qui commentato, non è questione di una frase o di un gioco di prestigio, neanche se sostenuto da una macchina che brucia o da una vetrina in frantumi.
Il termine società è effettivamente un’invenzione della borghesia trionfante sull’Ancien Régime, ma la comunità umana, diventata società con il capitalismo, è un’identità collettiva che non può essere confiscata né messa da parte da nessuna avanguardia senza perdersi in un universo totalitario, indipendentemente dal colore delle bandiere o dell’abbigliamento usato. (Cioè, sosterresti che la maledizione per cui le comunità sono state degradate e impastate nella società, non è più reversibile? Che la società ce la dovremo tenere nei secoli dei secoli?)
Gestire bene la casa (questo significa economia) è un’esigenza strutturale degli esseri umani che siamo. Certamente non la sola e forse non la più importante, ma pur sempre abbastanza perché ci si ponga concretamente la questione del come passare da un’economia della catastrofe a un’economia del dono. (Il dono è un atto che lega individui separati in quanto separati: le questioni che oggi sono ammassate nel concetto di economia, vanno tolte alla dimensione sociale che ne costituisce insieme la causa e l’effetto, e restituite all’ambito delle relazioni libere fra individui, più o meno federati fra loro)
Negare ciò con il rovescio di una mano che lancia una pietra mentre l’altra ci fotografa mentre lo facciamo[8] non supera il problema dell’organizzazione sociale ma meramente lo ignora sulla spinta di una mistica rivoluzionaria millenarista da gentili fanatici dell’apocalisse. (In realtà, si tratta banalmente di momenti diversi: chi lancia il sasso oggi, negli altri momenti fa mille altre cose, che in parte conosciamo benissimo, visto che questi compagni li incontriamo tutti i giorni, e in parte possiamo figurarci con la forza del buonsenso, visto che nessuno fa il vandalo in servizio permanente effettivo: case occupate, coltivazioni autogestite, stesura e traduzione di testi, dibattiti,  corrispondenza e solidarietà con i compagni carcerati…etc)
“C’è l’atteggiamento rivoluzionario. Vivere oltre i compartimenti, tra le cose. Passare oltre. Tessere legami e non funzionare. Tutto per l’amicizia, la condivisione, l’elaborazione infinita, infinitesimale, di una sensibilità. Le cose sono delle porte e non più dei muri. La norma non è che l’indice della nostra debolezza. Quel che è nulla diventa potente appena si sa comune. Una tale attitudine è incompatibile con la civiltà. Il che la rende suscettibile, accessoriamente, di sopravviverle”[9].
Io dico che le cose sono solo cose e che una reificazione alternativa a quella dominante resta un’alienazione che non apre nessuna porta all’emancipazione. Tuttavia, come non commuoversi di fronte a un tale slancio poetico e come non notare, al contempo, che il suo passaggio all’atto[10] presuppone un confronto aperto e generalizzato con tutta la comunità reale e non solo tra adepti mascherati di una stessa ideologia; a meno di accontentarsi di restaurare l’odiosa ipotesi di una dittatura sul proletariato mascherata da riscatto.
Senza dimenticare che il superamento di una civiltà è un’altra civiltà,(come un ergastolo, dunque? Nessuna via d’uscita prevista per chi non volesse ALCUNA CIVILTA’?) il principio di piacere resta sempre l'obiettivo, (ma il piacere di devastare la galera sociale, non riesci a inserirlo nella tua panoplia di piaceri possibili?) ma bisogna saper essere anche abbastanza laici e materialisti dialettici per confrontarsi davvero con la complessità del reale al fine di smuoverlo fino a un orgasmo della storia che realizzi collettivamente, e non in un’illusione settaria, quel che intendiamo per rivoluzione.
Sergio Ghirardi, attorno al 1 maggio 2014



[1]  Per i partigiani del sistema affaristico dominante ZAD significa Zone dAmenagement Differé (zona di ricostruzione differita), per quelli che a Nantes, come in Val di Susa o nella penisola Calcidica, lottano contro il sistema, ZAD significa Zone A Défendre (zona da difendere).
[2]  Tutti i giornali sono padronali quando vivono all’ombra della cappella pubblicitaria mercantile.
[3] Citazione dall’articolo in questione che ci ricorda anche come, a causa di qualche degradazione commessa durante la manifestazione contro il progetto d’aeroporto, quattro persone sono state condannate a inizio aprile.
[4] Citazione dall’articolo in questione.
[5] Citazione dall’articolo in questione.
[6] Citazione dall’articolo in questione.
[7] Citazione dall’articolo in questione.

[8] Durante il G8 di Genova, nel 2001, diversi compagni sono stati incriminati perché trovati in possesso di foto che li immortalavano mentre spaccavano una vetrina o nell’esercizio di altre piccole vendette di classe.
[9] Citazione dall’articolo in questione.
[10] Poesia, dal greco ποιέω (poiéo = io faccio) significa letteralmente passaggio all’atto.


 e continua:



Caro Paolo,
per rispetto del dialogo che intratteniamo proverò a risponderti parzialmente nel merito anche se non ho la minima volontà di convincerti. Sono convinto che le differenze sostanziali nel nostro porci di fronte al mondo e alla rivoluzione tanto nella vita che qui alla tastiera risalgono ben più alla nostra diversa struttura caratteriale e al nostro vissuto che al mondo delle idee che arrivano sempre dopo, come mutande, a coprire le diverse nudità di ciascuno. Confido sulle nostre reciproche intelligenze sensibili e su un’amicizia sincera per continuare a tessere le identità al di là delle esplicite e forti differenze. E se son rose...pungeranno.

Sono risolutamente a favore dei difensori della zona[1][1] confiscata a Notre Dame des Landes dai servitori volontari del produttivismo e sostengo a fondo gli auto costruttori che si battono contro l’orribile progetto insensato di un nuovo aeroporto a Nantes.
Poco importa, del resto quale impalcatura ideologica motivi quanti si battono contro il nichilismo totalitario della società produttivistica e del modo di produzione capitalistico che la sfrutta senza ritegno. L’importante è la ZAD, tutte le ZAD, dalla Val di Susa al Chiapas, dalla penisola Calcidica alla vita quotidiana di ciascuno.
Un solo atteggiamento ideologico non è assolutamente accettabile né dalla mia rabbia né dalla mia coscienza. Non posso ammettere che si combatta l’alienazione con metodi alienati perché ciò riproduce come meglio non si potrebbe il Leviatano totalitario che si vorrebbe indebolire per riuscire a vincerlo.(Non combattere l’alienazione con mezzi alienati, è di sicuro un obiettivo per il quale ci battiamo da numerosi decenni e che resta grandemente attuale: ma a condizione che si consideri che il potere separato, finché si mantiene in sella, aliena inesorabilmente ogni attività umana. E che quindi è possibile affrancarsene solo per brevi momenti, per poi scivolare altrove, in quegli spazi dove la società non è ancora arrivata. In altre parole ciò che non è alienato mentre viene vissuto, si ripresenta come alienato mentre viene fissato e reificato, elevando la sua inerzia potente contro i suoi medesimi autori.)
Dunque l’obiettivo è condiviso, mentre il fallimento sarebbe dovuto al potere del sistema reificante. Io sostengo che noi siamo spesso complici della reificazione e che ciò è evitabile non solo per brevi momenti e anche nell’ambito della “maledetta società” si può rifiutare di usare metodi alienati che sono palesemente tali.
Ho letto sul giornale padronale[2][2] Libération del 17 aprile 2014, un articolo intitolato: A Nantes, la strategia del Black Bloc. Redatto da attivisti in lotta contro il progetto di aeroporto a Notre Dame des Landes, lo scritto ha in quest’ultima definizione anche la sola firma dell’articolo.
Il testo rivendica di appartenere alla tendenza Black Bloc definita (non so se dagli autori stessi o da Libération) “quella dei militanti che rivendicano l’uso della violenza a fini politici, come nel caso del 22 febbraio scorso a Nantes[3][3].
Leggendo l’articolo si capisce bene che “il Black Bloc non è un’organizzazione ma una strategia d’azione in strada, una strategia potente perché diffusa”[4][4].
Ne consegue, coerentemente, che “tutti quelli che prendono il Black Bloc per un gruppo sono contro il Black Bloc”[5][5].
Eppure, almeno a posteriori, come in questo articolo, il Black Bloc si manifesta effettivamente come un gruppo, informale, certo, ma in possesso di una tattica e di una strategia e, se non di capi, almeno di attivisti che parlano a nome di tutti gli altri. (Più che altro, non si tratta di un gruppo in possesso di una tattica e di una strategia, ma precisamente di una tattica e di una strategia, praticate da alcuni. Chiaro che se si è in molti che ricorrentemente si impiegano le medesime tattiche e si perseguono le medesime strategie, per molti aspetti ci si può percepire e si può essere percepiti come un gruppo: ma questo sta nelle cose stesse.
Che poi gli attivisti parlino a nome di molti, sarà sicuramente vero, ma su quale base affermare che parlano a nome di “tutti gli altri”?)
Che alcuni usino tattiche e strategie riguarda solo loro ma che parlino a nome di tutti gli altri è dato semplicemente dal fatto che sono gli unici a farlo. Mica è colpa loro se gli altri stanno zitti, ma resta il fatto che il loro parlare assurge a unica verità espressa che io ho commentato perché non mi convince per niente. Niente di più.
Certamente questi rivoltosi sinceri non sono né di destra né di sinistra. Tanto meglio, ma ciò non garantisce affatto che gli effetti della loro guerriglia - dalle conseguenze sul movimento sociale più teoriche che pratiche, del resto - prenda piede altrove che nello spettacolo manipolato a piacimento dalle destre, dalle sinistre, dalla Polizia e dallo Stato, ognuno di loro nel proprio settore specifico del supermercato dell’ideologia spettacolare. (Indiscutibile, ma questo accade perché NULLA, MAI garantisce un simile obiettivo: a ben rifletterci, il concetto medesimo di garanzia è estraneo alla prospettiva di quel perpetuo divenire cui la rivoluzione mira ed aspira)
Far passare per mio l’elogio della garanzia è una forzatura. Io constato che la guerriglia serve solo come spot pubblicitario per narcisisti o per recuperatori.
Tutti i servitori volontari specializzati del capitalismo di Stato o di Mercato (il più delle volte tutti e due insieme) se ne fottono del Black Bloc e delle sedicenti degradazioni e danni (le banche, per esempio, sono assicurate e rischiano addirittura di guadagnarci qualcosa). Il loro unico scopo è vendere ai loro schiavi spettatori, il cui consenso li fa vivere e ne giustifica l’esistenza, una protezione ispirata all’ideologia della sicurezza dedita a salvare i poveri cittadini in pericolo dai diavoli cattivi e sovversivi che impediscono alla democrazia di funzionare normalmente. (Chiaro che questo è l’obiettivo dei difensori dell’esistente: l’obiettivo dei vandali è in sostanza quello di proporre un a scelta fra la sicurezza nell’obbedienza e nella noia e il piacere di disporre a piacimento dell’arredo urbano. In sostanza si tratta di dimostrare che la sicurezza è morte, e non solo non va perseguita, ma va sbriciolata in ogni occasione possibile)
Troppi doveri nel tuo commento. Io non sono un vandalo e non odio né adoro la sicurezza ma non aborro il principio di precauzione e capisco quanti hanno paura. Non avere mai paura è uno stupido bluff. Gli eroi della distruzione si accontentano poi spesso di piaceri miserabili da turisti della rivoluzione contro i quali non insorgo ma non per questo mi attraggono.
Ecco perché si vedono talvolta uomini in jeans, tute e cappuccio “cambiare campo” e ricongiungersi coi poliziotti rimettendo i loro caschi e i loro bracciali ! (In realtà si vedono per due motivi: in parte per avere un controllo capillare, da vicino, dell’azione dei sovversivi; ma soprattutto per farsi vedere e filmare e dimostrare in tal modo che il vandalo potrebbe essere soggettivamente un poliziotto, LA QUAL COSA DIMOSTRA CHE TUTTI I VANDALI SONO OGGETTIVAMENTE ASSIMILABILI CON I POLIZIOTTI)
Tutto vero, ma insufficiente. Dunque il potere userebbe la tattica solo per dimostrare che il vandalo potrebbe essere soggettivamente un poliziotto ma è escluso che il potere fomenti il conflitto per ridurre la rivolta a uno scontro militare. Dialettica naif o nichilista, a dispiacere.
Mica si tratta d’insinuare - che sia ben chiaro ! - che il Black Bloc sia un nido di infiltrati. Lasciamo un tale sospetto calunnioso ai militanti di sinistra che difendono le loro messe elettorali contro questi spontaneisti vestiti di nero. La mia critica, piuttosto, già dal G8 del 2001, è che partecipano allo spettacolo che pretendono di criticare senza indebolirlo; che si preoccupano di dialogare con i poliziotti spiegando loro che “«spaccare del poliziotto» non significa voler fare concorrenza alla polizia sul piano militare ma semplicemente che è naturale dare la prova che tra tutte le possibilità esistenziali, alcune sono intollerabili”[6][6]. A parte i poliziotti e i loro amici, chi altro ha bisogno di una tale lezione pedagogica portata dall’esterno? (Molti: li hai citati tu prima, quelli che si fanno attrarre dalle chimere della sicurezza o, ed è quasi peggio, della legalità; quelli che in fondo il poliziotto fa quello che fa perché è il suo lavoro, e ha una famiglia da mantenere)
E allora? Pensi che li si debba convincere a diventare dei rivoluzionari?
Se lo scopo di una manifestazione è quello di manifestare le buone ragioni di una lotta a quanti ne dubitano ancora, l’obiettivo è decisamente fallito. Se non è che un’occasione per mostrarsi belli come i rivoluzionari di una volta ci si trova nello spettacolo patetico e irritante di fantasmi esibizionisti. The show must go on, ma la vita non è ancora incominciata e la rivoluzione nemmeno.
(In realtà la vita è talmente già incominciata che per molti di noi già volge al tramonto, fatti i debiti scongiuri. E anche la rivoluzione è già incominciata, per chi vi si è disposto: che le manifestazioni siano un luogo secondarissimo di tale processo, è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta.)
Appunto: è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta e della vita che senza dubbio è già cominciata da un pezzo e per noi soprattutto, come giustamente ricordi, scongiuri inclusi.
Questi Zorro rivoluzionari agiscono come un corpo separato che si pretende oggettivamente avanguardia senza chiamarsi tale ma facendolo sapere per via di stampa. Volenti o nolenti, mostrano di consentire ai giochi di ruoli con il potere; giochi ai quali il sistema invita per meglio separare la rabbia dall’intelligenza sensibile, l’auto costruzione di un altro mondo possibile da un gran numero di partigiani potenziali di un rovesciamento di prospettiva radicale. Numerosi, infatti, sono quelli che titubano lasciandosi bloccare dalla paura e dalla diffidenza di fronte al disordine. (a me francamente tutti questi trotskismi dialettici – volenti o nolenti, oggettivamente…- fanno girare potentemente i coglioni: cioè, chi vuole agire dovrebbe ridursi alla contemplazione per non turbare l’animo tremulo dei titubanti e dei cagoni?)
Darmi del trotskista è poco simpatico ma insisto coraggiosamente nel considerare che definire contemplativo un atteggiamento critico e di negazione è di un misticismo nichilista speculare e opposto all’animo tremulo dei titubanti e dei cagoni che io comunque non disprezzo più degli avanguardisti.
Io continuo a pensare con Debord che bisogna fare il disordine senza amarlo, sapendo che nelle condizioni spettacolari la critica radicale deve saper attendere.
(Attenzione che, a furia di non amare il disordine, non si finisca, come molti anarchici hanno fatto e fanno, per amare l’”ordine nuovo” di una futura società. E consideriamo che la critica radicale attende da un pezzo e non si capisce bene che cosa, visto che le condizioni spettacolari non si estingueranno certo da sé, ma precisamente grazie a coloro che avranno scelto di non attendere oltre)
Non temo nulla su questo punto. Sono vaccinato da entrambe le fissazioni. Mi piacerebbe che fosse altrettanto vero per molti che sintetizzano il superamento spettacolare in un disordine sempre nuovo.
Non c’entrano l’opportunismo, l’attendismo o che so io di altre calunniose accuse usate dal militantismo fanatico - alla maniera di qualunque morale, rivoluzionaria o no - per giudicare la critica radicale come un astensionismo contemplativo e assillare la lucidità di chi osa negare come fosse un comportamento da rinnegati. Già Marx, ai suoi tempi, notò questa odiosa tendenza dello spirito religioso infiltrato nella classe della coscienza, ma noi l’abbiamo soprattutto abbondantemente sperimentata durante i deliranti “anni di piombo”, quando l’elogio totemico del fucile ha tanto contribuito a spezzare definitivamente le reni di una gioiosa rivolta incompiuta. (Non ci siamo: invertendo l’ordine degli eventi si perviene a una falsificazione totale. E’ proprio perché la rivolta, essendo incompiuta, aveva cessato di essere gioiosa, che molti si sono orientati verso la scorciatoia armata,  alcuni precisamente perché si erano stufati di attendere il gong della critica radicale)
Condivido la precisazione che non cambia, tuttavia, il senso del mio parlare dei deliranti “anni di piombo”, quando l’elogio totemico del fucile ha tanto contribuito a spezzare definitivamente le reni di una gioiosa rivolta incompiuta.
Bisognerebbe che il Black Bloc si sbloccasse un po’. Che si ricordasse della vecchia talpa (Posso dirlo? A me quella della vecchia talpa è sempre apparsa una cazzata: il movimento di liberazione umana ha bisogno di luce e non di cunicoli, deve scavare sì, ma dall’alto e non dal basso) Niente da dire: a ognuno il suo sguardo sul mondo animale, luci e ombre incluse.
anziché ispirarsi alle tigri nello zoo. Bisognerebbe, soprattutto che smettesse di prendersi per un’avanguardia senza nome che giustifica i suoi atti a nome del movimento. Il movimento sociale non appartiene a nessuno (perché appartiene a ciascuno che si muova qui ed ora) e tanto meglio, poiché nessuna levatrice specializzata lo farà alzare prima del tempo, semmai questo tempo è destinato ad arrivare. (e se non dovesse arrivare? Ciascuno vive il tempo della propria vita e non quello della storia: se non insorge oggi, quando?)
Ma se si è appena detto che la vita è cominciata da un pezzo siamo d’accordo nel dire che il problema non si pone e che si tratta di scegliere come partecipare al movimento così come ci si sente e non intruppati da nessun eroico cowboy della rivoluzione.
Lasciamo dunque la distruzione al capitalismo e ai suoi sgherri che lo fanno così bene. Pazienza se i poliziotti non avranno accesso a una coscienza di classe.
Si è, oppure no, dei rivoluzionari indipendentemente dall’epoca che si attraversa. Nel 1968, quando ci si è ribellati per la prima volta nella storia contro la società produttivistica, o “nel 2014, quando, con i due piedi nella catastrofe, basta non staccare gli occhi da un po’ di fiducia in se stessi e serbare qualche amico, per diventare rivoluzionar”i[7][7].
Nemmeno io, come gli autori dell’articolo, vivo nel sogno del Larzac francese degli anni settanta, ma non sogno neppure di Black Bloc perché la fiducia in se stessi e le amicizie di cui sopra sono ben lontane dall’essere acquisite e non sarà certo una pietra in faccia a un poliziotto che ce le accorderà. Esse si nutrono dell’esempio costruttivista in tutte le ZAD del mondo piuttosto che della violenza che s’oppone alla violenza di Stato. Il che non toglie che difendersi dal fascismo legale dello Stato, come da ogni altro fascismo, non è solo un diritto ma una necessità anch’essa “legale” come ogni legittima difesa.
Quel che mi dà più fastidio in ogni militantismo offensivo è che s’illudano i potenziali seguaci abbacinandoli con una rivolta affidata alla critica delle armi ben oltre l’arma della critica. Si tratta di un esorcismo che fa di fatto regredire nello spettacolo perché l’arma della critica la si supera solo praticando l’auto costruzione e l’auto organizzazione di un nuovo mondo psicogeografico, non inviando messaggi conflittuali agli avversari mercenari di un gioco di ruoli dove il solo vincitore è sempre il sistema dominante. (Come di consueto, contrapponi costruzione e distruzione quasi fossero due processi differenti, mentre si tratta di un unico processo, semplicemente guardato da opposti punti di vista: il vandalo che scalfisce l’arredo urbano e sociale, costruisce al tempo stesso relazioni e ambientazioni diverse e opposte. Negli anni Settanta, per segnalare la nostra solidarietà con Ulrike Meinhof uccisa in carcere, fu data alle fiamme la sede di Lufthansa a Milano. Che rimase per anni così, inerte e nera, non si trattava di una costruzione? Distruggere prigioni per farne piazze dove adunarsi e discutere e praticare la libertà, non è forse costruire? Oppure chiese, fabbriche, tribunali, borse valori, caserme? Il vero problema semmai è che le distruzioni operate da questi nostri compagni, rimangono troppo al di qua per costruire qualcosa che non rimanga un semplice SOS nel buio dello spettacolo. E’ perché la distruzione è troppo poco diffusa e radicale che la si può far passare per un incubo da cui cercare il risveglio nella sicurezza del lavoro, della famiglia, dello Stato. I compagni dei Black Bloc ci appaiono sovente come avanguardie, perché è l’armata che dovrebbe seguirli a fare difetto, lasciandoli isolati sotto i riflettori del nemico)
Come di consueto, costruzione e distruzione sono due processi differenti, di un'unica dialettica e scegliere liberamente il costruttivismo è legato al momento storico in questione. A me di distruggere non me ne fotte una mazza e la panoplia dei miei piaceri la scelgo io e non me la lascio certo imporre dai fantasmi altrui.
Condivido assolutamente l’idea che fare a meno dello Stato sia una necessità evidente per l’autogestione generalizzata della vita quotidiana alla quale la rivoluzione sociale, incompiuta o tradita, aspira da un buon secolo. Fare invece chiaramente a meno della società e dell’economia, come affermato con facilità semplicistica nell’articolo qui commentato, non è questione di una frase o di un gioco di prestigio, neanche se sostenuto da una macchina che brucia o da una vetrina in frantumi.
Il termine società è effettivamente un’invenzione della borghesia trionfante sull’Ancien Régime, ma la comunità umana, diventata società con il capitalismo, è un’identità collettiva che non può essere confiscata né messa da parte da nessuna avanguardia senza perdersi in un universo totalitario, indipendentemente dal colore delle bandiere o dell’abbigliamento usato. (Cioè, sosterresti che la maledizione per cui le comunità sono state degradate e impastate nella società, non è più reversibile? Che la società ce le dovremo nei secoli dei secoli?) La questione per me non si pone e in questi termini non ha senso.
Gestire bene la casa (questo significa economia) è un’esigenza strutturale degli esseri umani che siamo. Certamente non la sola e forse non la più importante, ma pur sempre abbastanza perché ci si ponga concretamente la questione del come passare da un’economia della catastrofe a un’economia del dono. (Il dono è un atto che lega individui separati in quanto separati: le questioni che oggi sono ammassate nel concetto di economia, vanno tolte alla dimensione sociale che ne costituisce insieme la causa e l’effetto, e restituite all’ambito delle relazioni libere fra individui, più o meno federati fra loro)
Il tema merita altro sviluppo ma comincio a faticare in quest’esercizio di botta e risposta. Dunque qui mi fermo, pronto come sempre a riprendere il dialogo a un prossimo incontro conviviale tra amici che se la dicono e se la cantano gioiosamente. Ora la panoplia nella quale esercito la mia voglia di vivere mi spinge al riposo, né del guerriero né del martire, perché entrambi mi annoiano inesorabilmente.
Negare ciò con il rovescio di una mano che lancia una pietra mentre l’altra ci fotografa mentre lo facciamo[8][8] non supera il problema dell’organizzazione sociale ma meramente lo ignora sulla spinta di una mistica rivoluzionaria millenarista da gentili fanatici dell’apocalisse. (In realtà, si tratta banalmente di momenti diversi: chi lancia il sasso oggi, negli altri momenti fa mille altre cose, che in parte conosciamo benissimo, visto che questi compagni li incontriamo tutti i giorni, e in parte possiamo figurarci con la forza del buonsenso, visto che nessuno fa il vandalo in servizio permanente effettivo: case occupate, coltivazioni autogestite, stesura e traduzione di testi, dibattiti, corrispondenza e solidarietà con i compagni carcerati…etc)
“C’è l’atteggiamento rivoluzionario. Vivere oltre i compartimenti, tra le cose. Passare oltre. Tessere legami e non funzionare. Tutto per l’amicizia, la condivisione, l’elaborazione infinita, infinitesimale, di una sensibilità. Le cose sono delle porte e non più dei muri. La norma non è che l’indice della nostra debolezza. Quel che è nulla diventa potente appena si sa comune. Una tale attitudine è incompatibile con la civiltà. Il che la rende suscettibile, accessoriamente, di sopravviverle”[9][9].
Io dico che le cose sono solo cose e che una reificazione alternativa a quella dominante resta un’alienazione che non apre nessuna porta all’emancipazione. Tuttavia, come non commuoversi di fronte a un tale slancio poetico e come non notare, al contempo, che il suo passaggio all’atto[10][10] presuppone un confronto aperto e generalizzato con tutta la comunità reale e non solo tra adepti mascherati di una stessa ideologia; a meno di accontentarsi di restaurare l’odiosa ipotesi di una dittatura sul proletariato mascherata da riscatto.
Senza dimenticare che il superamento di una civiltà è un’altra civiltà,(come un ergastolo, dunque? Nessuna via d’uscita prevista per chi non volesse ALCUNA CIVILTA’?) il principio di piacere resta sempre in linea di mira, (ma il piacere di devastare la galera sociale, non riesci a inserirlo nella tua panoplia di piaceri possibili?) ma bisogna saper essere anche abbastanza laici e materialisti dialettici per confrontarsi davvero con la complessità del reale al fine di smuoverlo fino a un orgasmo della storia che realizzi collettivamente, e non in un’illusione settaria, quel che intendiamo per rivoluzione.

e si continua, finché ci saranno colori....(per ora Paolo rosso e verde, Sergio nero e poi blu):



Caro Paolo,
per rispetto del dialogo che intratteniamo proverò a risponderti parzialmente nel merito anche se non ho la minima volontà di convincerti. Sono convinto che le differenze sostanziali nel nostro porci di fronte al mondo e alla rivoluzione tanto nella vita che qui alla tastiera risalgono ben più alla nostra diversa struttura caratteriale e al nostro vissuto che al mondo delle idee che arrivano sempre dopo, come mutande, a coprire le diverse nudità di ciascuno. Confido sulle nostre reciproche intelligenze sensibili e su un’amicizia sincera per continuare a tessere le identità al di là delle esplicite e forti differenze. E se son rose...pungeranno.

Sono risolutamente a favore dei difensori della zona[1][1] confiscata a Notre Dame des Landes dai servitori volontari del produttivismo e sostengo a fondo gli auto costruttori che si battono contro l’orribile progetto insensato di un nuovo aeroporto a Nantes.
Poco importa, del resto quale impalcatura ideologica motivi quanti si battono contro il nichilismo totalitario della società produttivistica e del modo di produzione capitalistico che la sfrutta senza ritegno. L’importante è la ZAD, tutte le ZAD, dalla Val di Susa al Chiapas, dalla penisola Calcidica alla vita quotidiana di ciascuno.
Un solo atteggiamento ideologico non è assolutamente accettabile né dalla mia rabbia né dalla mia coscienza. Non posso ammettere che si combatta l’alienazione con metodi alienati perché ciò riproduce come meglio non si potrebbe il Leviatano totalitario che si vorrebbe indebolire per riuscire a vincerlo.(Non combattere l’alienazione con mezzi alienati, è di sicuro un obiettivo per il quale ci battiamo da numerosi decenni e che resta grandemente attuale: ma a condizione che si consideri che il potere separato, finché si mantiene in sella, aliena inesorabilmente ogni attività umana. E che quindi è possibile affrancarsene solo per brevi momenti, per poi scivolare altrove, in quegli spazi dove la società non è ancora arrivata. In altre parole ciò che non è alienato mentre viene vissuto, si ripresenta come alienato mentre viene fissato e reificato, elevando la sua inerzia potente contro i suoi medesimi autori.)
Dunque l’obiettivo è condiviso, mentre il fallimento sarebbe dovuto al potere del sistema reificante. Io sostengo che noi siamo spesso complici della reificazione e che ciò è evitabile non solo per brevi momenti e anche nell’ambito della “maledetta società” si può rifiutare di usare metodi alienati che sono palesemente tali.
A parte che non per tutti magari è altrettanto palese (e fin qui bene fai a praticare l’arte della persuasione), per rifiutare i metodi alienati, occorre averne disponibili di non alienati: perché occorre vigilare a che, per evitare di insorgere in forme alienate, non ci si riduca a condurre esistenze che il potere può tollerare perfettamente. Perché nulla esiste di più alienato dell’inerzia critica critica e moralista, espertissima del passato e ipercreativa quanto a un indeterminato futuro, ma rigorosamente ostile a qualsiasi scossone che abbia luogo qui e ora
Ho letto sul giornale padronale[2][2] Libération del 17 aprile 2014, un articolo intitolato: A Nantes, la strategia del Black Bloc. Redatto da attivisti in lotta contro il progetto di aeroporto a Notre Dame des Landes, lo scritto ha in quest’ultima definizione anche la sola firma dell’articolo.
Il testo rivendica di appartenere alla tendenza Black Bloc definita (non so se dagli autori stessi o da Libération) “quella dei militanti che rivendicano l’uso della violenza a fini politici, come nel caso del 22 febbraio scorso a Nantes[3][3].
Leggendo l’articolo si capisce bene che “il Black Bloc non è un’organizzazione ma una strategia d’azione in strada, una strategia potente perché diffusa”[4][4].
Ne consegue, coerentemente, che “tutti quelli che prendono il Black Bloc per un gruppo sono contro il Black Bloc”[5][5].
Eppure, almeno a posteriori, come in questo articolo, il Black Bloc si manifesta effettivamente come un gruppo, informale, certo, ma in possesso di una tattica e di una strategia e, se non di capi, almeno di attivisti che parlano a nome di tutti gli altri. (Più che altro, non si tratta di un gruppo in possesso di una tattica e di una strategia, ma precisamente di una tattica e di una strategia, praticate da alcuni. Chiaro che se si è in molti che ricorrentemente si impiegano le medesime tattiche e si perseguono le medesime strategie, per molti aspetti ci si può percepire e si può essere percepiti come un gruppo: ma questo sta nelle cose stesse.
Che poi gli attivisti parlino a nome di molti, sarà sicuramente vero, ma su quale base affermare che parlano a nome di “tutti gli altri”?)
Che alcuni usino tattiche e strategie riguarda solo loro ma che parlino a nome di tutti gli altri è dato semplicemente dal fatto che sono gli unici a farlo. Mica è colpa loro se gli altri stanno zitti, ma resta il fatto che il loro parlare assurge a unica verità espressa che io ho commentato perché non mi convince per niente. Niente di più.
Da che cosa desumi che esisterebbero degli altri, e che questi che parlano non lo farebbero a nome di tutti gli altri, ma semplicemente perché si tratta di un sentire comune? Fra l’altro i brani che riporti mi paiono ormai parte di un ragionamento che coloro i quali impiegano le tattiche Black, sviluppano con coerenza da anni: se non corrispondesse a un sentire condiviso, sarebbe emerso da un pezzo, non credi?
Certamente questi rivoltosi sinceri non sono né di destra né di sinistra. Tanto meglio, ma ciò non garantisce affatto che gli effetti della loro guerriglia - dalle conseguenze sul movimento sociale più teoriche che pratiche, del resto - prenda piede altrove che nello spettacolo manipolato a piacimento dalle destre, dalle sinistre, dalla Polizia e dallo Stato, ognuno di loro nel proprio settore specifico del supermercato dell’ideologia spettacolare. (Indiscutibile, ma questo accade perché NULLA, MAI garantisce un simile obiettivo: a ben rifletterci, il concetto medesimo di garanzia è estraneo alla prospettiva di quel perpetuo divenire cui la rivoluzione mira ed aspira)
Far passare per mio l’elogio della garanzia è una forzatura. Io constato che la guerriglia serve solo come spot pubblicitario per narcisisti o per recuperatori.
Che la guerriglia sia, come proposto da Vaneigem fin dal 1969, una forma di espressione poetica (e il poeta è sempre anche narcisista, che poi non è sto gran male), è un’ipotesi che non ti sfiora? E in particolare che la guerriglia è un gioco, assai piacevole per chi lo pratica?
Tutti i servitori volontari specializzati del capitalismo di Stato o di Mercato (il più delle volte tutti e due insieme) se ne fottono del Black Bloc e delle sedicenti degradazioni e danni (le banche, per esempio, sono assicurate e rischiano addirittura di guadagnarci qualcosa). Il loro unico scopo è vendere ai loro schiavi spettatori, il cui consenso li fa vivere e ne giustifica l’esistenza, una protezione ispirata all’ideologia della sicurezza dedita a salvare i poveri cittadini in pericolo dai diavoli cattivi e sovversivi che impediscono alla democrazia di funzionare normalmente. (Chiaro che questo è l’obiettivo dei difensori dell’esistente: l’obiettivo dei vandali è in sostanza quello di proporre un a scelta fra la sicurezza nell’obbedienza e nella noia e il piacere di disporre a piacimento dell’arredo urbano. In sostanza si tratta di dimostrare che la sicurezza è morte, e non solo non va perseguita, ma va sbriciolata in ogni occasione possibile)
Troppi doveri nel tuo commento. Io non sono un vandalo e non odio né adoro la sicurezza ma non aborro il principio di precauzione e capisco quanti hanno paura. Non avere mai paura è uno stupido bluff. Gli eroi della distruzione si accontentano poi spesso di piaceri miserabili da turisti della rivoluzione contro i quali non insorgo ma non per questo mi attraggono.
I piaceri degli altri hanno sempre qualcosa magari non di miserabile, ma comunque di straordinariamente futile. E opererei un profondo distinguo fra chi saggiamente ha paura di pigliarsi un mattone nel cervello e chi invece vuole imporre una società di pusillanimi, da cui il rischio sia bandito con la forza dell’obbedienza sociale
Ecco perché si vedono talvolta uomini in jeans, tute e cappuccio “cambiare campo” e ricongiungersi coi poliziotti rimettendo i loro caschi e i loro bracciali ! (In realtà si vedono per due motivi: in parte per avere un controllo capillare, da vicino, dell’azione dei sovversivi; ma soprattutto per farsi vedere e filmare e dimostrare in tal modo che il vandalo potrebbe essere soggettivamente un poliziotto, LA QUAL COSA DIMOSTRA CHE TUTTI I VANDALI SONO OGGETTIVAMENTE ASSIMILABILI CON I POLIZIOTTI)
Tutto vero, ma insufficiente. Dunque il potere userebbe la tattica solo per dimostrare che il vandalo potrebbe essere soggettivamente un poliziotto ma è escluso che il potere fomenti il conflitto per ridurre la rivolta a uno scontro militare. Dialettica naif o nichilista, a dispiacere.
Non escludo che lo Stato fomenterebbe il conflitto in direzione militare, se ce ne fosse la necessità, perché è vero che si tratta di un piano in cui gli oppressori godono di significativi vantaggi: ma credo che al momento si rendano conto di non averne necessità. Infatti, dovunque ci sono scontri, verifichiamo che ad alimentarli erano persone reali e ben note ( e spessissimo non militanti: guarda la composizione degli arrestati del G8 di Genova o lo stesso Carlo Giuliani): e dove nessuno per qualche motivo pratica soggettivamente la guerriglia, non mi risulta di casi in cui siano stati i poliziotti a fomentare alcunché.
Mica si tratta d’insinuare - che sia ben chiaro ! - che il Black Bloc sia un nido di infiltrati. Lasciamo un tale sospetto calunnioso ai militanti di sinistra che difendono le loro messe elettorali contro questi spontaneisti vestiti di nero. La mia critica, piuttosto, già dal G8 del 2001, è che partecipano allo spettacolo che pretendono di criticare senza indebolirlo; che si preoccupano di dialogare con i poliziotti spiegando loro che “«spaccare del poliziotto» non significa voler fare concorrenza alla polizia sul piano militare ma semplicemente che è naturale dare la prova che tra tutte le possibilità esistenziali, alcune sono intollerabili”[6][6]. A parte i poliziotti e i loro amici, chi altro ha bisogno di una tale lezione pedagogica portata dall’esterno? (Molti: li hai citati tu prima, quelli che si fanno attrarre dalle chimere della sicurezza o, ed è quasi peggio, della legalità; quelli che in fondo il poliziotto fa quello che fa perché è il suo lavoro, e ha una famiglia da mantenere)
E allora? Pensi che li si debba convincere a diventare dei rivoluzionari?
Dura, eh? Eppure, storicamente, la diserzione e la sollevazione di parte delle forze repressive  è stato un passaggio efficacissimo delle rivoluzioni: Howard Zinn per esempio, non l’ultimo dei fessi, riteneva che proprio la rivolta dei pretoriani sociali, sarà ciò che scatenerà la dissoluzione della presente società statunitense
Se lo scopo di una manifestazione è quello di manifestare le buone ragioni di una lotta a quanti ne dubitano ancora, l’obiettivo è decisamente fallito. Se non è che un’occasione per mostrarsi belli come i rivoluzionari di una volta ci si trova nello spettacolo patetico e irritante di fantasmi esibizionisti. The show must go on, ma la vita non è ancora incominciata e la rivoluzione nemmeno.
(In realtà la vita è talmente già incominciata che per molti di noi già volge al tramonto, fatti i debiti scongiuri. E anche la rivoluzione è già incominciata, per chi vi si è disposto: che le manifestazioni siano un luogo secondarissimo di tale processo, è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta.)
Appunto: è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta e della vita che senza dubbio è già cominciata da un pezzo e per noi soprattutto, come giustamente ricordi, scongiuri inclusi.
Questi Zorro rivoluzionari agiscono come un corpo separato che si pretende oggettivamente avanguardia senza chiamarsi tale ma facendolo sapere per via di stampa. Volenti o nolenti, mostrano di consentire ai giochi di ruoli con il potere; giochi ai quali il sistema invita per meglio separare la rabbia dall’intelligenza sensibile, l’auto costruzione di un altro mondo possibile da un gran numero di partigiani potenziali di un rovesciamento di prospettiva radicale. Numerosi, infatti, sono quelli che titubano lasciandosi bloccare dalla paura e dalla diffidenza di fronte al disordine. (a me francamente tutti questi trotskismi dialettici – volenti o nolenti, oggettivamente…- fanno girare potentemente i coglioni: cioè, chi vuole agire dovrebbe ridursi alla contemplazione per non turbare l’animo tremulo dei titubanti e dei cagoni?)
Darmi del trotskista è poco simpatico ma insisto coraggiosamente nel considerare che definire contemplativo un atteggiamento critico e di negazione è di un misticismo nichilista speculare e opposto all’animo tremulo dei titubanti e dei cagoni che io comunque non disprezzo più degli avanguardisti.
Molto spesso uno si ritrova avanguardista, perché ha seguito le sue passioni con tanta intensità da scordare di voltarsi indietro, e così scoprire che pochi lo stanno accompagnando, e perfino nessuno
Io continuo a pensare con Debord che bisogna fare il disordine senza amarlo, sapendo che nelle condizioni spettacolari la critica radicale deve saper attendere.
(Attenzione che, a furia di non amare il disordine, non si finisca, come molti anarchici hanno fatto e fanno, per amare l’”ordine nuovo” di una futura società. E consideriamo che la critica radicale attende da un pezzo e non si capisce bene che cosa, visto che le condizioni spettacolari non si estingueranno certo da sé, ma precisamente grazie a coloro che avranno scelto di non attendere oltre)
Non temo nulla su questo punto. Sono vaccinato da entrambe le fissazioni. Mi piacerebbe che fosse altrettanto vero per molti che sintetizzano il superamento spettacolare in un disordine sempre nuovo.
Non c’entrano l’opportunismo, l’attendismo o che so io di altre calunniose accuse usate dal militantismo fanatico - alla maniera di qualunque morale, rivoluzionaria o no - per giudicare la critica radicale come un astensionismo contemplativo e assillare la lucidità di chi osa negare come fosse un comportamento da rinnegati. Già Marx, ai suoi tempi, notò questa odiosa tendenza dello spirito religioso infiltrato nella classe della coscienza, ma noi l’abbiamo soprattutto abbondantemente sperimentata durante i deliranti “anni di piombo”, quando l’elogio totemico del fucile ha tanto contribuito a spezzare definitivamente le reni di una gioiosa rivolta incompiuta. (Non ci siamo: invertendo l’ordine degli eventi si perviene a una falsificazione totale. E’ proprio perché la rivolta, essendo incompiuta, aveva cessato di essere gioiosa, che molti si sono orientati verso la scorciatoia armata,  alcuni precisamente perché si erano stufati di attendere il gong della critica radicale)
Condivido la precisazione che non cambia, tuttavia, il senso del mio parlare dei deliranti “anni di piombo”, quando l’elogio totemico del fucile ha tanto contribuito a spezzare definitivamente le reni di una gioiosa rivolta incompiuta.
Bisognerebbe che il Black Bloc si sbloccasse un po’. Che si ricordasse della vecchia talpa (Posso dirlo? A me quella della vecchia talpa è sempre apparsa una cazzata: il movimento di liberazione umana ha bisogno di luce e non di cunicoli, deve scavare sì, ma dall’alto e non dal basso) Niente da dire: a ognuno il suo sguardo sul mondo animale, luci e ombre incluse.
anziché ispirarsi alle tigri nello zoo. Bisognerebbe, soprattutto che smettesse di prendersi per un’avanguardia senza nome che giustifica i suoi atti a nome del movimento. Il movimento sociale non appartiene a nessuno (perché appartiene a ciascuno che si muova qui ed ora) e tanto meglio, poiché nessuna levatrice specializzata lo farà alzare prima del tempo, semmai questo tempo è destinato ad arrivare. (e se non dovesse arrivare? Ciascuno vive il tempo della propria vita e non quello della storia: se non insorge oggi, quando?)
Ma se si è appena detto che la vita è cominciata da un pezzo siamo d’accordo nel dire che il problema non si pone e che si tratta di scegliere come partecipare al movimento così come ci si sente e non intruppati da nessun eroico cowboy della rivoluzione.
Ma dove lo vedi questo intruppamento? Uno può fare il vandalo e il guerrigliero esattamente come crede e con chi crede, non esiste alcun superclan che lo indirizzi e lo inquadri
Lasciamo dunque la distruzione al capitalismo e ai suoi sgherri che lo fanno così bene. Pazienza se i poliziotti non avranno accesso a una coscienza di classe.
Si è, oppure no, dei rivoluzionari indipendentemente dall’epoca che si attraversa. Nel 1968, quando ci si è ribellati per la prima volta nella storia contro la società produttivistica, o “nel 2014, quando, con i due piedi nella catastrofe, basta non staccare gli occhi da un po’ di fiducia in se stessi e serbare qualche amico, per diventare rivoluzionar”i[7][7].
Nemmeno io, come gli autori dell’articolo, vivo nel sogno del Larzac francese degli anni settanta, ma non sogno neppure di Black Bloc perché la fiducia in se stessi e le amicizie di cui sopra sono ben lontane dall’essere acquisite e non sarà certo una pietra in faccia a un poliziotto che ce le accorderà. Esse si nutrono dell’esempio costruttivista in tutte le ZAD del mondo piuttosto che della violenza che s’oppone alla violenza di Stato. Il che non toglie che difendersi dal fascismo legale dello Stato, come da ogni altro fascismo, non è solo un diritto ma una necessità anch’essa “legale” come ogni legittima difesa.
Quel che mi dà più fastidio in ogni militantismo offensivo è che s’illudano i potenziali seguaci abbacinandoli con una rivolta affidata alla critica delle armi ben oltre l’arma della critica. Si tratta di un esorcismo che fa di fatto regredire nello spettacolo perché l’arma della critica la si supera solo praticando l’auto costruzione e l’auto organizzazione di un nuovo mondo psicogeografico, non inviando messaggi conflittuali agli avversari mercenari di un gioco di ruoli dove il solo vincitore è sempre il sistema dominante. (Come di consueto, contrapponi costruzione e distruzione quasi fossero due processi differenti, mentre si tratta di un unico processo, semplicemente guardato da opposti punti di vista: il vandalo che scalfisce l’arredo urbano e sociale, costruisce al tempo stesso relazioni e ambientazioni diverse e opposte. Negli anni Settanta, per segnalare la nostra solidarietà con Ulrike Meinhof uccisa in carcere, fu data alle fiamme la sede di Lufthansa a Milano. Che rimase per anni così, inerte e nera, non si trattava di una costruzione? Distruggere prigioni per farne piazze dove adunarsi e discutere e praticare la libertà, non è forse costruire? Oppure chiese, fabbriche, tribunali, borse valori, caserme? Il vero problema semmai è che le distruzioni operate da questi nostri compagni, rimangono troppo al di qua per costruire qualcosa che non rimanga un semplice SOS nel buio dello spettacolo. E’ perché la distruzione è troppo poco diffusa e radicale che la si può far passare per un incubo da cui cercare il risveglio nella sicurezza del lavoro, della famiglia, dello Stato. I compagni dei Black Bloc ci appaiono sovente come avanguardie, perché è l’armata che dovrebbe seguirli a fare difetto, lasciandoli isolati sotto i riflettori del nemico)
Come di consueto, costruzione e distruzione sono due processi differenti, di un'unica dialettica e scegliere liberamente il costruttivismo è legato al momento storico in questione. A me di distruggere non me ne fotte una mazza e la panoplia dei miei piaceri la scelgo io e non me la lascio certo imporre dai fantasmi altrui.
Non sono due processi differenti: la medesima azione che costruisce, che ne so? Una ferrovia distrugge una valle. E chi spiana una città, dà luogo a una foresta o a un campo arato o a una palude o a una base nucleare. A te preme costruire e la distruzione necessaria di ciò che stava lì prima che arrivassi tu, e delle infinite potenzialità che la tua costruzione accantona, nemmeno le vedi, ma non per questo sono meno vere. Alla fine è la solita storia che nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. I vandali trasformano, così come i costruttori: spesso fra l’altro si tratta precisamente delle stesse persone in due diversi momenti della loro vita
Condivido assolutamente l’idea che fare a meno dello Stato sia una necessità evidente per l’autogestione generalizzata della vita quotidiana alla quale la rivoluzione sociale, incompiuta o tradita, aspira da un buon secolo. Fare invece chiaramente a meno della società e dell’economia, come affermato con facilità semplicistica nell’articolo qui commentato, non è questione di una frase o di un gioco di prestigio, neanche se sostenuto da una macchina che brucia o da una vetrina in frantumi.
Il termine società è effettivamente un’invenzione della borghesia trionfante sull’Ancien Régime, ma la comunità umana, diventata società con il capitalismo, è un’identità collettiva che non può essere confiscata né messa da parte da nessuna avanguardia senza perdersi in un universo totalitario, indipendentemente dal colore delle bandiere o dell’abbigliamento usato. (Cioè, sosterresti che la maledizione per cui le comunità sono state degradate e impastate nella società, non è più reversibile? Che la società ce le dovremo nei secoli dei secoli?) La questione per me non si pone e in questi termini non ha senso.
Gestire bene la casa (questo significa economia) è un’esigenza strutturale degli esseri umani che siamo. Certamente non la sola e forse non la più importante, ma pur sempre abbastanza perché ci si ponga concretamente la questione del come passare da un’economia della catastrofe a un’economia del dono. (Il dono è un atto che lega individui separati in quanto separati: le questioni che oggi sono ammassate nel concetto di economia, vanno tolte alla dimensione sociale che ne costituisce insieme la causa e l’effetto, e restituite all’ambito delle relazioni libere fra individui, più o meno federati fra loro)
Il tema merita altro sviluppo ma comincio a faticare in quest’esercizio di botta e risposta. Dunque qui mi fermo, pronto come sempre a riprendere il dialogo a un prossimo incontro conviviale tra amici che se la dicono e se la cantano gioiosamente. Ora la panoplia nella quale esercito la mia voglia di vivere mi spinge al riposo, né del guerriero né del martire, perché entrambi mi annoiano inesorabilmente.
E’ vero, il botta e risposta stanca (e probabilmente molto più che noi,  stancherebbe quei poveretti che si sforzassero di leggerci): e d’altronde, occorre ogni tanto ripercorrere le strade che ci hanno condotto a imbatterci gli uni negli altri, e capire come mai le persone sono come sono, incominciando con noi stessi
Negare ciò con il rovescio di una mano che lancia una pietra mentre l’altra ci fotografa mentre lo facciamo[8][8] non supera il problema dell’organizzazione sociale ma meramente lo ignora sulla spinta di una mistica rivoluzionaria millenarista da gentili fanatici dell’apocalisse. (In realtà, si tratta banalmente di momenti diversi: chi lancia il sasso oggi, negli altri momenti fa mille altre cose, che in parte conosciamo benissimo, visto che questi compagni li incontriamo tutti i giorni, e in parte possiamo figurarci con la forza del buonsenso, visto che nessuno fa il vandalo in servizio permanente effettivo: case occupate, coltivazioni autogestite, stesura e traduzione di testi, dibattiti, corrispondenza e solidarietà con i compagni carcerati…etc)
“C’è l’atteggiamento rivoluzionario. Vivere oltre i compartimenti, tra le cose. Passare oltre. Tessere legami e non funzionare. Tutto per l’amicizia, la condivisione, l’elaborazione infinita, infinitesimale, di una sensibilità. Le cose sono delle porte e non più dei muri. La norma non è che l’indice della nostra debolezza. Quel che è nulla diventa potente appena si sa comune. Una tale attitudine è incompatibile con la civiltà. Il che la rende suscettibile, accessoriamente, di sopravviverle”[9][9].
Io dico che le cose sono solo cose e che una reificazione alternativa a quella dominante resta un’alienazione che non apre nessuna porta all’emancipazione. Tuttavia, come non commuoversi di fronte a un tale slancio poetico e come non notare, al contempo, che il suo passaggio all’atto[10][10] presuppone un confronto aperto e generalizzato con tutta la comunità reale e non solo tra adepti mascherati di una stessa ideologia; a meno di accontentarsi di restaurare l’odiosa ipotesi di una dittatura sul proletariato mascherata da riscatto.
Senza dimenticare che il superamento di una civiltà è un’altra civiltà,(come un ergastolo, dunque? Nessuna via d’uscita prevista per chi non volesse ALCUNA CIVILTA’?) il principio di piacere resta sempre in linea di mira, (ma il piacere di devastare la galera sociale, non riesci a inserirlo nella tua panoplia di piaceri possibili?) ma bisogna saper essere anche abbastanza laici e materialisti dialettici per confrontarsi davvero con la complessità del reale al fine di smuoverlo fino a un orgasmo della storia che realizzi collettivamente, e non in un’illusione settaria, quel che intendiamo per rivoluzione.