sabato 12 dicembre 2015

Trascrizione di un'intervista a Paolo Ranieri realizzata da alcuni compagni per il film "Bombe sangue capitale"

 
I funerali dell’anarchico Pinelli. L’opera di Enrico Baj




Trascrizione di un'intervista a Paolo Ranieri realizzata da alcuni compagni per il film "Bombe sangue capitalefonte http://www.nelvento.net/critica/paolo.php
 
>Paolo: ...e c'è pure un pezzo di intervista a me - fatto da altri compagni per un film che ha già incominciato a circolare, sebbene non lo si consideri ancora concluso, che si chiama "Bombe sangue capitale" e racconta delle bombe di piazza Fontana e della Milano del 1969. Credo che i materiali di quel film siano ottimamente inseriti nel nostro progetto. A giorni dovrei vedere i compagni della Calusca (che peraltro mi apre ci leggano, no?) e vedremo che cosa si può fare. Intanto vedrò di mandare la trascrizione

Domanda: Qual era il clima a Milano prima del 12 dicembre?
Paolo: È difficile riuscire a distinguere la situazione che a Milano c’era prima del 12 dicembre senza il marchio prodotto poi dalle bombe sulla memoria. Una situazione come quella che si è andata a creare con Piazza Fontana ha completamente modificato la percezione degli aventi, e questo è sicuramente uno dei suoi portati più negativi. Per cui in effetti è proprio necessario uno sforzo per ricordare la situazione qual era prima a Milano e nelle grandi città italiane, che erano state coinvolte in quella fase storica che si andava vivendo un po’ in tutti i Paesi. Certamente per chi vede Milano oggi è difficile immaginare com’era allora. La prima caratteristica che dobbiamo ricordare è che era una città straordinariamente piena di persone, situazioni, incroci. Il centro della città era un luogo totalmente abitato da una folla di persone che andavano incrociandosi e cercando di trovare una loro maniera di stare. Per esempio l’Università Statale, che è oggi apparentemente identica a com’era allora, in realtà era un luogo completamente diverso, e attorno all’università nelle strade – proprio in piazza Fontana, tra l’altro, era appena stato demolito l’Hotel Commercio, che era stato il primo tentativo di squatt, centro sociale in Italia – circolava una quantità di persone e s’incrociavano una quantità di persone. Per cui le manifestazioni continue che c’erano a quell’epoca nel centro di Milano non erano come le possiamo vedere oggi l’arrivo da tutte le parti di qualcuno che viene da lontano, arriva in strade vuote a segnalare la propria presenza e scompare di nuovo nel nulla. Erano le persone che stavano comunque già lì e si adunavano, si spostavano e facevano accadere qualcosa. In questo senso – e non è questo l’unico aspetto – il modo di vivere il centro delle città come Milano, come Bologna, come Roma, come Torino di quell’epoca ripercorreva le stesse caratteristiche che l’anno precedente aveva prodotto l’alchimia che aveva dato luogo al Maggio francese. Cioè, questo incrocio esplosivo tra dei giovani privi di mezzi e privi di un’utilizzabilità sociale in mezzo ai palazzi del potere economico e politico. Questi due movimenti della strada e dei palazzi erano ancora perfettamente visibili sul territorio, e di conseguenza le stesse manifestazioni che apparentemente possono sembrare simili a chi le guardi in immagine, vanno comunque pensate all’interno di una presenza, di una vita sociale già in disfacimento ma ancora vera, ancora attuale.
Domanda: Cos’è Piazza Fontana e cos’ha rappresentato?
Paolo: Probabilmente Piazza Fontana – perlomeno nell’ambito italiano ma con una ricaduta che probabilmente va anche fuori dei confini – è uno di quei grandi momenti che segnano un prima e un dopo nel passaggio della storia. È un momento che diventa mitico con una velocità straordinaria, praticamente produce immagine con una tale rapidità da spiazzare tutta una serie di realtà precedenti. A questo mito, probabilmente, più che i mandanti originari delle bombe, che in qualche maniera adesso sono in parte abbastanza emersi e che si rifanno a una dimensione abbastanza tradizionale di trame spionistiche della NATO, con i fascisti come manovalanza, tutta una dimensione in definitiva piatta e semplice, in qualche modo, della controrivoluzione, al mito di Piazza Fontana collaborano, partecipano e concorrono una quantità infinita di forze, nel senso che a un certo punto la bomba esplode proprio nell’immaginario e chiama ciascuna delle tante forze che in quel momento venivano spiazzate da questa sovversione montante, alcuni più rapidamente e con maggiore capacità, efficacia e lungimiranza, altri con maggiore esitazione, però ciascuno si ridispone; e noi vediamo appunto come il PCI vi trovi il suo tornaconto. Non subito: agli inizi per esempio il Partito comunista è tentato dall’idea di appoggiare la tesi degli anarchici colpevoli; è poi la piazza a suggerire un’altra lettura, che è quella che poi adesso col solito sistema stalinista ha creato a posteriori tutta una rilettura del passato in funzione del presente. Ma lo stesso discorso vale per i gruppuscoli, ugualmente i giornali, la televisione, i vari partiti politici, i sindacati. I sindacati che erano sempre più spiazzati nelle fabbriche – trovano nella gestione di questo stato di cose, nella vigilanza antifascista, una maniera per mettere in gioco quella che era la loro forza, diciamo, militare, i loro servizi d’ordine. Per esempio Piazza Fontana scatena l’idea del servizio d’ordine, scatena l’idea sostanzialmente che occorre organizzarsi, occorre difendersi, occorre guardarsi gli uni dagli altri, non si può più agire senza tener conto di queste forze oscure. Da Piazza Fontana, d’altra parte, prende grandissimo sviluppo, l’attività sia di Feltrinelli e del suo gruppo di resistenza armata antifascista sia quello che poi in seguito avrà uno sviluppo nella prospettiva lottarmatista. Piazza Fontana è praticamente il momento in cui tutta una serie di forze che andavano liberamente montando su un modello che avevamo sperimentato l’anno prima – noi felicemente i nostri nemici con vero e proprio terrore col Maggio francese –, cioè la possibilità di una rivoluzione individuale praticata collettivamente e che quindi sorpassava la dimensione della violenza, la rendeva inutile, inattuale, marginale rispetto alla forza dispiegata di queste infinite soggettività che s’incrociavano e interagivano e che in Italia stava cominciando a muoversi sugli stessi temi, questa dimensione viene bloccata e congelata, e riappaiono tutti i tipi di specialismi, di carrierismi. L’ideologia diviene arma e l’arma diviene ideologia. In questo senso si può notare che di tutta la vicenda così com’è stata organizzata dalle forze dello Stato, della NATO, che stanno dietro coloro che hanno messo le bombe e hanno studiato la maniera di gestirle e che hanno mostrato indubbiamente notevoli dosi di incapacità, di inettitudine e di leggerezza, l’aspetto però che è significativo è che il gruppo dei capri espiatori, da Valpreda agli altri, viene scelto – evidentemente attraverso un lavoro di intelligence durato mesi e mesi – avendo come centro il gruppo di quelle persone che avevano creato il grande scandalo al congresso anarchico di Carrara dell’anno precedente, in cui era intervenuto Cohn-Bendit reduce freschissimo dalle vicende del Maggio, e che avevano posto la questione di portare i temi del Maggio anche in Italia. Il fatto che questo passaggio fosse stato individuato come un momento da far saltare e da criminalizzare indica che pur nella trivialità del progetto delle bombe esisteva comunque anche una certa dose di lungimiranza. E in effetti, occorre riconoscere che se un progetto è rimasto poi bloccato e congelato attraverso l’intreccio degli opposti specialismi e ideologie che è esploso dopo la bomba, è stato proprio il progetto di una rivoluzione della vita quotidiana così come il Maggio ce l’aveva in qualche maniera prospettata e alla quale tante persone stavano, con diversi gradi di consapevolezza, concorrendo fino a quel momento.
Uno dei portati del dopo Piazza Fontana è la scoperta della possibilità di convertire la militanza rivoluzionaria in carriera, attraverso le infinite maniere di rispondere a quest’attacco, nascono proprio le professioni della sinistra, nasce la figura di quello che hafatto il ’68, cioè nasce il controgiornalismo, che rapidamente si converte poi in giornalismo ufficiale; nasce la controinchiesta giudiziaria, che porta poi chi a diventare giudice chi a diventare poliziotto, chi a diventare giornalista giudiziario, chi comunque a diventare specialista e specialista retribuito. Quella che era anche al di là della consapevolezza, che per molti aspetti era ancora turbinosa, confusa, cioè tutti i soggetti coinvolti in quella fase che va dal ’67 al ’68-69 sono persone giovanissime, in una maniera che il movimento di oggi non riesce sostanzialmente nemmeno a figurarsi, comunque era una battaglia contro il lavoro, contro la normalità, contro la strutturazione sociale. Rapidissimamente attorno alla difesa contro le bombe, contro il fascismo e così via si converte in nuovi lavori, in una nuova dimensione politica, in una nuova istituzionalizzazione sia formale che sostanziale. Rapidamente tutti coloro che prima cercavano di allontanarsi dalla normalità in qualche maniera vengono richiamati a fare il loro dovere. In definitiva, il messaggio – non so quanto le bombe lo volessero dare – ma il messaggio che è stato recepito è che bisognasse mettere – come già allora si diceva – la testa a partito. Occorreva che ciascuno tornasse a fare il lavoro politico, tornasse a fare il proprio dovere, in definitiva a chinare la testa e a farla chinare agli altri. In questo senso tutti gli anni Settanta nascono sotto questa luce mortifera, alla quale si intenderà in mille modi di opporre resistenza, ma che alla fine travolgerà tutto quanto nella divaricazione tra quella che è la dimensione lottarmatista e quella che è invece la dimensione della normalizzazione. Da questo punto di vista liberarsi da questa dimensione è un’urgenza che non è ancora stata completamente risolta, nella quale ci troviamo ancora per molti aspetti a dibatterci oggi, a distanza di così tanti anni.
La bomba di Piazza Fontana, con il suo progetto che gli sta dietro, è uno dei primi grandi momenti spettacolari della modernità nella fattispecie italiana. E proprio il fatto di essere uno dei primi ha fatto sì che avesse un effetto così dirompente. Tutto considerato, la società non era ancora abituata a digerire questi eventi esplosivi, queste prepotenze così spropositate, questa esibizione della crudeltà e così via, e di conseguenza si è fatta coinvolgere da questa vicenda anche più di che sarebbe stato non solo opportuno, ma che poi è accaduto in seguito. Guardiamo per esempio adesso l’episodio delle Twin Towers, che sono un po’ una specie di bomba di piazza Fontana mondiale, cioè in definitiva un esperimento di esibizione della morte e della potenza delle forze segrete che si muovono nel mondo: non ha prodotto lo stesso risultato. Si è detto in tutte le salse che nulla sarà più come prima, ma lo si è detto così tanto proprio perché invece rapidissimamente tutto è tornato come prima: i film catastrofici non vendono più. Piazza Fontana in definitiva è il primo di una serie di film catastrofici, e in questo senso rimane un po’ il capostipite e ha una capacità di suggestione che poi i successivi hanno sempre cercato di ottenere con un surplus di effetti speciali, senza mai riuscire a raggiungere la nitidezza dell’originale. Nitidezza che io credo per certi versi sia proprio dovuta al fatto che probabilmente non era pensata. Bombe che c’erano già state – in Fiera, sui treni ecc. – cioè un episodio di provocazione da parte dello Stato di misura limitata, per una serie di circostanze invece produce una strage di dimensioni spropositate e sposta degli equilibri molto al di là di quello che era il controllo di chi aveva progettato la cosa dal principio. Secondo me questa «spontaneità» con cui i vari soggetti istituzionali o sedicenti antistituzionali si sono mossi dopo attorno a questo fatto è proprio quella che ha dato a Piazza Fontana questa capacità di segnare un netto discrimine fra la possibilità rivoluzionaria sospesa nella situazione precedente e il congelamento rapido e accelerato che è andato producendosi successivamente, e nel quale più o meno tutti quanti siamo stati coinvolti e bloccati.
All’epoca delle bombe avevo diciassette anni e andavo al liceo. Il 12 dicembre, che era una giornata freddissima, di nebbia, una giornata veramente torva, la temperatura era sotto lo zero, ero con altri due compagni di fronte al liceo – io all’epoca appartenevo a Ludd – e stavamo progettando uno sviluppo del discorso che stavamo facendo in quel momento e che era di attaccare l’involuzione burocratica del movimento studentesco della Statale e dei movimenti studenteschi dei licei. A noi in quel momento interessava, sostanzialmente, smascherare la pratica reazionaria dei servizi d’ordine e così via, e di conseguenza c’eravamo visti con altri due al bar vicino al liceo per parlare di questo fatto e dovevamo studiare un volantino. Era poi quello che si faceva continuamente in quei giorni, in cui s’incrociavano continuamente situazioni di questo tipo, da una scuola all’altra. Una quantità di scuole era occupata, c’erano occupazioni che duravano settimane e mesi interi. La Statale era occupata praticamente in maniera permanente per un lunghissimo periodo e faceva da casa madre per tutta una serie di occupazioni sparse nella città. E di conseguenza era particolarmente urgente per noi in quel momento – a noi appariva particolarmente urgente, ma in effetti, anche vedendolo con gli occhi di oggi lo era effettivamente – stroncare la tendenza a creare una dimensione gerarchica. A noi premeva che in ciascuna situazione si andassero a creare degli spazi dove ciascuno agisse liberamente, mentre invece esisteva già una tendenza, che dopo Piazza Fontana immediatamente esplose e s’impose poi come la regola un po’ ovunque, di creare dei criteri fissi, dei sistemi ideologici chiusi sulla base dei quali riconoscersi. Cioè da una parte c’era il discorso secondo cui tutti possono parlare esclusi i fascisti, che era lo spirito dominante dell’epoca, dall’altra quella che esistesse una vera e propria ideologia corretta, o meglio delle ideologie corretta che a quel punto poi ogni centrale – la Statale, la Pirelli e così via – veniva costruendo la propria dimensione. In questo senso la tendenza involutiva che dopo Piazza Fontana è andata rapidamente diffondendosi come un cancro ovunque era già attiva, però tutto ciò che prima appariva in gioco, come una situazione in movimento, si è immediatamente strutturata e irrigidita. Secondo me, tra l’altro, in tutta franchezza il ruolo particolarmente disgraziato e reazionario che ha svolto Milano in tutti gli anni Settanta rispetto al movimento italiano sia conseguenza proprio del fatto che le bombe sono scoppiate qui. Cioè secondo me uno dei portati di Piazza Fontana è di rendere Milano, all’interno di una dimensione nazionale disgraziata, la più disgraziata di tutte le città, quella col movimento più di tutti ingessato, più di tutti reazionario e più di tutti, tra l’altro, esplicitamente stalinista. Tra l’altro questa disgrazia di Milano – e sono passati ormai trentatré anni – è ancora vera, secondo me. Tuttora Milano è il punto più debole del panorama nazionale, dove sostanzialmente tutte le ideologie mostrano la loro faccia più odiosa e più inefficace.
Domanda: Racconta del volantino del «bracciale rosso».
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Paolo: Poco prima delle bombe – credo nell’ottobre del ’69 – la polizia aveva ucciso un ragazzo a Pisa, che si chiamava Pardini, c’era stata una grande manifestazione e noi già allora avevamo fato un attacco molto violento contro la gestione burocratica, in particolare dell’Università Statale, facendo un volantino in cui c’era appunto la frase: «Studente, di rosso ti è rimasto unicamente il bracciale da poliziotto», e che ovviamente aveva creato dei grossi dissapori con noi di Ludd, altri amici, tra cui molti personaggi che poi saranno inquisiti o saranno portati in Questura dopo le bombe, cioè proprio quell’ambito dove l’inchiesta cercò di andare a colpire. Tra l’altro si può dire che, in effetti, la distribuzione del volantino dei situazionisti Il Reichstag brucia? dopo il 12 dicembre è uno degli ultimissimi momenti in cui la Statale è ancora agibile per chi non faccia atto di sottomissione verso i leader maoisti e stalinisti. Proprio in quei primissimi giorni dopo le bombe è uno degli ultimi momenti in cui il movimento si percepisce ancora come una realtà non totalmente asservita e piegata alla dimensione ideologica. Poi, per tanti motivi, appunto per il clima generale che si era creato per l’influsso, da principio sotterraneo e poi crescente del Partito comunista e dei sindacati, che creano un rapporto privilegiato con questi gruppi cosiddetti extraparlamentari, rapidamente si arriva a una forma di normalizzazione. Cioè coloro i quali che prima, anche se in una forma confusa e contraddittoria,si percepivano come rivoluzionari, dopo si percepiscono come «estrema sinistra», cioè come parte della dimensione politica e istituzionale, seppure come copertura un pochino oltre le istituzioni. Chiaramente questo taglia fuori tutti coloro che non volevano prestarsi a questa dimensione. Un ruolo particolarmente nefasto in questo quadro lo andrà svolgendo Lotta Continua, che è veramente il tentativo – peraltro è il meccanismo che possiamo vedere anche oggi con questa specie di calderone dove si rispettano tutte le ideologie, purché siano inefficaci e sciagurate – di creare una specie di calderone con un piede nel PCI e un piede nel movimento. Lotta Continua è quella che si batte contro Calabresi, i «proletari in divisa», i «dannati della terra»: è un tentativo, chiaramente più ingenuo, di un’altra epoca, di un’altra Italia, per molti aspetti, ma che mostra molte delle caratteristiche disgraziate che possiamo vedere anche adesso negli aspetti peggiori del cosiddetto movimento: cioè il tentativo di voler mettere insieme tutto e di rendere tutto leggibile e commestibile per il piano della politica parlamentare, della politica delegata, se del caso tagliando quei rami che proprio non riescono a entrare nel disegno complessivo. Tutte queste cose sono poi i portati della fase successiva, quella che andremo a conoscere nel ’70, ’71, ’72 e che porteranno poi alle vicende che conosciamo e alle grandissime disgrazie che ne sarebbero sorte.
Domanda: Cos’era Ludd - Consigli proletari.
Paolo: Ludd, e successivamente Ludd - Consigli proletari, è un’aggregazione abbastanza informale di un certo numero di persone, soprattutto a Genova e a Milano, ma con contatti in altre città, che cercano di mettere insieme gli elementi rivoluzionari che emergono dal dibattito intorno al Maggio e nel periodo immediatamente successivo, in particolare la teoria dei situazionisti e la teoria comunque della sinistra radicale, soprattutto francese, Socialisme ou Barbarie, una certa rilettura di tutta una serie di classici, dalla Scuola di Francoforte e così via, e che cercherà di fare sia una ricerca teorica sia una sperimentazione sul campo nel periodo che va dalla seconda metà del ’69 ai primi mesi del ’70.

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mercoledì 2 dicembre 2015

La vita contro la morte




 
CON NOI
Il momento è grave. Il mondo in decomposizione sa ormai di cadavere in maniera inquietante.
Le spoglie della povera gente uccisa dal fascismo appariscente si mescolano all’insopportabile cadavere dell’ideologia che mitraglia mediaticamente in tutti i sensi il suo totalitarismo dissimulato in democrazia spettacolare.
Bisognerà dare corpo a un soggetto capace di denunciare la totalità della manipolazione oltre ogni complottismo e ogni manicheismo leviatanesco.
Lasciamo tranquilli gli individui e le folle di musulmani generici nella loro alienazione comune a tutti i drogati della religione arcaica, dai bibbiomani agli evangelizzati, ma rigettiamo in blocco tutti gli odi teofascisti produttori – ognuno a suo tempo e coi suoi modi – dello stesso estremismo fanatico, ottuso e assassino, utilissimo alla moderna religione del denaro il cui dio domina tutti gli altri. Perché esiste davvero, LUI!
Bisogna denunciare l’amalgama più perverso che consiste nell’opporre gli “stati democratici” allo “stato islamico” come il BENE e il MALE assoluti.
La patologia particolare comune a tutti i monoteismi è legata alla separazione del corpo e dello spirito intrinseca alla società produttivistica. Da sempre il ruolo fascistizzante inerente allo spirito religioso si è mostrato in tutto il suo morboso splendore. Dobbiamo dunque sottolineare più che mai, in questi tempi infausti, il legame pericoloso tra ogni dottrina di sottomissione a qualunque fede credula e la logica settaria che corrompe gli uomini consegnandoli sistematicamente a dei leader più o meno visibili ma sempre odiosi.
Difficile sfuggire alla trappola. Anche i rivoluzionari più laici hanno spesso pagato il loro tributo alla perversione narcisista che allevia l’impotenza orgastica dei capi attraverso l’erezione angosciata e angosciante del loro potere.
Nessun inutile processo a un qualunque capo la cui miseria intima affiori patetica – ante o post mortem - dietro la sua nobile parola rivoluzionaria. Bisognerà, piuttosto, distinguere più chiaramente che mai, l’oro della teoria dal piombo dell’ideologia per non lasciare l’arma terribile della manipolazione nelle mani di leader (guerrieri o intellettuali, o tutti e due insieme) che per la loro stessa natura di individui separati, si fottono della rivoluzione con la quale si gargarizzano costantemente.
Le sette sono sempre degli Stati in formazione e si tratta di combatterli in nome dell’autogestione generalizzata della vita quotidiana che resta, a mio avviso, il nostro primigenio progetto di emancipazione.
Una banalità da non dimenticare: tutti gli Stati sono Stati canaglia. Lo sappiamo e lo ripetiamo spesso, è vero, ma siamo anche noi invischiati nel clima putrido di un lutto collettivo confiscato dallo spettacolo. Il quale si sviluppa ormai attraverso l’odiosa messa in scena per schiavi che fa della Marsigliese un’Internazionale di paccottiglia buona per arruolare dei servitori volontari del Leviatano.
Dietro la bandiera francese cinicamente inalberata da burocrati spettacolari e ingenuamente sventolata da masse sperdute e intimamente ferite, si dissimulano le insegne del capitalismo planetario e del suo totalitarismo soft. É chiaro che se non sgominano militarmente Daesh è solo perché non lo vogliono.
In nome della nazione umana che vuole la pace orgastica e non quella dei campi di concentramento del consumo capitalistico: nella spazzatura della storia ogni nazionalismo, insieme a tutti i terroristi e a quelli che li finanziano prima di denunciarli tardivamente senza combatterli sul serio!
Noi non sceglieremo tra la peste e il colera. Ci batteremo con ogni mezzo contro ogni violenza, contro ogni peste nel nome di una laicità che non chiede né guerrieri né martiri.
Evitiamo, però, di trarre la conclusione che dietro Daesh ci sia direttamente la mano della CIA o di altri confratelli del Leviatano perché il solo complotto avverato è quello del feticismo della merce che la società produttivistica ha innescato da migliaia di anni.
Ecco perché il Leviatano è un’immagine indispensabile per cogliere la società dello spettacolo in tutta la sua perversione: per non cadere nel complottismo paranoico che fa il letto del fascismo.
Da tempo, nella storia confiscata dall’alienazione e dalla reificazione, gli Stati e i loro arnesi, le mafie locali e le multinazionali, si combattono davvero ma non si eliminano mai definitivamente perché sono frutto e semenza di una stessa rivoluzione agraria preistorica diventata poi industriale e tecnocratica in un processo controrivoluzionario ininterrotto governato dal progetto del Leviatano produttivistico.
I malati di peste emozionale si fanno sempre la guerra, ma si aiutano reciprocamente e obiettivamente per mantenere un clima di terrore indispensabile alla loro vergognosa esigenza comune: fare finta che tutto cambi affinché niente cambi nello sfruttamento dell’uomo e nella sua alienazione redditizia.
Ecco perché quelli che parlano di radicalizzazione per descrivere le azioni dei nichilisti estremisti del Viva la muerte, hanno anche loro un cadavere in bocca.
La radicalità è andare alla radice delle cose e la radice dell’uomo è l’uomo stesso, la sua volontà di vivere e il suo libero godimento della vita.
Se vogliamo darci una possibilità di sfuggire al nichilismo che tetanizza la vita, è necessario e urgente riprendere il filo laico della critica radicale per costituire i Consigli di un’autogestione generalizzata della vita quotidiana e vivere finalmente senza tempi morti, eliminando ogni ostacolo al godimento della vita. Per questo insorgeremo contro tutti i recuperi della propaganda e contro tutti i falsari del processo storico di emancipazione.

SENZA di NOI
La geopolitica del terrorismo rivela l’uso terroristico della geopolitica. Con i suoi colpi bassi, le sue goffaggini e le sue riuscite nell’immediato essa svela puramente e semplicemente la pratica mafiosa della spartizione dei territori remunerativi, della protezione intimidatoria, delle alleanze suscettibili di essere tradite.
Sotto le bandiere multicolori del fanatismo religioso, del nazionalismo, del tribalismo c’è un’internazionale del profitto che regola dietro le quinte uno spettacolo dove le comparse muoiono a migliaia mentre nell’impunità le multinazionali distruggono le risorse naturali per arraffare un denaro sterile dallo sfruttamento disastroso del gas di scisto, dei giacimenti auriferi, del petrolio, del bitume, del tungsteno e altri inquinamenti mercantili.
Tutti gli Stati sono implicati in guerre mafiose ma non c’è in realtà che una sola e unica guerra. Una guerra spietatamente condotta contro le popolazioni della terra intera.
Se lo Stato vuole investire in conflitti redditizi, che lo faccia senza di noi. Il nostro problema è di uscire da questa guerra che lo Stato intensifica ogni giorno limitando le ultime libertà individuali, strappate un tempo dalle nostre lotte per l’emancipazione.
Noi rifiutiamo di lasciarci mobilitare per combattere una barbarie che è il prodotto della barbarie del mercantilismo mondialista. Non entreremo come pedine sulla scacchiera del sacrosanto profitto.
Basta con le vite perdute nella macchinazione delle speculazioni di borsa!
Dopo aver messo a mal partito le nostre conquiste sociali lo Stato, valletto delle multinazionali vorrebbe arruolarci nelle sue milizie di unità nazionale. Ebbene, no! La sola comunità con la quale essere solidali è quella degli esseri umani, degli esseri che si comportano umanamente, quali che siano le loro idee, le loro credenze, la loro origine geografica.
La disobbedienza civile è un diritto. La libertà di vivere è un diritto. Essa revoca la libertà di uccidere, di sfruttare, di opprimere, essa revoca le libertà imposte dal commercio.
Bisogna abbandonare lo Stato come una nave abbandona la riva. Solo delle assemblee, dei collettivi possono riuscirci. Non è un compito facile ma quando la disgrazia viene da quelli che pretendono di renderci felici, niente è più indispensabile che costruire la nostra felicità senza di loro.

Comitato per una Solidarietà senza frontiere