sabato 11 dicembre 2021

L’uomo e lo Stato



La traduzione di questo datato articolo di Jacques Ellul per la presentazione di un lungo testo sullo Stato del suo amico Bernard Charbonneau (L’Etat, 1952) è per me quella dei primordi di una coscienza di specie tuttora in fasce nella coscienza collettiva malata. Si tratta della diffusione discreta di verità ormai antiche che l’attualità pestifera di oggi rende addirittura lampanti. Queste poche pagine sottolineano la lucidità di Ellul e invitano a riprendere e riconsiderare l’opera di Charbonneau sul tema sociale oggi cruciale dell’ecologia politica radicale, tra crisi climatica, epidemie e inquinamenti vari, tutti fenomeni strettamente legati al potere della tecno scienza produttivista giunta alla sua fase terminale capitalista.

Tra le commoventi righe anticipatrici di un discorso totale contro il totalitarismo globale (ormai digitalizzato dal connubio pestifero di Stato e Mercato), ho anche colto una critica implicita all’immensa assurdità del presente, con la sua miseria contingente che oppone in una ridicola guerra di religioni virtuali la fede dei vaccinisti e l’autoritarismo odioso delle loro comprensibili paure alla rabbiosa paura rimossa degli antivaccinisti nel ghetto comune della sopravvivenza in pericolo. Come tendere all’emancipazione se non riconoscendo “la necessità in più di riconoscere la situazione reale e non negarla, non rifugiarsi nell'ideale, nel legalismo o la finzione”?

L’aspetto positivo di questa batracomiomachia è che la spinta di una coscienza di specie nascente nel pericolo onnipresente potrebbe fare scivolare la teoria in fieri verso una prassi di emancipazione spinta dall’urgenza collettiva di un rovesciamento di prospettiva antiproduttivista capace di superare le false opposizioni e le lotte fittizie di una società spettacolare in decomposizione. Concludendo con Charbonneau: La consapevolezza dell'impossibile è il motore dell'azione libera. È perché non ho vie d'uscita che sono costretto ad agire”.

Chi vivrà vedrà.

Sergio Ghirardi Sauvageon

 

L’uomo e lo Stato

Articolo su Le Monde di Jacques Ellul per annunciare la pubblicazione "presso l'autore" de Lo Stato di Bernard Charbonneau(1952).

S’intitola Lo Stato[1], in tutta semplicità e dà subito voglia di reagire: “Un altro ancora!” Dopo tutto quello che i classici hanno scritto sull’essenza e il fondamento dello Stato; dopo quel che i moderni scrivono sulla sua struttura e il suo funzionamento; dopo Jouvenel, Ferrero, Guardini, Burdeau e tanti altri che cosa si potrebbe aggiungere? Che apporto può dare un autore sconosciuto e apparentemente senza titoli che lo accreditino a priori all’immensa ricerca dell’uomo nei confronti del potere, ricerca che oggi si fa più obiettiva e giuridica nella misura stessa in cui l’uomo si sente più direttamente implicato, più brutalmente coinvolto?

Tuttavia, sin dalle prime pagine siamo trasportati in una prospettiva del tutto diversa da quella, consueta, delle opere sullo Stato. Ci rendiamo subito conto che questo libro fuori norma non corrisponde ai "generi" tradizionali. Non è una storia dello Stato, eppure il fondamento storico è fortemente strutturato (l'autore è un professore di storia). Non è un libro politico, eppure né da un giudizio pertinente. Non è un libro di diritto costituzionale, eppure la complessità delle istituzioni statali è perfettamente descritta. Non è un saggio (le dimensioni dell'opera vanno oltre i limiti del saggio) né di "letteratura", sebbene lo stile sia ricco e avvincente, e sebbene il vigore filosofico sia presente nell'insieme: è tutto questo allo stesso tempo, non nella confusione dei generi ma nella ricchezza e padronanza del pensiero.

È un'opera che corrisponde non solo a un vasto sapere padroneggiato, organizzato, ma a un'esperienza del politico, all'esercizio di un pensiero totale su un fenomeno totale, riconosciuto sia come fatto oggettivo che come esperienza soggettiva. Questa compenetrazione dei due, quest’adesione del soggettivo all'universale attraverso l'esercizio rigoroso del pensiero e il suo confronto con i fatti, è forse la caratteristica più sorprendente di quest'opera.

Non siamo più abituati a vere opere intellettuali e confondiamo troppo facilmente il pensiero con il “discorso”. Un'opera come questa mette esattamente al loro posto queste diverse espressioni e mostra come, dalle più semplici osservazioni, si possa accedere al massimo di vera conoscenza. È vero che l’autore usa le formule più comuni del vocabolario politico, manifesti, slogan, "illustrazioni" come elementi costitutivi di una delle opinioni politiche più profonde che io conosca.

Il disegno dell'opera è semplice, possiamo seguirlo riprendendo i titoli delle diverse sezioni dei tre volumi: Dalla natura alla rivoluzione, ed è la nascita del potere. Non c'è libertà politica, con l'analisi delle contraddizioni dello Stato liberale, la menzogna della libertà costituzionale, i concetti borghesi e proletari di libertà. Nella terza sezione, Partito-Natione-Guerra, si può seguire nel dettaglio la formazione di questi due dati complementari che sono l'homo politicus e lo Stato-nazione. Man mano che andiamo avanti, le sezioni diventano più grandi e comprendono più materiale, passando dalla descrizione alla sintesi e dalla storia a una visione olistica dell'uomo e dello Stato.

La quarta parte, che si chiama Guerra totale, non è affatto un'analisi limitata del fenomeno della guerra né di questo nuovo carattere che sarebbe la totalità della guerra, ma piuttosto del fatto che lo Stato tende senza sosta a una mobilitazione totale, corpo e beni, corpo e anima, e che la guerra è l'occasione più meravigliosa che gli viene data per realizzarsi nei suoi fini più completi, nello stesso tempo in cui rinchiude l'uomo nel dilemma decisivo, che diventa il nostro, che dobbiamo “morire per vivere". Infine l'ultima parte s’intitola Leviatano, ed è la totale presa di coscienza dello Stato moderno, identico nella sua essenza totalitaria, qualunque ne sia la forma variabile; identico in quanto ogni Stato moderno è nichilista e al tempo stesso pretende di essere tutto.

Un libro del genere non si riduce a tesi, tanto più che si rischia di snaturare il pensiero semplificandolo. Non si limita a una descrizione della crescita incessante dello Stato che si nutre di tutto, delle guerre e delle tecniche, delle riforme e delle rivoluzioni, della produttività e del "sociale"; che riesce ad aumentare il suo potere anche quando sembra adattarsi a dottrine e costituzioni limitanti lo Stato: così, in definitiva, il liberalismo politico ha rafforzato e preparato la crescita dello Stato. Questo sviluppo ininterrotto costituisce la spina dorsale dell’opera. Tuttavia questa descrizione non ne è il vero obiettivo; né lo scopo né il significato.

Il nocciolo della questione è in definitiva il confronto tra l’essere umano e lo Stato. Non è solo la contraddizione fondamentale e ben nota dell'individuo e della società, o del cittadino e dell'organizzazione, ma proprio dell'essere umano in ciò che ha di più centrale, più essenziale, più autentico, con un potere che lo attacca, lo penetra e lo assorbe.

Tutto ciò che è descritto in questo libro, è in realtà una descrizione dell'assimilazione dell'uomo da parte del “sistema”.

Tutto quel che è dimostrazione, è dimostrazione del fatto che non esiste difficoltà né problema politico se non si prende in considerazione questa distruzione dell'umano. Mostra, però, anche che non esiste una soluzione oggettiva.

Nella misura in cui qualsiasi riorganizzazione dello Stato, qualunque ne sia il principio, rafforza lo Stato, non è nelle teorie politiche o nelle riforme istituzionali che si può riporre qualche speranza. Tuttavia, se è così, non è colpa dello Stato che si limita ad approfittare della nostra debolezza, delle nostre carenze. Non dobbiamo, però, credere che lo Stato supplisca alle nostre debolezze e mancanze: se ne accresce e ci distrugge.

Siamo allora al centro di una tragedia, “una tragedia in cui, per forza di cose, trionfa sempre la fatalità, ma dove, per forza propria, rinasce sempre la vita. Fino al giorno della vittoria dello Stato fino al giorno in cui la coscienza finalmente si sbarazzerà di ciò che la nega”.

Lo Stato appare allora esattamente come il volto della Fatalità moderna. È inutile alzare le spalle e dire che non si crede nella fatalità. Essa non ha bisogno delle nostre opinioni per esistere, e questo libro mostra, attraverso uno studio attento, che si tratta davvero di fatalità. Tuttavia ciò non porta in alcun modo a un atteggiamento fatalista. Anzi. Ed è proprio questo il senso di quest'opera. L'aver riconosciuto che si tratta di una fatalità divide necessariamente gli uomini in due: quelli che l'accettano, e quindi cessano di essere uomini, e quelli che vogliono superare la fatalità. Con la necessità in più di riconoscere la situazione reale e non negarla, non rifugiarsi nell'ideale, nel legalismo o la finzione.

“La consapevolezza dell'impossibile è il motore dell'azione libera. È perché non ho vie d'uscita che sono costretto ad agire”.

L'uomo è decisamente messo in pericolo da questo Stato che “si sviluppa solo là dove noi siamo assenti per dispensarci, legittimamente o illegittimamente, dallo sforzo... Per forza di cose sembra che l'uomo debba essere sconfitto, perché non sono la politica e la scienza che gli permettono di governare la politica e la scienza: solo uno sforzo di libertà gli permetterà di accedere veramente al regno della libertà. Questo sforzo consiste, prima di tutto, nel non rifiutare l'insopportabile autonomia della coscienza”.

Di conseguenza, non c’è offerta una soluzione oggettiva. Nessuna. Nemmeno l'anarchia, perché è assurdo e futile pensare di risolvere qualcosa con l'anarchia. Non siamo in presenza di un processo allo Stato portante alla conclusione che dovrebbe essere soppresso. Siamo in presenza di una diagnosi profonda, che mette in gioco sia la condizione umana sia la "forza delle cose" che ci ricorda che la nostra verità umana consiste nello sfidare la fatalità, qualunque sia la sua natura.

Quindi è un libro formidabile per due ragioni. Da una parte, la sua precisa dimostrazione, la sua sistematicità politica, possono mettere nelle mani del tiranno un'ineguagliabile arma di oppressione: esso è per il nostro Stato quel che Il Principe di Machiavelli fu per lo Stato di Federico II. D'altra parte è formidabile per il semplice lettore che mette "ai piedi del muro" in modo molto più preciso di Camus. Ogni pagina ci coinvolge, richiede una decisione da parte nostra.

Siamo quindi in presenza di uno strumento oggettivo e di un appello. Uno strumento che ci permette di leggere e comprendere la nostra società, come una vera e propria "griglia" segreta, e che ne svela il significato profondo un appello (perché così dobbiamo qualificare questa lucida meditazione) a prendere coscienza personalmente, all'accettazione della nostra responsabilità di esseri umani, un appello a “essere”, perché solo vivendo la libertà l'uomo domina il Leviatano e lo spezza.

Le Monde, 16 dicembre 1952



[1] Bernard Charbonneau, L’État. (Par la force des choses). 3  volumi a conto d’autore. 



L’homme et l’État

 La traduction de cet article désormais ancien de Jacques Ellul pour la présentation d'un long texte sur l'Etat de son ami Bernard Charbonneau (L'Etat, 1952) est pour moi celle des prémices d'une conscience d'espèce encore emmaillotée en la conscience collective malade. C'est la diffusion discrète de vérités désormais anciennes que l'actualité pestiférant d'aujourd'hui rend encore plus claires. Ces quelques pages soulignent la lucidité d'Ellul et nous invitent à reprendre et à reconsidérer le travail de Charbonneau sur la question sociale, aujourd'hui cruciale, de l'écologie politique radicale, entre crise climatique, épidémies et pollutions diverses, autant de phénomènes intimement liés au pouvoir de la techno science productiviste arrivée à sa phase capitaliste terminale.

Parmi les émouvantes affirmations anticipatrices d'un discours total contre le totalitarisme planétaire (aujourd'hui numérisé par l'union pestiférant de l'État et du Marché), j'ai aussi capté une critique implicite de l'immense absurdité du présent, avec sa misère contingente qui oppose dans une ridicule guerre de religions virtuelles la foi des vaccinistes, avec l'autoritarisme odieux de leurs peurs compréhensibles, à la rageuse peur refoulée des antivaccinistes dans le ghetto commun de la survie en danger. Comment lutter pour l'émancipation sinon reconnaissant « la situation réelle et ne pas la nier, ne pas se réfugier dans l'idéal, dans le légalisme ou la fiction » ?

Le côté positif de cette batrachomyomachie est que la poussée d'une conscience d'espèce naissante dans le danger omniprésent pourrait faire glisser la théorie in fieri vers une pratique d'émancipation mue par l'urgence collective d'un renversement de perspective antiproductiviste capable de dépasser les fausses oppositions et les luttes fictives d'une société spectaculaire en décomposition. En terminant avec Charbonneau : « La conscience de l'impossible est le moteur de l'action libre. C'est parce que je n'ai aucune issue que je suis obligé d'agir ».

Le temps nous le dira.

Sergio Ghirardi Sauvageon

 

L’homme et l’État (Jacques Ellul 1952)

 

(L’article du Monde pour annoncer la sortie de L’État, « chez l’auteur » Bernard Charbonneau)

Cela s’appelle L’État[1], tout simplement. Et l’on a envie aussitôt de réagir : « Encore un ! » Après ce que les classiques ont écrit sur l’essence et le fondement de l’État ; après ce que les modernes écrivent sur sa structure et son fonctionnement ; après Jouvenel, Ferrero, Guardini, Burdeau, et combien d’autres, que pourrait-on ajouter ? Qu’est-ce qu’un auteur inconnu et apparemment sans titres l’accréditant a priori peut apporter dans cette immense recherche de l’homme à l’égard du pouvoir, quête qui aujourd’hui se fait plus objective et juridique dans la mesure même où l’homme se sent plus directement concerné, plus brutalement saisi ?

Mais dès les premières pages on est transporté dans une tout autre perspective que celle, coutumière, des ouvrages sur l’État. On s’aperçoit très vite que ce livre hors cadre ne répond pas aux « genres » traditionnels. Ce n’est pas une histoire de l’État, et cependant le soubassement historique est fortement charpenté (l’auteur est professeur d’histoire). Ce n’est pas un livre politique, et cependant il en juge pertinemment. Ce n’est pas un livre de droit constitutionnel, et cependant la complexité des institutions de l’État y est parfaitement décrite. Ce n’est pas un essai (les dimensions du travail excèdent les cadres de l’essai) ni de la « littérature », quoique le style en soit riche et prenant, et quoique la vigueur philosophique sous-tende l’ensemble : c’est tout cela à la fois, non dans la confusion des genres mais dans la richesse et la maîtrise de la pensée.

C’est un ouvrage qui correspond non seulement à de vastes connaissances maîtrisées, organisées, mais à une expérience du politique, à l’exercice d’une pensée totale sur un phénomène total, reconnu à la fois comme fait objectif et comme expérience subjective. Cette interpénétration des deux, cette accession du subjectif à l’universel par l’exercice rigoureux de la pensée et sa confrontation au fait, est peut-être le caractère le plus saisissant de ce travail. 

Nous ne sommes plus accoutumés à de véritables œuvres intellectuelles, et nous confondons trop facilement la pensée avec le « laïus ». Un ouvrage comme celui-ci remet exactement ces expressions différentes à leur place et montre comment, à partir des constatations les plus simples, on peut accéder au maximum de connaissance vraie. Il est exact qu’il se sert des formules les plus courantes du vocabulaire politique, des affiches, des slogans, des « illustrés » comme éléments de base d’une des vues politiques les plus profondes que je connaisse.

Le dessin du travail est simple, on peut le suivre en reprenant, les titres des livres : De la nature à la révolution, et c’est la naissance du pouvoir. Il n’y a pas de liberté politique, avec l’analyse des contradictions de l’État libéral, le mensonge de la liberté constitutionnelle, les concepts bourgeois et prolétariens de la liberté. Le tiers livre : Parti-Nation-Guerre, où l’on peut suivre dans le détail la formation de ces deux données complémentaires que sont 1’« homo politicus » et l’État-nation. Au fur et à mesure que l’on avance, les livres prennent plus d’ampleur et englobent plus de matériaux, passant de la description à la synthèse et de l’histoire à une vue globale de l’homme et de l’État.

Le quatrième, qui s’appelle Guerre totale, n’est pas du tout une analyse limitée du phénomène de la guerre ni de ce caractère nouveau que serait la totalité de la guerre, mais bien du fait que l’État tend sans cesse vers une mobilisation totale, corps et biens, corps et âmes, et que la guerre est la plus merveilleuse occasion qui lui soit donnée de se réaliser dans sa fin la plus complète, en même temps qu’il enferme l’homme dans le dilemme décisif, qui devient le nôtre, qu’il nous faut « mourir pour vivre ». Enfin le dernier livre s’appelle Léviathan, et c’est la totale prise de conscience de l’État moderne, identique dans son essence totalitaire quelle que soit la forme variable ; identique dans la mesure où tout État moderne est nihiliste et prétend en même temps être tout.

Un tel livre ne peut se ramener à des thèses, d’autant que l’on risque de dénaturer la pensée en la simplifiant. Ce n’est pas seulement une description de la croissance incessante de l’État, qui se nourrit de tout, des guerres comme des techniques, des réformes et des révolutions, de la productivité et du « social » ; qui s’arrange pour accroître son pouvoir alors même qu’il semble s’accommoder de doctrines et de constitutions limitant l’État : ainsi le libéralisme politique a en définitive renforcé et préparé la croissance de l’État. Ce développement ininterrompu forme la trame de l’ouvrage. Mais cette description n’en est pas le véritable objet ; ni le but, ni le sens.

Le nœud du problème c’est en définitive la confrontation entre 1’homme et l’État. Ce n’est pas seulement la contradiction fondamentale et bien connue de l’individu et de la société, ou du citoyen et de l’organisation, mais réellement de l’homme dans ce qu’il a de plus central, de plus essentiel, de plus authentique, avec une puissance qui l’attaque, le pénètre et l’absorbe.

Tout ce qui est descriptif dans ce livre est en réalité description de l’assimilation de l’homme par l’« apparat ».

Tout ce qui est démonstration est démonstration du fait qu’il n’y a pas de difficulté et pas de problème politique si l’on n’envisage pas cette destruction de l’homme. Mais c’est aussi démonstration qu’il n’y a pas de solution objective.

Dans la mesure où toute réorganisation de l’État, quel qu’en soit son principe, renforce l’État, ce n’est pas dans les théories politiques ou les réformes institutionnelles que l’on peut placer un espoir. Or s’il en est ainsi ce n’est pas la faute de l’État. Il se borne à profiter de notre faiblesse, de nos défaillances. Mais il ne faut pas croire que l’État supplée à nos faiblesses et à nos défaillances : il s’en accroît et nous détruit.

Nous sommes alors au centre d’une tragédie, « une tragédie où, par la force des choses, triomphe toujours la fatalité, mais où, par sa force propre, renaît toujours la vie. Jusqu’au jour de la victoire de l’État – jusqu’à celui où la conscience s’arrachera enfin à ce qui la nie ».

L’État apparaît alors exactement comme le visage de la Fatalité moderne. Il est vain de hausser les épaules en disant que l’on ne croit pas à la fatalité. Celle-ci n’a pas besoin de nos opinions pour être, et ce livre montre, par une minutieuse étude, qu’il s’agit bien de fatalité. Mais cela ne conduit nullement à une attitude fataliste. Au contraire. Et c’est là tout le sens de cet ouvrage, d’avoir reconnu qu’il s’agit d’une fatalité partage nécessairement les hommes en deux : ceux qui l’acceptent, et cessent par là d’être des hommes, et ceux qui veulent surmonter la fatalité. Encore faut-il reconnaître la situation réelle et ne pas la nier, ou ne pas fuir dans l’idéal, le juridisme ou fiction.

« La conscience de l’impossible est le moteur de l’acte libre. C’est parce que je n’ai plus d’issue que je suis forcé d’agir. »

L’homme est mis en danger décisivement par cet État qui « ne se développe que là où nous ne sommes pas pour nous dispenser, légitimement ou illégitimement, de l’effort… Par la force des choses il semble que l’homme doive être vaincu, car ce n’est pas la politique et la science qui lui permettront de régir la politique et la science : seul un effort de liberté lui permettra d’accéder vraiment au règne de la liberté. Cet effort consiste d’abord à ne pas refuser l’insupportable autonomie de la conscience. »

Dès lors il ne nous est pas proposé de solution objective. Aucune. Pas même l’anarchie, car il est absurde et vain de penser résoudre quoi que ce soit par l’anarchie. Nous ne sommes pas en présence d’un procès de l’État aboutissant à la conclusion qu’il faut le supprimer. Nous sommes en présence d’un diagnostic profond, qui met en jeu à la fois la condition humaine et la « force des choses » – qui nous rappelle que notre vérité d’homme consiste à défier la fatalité, quelle qu’en soit la nature.

C’est donc un livre redoutable. Il l’est de deux façons. D’un côté sa démonstration précise, sa systématique politique, peut mettre aux mains du tyran une arme d’oppression inégalée : il est à notre État ce que Le Prince de Machiavel a été pour l’État de Frédéric II. D’un autre côté, il est redoutable pour le simple lecteur, qu’il place « au pied du mur » d’une façon bien plus précise que Camus. Chaque page nous prend à partie, exige de nous une décision.

Nous sommes alors en présence d’un instrument objectif et d’un appel. Un instrument qui nous permet de lire et de comprendre notre société, comme une véritable « grille » secrète, et qui en révèle le sens profond – un appel (car c’est ainsi qu’on doit qualifier cette méditation lucide) à la prise de conscience personnelle, à l’acceptation de notre responsabilité d’homme, un appel à « être », car c’est seulement en vivant la liberté que l’homme maîtrise le Léviathan et le brise.

Le Monde, 16 décembre 1952



[1] Bernard Charbonneau, L’État. (Par la force des choses). 3  volumes (chez l’auteur).

 

mercoledì 24 novembre 2021

Tra una fine da incubo e un incubo senza fine, la terza via verso un altro mondo possibile

 



Mascherati senza carnevale, abbandonati alla solitudine di un confinamento a singhiozzo ma intimamente onnipresente, spiati come non siamo mai stati e tecno vampirizzati da un Grande Fratello che non concepisce fraternità né sorellanza, indeboliti nel corpo e nello spirito, svuotati di quell’essenza di vita orgastica che usufruisce dei sensi e dell’intelligenza per far circolare il piacere di essere al mondo, stiamo attraversando una pandemia virale che impesta i resti di umanità superstite come una ciliegia avvelenata sulla torta marcescente della sopravvivenza.

La pandemia di coronavirus 1984 non è un alieno veicolato da un’astronave proveniente da un altro pianeta né un complotto di cattivi particolarmente monomaniaci. É piuttosto la paranoia complottista crescente a essere un’ossessione grandiosa della voglia di potere e dell’impotenza trionfante. Come ogni male, il potere è banale, cinico e sprovvisto di emozioni affettuose. Si accontenta di dominare e di passaggio umiliare i suoi sudditi. In realtà i registi mercenari della società dello spettacolo onnipresente sono sempre gli stessi piccoli mostriciattoli, affaccendati a far marciare il business planetario a qualunque costo!

La crisi virale ormai installata nel quotidiano patetico dell’umanità è il sintomo prevedibile ma lungamente rimosso del processo di artificializzazione della vita che la civiltà produttivista ha prodotto nei suoi sette millenni di esistenza. Le critiche parcellari che hanno accompagnato l’incessante progresso della civiltà ormai mondialmente dominante, hanno finito per agevolarne lo sviluppo, accontentandosi di denunciarne gli aspetti secondari e non l’essenza. Anche le critiche più dure hanno finito per accontentarsi di contestare i misfatti peggiori senza mai attaccare l’essenza profonda di un progresso superficialmente umano per i suoi effetti benefici, ma intrinsecamente disumano per il suo spirito predatore, suprematista e finalmente nichilista.

La sua essenza appare oggi magnificamente mostruosa, portatrice malsana di una raccapricciante traiettoria verso il nulla che spinge la coscienza ad andare oltre le denunce parcellari che si susseguono da secoli, vuoi da millenni. Per la prima volta nella storia incompiuta dell’umanità la coscienza emergente è quella della totalità. Il che rende risibili, deboli e insufficienti tutte le forme di coscienza che l’hanno preceduta, inclusa quella coscienza di classe che ha incarnato per secoli la speranza di emancipazione dei più deboli, dei più sfruttati, degli ultimi decisi a non esserlo più.

Destra e sinistra nella stessa spazzatura della storia. Definitivamente. Purtroppo le ideologie rivoluzionarie hanno sempre restituito al Leviatano produttivista i resti di tutte le rivolte frammentarie che hanno scosso l’albero del produttivismo senza abbatterlo, rinnovandone anzi le forze. Ancora di più oggi, quando una concezione spettacolare della rivoluzione è diventata un mito coltivato dalle rivolte virtuali di schiavi digitalizzati che si credono liberi. Attaccando sempre e soltanto la parte emergente dell’iceberg suprematista, il ghiaccio produttivista non ha mai rischiato di fondere al contatto con il calore umano.

La storia scritta e programmata dai dominanti, sempre più feroci ma non ancora capaci di squilibrare totalmente e definitivamente la natura intima del vivente, ha venduto il progresso profondamente disumano della macchina produttivista travestendolo da progresso umano. Ricostituire la cronaca di questo itinerario folle in cui la sopravvivenza si è sostituita alla vita e stabilirne la traiettoria distruttiva, ha lo scopo di rigenerare il progetto che cerca la via dell’emancipazione.

Finora inutilmente perché la servitù volontaria impedisce di abbandonare l’autostrada a pagamento che ci indirizza verso una fine spaventosa. Per rompere l’incantesimo bisogna andare alla radice del problema e al cuore del mostro che ha versato sulla vita la sua peste emozionale e sociale ben prima, ben oltre e ben più dell’attuale peste virale, recente ma non unico sintomo eloquente e inquietante del crollo di una civiltà.

Finora la coscienza di specie appare e scompare come una voglia a singhiozzo che nasconde la testa nelle sabbie mobili del progresso per non vedere il ripetersi della triste fine di tutte le rivoluzioni incompiute del passato. I miti rivoluzionari impediscono ormai di rivoluzionare la realtà che ne ha un tremendo bisogno. Ci si deve ormai rendere conto che la coscienza umana non può essere che totale perché il suo nemico è totalitario. Nessuna salvezza parcellare è concepibile in un mondo globalizzato, dove la merce è sovrana.

All’origine della coscienza di specie nascente con il forcipe, c’è un’evidenza che accompagna gli esseri umani sottoposti al totalitarismo svergognato del produttivismo. Questa nuova coscienza umana antitotalitaria è – e soprattutto sarà, forse – la conseguenza radicale del peggioramento catastrofico delle condizioni della vita organica in una società sempre più artificiale. Le sue radici intime affondano nel mondo dell’ecologia sociale nutrendosi di una sua constatazione fondatrice: “In un mondo finito, una crescita senza fine è un non senso criminale”.

Questa semplice verità inoppugnabile decreta, in prospettiva, la fine ineluttabile dell’economia politica la cui soluzione finale è ormai quella di riuscire a convincerci a morire con e per essa. Tuttavia, aggredita dal processo produttivo capitalista assunto a religione scientifico-tecnocratica, la decrescita rischia di ridursi a un’ennesima ideologia politica, falsata e recuperata come progetto mistico primitivista. Di fronte al nichilismo capitalista, fase terminale del produttivismo, essa rischia dunque di perdere di vista la coscienza di specie e la sua volontà politica d’amore per la vita organica allorché l’intelligenza sensibile rivendica una radicale decrescita dell’alienazione e della reificazione per una crescita illimitata della felicità.

Sostituendosi oggettivamente alla coscienza di classe e di genere che denunciavano lo sfruttamento dell’essere umano da parte di una classe e di un genere dominanti, la coscienza di specie ne è il superamento altrettanto auspicabile che necessario. Se la coscienza di classe è stata storicamente sconfitta dal consumismo che ha appestato il movimento operaio annichilendone la lotta, la coscienza di genere delle donne in rivolta contro il suprematismo patriarcale è ora sottoposta al recupero insopportabile dell’indifferenziazione sessuale, ultima carta ideologica del capitalismo digitalizzato che mira a un’artificializzazione definitiva della vita sociale degli esseri umani.

Come troppi operai e operaie hanno introiettato un’anima piccolo-borghese in un corpo sfruttato fino all’umiliazione e all’istupidimento, molte donne stanno introiettando lo spirito suprematista di un maschilismo femminista di spirito vittoriano che vampirizza fallicamente la libera genitalità femminile, stupendamente acratica. Nell’universo vitale biologico come nel linguaggio, ci sono solo due generi per gli esseri viventi: il maschile e il femminile. Un solo altro genere, neutro, riguarda eventualmente le cose, allorché in una natura biologica spontaneamente libera, tutti i gusti, tutti gli erotismi sono immaginabili, plausibili e praticabili, tutti gli amori liberi, autentici e reciproci sono delle possibili e rispettabili opere d’arte.

Nel ghetto planetario dell’economia politica, invece, l’indifferenziazione sessuale rappresenta l’ultimo stadio dell’alienazione per produrre dei consumatori senz’altra passione che il feticismo della merce, sia essa sessuale o no. Per millenni, l’infibulazione e la castrazione hanno preparato il terreno minato in cui l’indifferenziazione sessuale si appresta a fare esplodere definitivamente la vita orgastica.

La tragedia dello spossessamento, cominciato con il produttivismo e reso parossistico dal capitalismo, si diffonde ormai sotto la regia di un Leviatano statale digitalizzato che altera le ultime difese organiche della specie nei confronti della crescita senza fine dell’economia politica in un Mercato totalitario.

L’umano ha sempre resistito dappertutto e dappertutto è stato violentato, al maschile come al femminile. La genitalità – la passione, la gratuità e la dépense generosa che ne caratterizzano il dono – è il nemico assoluto del produttivismo e del suo calcolo economicista incessante; in quanto selvaggia poesia cosciente della barbarie della civiltà, essa è l’ultima pulsione umana ad arrendersi.

Facendo della diversità una ricchezza senza prezzo in quanto uguaglianza di diritti nella molteplicità riconosciuta di tutte le differenze possibili, la genitalità si oppone sempre alla povertà uniformizzante imposta dal suprematismo indifferenzialista. Per il fascismo caratteriale e per la sua perversione narcisista in crescita esponenziale, ci sono solo uomini superiori e untermenchen indifferenziati, poco importa se maschi o femmine, se si rivendichino omosessuali, bisessuali, ermafroditi o qualsiasi altra invenzione possibile.

Il razzismo suprematista è l’orribile favola becera che giustifica tra gli appestati la loro pretesa superiorità; sia essa motivata dalla forza, dalla cultura, dal possesso, dal genere, della lingua, dell’etnia, della provenienza e perfino dalla ridicola distinzione del colore della pelle.

Il coacervo di nazioni le cui comunità acratiche ricordano e materializzano antropologicamente le diverse storie degli individui e dei popoli – tutti tesi in modi diversi alla stessa ricerca della felicità – è stato ridotto a una sequela di Stati rapaci. Il loro nazionalismo becero e coatto non smette d’infettare le orde di predatori la cui peste emozionale ha avvelenato e deteriorato la comunità umana nelle sue commoventi varianti incompiute.

Non riconoscere le diversità è la formula di base che permette e secerne tutte le ingiustizie, i soprusi, le diseguaglianze.

La coscienza di specie sarà il trionfo delle diversità nella riconciliazione con la natura. La sua sconfitta significherebbe la fine dell’umano nel cimitero del vivente.

 

 

Sergio Ghirardi Sauvageon, 24 novembre 2021



Entre une fin de cauchemar et un cauchemar sans fin,

la troisième voie vers un autre monde possible

 

Masqués sans carnaval, abandonnés à la solitude d'un confinement intermittent mais intimement invasif, épiés comme on ne l'a jamais été et techno vampirisés par un Big Brother qui ne conçoit pas la fraternité ni la sororité, affaiblis de corps et d'esprit, vidés de cette essence de vie orgastique qui utilise les sens et l'intelligence pour faire circuler le plaisir d'être au monde, nous traversons une pandémie virale qui empeste les restes de l'humanité survivante comme une cerise empoisonnée sur le gâteau pourri de la survie.

La pandémie de coronavirus 1984 n'est pas une monstruosité extraterrestre venue d'une autre planète ni un complot de méchants particulièrement monomaniaques. C’est plutôt la paranoïa conspirationniste foisonnante qui est une obsession de l’envie de pouvoir et de l’impuissance triomphante. Comme tout mal, le pouvoir est banal, cynique et dépourvu d'empathie. Il se contente de dominer et d’humilier ses sujets en passant. Les metteurs en scène mercenaires de la société du spectacle omniprésente sont, en fait, toujours les mêmes petits monstres, affairés à faire tourner le business planétaire, coûte que coûte !

La crise virale désormais installée dans le quotidien pathétique de l’humanité est le symptôme prévisible mais longtemps refoulé du processus d'artificialisation de la vie que la civilisation productiviste a sécrété au cours de ses sept millénaires d'existence. Les critiques parcellaires qui ont accompagné les progrès incessants de la civilisation désormais mondialement dominante, ont fini par faciliter son développement, se contentant de dénoncer ses manifestations superficielles et non son essence. Même les critiques les plus sévères ont fini par se cantonner dans la contestation des pires crimes sans jamais attaquer l'essence profonde d'un progrès superficiellement humain dans ses effets bénéfiques, mais intrinsèquement inhumain dans son esprit prédateur, suprématiste et finalement nihiliste.

L’essence de la civilisation productiviste apparaît aujourd'hui prodigieusement monstrueuse, porteuse malsaine d’une macabre trajectoire vers le rien, incitant la conscience à dépasser les plaintes parcellaires qui se succèdent depuis des siècles, voire des millénaires. Pour la première fois dans l'histoire inachevée de l'humanité, la conscience émergente est celle de la totalité. Ce qui rend dérisoires, faibles et insuffisantes toutes les formes de conscience qui l'ont précédée, y compris cette conscience de classe qui a incarné pendant des siècles l'espoir d'émancipation des plus faibles, des plus exploités, des derniers déterminés à ne plus l'être.

Droite et gauche dans la poubelle de l’histoire. Pour de bon. Malheureusement, les idéologies révolutionnaires ont toujours sacrifié au Léviathan productiviste les restes de toutes les révoltes fragmentées qui ont secoué l'arbre du productivisme sans le renverser, revigorant plutôt ses forces. Aujourd’hui plus que jamais, maintenant qu’une conception spectaculaire de la révolution est devenue un mythe entretenu par les révoltes virtuelles d’esclaves numérisés qui se croient libres, s'attaquant toujours et uniquement à la partie émergente de l'iceberg suprématiste. Ainsi la glace productiviste n'a jamais risqué de fondre au contact de la chaleur humaine.

L'histoire écrite et programmée par les dominants, de plus en plus féroces mais pas encore capables de déséquilibrer totalement et définitivement la nature intime du vivant, a travesti le progrès profondément inhumain de la machine productiviste en progrès prétendument humain. Reconstituer la chronique de cet itinéraire fou où la survie s’est substituée à la vie et retracer sa trajectoire destructrice, a pour but de régénérer le projet qui défriche la voie de l'émancipation.

Jusqu'ici en vain, car la servitude volontaire nous empêche d'abandonner l'autoroute à péage qui nous canalise vers une fin effrayante. Pour briser le sort, il faut aller à la racine du problème et au cœur du monstre qui a déversé sa peste émotionnelle et sociale sur la vie bien avant, bien au-delà et bien plus que l’actuel fléau viral planétaire, symptôme éloquent et inquiétant, récent mais non unique, de l’effondrement d’une civilisation.

Au long de l’histoire la conscience d'espèce apparaît et disparaît comme un désir sanglotant qui enfouit sa tête dans les sables mouvants du progrès pour ne pas voir se répéter la triste fin de toutes les révolutions inachevées du passé. Les mythes révolutionnaires empêchent désormais de révolutionner la réalité qui en a pourtant bien besoin. Le temps est venu de se rendre compte que la conscience humaine ne peut être que totale car son ennemi est totalitaire. Aucun salut parcellaire n'est concevable dans un monde globalisé où la marchandise est souveraine.

A l'origine de la conscience d'espèce naissant au forceps, il y a une évidence qui accompagne les êtres humains soumis au totalitarisme éhonté du productivisme. Cette nouvelle conscience humaine antitotalitaire est ou plutôt sera, peut-être la conséquence radicale de l'aggravation catastrophique des conditions de la vie organique dans une société de plus en plus artificielle. Ses racines intimes se situent dans le monde de l'écologie sociale, se nourrissant d'un de ses constats fondateurs : « Dans un monde fini, la croissance sans fin est un non-sens criminel ».

Cette simple vérité indiscutable annonce la perspective de la fin inéluctable de l'économie politique qui n’a rien d’autre à nous imposer que la solution finale de mourir avec elle et pour elle. Toutefois, agressée par le processus productif capitaliste devenu une religion scientifique et technocratique, la décroissance risque de se réduire à une énième idéologie politique, déformée et récupérée comme un projet mystique primitiviste. Confrontée au nihilisme capitaliste, phase terminale du productivisme, elle risque ainsi de perdre de vue la conscience d’espèce et sa volonté politique d'amour pour la vie organique, alors que l’intelligence sensible revendique une décroissance radicale de l’aliénation et de la réification en faveur d’une croissance illimitée du bonheur.

Remplaçant objectivement la conscience de classe et de genre qui dénonçaient l'exploitation de l'être humain par une classe et un genre dominants, la conscience d'espèce incarne leur dépassement aussi souhaitable que nécessaire. Si la conscience de classe a été vaincue historiquement par le consumérisme qui a pestiféré le mouvement ouvrier et anéanti sa lutte, la conscience de genre des femmes en révolte contre le suprématisme patriarcal est désormais soumise à l'insupportable récupération de l'indifférenciation sexuelle, dernière option idéologique du capitalisme numérisé visant une artificialisation définitive de la vie sociale des êtres humains.

Tout comme un trop grand nombre d'ouvriers ont introjecté une âme petite-bourgeoise dans un corps exploité jusqu'à l'humiliation et la sottise, de nombreuses femmes risquent de tomber dans le piège suprématiste d'un machisme féministe à l’esprit victorien, vampirisant de façon phallique la génitalité féminine libre, prodigieusement acratique. Dans l'univers biologique, comme dans le langage, il n'y a que deux genres pour les êtres vivants : le masculin et le féminin. Seul un autre genre, neutre, concerne éventuellement les choses, alors que dans une nature biologique spontanément libre, tous les goûts, tous les érotismes sont imaginables, plausibles et praticables, tous les amours libres, authentiques et réciproques sont des possibles et respectables œuvres d’art.

Dans le ghetto planétaire de l'économie politique, en revanche, l'indifférenciation sexuelle représente la dernière étape de l'aliénation pour produire des consommateurs sans autre passion que le fétichisme de la marchandise, qu'elle soit sexuelle ou non. Pendant des millénaires, l'infibulation et la castration ont préparé le terrain miné où l'indifférenciation sexuelle s'apprête à faire exploser définitivement la vie orgastique.

La tragédie de la dépossession qui a commencé avec le productivisme et que le capitalisme a rendue paroxystique, se répand désormais sous la direction d'un Léviathan étatique numérisé qui altère les dernières défenses organiques de l'espèce face à la croissance sans fin de l'économie politique dans un Marché totalitaire.

L'humain a toujours résisté partout et partout a été violé, aussi bien mâle que femelle. La génitalité la passion, la gratuité et la généreuse dépense de soi qui en caractérisent le don est l'ennemi absolu du productivisme et de son calcul économique incessant ; en tant que sauvage poésie consciente de la barbarie de la civilisation, elle est la dernière pulsion humaine à se rendre.

En faisant de la diversité une richesse inestimable, en érigeant la multiplicité reconnue de toutes les différences possibles en égalité des droits, la génitalité s'oppose toujours à la pauvreté uniformisante imposée par le suprématisme indifférentialiste. Aux yeux du fascisme caractériel et de sa perversion narcissique en croissance exponentielle, il n'y a que des hommes supérieurs et des untermenchen indifférenciés, qu'ils soient masculins ou féminins, qu’ils se revendiquent homosexuels, bisexuels, hermaphrodites ou de toute autre inclination possible.

Le racisme suprématiste est l’horrible conte de fée grossier qui justifie la prétendue supériorité des pestiférés que celle-ci soit motivée par la force, la culture, la possession, le genre, la langue, l'ethnie, l'origine et même la distinction ridicule de la couleur de la peau.

La masse des nations dont les communautés acratiques rappellent et matérialisent anthropologiquement les différentes histoires des individus et des peuples tous poursuivant de différentes manières la même quête du bonheur a été réduite à une juxtaposition d'États rapaces. Leur nationalisme vulgaire et forcé ne cesse d’infecter les hordes de prédateurs dont la peste émotionnelle a empoisonné et détérioré la communauté humaine dans ses émouvantes variations inachevées.

Ne pas reconnaître la diversité est la formule de base qui permet et sécrète toutes les injustices, abus, inégalités.

La conscience d’espèce sera le triomphe de la diversité dans la réconciliation avec la nature. Sa défaite signifierait la fin de l'humain dans le cimetière du vivant.

  

Sergio Ghirardi Sauvageon, le 24 novembre 2021




domenica 14 novembre 2021

Attraverso l’incubo, sognando un bel maggio 2022.

 




L’attuale decisione francese, macronista ma non solo, di rilanciare il nucleare[1] non è più soltanto un gravissimo errore storico e sociale dell’ormai piccolissima grandeur di un paese manipolato a piacere dall’oligarchia finanziaria planetaria del suprematismo produttivista.

Nel momento in cui l’epidemia di Covid – che la natura aggredita dal Capitalocene ci impone dappertutto (grandeur nature, appunto), aggiungendola all’ormai irreversibile crisi climatica – mostra l’impotenza umana a superare i danni dell’Antropocene, la scelta reiterata del nucleare è un folle ed egocentrico crimine contro l’umanità. Non c’è dubbio che se l’umanità riuscirà a sopravvivere ai pericoli che incombono, come tale questa questione sarà trattata.

Anche la scelta francese dei primi anni settanta del secolo scorso d’instaurare il nucleare civile come prolungamento di quello militare già esistente, era una scelta perfettamente napoleonica. In Francia e nel mondo, l’imperatore bassotto incarna perfettamente il delirio di onnipotenza di quasi tutti gli sfigati che annusino il potere. I vari Nosferatu di Murnau che riappaiono ciclicamente nella storia macabra del produttivismo planetario (mostri di tutte le ideologie, da Hitler a Stalin, da Pinochet a Pol Pot e chi meno ne ha più ne metta, fino ai loro miserabili emuli mediatici attuali) trovano nella bassezza di un vampiruccio postgiacobino della rivoluzione francese incompiuta (il piccolo opportunista Corso Bonaparte) l’immagine mostruosamente adorabile di un potere suprematista che porta in sé tutti i peggiori mali della storia.

Nel periodo in cui le prospettive umaniste del dopo sessantotto non erano ancora state definitivamente sconfitte dalla restaurazione capitalistica liberalfinanziaria in via di digitalizzazione, la scelta del nucleare civile (trenta anni dopo Hiroshima e Nagasaki) ha affascinato quasi tutti gli Stati capitalisti di una civiltà produttivista in crisi di mutazione. Tuttavia, solo la Francia postgaullista (appena orfana anche di quest’altro più recente mito francese di grandeur) ha portato lo stendardo nucleare fino a oggi, oltre le catastrofi di Chernobyl e Fukushima (per non citare che la parte visibile di un iceberg atomico che rappresenta oggi il “morbo gallico” di una pericolosissima sifilide energetica).

Prima dei due eventi tragici e terribili (Chernobyl 1986, Fukushima 2011) che hanno contrassegnato l’obsolescenza dell’uomo legata all’energia atomica che ha marcato indelebilmente la storia dalla fine della seconda guerra mondiale, si poteva ancora considerare un folle errore affidarsi all’energia nucleare per produrre elettricità. Fino a questa doppia prova provata e vissuta della catastrofe irreversibile che il nucleare comporta ineluttabilmente – prima più che poi, secondo il calcolo delle probabilità – si è potuto scommettere irresponsabilmente sull’atomo senza neppure curarsi delle scorie semieterne che già oggi impestano il pianeta senza soluzioni sostenibili né sufficienti[2].

Smessa la divisa militare, il dottor Stranamore si è trovato un impiego umanitario nel nucleare civile con il sostegno di politicanti di destra e sinistra incuranti del pericolo e della catastrofe a termine inevitabile. Oggi, però, l’Ucraina e il Giappone nascondono senza farla dimenticare la mostruosa demenza produttivista di cui il nucleare è il segno farneticante. L’umanità sta già pagando questo eco crimine contro di essa a caro prezzo con le malattie (tumori e altre patologie devastanti) [3] che ne derivano e che uccidono molto di più del Covid 1984.

Sensatamente, l’allarme Covid avrebbe dovuto spingere il principio di precauzione oltre lo spettacolo autoritario con cui si è gestita e si gestisce ancora la pandemia. Invece, no! Mentre ci si arrabatta ancora con un vaccino poco sicuro pur se abbastanza efficiente nel ridurre gli effetti mortiferi di un virus pericoloso e fuori controllo, ci si prepara a reintrodurre e sviluppare il nucleare con un ottimismo fondato unicamente sulla rimozione criminale della sua pericolosità incommensurabile.

Ugualmente, la crisi climatica è subita senza risposte radicali – antiproduttiviste – che la società produttivista dominante si rifiuta di dare; si usa, anzi, l’inquietante preoccupazione climatica crescente per riproporre il delirio nucleare come parte della soluzione. Guardateli i pretonzoli mercenari del dottor Stranamore parlare del nucleare come energia pulita. Pulita, certo, come la morte dopo la quale non c’è più alcun rischio di morire.

I progressisti danzano di fronte all’abisso deridendo la decrescita che stiamo già subendo, anziché organizzarla per renderla sopportabile e razionale. Questi drogati del progresso verso l’orrore – orrore che non avanza perché siamo noi che gli marciamo incontro speditamente esorcizzandone l’esistenza con il discorso – non vogliono rendersi conto che la decrescita è già in atto con maschere, confinamenti, canicole, malattie, impoverimento e crisi economica. In una società artificiale, finanziarizzata e digitalizzata, la decrescita sarà sempre peggio senza bisogno di suoi militanti che la sostengano se non ci decideremo a gestirla con coscienza umana. Coscienza di specie. La questione non è più se decrescere o no, ma se possiamo gestire razionalmente tutte le decrescite ineluttabili che già s’impongono e che s’imporranno sempre di più, senza rinunciare alla vita più umana e più felice possibile.

Si tratta di anticipare i problemi affrontandoli con intelligenza sensibile e non opponendo loro un delirio produttivista che ci spinge contro il muro insormontabile della natura. Per fare questo non si tratta di teorizzare la decrescita facendone una nuova stupida religione. Si tratta di gestire la decrescita inevitabile in un progetto di autogestione generalizzata della vita quotidiana che sottragga ogni potere pseudo democratico all’oligarchia dominante e ai suoi servi. Questa rivoluzione è l’unica alternativa alla fine della specie umana. Pacificamente, se si esclude la violenza del potere suprematista la cui impotenza si rifiuta di abdicare, essa porterà al superamento del produttivismo per reintrodurre una produzione funzionale all’essere umano organico e non al consumatore psicotico di una civiltà finita nel capitalismo nichilista.

Su questo non c’è scelta: o gestiremo la transizione o subiremo la situazione, come subiamo lo sfruttamento, il lavoro forzato, le maschere, i confinamenti e la loro versione burocratica odiosamente incarnata dal pass sanitario. Invito i ribelli alle ingiunzioni odiose del potere che si limitano a fare i capricci e a gettare in terra le maschere che sono obbligati a portare, di andare oltre queste opposizioni spettacolari che il sistema gestisce con subdolo paternalismo, per dedicarsi invece alla necessaria rivoluzione organica della vita quotidiana che il sistema ormai digitale potrà sempre meno sopportare.

Non lasciatevi mai più digitalizzare! Ecco un primo slogan possibile di un bel maggio 2022 auspicabile e urgente. Smetteremo maschere, veli, pass sanitari e le umiliazioni digitali di una sopravvivenza artificiale, smettendo di dare fiducia alla barbarie della civiltà produttivista, al suo consumismo nevrotico, al suo mito di una crescita reificata e alienante, al suo benessere fittizio, ai suoi arcaismi religiosi e alla schiavitù economicista che inquina e uccide più di qualunque virus. Solo la decrescita di tutto ciò, senza capi, ideologie e oscurantismi – nucleare compreso – innescherà il ritorno della vita organica e la crescita della gioia di vivere.

Sergio Ghirardi Sauvageon, 11 novembre 2021



[1] Coltivando il mito di un’autonomia energetica inesistente, l’esagono transalpino è costellato di 59 reattori nucleari (ormai meno uno) in funzione quasi da un mezzo secolo con l’oggettivo pericolo del loro invecchiamento e i costi allucinanti che la loro costruzione, manutenzione o smantellamento comportano.

[2] L’Italia che grazie ai suoi cittadini ha il merito umanitario di aver rifiutato consecutivamente due volte per referendum l’energia nucleare, pur non avendo mai messo in funzione produttiva nessuna centrale ha tuttavia il problema delle scorie da smaltire dovute ai primi esperimenti nucleari, per esempio nella centrale sperimentale e ormai chiusa di Caorso. Insieme alle altre nazioni pro nucleari esistenti, la Francia ha da risolvere comunque, in prospettiva, l’accumulazione di scorie pericolosissime per centinaia di migliaia di anni. Non c’è altra soluzione se non quella di seppellire quel che non si deve vedere, seguendo l’esempio della Camorra che ha sepolto per anni e per lucro nei campi del napoletano i rifiuti tossici e talvolta radioattivi d’industrie e ospedali di tutta Italia che dovevano disfarsene. Si naviga in pieno delirio mafioso quando qualche lobbista nucleare ci parla sorridendo del nucleare come energia pulita.

[3] Se mi riferisco qui, in particolare, alle patologie cancerogene legate al nucleare, non dimentico, tuttavia, che esse sono altrettanto alimentate dall’inquinamento del cibo, dell’aria e della vita in una civiltà produttivista dal nichilismo intrinseco e morboso.



[A travers le cauchemar, en rêvant d’un joli mai 2022

A travers le cauchemar, en rêvant d’un joli mai 2022

 

L'actuelle décision française, macroniste mais pas seulement, de relancer le nucléaire[1] n'est plus seulement une très grave erreur historique et sociale de la grandeur désormais infime d'un pays manipulé à volonté par l'oligarchie financière planétaire du suprématisme productiviste.

Au moment où l'épidémie de Covid que la nature attaquée par le Capitalocène nous impose partout (grandeur nature, justement), en l’ajoutant au réchauffement climatique désormais irréversible montre l'impuissance humaine à surmonter les dégâts de l'Anthropocène, le choix réitéré de l'énergie nucléaire est un crime contre l'humanité fou et égocentrique. Nul doute que si l'humanité parviendra à survivre aux dangers qui se profilent, cette question sera traitée comme telle.

Même le choix français du début des années soixante-dix du siècle dernier d'introduire le nucléaire civil dans le prolongement du nucléaire militaire déjà existant, était un choix parfaitement napoléonien. En France et dans le monde, l'empereur teckel incarne parfaitement le délire de toute-puissance de presque tous les perdants qui reniflent le pouvoir. Les divers Nosferatu de Murnau qui réapparaissent cycliquement dans l'histoire macabre du productivisme planétaire (monstres de toutes idéologies, d'Hitler à Staline, de Pinochet à Pol Pot jusqu’à leurs misérables émules médiatiques actuels) trouvent dans la bassesse d'un micro vampire post-jacobin de la Révolution française inachevée (le petit opportuniste corse Bonaparte) l'image monstrueusement adorable d'un pouvoir suprématiste qui porte en lui tous les pires maux de l'histoire.

A l'époque où les perspectives humanistes de l'après-soixante-huit n'avaient pas encore été définitivement vaincues par la restauration capitaliste-libérale-financière en voie de numérisation, le choix du nucléaire civil (trente ans après Hiroshima et Nagasaki) fascinait presque tous les États capitalistes d'une civilisation productiviste en crise de mutation. Cependant, seule la France post-gaulliste (depuis peu orpheline de cet autre mythe français plus récent de sa grandeur) a porté jusqu'à présent l'étendard du nucléaire au-delà des catastrophes de Tchernobyl et de Fukushima (pour ne citer que la partie visible d'un iceberg atomique qui est aujourd'hui le « morbus gallicus » d'une syphilis énergétique très dangereuse).

Avant les deux événements tragiques et terribles (Tchernobyl 1986, Fukushima 2011) qui ont pointé l'obsolescence de l'homme liée à l'énergie atomique qui a marqué l'histoire de manière indélébile depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale, il pouvait encore être considéré comme une erreur stupide de s'appuyer sur l'énergie nucléaire pour produire électricité.

Jusqu'à cette double preuve prouvée et vécue de la catastrophe irréversible que l'énergie nucléaire va entraîner inévitablement tôt plutôt que tard, selon le calcule des probabilités –, il était possible de parier de manière irresponsable sur l'atome sans même se soucier des déchets semi-éternels qui affligent déjà aujourd'hui la planète, dépourvus de solutions durables ni suffisantes[2].

Une fois retiré son uniforme militaire, le Dr Folamour s'est trouvé un emploi humanitaire dans l'énergie nucléaire civile avec le soutien des politiciens de gauche et de droite, insouciants du danger et de la catastrophe à terme inévitable. Aujourd'hui pourtant, l'Ukraine et le Japon cachent sans la faire oublier la monstrueuse démence productiviste dont le nucléaire est le signe délirant. Pour cet éco-crime perpétré à son encontre, l'humanité paie déjà le prix fort par les maladies qui en découlent (cancers et autres affections dévastatrices) [3] et qui tuent bien plus que le Covid 1984.

Sensiblement, l'alarme Covid aurait dû pousser le principe de précaution au-delà du spectacle autoritaire par lequel la pandémie a été gérée et l’est toujours. Pas du tout ! Alors que nous sommes toujours aux prises avec un vaccin très relativement fiable même si suffisamment efficace pour réduire les effets mortels d'un virus dangereux et incontrôlable, nous nous préparons à réintroduire et développer l'énergie nucléaire avec un optimisme basé uniquement sur le refoulement criminel de sa dangerosité sans commune mesure.

Egalement, la crise climatique est subie sans réponses radicales anti-productivistes que la société productiviste dominante se refuse de donner. Au contraire : l’inquiétante préoccupation climatique croissante est utilisée pour reproposer le délire nucléaire comme une partie de la solution. Regardez les petits prêtres mercenaires du Dr Folamour parler du nucléaire en tant qu'énergie propre. Propre, bien sûr, comme la mort après laquelle il n'y a plus aucun risque de mourir.

Les progressistes dansent devant l'abîme, se moquant de la décroissance que nous subissons déjà, plutôt que de l'organiser pour la rendre supportable et rationnelle. Ces drogués du progrès vers l'horreur horreur qui n'avance pas car c'est nous qui marchons hâtivement vers elle en exorcisant son existence par le discours ne veulent pas se rendre compte que la décroissance est déjà en cours avec les masques, les confinements, les canicules, les maladies, la paupérisation et la crise économique. Dans une société financiarisée et numérisée, la décroissance sera toujours pire sans besoin de décroissants militants pour la soutenir, si nous ne décidons pas de la gérer avec une conscience humaine. Conscience d’espèce. La question n'est plus de savoir s'il faut décroître ou pas, mais si l'on peut gérer rationnellement toutes les décroissances inévitables qui s'imposent déjà et qui s'imposeront de plus en plus, sans renoncer à la vie la plus humaine et la plus heureuse possible.

Il s'agit d'anticiper les problèmes en les affrontant avec une intelligence sensible et non en leur opposant un délire productiviste qui nous pousse contre le mur incontournable de la nature. Pour ce faire, il ne s'agit pas de théoriser la décroissance en faisant d’elle une nouvelle religion stupide. Il s'agit de gérer l'inévitable décroissance dans un projet d'autogestion généralisée de la vie quotidienne qui enlève tout pouvoir pseudo-démocratique à l'oligarchie dominante et à ses serviteurs. Cette révolution est la seule alternative à la fin de l'espèce humaine. Pacifiquement, si l'on exclut la violence du pouvoir suprématiste dont l’impuissance refuse d'abdiquer, elle conduira au dépassement du productivisme pour réintroduire une production fonctionnelle à l'être humain organique et non au consommateur psychotique d’une civilisation finie dans le capitalisme nihiliste.

Il n'y a pas le choix là-dessus : soit on va gérer la transition, soit on va subir la situation, comme on subit l’exploitation, le travail forcé, les masques, les confinements et leur version bureaucratique haineusement incarnée par le pass sanitaire. J'invite les rebelles aux injonctions haineuses du pouvoir qui limitent leurs combats à des crises de colère et au rejet des masques qu'ils sont obligés de porter, à dépasser ces oppositions spectaculaires que le système gère avec un paternalisme retors, pour se concentrer plutôt sur la nécessaire révolution organique de la vie quotidienne que le système désormais digitalisé pourra supporter de moins en moins.

 

Ne vous laissez jamais plus numériser ! Voilà un premier slogan possible d’un joli mai 2022 souhaitable et urgent.

Nous arrêterons les masques, les voiles, les pass sanitaires et les humiliations numériques d'une survie artificielle, en cessant de faire confiance à la barbarie de la civilisation productiviste, à son consumérisme névrotique, à son mythe d'une croissance réifiée et aliénante, à son bien-être fictif, à ses archaïsmes religieux et à l'esclavage économiste qui pollue et tue plus que n’importe quel virus. Seule la décroissance de tout cela, sans chefs, idéologies et obscurantismes nucléaire inclus déclenchera le retour de la vie organique et la croissance de la joie de vivre.

 

 

Sergio Ghirardi Sauvageon, l’11 novembre 2021

 

 



[1] Cultivant le mythe d’une autonomie énergétique inexistante, l’hexagone français est parsemé de 59 réacteurs nucléaires (désormais moins un) qui fonctionnent depuis presque un demi-siècle avec le danger objectif de leur vieillissement et les hallucinants coûts que leur construction, leur entretien ou leur démantèlement entraînent.

[2] L'Italie, qui grâce à ses citoyens a le mérite humanitaire d'avoir consécutivement refusé l'énergie nucléaire à deux reprises par référendum, alors qu'elle n'a jamais mis en production aucune centrale, a cependant le problème des déchets nucléaires à éliminer en raison des premiers essais, par exemple dans l'usine expérimentale maintenant fermée de Caorso. Avec les autres nations pro-nucléaires existantes, la France doit encore résoudre l'accumulation de déchets très dangereux pour des centaines de milliers d'années en perspective. Il n'y a pas d'autre solution que d'enterrer ce qu'il ne faut pas voir, à l'instar de la Camorra qui, pendant des années et pour profit, a enfoui dans les champs de la région napolitaine les déchets toxiques et parfois radioactifs d'industries et d'hôpitaux de toute l’Italie qui devaient s'en débarrasser. Nous naviguons en plein délire mafieux lorsqu'un lobbyiste du nucléaire nous parle avec le sourire du nucléaire comme d’une énergie propre.

[3] Si je me réfère ici en particulier aux maladies cancéreuses liées au nucléaire, je n'oublie pas pour autant qu'elles sont également alimentées par la pollution de la nourriture, de l'air et de la vie dans une civilisation productiviste au nihilisme intrinsèque et morbide.