venerdì 19 febbraio 2021

a proposito di: Ti piace il presidente Draghi? »: «No. Non mi piace»

 





Scambio con Agostino

 

Ciao Sergio, ti mando un articolo che mi pare condivisibile.

Un abbraccio   Agostino

Ti piace il presidente Draghi?»: «No. Non mi piace»

Tomaso Montanari, 13-02-2021

Si può ritenere che la gestione della crisi sia stata, a tratti, opaca? Per esempio, nel colpo di scena (evidentemente non tale per tutti) per cui le Camere in nessun caso sarebbero state sciolte? Si può dissentire, anche radicalmente, dal Presidente della Repubblica, sostenendo che la scelta di Draghi sia non già un balsamo, ma invece un serio vulnus, per la nostra democrazia? Si può mettere in dubbio lo status messianico del Presidente del consiglio incaricato, ricordando che la sua intera carriera e il suo operato pendono dalla parte di chi ha reso il nostro mondo ciò che è (e cioè mostruosamente ingiusto, e diseguale), e non dalla parte di chi ha provato a migliorarlo? Si può auspicare, infine, che qualcuno, in Parlamento, abbia sufficiente autonomia politica e morale per «disobbedire al presidente Mattarella» (magari per non governare coi fascisti), questa inimmaginabile condotta da reprobi?

In pochi giorni, l’articolo 1 della Costituzione è stato riscritto così: «L’Italia è una Repubblica paternalista, fondata sui migliori». E uso “paternalismo” in senso proprio: nascendo quella parola per definire una «politica […] caratterizzata da una bonaria e sollecita attenzione verso i bisogni dei sudditi, escludendoli però completamente dal controllo delle attività dello Stato e da una qualsiasi forma di partecipazione alla gestione della cosa pubblica» (così il Grande dizionario della lingua italiana).

Il nuovo mantra dell’antipolitica ha assunto toni monarchici, autoritari, repressivi. «È finita la ricreazione! È entrato il preside: ora sono tutti muti, a capo chino»; «finalmente sono stati commissariati, quegli incapaci del Parlamento!»; «ha parlato il Presidente, nella sua saggezza, ora non vola una mosca»; «il Presidente sarebbe “infastidito” dalle condizioni poste dai partiti», e via dicendo. Il fasto del Palazzo del Quirinale ha eclissato le aule sorde e grigie del Parlamento esercitando, ancora una volta, la sua malia autocratica: i fantasmi di papi e re hanno ripreso la scena, rimettendo al proprio posto il popolo bue, e i suoi bovini rappresentanti. Imponendo il nome di Draghi senza sottoporlo a consultazioni preventive (l’Eletto ne sarebbe uscito svilito); annunciando che un «alto profilo» spazzava finalmente via i populisti trogloditi; teorizzando un governo «che non debba identificarsi con alcuna formula politica», il Presidente ha inferto una mazzata micidiale al Parlamento: che vede divorato, sul colle più alto, un governo cui aveva appena rinnovato la fiducia.

Ora, più ancora di questa mossa con pochi (e discutibili) precedenti – ma comunque dentro i confini formali della Carta – sconcerta il plauso con cui tutti l’hanno accolta: te deum, ceri, inni, vitelli grassi sgozzati. Era il funerale della democrazia parlamentare, così debole, impotente, screditata da esser pugnalata a morte da un sicario saudita, e poi sepolta frettolosamente da un Padre severo: eppure i morti ballavano, e bevevano. Quanto è profonda la disillusione, anzi il disprezzo, verso la democrazia parlamentare, se tutti gioiscono perché le decisioni circa il bene comune vengono ora prese da una persona sola, con una regressione plurisecolare? Il godimento masochista di un’intera democrazia che, vedendosi umiliata, grida: «dai, frustami ancora!».

I pochissimi che, a sinistra, dichiarano anche in pubblico la loro avversità per il nascente governo degli ottimati, lo fanno additando la presenza non già del Caimano prossimo alla mafia, ma della Lega, punto di riferimento di neofascisti e neonazisti, e legatissima in Europa alle estreme destre xenofobe. Ma questa nefastissima inclusione non è un effetto collaterale imprevisto: è un esito fortemente voluto, per due ragioni.

La prima è il coinvolgimento del partito di Salvini in un’operazione chiaramente atlantica: un’operazione che lo allontani da Putin e lo faccia entrare nella cerchia occidentale che condivide onori e oneri del vampirismo turbo finanziario. Un’iniziazione, un’affiliazione.

La seconda, più velenosa e sottile, è la volontà di affermare l’unico vero dogma ideologico del mondo in cui Draghi è protagonista: TINA, There Is No Alternative allo stato delle cose. Non c’è alternativa alla monorotaia dell’ordine economico occidentale: e dunque le differenze politiche (destra e sinistra, fascisti e democratici, conservatori e progressisti) sono solo cosmetiche, folkloristiche, buone per i talk: tenere tutti insieme (da Leu alla Lega) sotto l’ombrello paternalistico del Grande Banchiere intronizzato sul seggio dell’Esecutivo significa abrogare le ragioni stesse della politica. Il bene della nazione, il bene del popolo, il bene dell’Italia sono dati a priori: decisi, sul Colle più alto, dal padre della Nazione, e affidati al Governo di Alto Profilo. Quel che è non più nemmeno immaginabile è il conflitto: il conflitto sociale che diventa conflitto politico, e che in Parlamento trova una mediazione cui il governo dà attuazione. Tutto da dimenticare: niente conflitto, perché il Bene della Nazione lo conosciamo già.

Peccato che i ricchi non vogliano le stesse cose di cui hanno bisogno i poveri. Ma proprio questo è il punto. Perché questo “governo del Presidente” (cioè “governo non parlamentare se non proforma”) è aristocratico intimamente: programmaticamente. Da Berlusconi ai giornali degli Elkann, tutti invocano il “governo dei migliori”. Si glossa: dei competenti. Vano chiedere competenti su cosa (domanda lecita, viste le prime uscite sulla scuola: da bar dello sport dei Parioli). Vano ricordare che se l’Italia è messa com’è messa, è colpa non dei populisti ma dell’élite più ignorante, corrotta, familista, incapace del pianeta. Vano perché, come è chiaro fin dai tempi di Aristotele, si scrive aristocrazia, si legge oligarchia: governo dei pochi. Cioè dei ricchi. È davvero il culmine italiano dell’ordoliberismo: «uno Stato sotto sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello Stato» (Foucault). In un momento in cui i tre uomini più ricchi d’Italia possiedono quanto i sei milioni di cittadini più poveri, in un momento in cui il massimo pericolo per la democrazia è che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri più poveri, si affida il governo della Repubblica all’uomo Goldman Sachs. Uomo nel senso di maschio, innanzitutto: perché il paternalismo è, per definizione, maschilista. E l’uomo di potere deve essere accompagnato, due passi indietro, da una «moglie di gran classe che non parla neppure se interrogata» (Aspesi). Maschio solo al comando: farà tanto meglio, in quanto non dovrà trattare con gli spregevoli partiti per i nomi dei suoi ministri.

È chiaro che stiamo imboccando l’oligarchia come via d’uscita dalla crisi della democrazia parlamentare? Con tanto di cronache a getto continuo dal buen retiro umbro della famiglia reale: che fa una vita così normale, signora mia! Stiamo cadendo da una (orribile) padella a una (fatale) brace. Una brace che ben conosciamo: «è da vedere se questo modo di pensare, molto diffuso, non sia un residuo della trascendenza cattolica, e dei vecchi regimi paternalistici», si chiedeva Antonio Gramsci.

«Costruire la democrazia equivale a distruggere le oligarchie – ha scritto Gustavo Zagrebelsky – con la precisa consapevolezza che a un’oligarchia distrutta subito seguirà la formazione di un’altra, composta da coloro che hanno distrutto la prima». In questo caso – è il dramma – l’oligarchia è quella di prima, che torna: mai distrutta. Quella che ha portato il Paese al disastro, il Pianeta sull’orlo dell’abisso. Mentre il costume e la retorica tornano a prima del 1789, o, a tutto concedere, a un dispotismo illuminato in cui il monarca-padre decideva per il “bene” di sudditi eternamente minori.

Siccome il danno, l’involuzione, prima che istituzionali sono culturali, se ne esce, se se ne esce, solo a dosi massicce di pensiero critico: pensiero contro, insubordinato, eretico, non conforme. Una mobilitazione di pensiero nelle scuole e nelle università, nei luoghi dove ancora si può cercare, attraverso una «erudizione implacabile» (ancora Foucault) di non piegare le ginocchia di fronte a padri saturnini. Occorre «il senso della rivolta», e la «capacità di sfruttare appieno le rare opportunità di discorso concesse» (Said). E, con il Tommasino di casa Cupiello, occorre saper rispondere, a chi chiede ossessivamente «ti piace il presidente Draghi?»: «no. Non mi piace».

Post scriptum: Dopo aver ascoltato Draghi leggere la lista dei ministri è stata subito ben chiara una cosa: nessuna tragedia politica, in Italia, è separabile dalla farsa. Il «Governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica» annunciato da Mattarella è una specie di pletorico governicchio tardodemocristiano-berlusconiano costruito con la più bieca spartizione da manuale Cencelli. Altro che articolo 92 della Costituzione: è il trionfo della partitocrazia (15 politici contro 8 “tecnici”), mentre il Parlamento viene umiliato. Un vero capolavoro istituzionale. Nani, ballerine, servi di partito, scienziati-manager in quota saudita. Brunetta alla Pubblica Amministrazione da solo vale il viaggio. All’inferno. Poche donne (tra cui la Gelmini, la Carfagna, la Stefani… santoddio…), quasi tutte senza portafoglio, e addette a faccende secondarie. Le uniche in primo piano, di area ciellina: con salde convinzioni circa il rispetto della famiglia tradizionale. Di Maio ancora agli Esteri, Speranza alla Salute. L’eterno Franceschini, incollato letteralmente alla poltrona, che ottiene il titolo lugubre di Ministro della Cultura: voluto da Mussolini nel 1937, abolito nel 1944. Figuriamoci se fosse stato il Governo dei peggiori. Renzi, Mattarella e Draghi ci hanno regalato un governo di destra. Davvero non so con quale stomaco LeU e i Cinque Stelle potranno votare la fiducia a questo Bar di Guerre Stellari. Ma, come ci ricorda Giorgetti allo Sviluppo, non c’è nulla ridere: il disastro è appena cominciato.

Una versione ridotta dell’articolo è comparsa su Il Fatto Quotidiano del 12 febbraio


 

Holla, e grazie per il testo,

Nel coro di elogi sperticati all'avanspettacolo italiano (umilianti per l’intelligenza sensibile che resta) questo articolo che mi proponi denuncia effettivamente la mostruosità mafiosa che il popolo digitalizzato subisce cattolicamente inginocchiato. Sempre pronto, come al solito, a salire sul carro del vincitore di turno che in realtà è, gattopardamente, sempre lo stesso: il Leviatano produttivista definitivamente legato alla sorte del suo modo di produzione capitalista in fase terminale. A vincere dappertutto, ma fragile e nudo come non è mai stato neppure Pirro, è quello stesso mondo che dilaga coniugando il progetto di artificializzazione definitiva della vita e la riduzione dell’umano (molto avanzata grazie alla digitalizzazione invasiva del reale) a veicolo passivo ma imprescindibile della valorizzazione economica. La crisi del coronavirus mostra tutto questo più chiaramente che mai, ma peggiora la situazione perché toglie ogni imbarazzo alla disumanità trionfante, messa alle strette dalla crisi. Dappertutto il virus viene utilizzato come una scusa per accelerare la corsa economicista verso quel muro contro il quale stiamo andando in quanto specie, con le classi povere in prima linea, evidentemente. La “LORO” crisi economica non è la “NOSTRA” crisi sanitaria (del resto resa più grave dalla propaganda mediatica e dall’imperizia dei gestori di ogni bordo). La forma italiana di questo delirio/delitto è solo un modo particolare di seguire il gregge globale e, qui come altrove, per chi non si rassegna al ruolo di pecora e ora di cavia, si tratta di passare dalla coscienza di classe sconfitta dal consumismo alla coscienza di specie che ne è il possibile superamento dialettico e l’ultima occasione di una società organica e non artificiale, cioè umana.

Per iniziare questa traiettoria necessaria alla vita ma anche, in prospettiva, alla sopravvivenza stessa della specie, bisogna andare oltre il giusto ma insufficiente disgusto di Montanari. La democrazia parlamentare è essa stessa la malattia e non è tradita dalla volgarità della situazione italiana ma ne è anzi l’apogeo. Questa truffa oligarchica che si nasconde dietro il feticcio democratico messo in scena da secoli prima dai colonialisti suprematisti in America e perfezionato poi dai moderni schiavisti francesi del "Terrore rivoluzionario", è nata sui cadaveri delle sezioni parigine del 1789 (bras-nus o sanculotti che dir si voglia) e più tardi della Comune (1871) al fine di soffocare la rivoluzione sociale in ebollizione. Ghigliottinato prima e fucilato poi con epicentro a Parigi, ma politicamente dappertutto nel mondo, il cadavere della democrazia diretta è stato consegnato alla “borghesia proletarizzata” di destra e di sinistra (dai giacobini ai leninisti, passando per i Versagliesi, e i Franchisti).

Con il coronavirus che rode, siamo oggi alla fine di tutto il ciclo della civiltà economicista.

In attesa del trans umanismo, soluzione finale della società produttivista digitalizzata, la profonda superficialità mafiosa del potere all’italiana rende quasi appetibile la truffa parlamentarista che in Italia non è mai stata altro che una maschera grottesca ben più che altrove. La politica italiana è in decomposizione particolarmente avanzata, il che rende difficile l’emergere di una coscienza chiara della truffa parlamentarista alla base della modernità capitalista che sta mettendo fine alla vita organica e all’umano che ne dipende.

Il disgusto di Montanari per la partouze parlamentare diretta dal cavaliere senza macchia e senza paura che lotta contro il drago chiamandosi Draghi è anche il mio, dietro la risata acida che la situazione provoca, ma il mio ribrezzo si spinge molto più lontano ed è questo territorio abbandonato, inquinato e devitalizzato della politica che oggi dovremmo rioccupare individualmente e collettivamente per salvare il salvabile e all’occorrenza la vita.

Grazie per lo stimolo a riflettere che la tua proposta di dialogo favorisce. Da queste poche considerazioni di getto si tratta di partire e come molti altri provo a farlo, modestamente ma sinceramente.                                                                                                             Amitiè, sergio


Tre distinguo puntuali a riguardo della stimolante lettera a Piero di Jacques Philipponneau

  


 

A) La giusta critica del leninismo curdo sviluppata da JP lascia intravvedere un’interpretazione che, pur attenuata da molte affermazioni di solidarietà e di rispetto per il popolo in lotta del Rojava, concepisce la realtà curda come equivalente alla realtà dei suoi nemici. Il che non tiene abbastanza conto del macabro ruolo avuto da Daesh e dalla Turchia nella situazione, fatto che, secondo me, rende insufficiente l’affermazione di JP che “il Rojava è cento volte meglio di tutto il resto”. La fragilità storica della rivoluzione sociale richiede altre solidarietà che un voto di sufficienza. Giustissimo diffidare del leninismo soggiacente e inquinante ma, nonostante la burocrazia PKK, emerge ormai, oltre i cenacoli storici che ne hanno preservato la matrice in tempi oscuri, una coscienza radicale autentica che cerca sé stessa – dal Rojava al Chiapas, fino al quotidiano di tutte le lotte di occupazione della vita – spandendosi a macchia d’olio ed esprimendo concretamente l’abbozzo di una coscienza di specie destinata a superare una coscienza di classe sconfitta dalla storia. In essa non c’è più spazio per gerarchie né avanguardie politiche separate dal movimento reale, come hanno provato, sia pur confusamente e contraddittoriamente, i Gilets jaunes.

Questa componente nuova della rivolta oggi in corso è ancora fragile, non si può che ripeterlo, ma non è più succuba dei trucchi statalisti. In epoche diverse, la guerra del Vietnam e quella di una Spagna libertaria ma ancora fortemente patriarcale (nonostante l’ottimo lavoro poetico delle libertarie acratiche di allora), non potevano esprimere efficacemente la sensibilità, appunto acratica, che emerge, invece, oggi prepotentemente e si diffonde. Banalizzare o ignorare questa novità sarebbe un errore.

 

B) La preziosa lucidità che JP applica all’analisi della pandemia fuori, contro e oltre la coppia binaria “complottismo e anticomplottismo”, è un po’ troppo pessimista sul comportamento delle masse. Sono anch’io assolutamente diffidente di ogni pazza folla e dei suoi isterici o perversi sobillatori, ma credo che la pedagogia del virus stia creando, underground, una maggioranza ancora poco discorsiva ma già insofferente tanto della servitù volontaria manipolata dal potere che del delirio negazionista di capricciosi consumisti la cui empatia è ridotta a zero, arrabbiati perché nostalgici del quotidiano produttivista “di prima”. Dall’evoluzione di questo magma ancora confuso che prende lentamente forma al di fuori delle due sottomissioni alla logica produttivista in lotta ideologica tra loro, dipenderà la vittoria del totalitarismo o il suo smantellamento nel nome della difesa di una vita organica in via di sparizione – confrontata al sempre più invadente delirio digitale, inquietante avanguardia del transumanismo. Certamente, il potere ha montato a neve la psicosi da panico e l’infantilismo, ma non per questo una dose razionale di principio di precauzione va confusa con le paranoie di ogni tipo in circolazione. Niente giudizi affrettati su chi ha senso, chi non ne ha o non ne ha più. Con cosi poche certezze, manipolare i dati è alla portata di tutti, nessuno escluso. Come nota JP:“La sola certezza su tali soggetti e con tali attori è che la verità non verrà mai a galla”. Forse non tutta e comunque non subito.

È bene, dunque, evitare di alimentare le diverse macchine del fango che gli infangati di tutte le ideologie fanno marciare a tempo pieno contro i loro avversari, dal virtuale al reale. Geeks e burocrati, stessa lotta e stesso nemico: l’umanità vivente in cerca di autonomia per un’autogestione generalizzata della vita quotidiana.

 

C) Sul concetto di Leviatano che uso spesso e volentieri anch’io, a modo mio, un po’ più vicino a Fredy Perlman che a Thomas Hobbes, ho una lettura diversa che riguarda la sua dimensione simbolica (il capitalismo è un modo di produzione all’opera, l’immagine del mostro biblico una rappresentazione mitologica). Leviatano o no, questo mi pare l’essenziale: in quanto maschera dello Stato complice del Mercato, il “mostro” opera in modi vari e diversi, certo, ma altrettanto “in Stati federali come la Svizzera, la Germania o gli Stati Uniti, nella burocrazia cinese super-centralizzata o nel narco Stato messicano” allo scopo di preservare le gerarchie, cambiarle se necessario, ma garantire sempre la continuità del potere produttivista.

 Che tutto ciò stia per finire? 

Sergio Ghirardi Sauvageon




Trois distinguos ponctuels concernant la lumineuse

lettre à Piero de Jacques Philipponneau

 

A) La juste critique du léninisme kurde développée par JP laisse ouverte une interprétation qui, même si atténuée par plusieurs expressions de solidarité et de respect pour le peuple en lutte du Rojava, conçoit la réalité kurde comme équivalent à la réalité de ses ennemis. Ce qui ne tient pas assez compte du rôle macabre que Daesh et la Turquie ont joué dans la situation, rendant, à mon avis, insuffisante l’affirmation de JP que « le Rojava est cent fois mieux que tout le reste ». La fragilité historique de la révolution sociale requière d’autres solidarités qu’une note moyenne. C’est très juste se méfier du léninisme subjacent et polluant mais, malgré la bureaucratie du PKK, émerge désormais, au-delà des cénacles qui en ont préservé la matrice pendant des temps sombres, une conscience radicale authentique qui se cherche – du Rojava au Chiapas jusqu’au quotidien de toute lutte pour l’occupation de la vie –, se répandant à tache d’huile et exprimant concrètement l’ébauche d’une conscience d’espèce destinée au dépassement d’une conscience de classe vaincue par l’histoire. En elle il n’y a plus la place pour des hiérarchies et avant-gardes politiques séparées du mouvement réel, comme l’ont prouvé, malgré les contradictions et la confusion, le s Gilets jaunes.

Cette composante nouvelle de la révolte aujourd’hui en cours est encore fragile, on ne peut que le répéter, mais elle n’est plus sous l’emprise des combines étatistes. Dans des époques differentes, la guerre du Vietnam et celle d’une Espagne libertaire, mais encore intimement patriarcale (malgré le superbe travail poétique des libertaires acratiques de l’époque), ne pouvaient pas exprimer efficacement la sensibilité, justement acratique, qui se dégage, en revanche, avec force et se répand aujourd’hui. Banaliser ou ignorer cette nouveauté serait une erreur.

B) La lucidité précieuse que JP applique à l’analyse de la pandemie, en dehors, contre et au-delà du couple binaire « complotisme et anticomplotisme » est un peu trop pessimiste sur le comportement des masses. Je suis moi aussi absolument méfiant de toute foule déchainée et de ses hystériques ou pervers agitateurs, mais je crois que la pédagogie du virus soit en train de créer, underground, une majorité encore peu bavarde mais déjà exaspérée autant par la servitude volontaire manipulée par le pouvoir que par le délire négationniste des consommateurs capricieux dont l’empathie tend à zéro, enragés car nostalgiques du quotidien productiviste d’avant. De l’évolution de ce magma encore confus qui prend lentement forme en dehors des deux soumissions à la logique productiviste en lutte idéologique entre elles, va dépendre la victoire du totalitarisme ou son démantèlement au nom de la défense d’une vie organique en voie de disparition –  confrontée à un délire numérique de plus en plus envahissant, inquiétante avant-garde du transhumanisme. Certes, le pouvoir a monté en neige la psychose de la panique et l’infantilisation, mais cela ne signifie pas que qu’on doit confondre une dose rationnelle de principe de précaution avec les paranoïas de tous genres qui circulent. Pas de conclusions hâtives sur qui a du sens, qui en manque et qui en a perdu. Avec si peu de certitudes, manipuler les données est à la portée de quiconque, sans exceptions. Comme le dit JP : « La seule certitude sur de tels sujets et avec de tels acteurs c’est que la vérité ne sera jamais connue ». Peut-être pas toute et surtout pas tout suite.

C’est bien, donc, de ne pas alimenter aucune des differentes machines à salir que les salis par une quelconque idéologie font marcher à plein régime contre leurs adversaires, du virtuel au réel.

Geeks et bureaucrates, même combat et même ennemi : l’humanité vivante en cherche d’autonomie pour une autogestion généralisée de la vie quotidienne.

C) A propos du Léviathan, concept que moi aussi j’utilise souvent et volontiers à ma façon (un peu plus proche à Fredy Perlman qu’à Thomas Hobbes) j’ai une lecture différente qui concerne sa dimension symbolique (le capitalisme est un mode de production à l’œuvre, l’image du monstre biblique une représentation mythologique). Léviathan ou pas, ceci me parait l’essentiel : en tant que masque de l’Etat complice du Marché, le « monstre » œuvre de façons diverses et variées, certes, mais autant « dans des États fédéraux, suisse, allemand ou américain, la bureaucratie chinoise hyper centralisée ou le narco-État mexicain » dans le but de préserver les hiérarchies, les changer si nécessaire, mais garantir toujours la continuité du pouvoir productiviste.

 

Es-que tout cela va finir ?

Sergio Ghirardi Sauvageon

Risposte di Jacques Philipponneau[1] al questionario del giornale La Décroissance del 12-02-2021 e rifiutate dal suo comitato di redazione.

 



 

La Décroissance: Secondo Lei “l’aspetto positivo di questa crisi che non fa che cominciare è la diffidenza generale di fronte alle menzogne incredibili del governo e alla sua incompetenza criminale, la costatazione dell’impotenza dello Stato in situazione d’urgenza e l’evidenza che la reattività, l’iniziativa, il buon senso, la solidarietà sono venuti dalla società a dispetto di tutte le ostruzioni amministrative delle burocrazie statali[2]”. Non è piuttosto il fatto che siamo stati trasformati in “pecore paranoiche infantilizzate” come anche Lei scrive?

Jacques Philipponneau: I diversi detournement delle assurdità governative durante il primo confinamento ricordano la notevole creatività dell’humour sovietico quando la libertà d’espressione si esercitava nelle cucine di casa. Per una parte della nostra vita recente la nostra situazione era la stessa e, parafrasando Freud, si trattava di una sorta di vittoria paradossale della coscienza in condizioni disperanti.

Dare credito ai fantasmi di dominio totale (assolutamente reali, come sogni, come molti altri progetti della stessa natura da quando esiste una società divisa in classi) è l’altro versante, disfattista, di una compensazione psicologica della coscienza isolata e impotente di cui l’humour nero rappresenta il lato esultante della vita nonostante tutto.

LD: Questo progetto di dominio totale è ben reale...

JP: Non si tratta di negare l’esistenza di questo progetto nelle antiche democrazie rappresentative poiché esse guardano apertamente con gelosia la supposta efficacia di un totalitarismo asiatico diventato reale. Già i gesuiti invidiavano la meccanica totalitaria dell’impero cinese che pensavano di poter mettere al loro servizio; ma, come si sa, c’è distanza tra il sogno e la realtà e la fine della storia resta il sogno inaccessibile di tutte le dominazioni.

È evidente che esiste una congiunzione obiettiva tra i tre soggetti automatici che producono questa rapida evoluzione: degli Stati in cerca di controllo sociale compiuto, il capitalismo dei nuovi mercati della digitalizzazione completa dell’esistenza e la tecno scienza al servizio di entrambi perseguono il loro ideale di riduzione della vita a un puro funzionalismo biologico.

Tuttavia, concepire una società digitale totalitaria realmente capace di escludere ogni capacità di rovesciamento, vuol dire concedere loro una coscienza sovra storica unificata di cui sono assolutamente incapaci. Non c’è evidentemente alcun complotto di fronte a programmi così anticamente pubblici, così costantemente reiterati, così compiacentemente promossi dai media e così facilmente accettati da una maggioranza.

Il “Great Reset” di cui vi fate l’eco realizza il crollo effettivo di tutte le stabilità che hanno permesso il mantenimento e la trasformazione conflittuale della società industriale da due secoli.

Il dominio è diventato apertamente catastrofista per forza di cose e deve integrare il riformismo ecologico in quella sovra burocratizzazione del mondo che sola è capace di gestire, in questa società, le catastrofi che essa produce.

Questo ecologismo da caserma, normativo e colpevolizzante, ultimo avatar del peccato cristiano (le indulgenze pontificali dell’impronta ecologica, il flygskam – la vergogna di prendere l’aereo del luteranesimo nordico , la stupidità antispecistica anglosassone) che non attacca mai frontalmente lo Stato né il capitalismo, ma soltanto le loro “deviazioni” o i loro “eccessi”, rimpiazza la vecchia socialdemocrazia morta sul lavoro nella sua funzione integrativa della società così com’è.

La crisi sanitaria attuale (qualunque sia l’origine e la gravità che le si accorda) ha costretto il dominio a rendere pubblico il suo programma. La sua concezione della vita.

Essa si riassume in questo: il modo di vita industriale non è negoziabile e le rappresentazioni catastrofiste, diffuse con tanta compiacenza da una decina d’anni, non sono concepite per rinunciarvi ma per fare accettare le restrizioni e gli aggiustamenti che permetteranno di perpetuarlo. All’ingrosso fare regredire la libertà umana alla sua sola funzione animale di “conservare la specie”, la “vita nuda” ridotta alla sua sola realtà biologica: l’esempio più trivialmente attuale è il sollievo vigliacco di fronte a una vaccinazione – di fatto obbligatoria – che permetta di ritrovare la vita “normale”.

 

LD: Lei pensa che un tale progetto non si realizzerà?

 

JP: Un tal progetto non va da sé perché, per essere efficace supporrebbe una specie di governo mondiale di cui non si vede oggi l’ombra di un inizio. Beninteso, però, il più grande ostacolo a questo “reset” risiede nell’accettazione perenne da parte delle popolazioni di un tale programma. Cambiare tutto perché non cambi niente, agire cioè radicalmente per la perpetuazione di una società gerarchizzata, non è mai scevro di pericoli.

Il turbamento della primavera scorsa di fronte alla saturazione degli ospedali e alle previsioni apocalittiche (500000 morti pronosticati in Gran Bretagna e in Francia dall’Imperial College) ha trasformato in un primo tempo l’immensa maggioranza della popolazione in un gregge impaurito. Con il passare del tempo, però, di fronte a una propaganda mondiale inedita e a un ministero della verità che elimina ogni opinione critica (assimilata a un complottismo delirante), numerosi refrattari alla tirannia sanitaria o eretici del non pensiero medico ufficiale si sono nonostante tutto manifestati in modi molto diversi.

Non c’è finora un punto di vista unificato – e tanto meglio – di un’altra concezione della vita di fronte all’abiezione che ci è proposta, ma un rifiuto minoritario più o meno cosciente, più o meno globale di una totalità mortifera dove la rinuncia alla libertà non garantisce affatto una qualunque sicurezza.

Questa libertà che se ne va e questa sicurezza che scompare riuniranno certamente il partito della paura attorno a soluzioni autoritarie, ma moltiplicheranno anche i disertori pratici (quando è possibile) e i dissidenti del pensiero (è sempre possibile) in un partito della resistenza attiva. In questo la nostra epoca è profondamente storica pur se, beninteso, non esiste alcuna certezza concernente l’evoluzione di questo conflitto.

 

LD: Lei scrive che “se tutte le rivolte viste nel mondo da due anni, [...] hanno tutte fallito è perché la questione fondamentale di ogni insurrezione – quale società noi vogliamo – è rimasta e rimane ancora dovunque senza risposta positiva nell’immensità e nella complessità di una tale incombenza”. Per Lei la sola via emancipatrice sta “nella distruzione razionale della società industriale”. Che cosa intende con questo e come cominciare a farlo?

 

JP: Non c’è né programma né ricetta per uscire dalla società industriale se non alcuni grandi orientamenti di massima (noti a tutti) impossibili da mettere in atto (se non marginalmente e parzialmente) con la celerità e l’energia che l’urgenza implica, senza una trasformazione rivoluzionaria della società.

Pensare di combattere la società industriale senza abolire il capitalismo o volerlo abolire senza disfarlo, riconquistare la libertà individuale e collettiva che permetta la padronanza del destino dell’umanità senza sopprimere lo Stato, sostenere la democrazia diretta o l’autogestione generalizzata senza uscire dall’economia e senza abolire il denaro, ecco l’essenziale delle impossibilità pratiche che le alternative emancipatrici dovranno assumere sperimentalmente nel crollo in corso.



[1] Membro della scomparsa Enciclopedia delle nocività.

[2]Lettera a Piero... di qui e di altrove” del 22 gennaio 2021, disponibile su Barravento pensiero.






Réponses de Jacques Philipponneau[1] au questionnaire de La Décroissance envoyées le 12 février 2021 et refusées par son comité de rédaction.

 

La Décroissance: Selon vous «l'aspect positif de cette crise qui ne fait que commencer [c'est] la défiance générale devant les mensonges inouïs du gouvernement et son incompétence criminelle, la constatation de l’impuissance de l’État en situation d’urgence et l’évidence que la réactivité, l’initiative, le bon sens, la solidarité sont venus de la société en dépit de toutes les obstructions administratives des bureaucraties étatiques[2]». N'est-ce pas plutôt le fait que nous ayons été transformés en « moutons paranoïaques infantilisés » ainsi que vous l'écrivez également ?

 

Jacques Philipponneau: Les détournements divers des absurdités gouvernementales durant le premier confinement rappellent la créativité remarquable de l’humour soviétique quand la liberté d’expression tenait sa cour dans les cuisines d’appartements. Pour une part de notre vie récente nous en étions là et, en paraphrasant Freud, il s’agissait d’une sorte de victoire paradoxale de la conscience dans des conditions désespérantes.

Accorder crédit aux fantasmes de domination totale (tout à fait réels, comme rêves, ainsi que l’on été d’innombrables projets de même nature depuis que la société de classes existe) est l’autre versant, défaitiste, d’une compensation psychologique de la conscience isolée et impuissante, dont l’humour noir représente le côté jubilatoire de la vie malgré tout.

 

LD: Ce projet de domination totale est bien réel...

 

JP: Il n’est pas question de nier l’existence de ces projets dans les anciennes démocraties représentatives puisqu’elles jalousent ouvertement l’efficacité supposée d’un totalitarisme asiatique réalisé. Déjà les jésuites enviaient la mécanique totalitaire de l’empire chinois qu’ils pensaient pouvoir mettre à leur service ; mais comme on sait il est loin du rêve à la réalité et la fin de l’histoire est celui inaccessible de toutes les dominations.

 Il est évident qu’il existe une conjonction objective entre les trois sujets automates produisant cette évolution rapide : des États en quête de contrôle social achevé, le capitalisme des nouveaux marchés de la numérisation complète de l’existence et la techno-science au service des deux précédents, poursuivant son idéal de réduction de la vie à un pur fonctionnalisme biologique.

 Mais concevoir une société numérisée totalitaire capable réellement d’exclure toute possibilité de renversement, c’est leur prêter une conscience supra-historique unifiée dont ils sont bien incapables. Il n’y a évidemment aucun complot devant des programmes si anciennement publics, si constamment réitérés, si complaisamment promus par les médias et si bien acceptés majoritairement.

Le « great reset » dont vous vous faites l’écho acte l’effondrement effectif de toutes les stabilités qui ont permis le maintien et la transformation conflictuelle de la société industrielle depuis deux siècles.

La domination est devenue ouvertement catastrophiste et par la force des choses, elle doit intégrer le réformisme écologique dans cette sur-bureaucratisation du monde seule à même de gérer, dans cette société, les catastrophes qu’elle produit.

Cet écologisme de caserne, normatif et culpabilisant, dernier avatar du péché chrétien (les indulgences pontificales du bilan carbone, le flygskam – la honte de prendre l’avion du luthérianisme nordique –, la niaiserie antispéciste anglo-saxonne) qui n’attaque jamais frontalement l’État ni le capitalisme, mais seulement leurs « dévoiements » ou leurs « excès », remplace la vieille social- démocratie morte à la tâche dans sa fonction intégrative à la société telle qu’elle est.

La crise sanitaire actuelle (quelle que soit son origine et la gravité qu’on lui accorde) a contraint la domination à afficher son programme. Sa conception de la vie.

Elle se résume à celle-ci : le mode de vie industriel n’est pas négociable et les représentations catastrophistes, si complaisamment diffusées depuis une dizaine d’années, ne sont pas conçues pour y faire renoncer mais pour faire accepter les restrictions et aménagements qui permettront de le perpétuer. En gros, faire régresser la liberté humaine à sa seule fonction animale de « conserver l’espèce », la « vie nue » réduite à sa seule réalité biologique : l’exemple le plus trivialement actuel en est le lâche soulagement devant une vaccination – de fait obligatoire – permettant de retrouver la vie « normale ».

 

LD: Vous pensez qu'un tel projet ne se réalisera pas ?

 

JP:  Un tel projet ne va pas de soi car, pour être efficace, il supposerait une sorte de gouvernement mondial dont on ne voit pas aujourd’hui l’amorce d’un commencement. Mais bien entendu le plus grand obstacle à un tel « reset » réside dans l’acceptation pérenne des populations à un tel programme. Tout changer pour que rien ne change, c’est-à-dire agir radicalement pour la perpétuation d’une société hiérarchisée n’est cependant jamais sans danger.

La sidération du printemps dernier devant la saturation des hôpitaux et les prévisions apocalyptiques (500 000 décès pronostiqués en Grande Bretagne et en France par l’Imperial Collège) a transformé dans un premier temps l’immense majorité de la population en un troupeau apeuré. Mais le temps passant, face à une propagande mondiale inédite et un ministère de la vérité chassant toute opinion critique (assimilée à un complotisme délirant), de nombreux réfractaires à la tyrannie sanitaire ou hérétiques de l’officielle non-pensée médicale se sont malgré tout manifestés de très diverses façons.

Il n’y a à ce jour pas de point de vue unifié -et c’est heureux- d’une autre conception de la vie face à l’abjection qui nous est proposée, mais un refus minoritaire plus ou moins conscient, plus ou moins global d’une totalité mortifère où le renoncement à la liberté ne garantit en rien quelque sécurité que ce soit.

Cette liberté qui s’en va et cette sécurité qui disparaît vont certes rassembler le parti de la peur autour de solutions autoritaires mais aussi multiplier déserteurs pratiques (quand c’est possible) et dissidents de la pensée (c’est toujours possible) dans un parti de la résistance active. C’est en ceci que notre époque est profondément historique sans qu’il n’existe bien entendu aucune certitude quant à l’évolution de ce conflit.

 

LD: Vous écrivez que « si toutes les révoltes que l’on a vues de par le monde depuis deux ans, […] ont toutes échoué c’est parce que la question fondamentale de toute insurrection - quelle société voulons nous ? - est restée et reste encore partout sans réponse positive devant l’immensité et la complexité de la tâche ». Pour vous, la seule voie émancipatrice tient dans « la destruction rationnelle de la société industrielle ». Qu'entendez-vous par là ? Et comment (commencer à) s'y prendre ?

 

JP: Il n’y a non plus ni programme ni recette pour sortir de la société industrielle, tout au plus quelques grandes orientations (connues de tous) impossibles à mettre en œuvre (sauf marginalement et partiellement) avec la célérité et l’énergie que l’urgence implique, sans une transformation révolutionnaire de la société.

Penser combattre la société industrielle sans abolir le capitalisme ou vouloir l’abolir sans défaire celle-ci, recouvrer la liberté individuelle et collective permettant la maitrise du destin de l’humanité sans supprimer l’État, prôner la démocratie directe ou l’autogestion généralisée sans sortir de l’économie et sans abolir l’argent, voilà l’essentiel des impossibilités pratiques que les alternatives émancipatrices devront assumer expérimentalement dans l’effondrement qui vient.

 



[1] Ancien membre de L’Encyclopédie des Nuisances.

[2] «Lettre à Piero... d'Ici et d'Ailleurs», 22 janvier 2021 disponible sur le site lavoiedujaguar.net

giovedì 18 febbraio 2021

« Il Great Reset, sì, per favore, ma uno vero ! »

 



Slavoj Zizek, 5 febbraio 2021










Nato nel 1949, Slavoj Zizek, filosofo e psicanalista molto noto, vive a Lubiana 5Slovenia. Tra le sue molte traduzioni in italiano: Il sublime oggetto dell'ideologia, Ponte alle Grazie, Milano 2014; Problemi in Paradiso. Il comunismo dopo la fine della storia, Ponte alle Grazie, Milano 2015; Virus, Ponte alle grazie, Milano 2020.

 

Traduzione in italiano di Sergio Ghirardi Sauvageon

dalla versione in francese pubblicata nel sito Quartier Général Le Média libre

 


Nell’aprile 2020, in reazione all’esplosione di Covid-19, Jürgen Habermas ha rilevato che “l’incertezza della nostra esistenza si propagava ormai globalmente e simultaneamente nello spirito degli individui connessi mediaticamente”. Per poi aggiungere: “Non c’è mai stata una tale coscienza del nostro non-sapere, e l’obbligo di agire e di vivere nell’incertezza non è mai stato così grande”. Il filosofo tedesco ha ragione di pretendere che questo non-sapere non riguarda soltanto la stessa pandemia – abbiamo almeno qualche esperto in questo dominio – ma ancor più le sue conseguenze economiche, sociali e psichiche. Notate la sua formula precisa: non è semplicemente che non sappiamo quel che succede, noi sappiamo di non sapere e questo non-sapere è in se stesso un fatto sociale iscritto nella maniera in cui le nostre istituzioni agiscono.

Noi sappiamo ora che all’epoca medievale o all’inizio della modernità, per esempio, ne sapevano molto meno – ma non lo sapevano perché si appoggiavano su una base ideologica stabile che garantiva il nostro universo come una totalità significativa. Lo stesso vale per certe visioni del comunismo e anche per l’idea di Fukuyama della “fine della Storia” – tutti hanno supposto di sapere dove la storia evolvesse. Per di più Habermas ha ragione di localizzare l’incertezza “nella testa degli individui connessi”: il nostro legame con l’universo digitale amplia enormemente le nostre conoscenze, ma ci getta nello stesso tempo in un’incertezza radicale (siamo sotto attacco hacker? Chi controlla le nostre connessioni? Quel che leggiamo sarà mica una fake news?). Le scoperte in corso di un hackeraggio straniero – russo? – delle istituzioni governative americane e delle grandi imprese, illustrano questa incertezza: gli Americani stanno scoprendo che non sono nemmeno più capaci di determinare la portata e la provenienza dell’hackeraggio in corso. L’ironia vuole che ora il virus attacchi nei due sensi del termine: biologico e digitale.

Quando cerchiamo d’indovinare il modo in cui le nostre società si comporteranno dopo la fine della pandemia, la trappola da evitare è la futurologia che per definizione dimentica la nostra ignoranza. La futurologia è definita come una previsione sistematica dell’avvenire a partire dalle tendenze attuali della società e in questo sta il problema: la futurologia estrapola principalmente quel che risulterà dalle tendenze presenti. Quel che, però, la futurologia sottovaluta sono i “miracoli” storici, le rotture radicali che possono spiegarsi solo retroattivamente, dopo che sono avvenute; Bisognerebbe forse prendere qui in conto la distinzione esistente in italiano tra futuro e avvenire: il “futuro” designa quel che verrà dopo il presente mentre l’“avvenire” punta su un cambiamento radicale. Quando un presidente è rieletto, è “il presidente attuale e futuro” ma non è il presidente a venire – il presidente a venire è un presidente diverso. L’universo post coronavirus sarà dunque soltanto un altro futuro o qualcosa di nuovo “a venire”?

Ciò non dipende solo dalla scienza ma anche dalle nostre decisioni politiche. Il momento è ora venuto di dire che non dovremmo farci illusioni a proposito della “felice” conclusione delle elezioni americane che hanno portato tanto sollievo tra i liberals del mondo intero. IL film “They Live” (Essi vivono) di John Carpenter (1988) uno dei capolavori negletti della sinistra hollywoodiana, racconta la storia di John Nada ( “nulla” in spagnolo), un lavoratore senza tetto che capita per caso su un mucchio di scatole piene di occhiali da sole in una chiesa abbandonata. Quando mette un paio di questi occhiali camminando per strada, si accorge che un pannello pubblicitario colorato che invita a mangiare delle barrette di cioccolato mostra invece la scritta “UBBIDIRE”, mentre un altro manifesto con una coppia glamour abbracciata, visto attraverso gli occhiali, ordina allo spettatore di “SPOSARSI E RIPRODURSI”. Vede anche che i biglietti di banca portano la scritta “QUESTO È IL VOSTRO DIO”. Scopre, inoltre, rapidamente, che molte persone dall’aria gentile sono in realtà degli extraterrestri mostruosi con teste di metallo...

In questo periodo, circola sul web un’immagine che restituisce la scena di “Essi vivono” a proposito di Biden e Harris: vista direttamente l’immagine li mostra sorridenti con il messaggio “TIME TO HEAL” (è tempo di prendersi cura); vista attraverso gli occhiali, sono due mostri extraterrestri il cui messaggio è “TIME TO HEEL” (è tempo di stare alle calcagna).

Montaggio fornito dall’autore che mescola l’universo distopico del cineasta John Carpenter

e i volti della nuova equipe presidenziale americana

 

Una tale visione si mescola evidentemente in parte con la propaganda di Trump tesa a screditare Biden e Harris in quanto marionette delle grandi imprese anonime che controllano le nostre vite – ma c’è più che una parte di verità là dentro. La vittoria di Biden designa il “futuro” come continuazione della “normalità” pre-Trump – ecco la ragione di un tale sospiro di sollievo dopo la sua vittoria. Tuttavia, questa “normalità” è quella del capitalismo anonimo mondializzato che è il vero alieno tra noi. Ricordo nella mia gioventù il desiderio di “un socialismo dal volto umano” contro un socialismo burocratico di tipo Unione sovietica – Biden promette un nuovo capitalismo mondializzato dal volto umano, ma dietro quel volto si nasconde la stessa realtà. Nell’educazione, questo “volto umano” ha preso le sembianze dell’ossessione del “benessere”; allievi e studenti devono vivere sotto campane di vetro che li salveranno dagli orrori della realtà esteriore, protetti dalle regole del politicamente corretto. L’educazione non è più destinata a permettere di confrontarci con la realtà sociale – e quando ci dicono che questa sicurezza impedirà le depressioni dovremmo opporre a tutto ciò l’affermazione opposta: una tale apparenza di sicurezza ci espone a crisi mentali quando dovremo affrontare la nostra realtà sociale. Quel che offre l’apparenza del “benessere” è che essa copre semplicemente con un falso “volto umano” la nostra realtà anziché permetterci di cambiare queste stessa realtà. Biden è il presidente per eccellenza del “benessere”.

“BIDEN PROMETTE UN NUOVO CAPITALISMO MONDIALIZZATO DAL VOLTO UMANO, MA DIETRO QUESTO VOLTO SI NASCONDE LA STESSA REALTÀ”

Perché allora Biden è pur tuttavia meglio di Trump? Le critiche rilevano che anche lui mente e rappresenta ugualmente il grande capitale, con la sola differenza che lo rappresenta sotto una forma più pulita – ma sfortunatamente questa forma conta. Con il diventare volgare del discorso pubblico, Trump corrodeva la sostanza etica delle nostre vite, quella che Hegel chiamava Sitten (in opposizione alla morale individuale). Questo divenire volgare è un processo mondiale. Eccone un buon esempio europeo: Szilard Demeter, commissario ministeriale e capo del museo letterario Petofi a Budapest. Costui ha scritto in un editoriale del novembre 2020: “L’Europa è la camera a gas di George Soros. Il gas tossico cola dalla capsula di una società aperta multiculturale, mortale per il modo di vita europeo”. Demeter ha proseguito qualificando Soros di “ Fuhrer liberale”. Se gli si chiedesse, Demeter rigetterebbe probabilmente queste dichiarazioni come un’esagerazione retorica; ciò non esclude, però, in alcun caso le loro terrificanti implicazioni. Il paragone tra Soros e Hitler è profondamente antisemita: mette Soros sullo stesso piano di Hitler, affermando che la società aperta multiculturale promossa da Soros non solo è altrettanto pericolosa dell’Olocausto e del razzismo ariano che l’ha sostenuto, ma che essa è ancora peggio, più pericolosa per il “modo di vita europeo”.

Esiste dunque un’alternativa a questa visione terrificante oltre che il “volto umano” di Biden? Greta Thunberg ha recentemente tratto tre lezioni positive dalla pandemia: “ è possibile trattare una crisi come una crisi, è possibile mettere la salute della gente sopra gli interessi economici, è possibile ascoltare la scienza”. Sì ma sono delle possibilità – è altrettanto possibile trattare una crisi utilizzandola per mascherare altre crisi (per esempio: a causa della pandemia dovremmo dimenticare il riscaldamento climatico); è ugualmente possibile servirsi della crisi per rendere i ricchi più ricchi e i poveri più poveri (ciò che si è effettivamente prodotto nel 2020, a un ritmo senza precedenti); ed è anche possibile ignorare o dividere in compartimenti la scienza (pensate semplicemente a quanti rifiutano di farsi vaccinare, alla crescita esplosiva delle teorie del complotto, ecc.).

“CI DIRIGIAMO VERSO UNA NAZIONE IN CUI 3 MILIONI DI SIGNORI SARANNO SERVITI DA 350 MILIONI DI SERVI”

Scott Galloway, teorico newyorchese della pubblicità, dà un’immagine più o meno precisa della situazione in quest’epoca di coronavirus, nel suo libro della fine del 2020, “Post Corona. From Crisis to Opportunity”: “Ci dirigiamo verso una nazione in cui tre milioni di signori sono serviti da trecentocinquanta milioni di servi. Non ci piace dirlo ad alta voce, ma è come se questa pandemia fosse stata largamente inventata per condurre il 10% dei più ricchi verso l’un per cento dei più ricchi, e impoverire ulteriormente il 90% restante. Abbiamo deciso di proteggere le imprese, non la gente. Il capitalismo sta letteralmente crollando su se stesso a meno che ricostruisca la colonna portante dell’empatia. Noi abbiamo deciso che il capitalismo significa essere amorevoli e empatici verso le imprese e darwinisti e duri nei confronti degli individui”.

Allora, qual è la via d’uscita di Galloway, come evitare il crollo sociale? La sua risposta è che “il capitalismo crollerà su se stesso senza un aumento di empatia e d’amore”. “Noi entriamo nella Grande Reinizializzazione (The Great Reset) e ciò avviene rapidamente. Numerose imprese saranno tragicamente perdute a causa delle conseguenze economiche della pandemia e quelle che sopravvivranno esisteranno in una forma diversa. Le organizzazioni saranno molto più adattabili e resilienti. I diversi gruppi che prosperano attualmente con meno inquadramento desidereranno questa stessa autonomia in avvenire. Gli impiegati si aspetteranno che i dirigenti continuino a dirigere con trasparenza, autenticità e umanità”. Tuttavia, ancora una volta, come questo succederà? Galloway propone una distruzione creatrice che lasci le imprese in dissesto fallire, proteggendo le persone che perdono il lavoro: “Lasciando che la gente si faccia licenziare perché Apple possa ingrandirsi e mandare in fallimento Sun Microsystems, noi diffonderemo questa incredibile prosperità e saremo più empatici con la gente”.

Il problema è, evidentemente, di sapere chi si nasconde dietro il misterioso “noi” dell’ultima frase citata, cioè come esattamente la redistribuzione sarà effettuata. Tasseremo semplicemente i vincitori (Apple in questo caso) autorizzandoli a conservare la loro posizione di monopolio? L’idea di Galloway ha un certo fiuto dialettico: il solo modo di ridurre le ineguaglianze e la povertà è permettere alla concorrenza del mercato di fare il suo lavoro crudele (lasciare che la gente sia licenziata), e poi ... che cosa dopo? Aspetteremo che i meccanismi di mercato creino da soli nuovi posti di lavoro? Oppure lo Stato? Come operano “amore” e “empatia? Conteremo forse sull’empatia dei vincenti e aspetteremo da loro che si comportino come Bill Gates e Warren Buffet? Trovo questo miglioramento dei meccanismi di mercato attraverso la moralità, l’amore e l’empatia assolutamente problematica: anziché permetterci di ottenere il meglio dei due mondi (egoismo del mercato e empatia morale) è molto più probabile che otterremo il peggio dei due mondi...

Il libro del pubblicitario Scott Galloway « Post Corona. From crisis to opportunity »,

Apparso a novembre 2020, è stato un best seller negli Stati Uniti

I volti umani di questo “management con trasparenza, autenticità e umanità” sono quelli di Gates, Bezos, Zuckerberg, i volti del capitalismo corporativo autoritario che si presentano tutti come eroi umanitari – da notare che la nostra nuova aristocrazia li ha celebrati nei nostri media citandoli come veri saggi umanisti. Bill Gates dà miliardi per delle opere caritative, ma ricordiamoci che si è opposto al piano di Elisabeth Warren in favore di un leggero aumento delle imposte. Ha fatto l’elogio di Thomas Piketty e si è quasi proclamato socialista una volta, ma in un senso contorto e molto specifico, poiché la sua ricchezza proviene, in effetti, dalla privatizzazione di quelli che Marx chiamava i nostri “beni comuni”, lo spazio sociale condiviso nel quale evolviamo e comunichiamo. La ricchezza di Gates non ha niente a che vedere con i costi di produzione dei prodotti venduti da Microsoft e si può persino sostenere che Microsoft remunera i suoi lavoratori intellettuali con un salario relativamente elevato. La ricchezza di Gates non è il risultato del suo successo nella produzione di buoni software a prezzi inferiori di quelli dei suoi concorrenti o di un maggior “sfruttamento” dei suoi impiegati intellettuali. Bill Gates è diventato uno degli uomini più ricchi del mondo privatizzando e controllando la possibilità data a milioni tra noi di comunicare. Nello stesso modo in cui Microsoft ha privatizzato i software che la maggior parte di noi utilizza, i contatti personali si vedono privatizzati da face book, l’acquisto di libri da Amazon, o la ricerca da Google.

C’è dunque una parte di verità nella “ribellione” di Trump contro la potenza dei GAFAS, queste mostruose imprese digitali mondiali. Vale la pena di guardare in proposito i famosi podcast Apple “War Room” di Steve Bannon che resterà come il più grande ideologo del populismo di Trump – non si può in effetti che restare affascinati dal numero di verità parziali che combina in seno a una menzogna globale. Sì, sotto Obama lo scarto che separava i ricchi dai poveri è decisamente aumentato, le grandi imprese si sono ancora rinforzate... Sotto Trump, però, questo processo è continuato, Trump ha ridotto le tasse, utilizzato il denaro principalmente per salvare le grandi imprese, ecc. Siamo dunque di fronte a un’orribile falsa alternativa: il reset delle grandi imprese o il populismo nazionalista che risulta finalmente essere la stessa cosa. Il “Great Reset” è la formula che designa il mutamento di alcune cose e anche di molte affinché queste cose restino fondamentalmente le stesse.

“LA NOSTRA ECONOMIA NON PUO PERMETTERSI UN ALTRO CONFINAMENTO BRUTALE? ALLORA CAMBIAMO ECONOMIA!”

Esiste dunque una terza via, al di fuori dello spazio aperto da questi due estremi che sono il restauro della vecchia normalità o la prospettiva di un “ grande reset”? Sì ma una vera grande reinizializzazione. Quel che va fatto non è un segreto – Greta Thunberg l’ha detto chiaramente. Per prima cosa, dobbiamo infine riconoscere la crisi pandemica per quello che è, che fa, cioè, parte di una crisi mondiale di tutto il nostro modo di vita, dall’ecologia fino alle nuove tensioni sociali. In secondo luogo, dobbiamo stabilire un controllo sociale e una regolazione dell’economia. Terzo punto, dovremmo concedere fiducia alla scienza – averne fiducia, sì, ma non accettarla soltanto come un elemento esterno che prende le decisioni. Perché? Torniamo a Habermas con il quale abbiamo cominciato: la nostra situazione è tale che siamo obbligati ad agire quando sappiamo di non conoscere le coordinate esatte della situazione nella quale ci troviamo e che non agire sarebbe un atto di per sé. Non è forse, però, la situazione di base di ogni attore? Il nostro grande vantaggio è che noi sappiamo a che punto siamo ignoranti e questa consapevolezza della nostra ignoranza apre uno spazio di libertà. Agiamo quando non conosciamo la situazione nel suo insieme, ma non si tratta soltanto di un limite: quel che ci dà la libertà è che la situazione – almeno nella nostra sfera sociale – è di per sé aperta e non totalmente predeterminata. La nostra situazione in seno alla pandemia è certamente aperta. Abbiamo imparato ora la prima lezione: “spegnere la luce” non basterà. Ci dicono che “noi”, cioè la nostra economia, non possiamo permetterci un altro confinamento brutale – allora cambiamo l’economia. Il confinamento è il gesto negativo più radicale NELL’ordine esistente. La via verso un aldilà, un nuovo ordine positivo, passerà per la politica e non per la scienza. Quel che bisogna fare è cambiare la nostra vita economica affinché possa sopravvivere ai confinamenti e alle urgenze che ci attendono a colpo sicuro, nello stesso modo in cui una guerra ci obbliga a ignorare i limiti del mercato e a trovare un mezzo per fare l’“impossibile” in un’economia di libero mercato.

Nel marzo 2003, Donald Rumsfeld, allora segretario di Stato americano alla Difesa, si era lanciato in un po’ di filosofia per dilettanti a riguardo della relazione tra il conosciuto e lo sconosciuto: “Esistono dei conosciuti noti. Ci sono delle cose che sappiamo di conoscere. Ci sono degli sconosciuti noti. Vale a dire che ci sono cose di cui sappiamo di essere ignari. Ma ci sono anche degli sconosciuti sconosciuti. Ci sono cose che noi ignoriamo persino di non conoscere”. Quel che Rumsfeld ha dimenticato di aggiungere era il quarto termine pur tuttavia cruciale: i “conosciuti sconosciuti” cioè le cose che non abbiamo coscienza di conoscere – che designano appunto l’inconscio freudiano, “il sapere che non si conosce”, come diceva Lacan. Se Rumsfeld pensava che i principali pericoli dello scontro con l’Iraq fossero gli “sconosciuti sconosciuti”, le minacce di Saddam che non supponiamo neppure quel che potevano essere, dobbiamo rispondere che i principali pericoli sono, al contrario, i “conosciuti sconosciuti”, le credenze e le supposizioni apparentemente sconfessate alle quali non si è neppure coscienti di aderire.

Dovremmo, del resto, leggere l’affermazione di Habermas per cui non abbiamo mai saputo così tante cose su quel che ignoriamo, attraverso queste quattro categorie: la pandemia ha scosso quel che noi non sapevamo d’ignorare e, nella maniera in cui abbiamo affrontato tutto ciò, ci siamo appoggiati su quel che non sapevamo di sapere – tutte le nostre supposizioni e pregiudizi che determinano la nostra azione quando non ne siamo neppure coscienti. Non si tratta qui del semplice passaggio dall’ignoranza al sapere ma del passaggio molto più sottile dall’ignoranza al sapere di quel che non si sa – il nostro sapere positivo resta lo stesso durante questo passaggio, ma noi guadagniamo uno spazio libero per l’azione.

“ABBIAMO BISOGNO DI UN ASSANGE CINESE PER INFORMARCI SU QUEL CHE È DAVVERO ACCADUTO LAGGIÙ”

È in riferimento a quello che sappiamo di conoscere, supposizioni e pregiudizi inclusi, che la Cina (Taiwan e il Vietnam) hanno fatto molto meglio dell’Europa e degli Stati Uniti. Sono stanco dell’affermazione costantemente ripetuta: “sì, i cinesi hanno contenuto il virus, ma a che prezzo...”. Sono d’accordo sul fatto che abbiamo bisogno di un Assange cinese per informarci su quello che è davvero successo laggiù, tutta la storia, ma il fatto è che, quando l’epidemia è esplosa a Wuhan, hanno immediatamente imposto il confinamento e paralizzato la maggior parte della produzione in tutto il paese, dando chiaramente la priorità alle vite umane sull’economia. Hanno preso la crisi estremamente sul serio. Ora ne raccolgono la ricompensa, anche economicamente. Ciò è stato soltanto possibile siamo chiari – perché il PC cinese è sempre in grado di controllare e regolare l’economia; esiste un controllo sociale sul meccanismo del mercato, benché sia totalitario. Ancora una volta, però, la questione non è di sapere come sono riusciti ad applicare tutto ciò in Cina, ma come NOI dobbiamo farlo. Il metodo cinese non è il solo efficace, non è “obiettivamente necessario” nel senso in cui, se analizzate tutti dati, dovreste farlo alla maniera cinese. L’epidemia non è soltanto un processo virale, è un processo che si spande in dimensioni economiche, sociali e ideologiche aperte al cambiamento.

 

Manifestazione Youth for Climate negli Stati-Uniti, foto Tim Jacob Hauswirth

 

Oggi viviamo un momento folle in cui la speranza che i vaccini funzionino si mescola all’angoscia, persino alla disperazione, in ragione del numero crescente d’infezioni e delle scoperte quasi quotidiane di nuove varianti del virus. In principio la risposta a “ che cosa si deve fare” è qui facile: abbiamo i mezzi e le risorse per ristrutturare le cure della sanità affinché rispondano alle esigenze della gente in tempo di crisi, ecc. Tuttavia, per citare l’ultima linea dell’elogio del comunismo di Brecht nella sua opera “La madre”Er ist das Einfache, das schwer zu machen ist” (“È la cosa più semplice, tanto difficile da fare”). Ci sono numerosi ostacoli che la rendono tanto difficile da riuscire, prima di tutto l’ordine capitalista mondiale e la sua egemonia ideologica. Abbiamo dunque bisogno di un nuovo comunismo? Sì, ma di quello che sono tentato di chiamare un comunismo moderatamente conservatore: tutte le tappe sono necessarie, dalla mobilitazione mondiale contro le minacce virali e altre, fino alla messa in funzione di procedure che limiteranno i meccanismi del mercato e socializzeranno l'economia, ma realizzate in modo conservatore (nel senso di uno sforzo per conservare le condizioni della vita umana – e il paradosso che dobbiamo cambiare le cose precisamente per mantenere queste condizioni), e anche moderato (nel senso che bisogna prendere accuratamente in conto gli effetti secondari imprevedibili delle nostre misure).

A quale comunismo penso? A una necessità le cui ragioni sono evidenti: abbiamo bisogno di un’azione mondiale per lottare contro le minacce sanitarie e ambientali, l’economia dovrà essere in qualche modo socializzata... A questo proposito dovremmo leggere il modo in cui il capitalismo mondiale reagisce attualmente alla pandemia precisamente come un insieme di reazioni a questa tendenza comunista: il falso Great Reset, il populismo nazionalista, la solidarietà ridotta all’empatia.

Allora se e come potrebbe prevalere la tendenza comunista? Una triste riposta: attraverso crisi sempre più ripetute. Siamo chiari: il virus è ateo nel senso più forte del termine. Sì, bisognerebbe analizzare come la pandemia sia socialmente condizionata, ma è essenzialmente il prodotto di una contingenza priva di senso, non c’è un “messaggio più profondo” in essa (all’epoca medievale la peste era interpretata come una punizione divina). Prima di scegliere un celebre verso di Virgilio come motto della sua Interpretazione dei sogni[1] , Freud immaginava in quel ruolo un altro candidato, le parole di Satana tratte dal Paradiso perduto di John Milton: che sostegno si potrebbe trarre: « What reinforcement we may gain from Hope / If not what resolution from despair ». (Che sostegno si potrebbe trarre dalla speranza se non la determinazione della disperazione. E cosi che NOI, satana contemporanei distruttori della nostra terra, dovremmo reagire alle minacce virali ed ecologiche: invece di cercare vanamente di rinforzare qualche Speranza dovremmo accettare che la nostra situazione è disperata e agire risolutamente in conseguenza. Per citare di nuovo Greta Thunberg: “Fare del nostro meglio non basta più ormai si deve fare l’impossibile”. La futurologia tratta solamente quel che è possibile. Dobbiamo ormai fare quel che è, dal punto di vista dell’ordine mondiale esistente, impossibile.

[11] L’interpretazione dei sogni di Freud porta in epigrafe questa supplica a Giunone che si trova nell’Eneide di Virgilio: « Flectere si nequeo superos acheronta movebo » ( Se non potrò commuovere gli dèi celesti, impietosirò Acheronte”).



« Le Great Reset ? Oui, s’il vous plait, mais un vrai ! »

Slavoj Zizek, 5 février 2021

 







Né en 1949, Slavoj Zizek, philosophe et psychanalyste mondialement connu, vit à Ljubljana (Slovénie). Très aimé aux Etats-Unis, notamment des amateurs de pop philosophie, il a déjà publié de nombreux livres en français: « Le spectre rôde toujours » (Nautilus), « Jacques Lacan à Hollywood » ou encore « Le sujet qui fâche » (Flammarion)

 

En avril 2020, en réaction à l’explosion de l’épidémie de Covid-19, Jürgen Habermas a souligné que « l’incertitude de notre existence se propageait désormais globalement et simultanément, dans l’esprit des individus médiatiquement connectés ». Et de poursuivre : « Il n’y a jamais eu autant de conscience de notre non-savoir, et la contrainte d’agir et de vivre dans l’incertitude n’a jamais été aussi grande. » Le philosophe allemand a raison de prétendre que ce non-savoir ne concerne pas seulement la pandémie elle-même – nous avons au moins des experts dans ce domaine – mais plus encore ses conséquences économiques, sociales et psychiques. Notez sa formulation précise : ce n’est pas simplement que nous ne savons pas ce qui se passe, nous savons que nous ne savons pas, et ce non-savoir est lui-même un fait social, inscrit dans la manière dont nos institutions agissent.

Nous savons maintenant qu’à l’époque médiévale ou au début de la modernité, par exemple, ils en savaient beaucoup moins – mais ils ne le savaient pas, car ils s’appuyaient sur une base idéologique stable qui garantissait que notre univers est une totalité significative. Il en va de même pour certaines visions du communisme, et même pour l’idée de Fukuyama de « fin de l’Histoire » – ils ont tous supposé savoir où l’histoire évoluait. De plus, Habermas a raison de localiser l’incertitude dans « la tête des individus connectés » : notre lien avec l’univers câblé élargit énormément nos connaissances, mais en même temps il nous jette dans une incertitude radicale (sommes-nous piratés ? Qui contrôle nos connexions ? Est-ce que ce que nous lisons là-bas est une fake news ? Les découvertes en cours sur un piratage étranger – russe ? – des institutions gouvernementales américaines et des grandes entreprises illustrent cette incertitude : les Américains sont en train de découvrir qu’ils ne sont même pas capables de déterminer la portée et la provenance du piratage en cours. L’ironie est que le virus attaque maintenant aux deux sens du terme : biologique et numérique.

Quand nous essayons de deviner la façon dont nos sociétés se comporteront après la fin de la pandémie, le piège à éviter est la futurologie – la futurologie par définition oublie notre ignorance. La futurologie est définie comme une prévision systématique de l’avenir à partir des tendances actuelles de la société – et c’est là que réside le problème : la futurologie extrapole principalement ce qui résultera des tendances présentes. Cependant, ce que la futurologie néglige, ce sont les « miracles » historiques, les ruptures radicales qui ne peuvent s’expliquer que rétroactivement, une fois qu’elles se produisent. Il faudrait peut-être mobiliser ici la distinction qui existe en français entre futur et avenir : le « futur » désigne ce qui viendra après le présent tandis que l’« avenir » pointe vers un changement radical. Lorsqu’un président est réélu, il est « le président actuel et futur », mais il n’est pas le président « à venir » – le président à venir est un président différent. Alors, l’univers post-coronavirus sera-t-il juste un autre futur, ou quelque chose de nouveau « à venir » ?

Cela ne dépend pas seulement de la science, mais aussi de nos décisions politiques. Le moment est maintenant venu de dire que nous ne devrions pas nous faire d’illusions au sujet de l’issue « heureuse » des élections américaines qui ont apporté un tel soulagement parmi les libéraux du monde entier. Le film « They Live » de John Carpenter (1988), l’un des chefs-d’œuvre négligés de la gauche hollywoodienne (en français le titre est « Invasion Los Angeles » NDLR), raconte l’histoire de John Nada (en espagnol « rien »), un travailleur sans-abri qui tombe accidentellement sur un tas de boîtes pleines de lunettes de soleil dans une église abandonnée. Lorsqu’il met une paire de ces lunettes en marchant dans une rue, il remarque qu’un panneau publicitaire coloré nous invitant à manger des barres de chocolat affiche maintenant le mot « OBÉIR », tandis qu’un autre panneau d’affichage avec un couple glamour en train de s’enlacer, vu à travers les lunettes, ordonne au spectateur de « SE MARIER ET SE REPRODUIRE ». Il voit aussi que les billets de banque portent les mots « CECI EST VOTRE DIEU ». De plus, il découvre rapidement que beaucoup de personnes qui ont l’air charmantes sont en fait des extraterrestres monstrueux avec des têtes en métal… Actuellement, circule sur le web une image qui restitue la scène de « They Live » à propos de Biden et Harris : vu directement, l’image les montre tous en train de sourire avec le message « TIME TO HEAL » (il est temps de soigner) ; vu à travers les lunettes, ce sont deux monstres extraterrestres et le message est « TIME TO HEEL » (il est temps de mettre au pas).

                     Montage fourni par l’auteur, mélangeant l’univers dystopique du cinéaste John Carpenter

et les visages de la nouvelle équipe présidentielle américaine

Cette vision rejoint bien sûr en partie la propagande de Trump visant à discréditer Biden et Harris, en tant que marionnettes des grandes entreprises anonymes qui contrôlent nos vies – mais il y a plus qu’une part de vérité là-dedans. La victoire de Biden désigne le « futur » en tant que continuation de la « normalité » pré-Trump – c’est pourquoi il y a eu un tel soupir de soulagement après sa victoire. Mais cette « normalité » est celle du capitalisme anonyme mondialisé, qui est le véritable Alien parmi nous. Je me rappelle dans ma jeunesse du désir d’un « socialisme à visage humain » contre un socialisme « bureaucratique » du type URSS – Biden promet un nouveau capitalisme mondialisé à visage humain, alors que derrière ce visage se cache la même réalité. Dans l’éducation, ce « visage humain » a pris la forme de l’obsession du « bien-être » : élèves et étudiants doivent vivre dans des bulles qui les sauveront des horreurs de la réalité extérieure, protégés par les règles du politiquement correct. L’éducation n’est plus destinée à nous permettre de nous confronter à la réalité sociale – et quand on nous dit que cette sécurité empêchera les dépressions, nous devrions cela avec l’affirmation exactement inverse : un tel semblant de sécurité nous ouvre à des crises mentales quand nous devrons affronter notre réalité sociale. Ce qu’offre l’apparence de « bien-être », c’est qu’elle couvre simplement d’un faux « visage humain » notre réalité au lieu de nous permettre de changer cette réalité elle-même. Biden est le président par excellence du « bien-être ».

« BIDEN PROMET UN NOUVEAU CAPITALISME MONDIALISÉ À VISAGE HUMAIN, MAIS DERRIÈRE CE VISAGE SE CACHE LA MÊME RÉALITÉ »

Alors pourquoi Biden est-il tout de même meilleur que Trump ? Les critiques soulignent que Biden ment aussi, et représente également le grand capital, à cette différence près qu’il le représente sous une forme plus polie – mais, malheureusement, cette forme compte. Avec le devenir vulgaire du discours public, Trump corrodait la substance éthique de nos vies, ce que Hegel appelait Sitten (par opposition à la moralité individuelle). Ce devenir vulgaire est un processus mondial. En voici un bon exemple européen : Szilard Demeter, commissaire ministériel et chef du musée littéraire Petofi à Budapest. Celui-ci a écrit dans un éditorial en novembre 2020 : « L’Europe est la chambre à gaz de George Soros. Le gaz toxique s’écoule de la capsule d’une société ouverte multiculturelle, mortelle pour le mode de vie européen. » Demeter a poursuivi en qualifiant Soros de « Führer libéral ». Si on lui demandait, Demeter rejetterait probablement ces déclarations comme une exagération rhétorique ; ceci, n’écarte cependant en aucun cas leurs terrifiantes implications. La comparaison entre Soros et Hitler est profondément antisémite : elle met Soros au même niveau qu’Hitler, affirmant que la société ouverte multiculturelle promue par Soros n’est pas seulement aussi périlleuse que l’Holocauste et le racisme aryen qui l’a soutenumais qu’elle est pire encore, plus périlleuse pour le « mode de vie européen ».

Existe-t-il donc une alternative à cette vision terrifiante, autre que le « visage humain » de Biden ? Greta Thunberg a récemment tiré trois leçons positives de la pandémie : « Il est possible de traiter une crise comme une crise, il est possible de placer la santé des gens au-dessus des intérêts économiques, et il est possible d’écouter la science ». Oui, mais ce sont des possibilités – il est également possible de traiter une crise en l’utilisant pour masquer d’autres crises (par exemple : à cause de la pandémie, nous devrions oublier le réchauffement climatique) ; il est également possible de se servir de la crise pour rendre les riches plus riches et les pauvres plus pauvres (ce qui s’est effectivement produit en 2020 à une vitesse sans précédent) ; et il est également possible d’ignorer ou de compartimenter la science (rappelez-vous simplement de ceux qui refusent de se faire vacciner, de la montée explosive des théories du complot, etc.).

« NOUS NOUS DIRIGEONS VERS UNE NATION OÙ 3 MILLIONS DE SEIGNEURS SERONT SERVIS PAR 350 MILLIONS DE SERFS »

Scott Galloway, théoricien new yorkais de la publicité, donne une image plus ou moins précise des choses à notre ère du coronavirus dans son livre paru fin 2020 : « Post Corona. From crisis to opportunity » : « Nous nous dirigeons vers une nation où trois millions de seigneurs sont servis par 350 millions de serfs. Nous n’aimons pas le dire à haute voix, mais c’est comme si cette pandémie avait été largement inventée pour ramener les 10% les plus riches dans les 1% les plus riches, et ramener le reste des 90% encore à la baisse. Nous avons décidé de protéger les entreprises, pas les gens. Le capitalisme est littéralement en train de s’effondrer sur lui-même à moins qu’il ne reconstruise ce pilier de l’empathie. Nous avons décidé que le capitalisme signifie être aimant et empathique envers les entreprises, et darwiniste et dur envers les individus ».

Alors, quelle est la solution de sortie de Galloway, comment éviter l’effondrement social ? Sa réponse est que « le capitalisme s’effondrera sur lui-même sans davantage d’empathie et d’amour ». « Nous entrons dans la Grande Réinitialisation, et cela se produit rapidement. De nombreuses entreprises seront tragiquement perdues à cause des retombées économiques de la pandémie, et celles qui survivront existeront sous une forme différente. Les organisations seront beaucoup plus adaptables et résilientes. Les différents groupes qui prospèrent actuellement avec moins d’encadrement désireront cette même autonomie à l’avenir. Les employés s’attendront à ce que les dirigeants continuent à diriger avec transparence, authenticité et humanité. » Mais, encore une fois, comment cela arrivera-t-il ? Galloway propose une destruction créatrice qui laisse les entreprises en faillite échouer tout en protégeant les personnes qui perdent leur emploi : « Nous laissons les gens se faire virer pour qu’Apple puisse grandir et mettre Sun Microsystems en faillite, et nous diffuserons cette incroyable prospérité et serons plus empathiques avec les gens… ».

Le problème est, évidemment, de savoir qui se cache derrière le mystérieux « nous » dans la dernière phrase citée, c’est-à-dire comment, exactement, la redistribution sera effectuée. Est-ce que nous taxons simplement les vainqueurs (Apple, dans ce cas) tout en les autorisant à conserver leur position de monopole ? L’idée de Galloway a un certain flair dialectique : la seule façon de réduire les inégalités et la pauvreté est de permettre à la concurrence du marché de faire son travail cruel (laisser les gens se faire virer), et puis… quoi ensuite ? Est-ce que nous attendons que les mécanismes du marché créent eux-mêmes de nouveaux emplois ? Ou l’État ? Comment « amour » et « empathie » opèrent-ils ? Ou est-ce que nous compterions sur l’empathie des gagnants et attendrions d’eux qu’ils se comportent tous comme Bill Gates et Warren Buffet ? Je trouve cette amélioration des mécanismes du marché par la moralité, l’amour et l’empathie tout à fait problématique : au lieu de nous permettre d’obtenir le meilleur des deux mondes (égoïsme du marché et empathie morale), il est beaucoup plus probable que nous obtiendrons le pire des deux mondes…

 

Le livre du publicitaire Scott Galloway: « Post Corona. From crisis to opportunity »,

paru en novembre 2020, a été un best-seller aux États-Unis

Les visages humains de ce « management avec transparence, authenticité et humanité » sont Gates, Bezos, Zuckerberg, les visages du capitalisme corporatif autoritaire, qui se présentent tous comme des héros humanitaires – à noter que notre nouvelle aristocratie les a célébrés dans nos médias et cités comme de véritables sages humanistes. Bill Gates donne des milliards pour des œuvres caritatives, mais nous devons nous rappeler qu’il s’est opposé au plan d’Elisabeth Warren en faveur d’une légère augmentation des impôts. Il a fait l’éloge de Thomas Piketty, et s’est presque proclamé socialiste une fois, ceci est vrai, mais dans un sens tordu et très spécifique, sa richesse provenant en effet de la privatisation de ce que Marx appelait nos « communs », l’espace social partagé dans lequel nous évoluons et communiquons. La richesse de Gates n’a rien à voir avec les coûts de production des produits vendus par Microsoft, et l’on peut même soutenir que Microsoft rémunère ses travailleurs intellectuels à un salaire relativement élevé. La richesse de Gates n’est pas le résultat de son succès dans la production de bons logiciels pour des prix inférieurs à ceux de ses concurrents, ou d’une plus grande « exploitation » de ses employés intellectuels. Bill Gates est devenu l’un des hommes les plus riches du monde en privatisant et en contrôlant la possibilité donnée à des millions d’entre nous de communiquer. Et de la même manière que Microsoft a privatisé les logiciels que la plupart d’entre nous utilisons, les contacts personnels se voient privatisés par Facebook, l’achat de livres par Amazon, ou la recherche par Google.

Il y a donc une part de vérité dans la « rébellion » de Trump contre la puissance des GAFAS, ces monstrueuses entreprises numériques mondiales. Cela vaut la peine de regarder à cet égard les fameux podcasts Apple « War Room » de Steve Bannon, qui demeurera comme le plus grand idéologue du populisme de Trump – on ne peut en effet qu’être fasciné par le nombre de vérités partielles qu’il y combine au sein d’un mensonge global. Oui, sous Obama, l’écart qui sépare les riches des pauvres s’est énormément creusé, les grandes entreprises se sont encore renforcées… Mais sous Trump, ce processus s’est poursuivi, Trump a baissé les impôts, utilisé l’argent principalement pour sauver les grandes entreprises, etc. Nous sommes donc confrontés à une horrible fausse alternative : la réinitialisation des grandes entreprises, ou le populisme nationaliste qui s’avèrera finalement être la même chose. Le « Great Reset » est la formule qui désigne le changement de certaines choses, et même de beaucoup de choses, afin que ces choses restent fondamentalement les mêmes.

« NOTRE ÉCONOMIE NE PEUT SE PERMETTRE UN AUTRE CONFINEMENT BRUTAL? ALORS CHANGEONS D’ÉCONOMIE ! »

Existe-t-il donc une troisième voie, en dehors de l’espace ouvert par ces deux extrêmes que sont la restauration de l’ancienne normalité ou la perspective d’un « Great Reset » ? Oui – mais une vraie grande réinitialisation. Ce qui doit être fait n’est pas un secret – Greta Thunberg l’a dit clairement. Premièrement, nous devons enfin reconnaître la crise pandémique pour ce qu’elle est, à savoir qu’elle fait partie d’une crise mondiale de tout notre mode de vie, de l’écologie jusqu’aux nouvelles tensions sociales. Deuxièmement, nous devons établir un contrôle social et une régulation de l’économie. Troisièmement, nous devrions nous fier à la science – nous y fier oui, mais pas simplement l’accepter comme un organisme externe qui prend les décisions. Pourquoi ? Revenons à Habermas avec qui nous avons commencé : notre situation est telle que nous sommes obligés d’agir alors que nous savons que nous ne connaissons pas les coordonnées exactes de la situation dans laquelle nous nous trouvons, et que ne pas agir serait un acte en soi. Mais n’est-ce pas la situation de base de tout acteur ? Notre grand avantage est que nous savons à quel point nous sommes ignorants, et cette connaissance de notre ignorance ouvre un espace de liberté. Nous agissons quand nous ne connaissons pas la situation dans son ensemble, mais ce n’est pas simplement une limite : ce qui nous donne la liberté, c’est que la situation – dans notre sphère sociale, du moins – est en elle-même ouverte, pas totalement prédéterminée. Et notre situation au sein de la pandémie est certainement ouverte. Nous avons appris la première leçon maintenant : « éteindre la lumière » ne suffira pas. Ils nous disent que « nous », à savoir notre économie, ne pouvons pas nous permettre un autre confinement brutal – alors changeons l’économie. Le confinement est le geste négatif le plus radical DANS l’ordre existant. La voie vers un au-delà, un nouvel ordre positif, passera par la politique, et non par la science. Ce qu’il faut faire, c’est changer notre vie économique afin qu’elle puisse survivre aux confinements et aux urgences qui nous attendent à coup sûr, de la même manière qu’une guerre nous oblige à ignorer les limites du marché et à trouver un moyen de faire ce qui est « impossible » dans une économie de libre marché.

En mars 2003, Donald Rumsfeld, alors secrétaire d’Etat américain à la Défense, s’était livré à un peu de philosophie amateur sur la relation entre le connu et l’inconnu : « Il y a des connus connus. Ce sont des choses dont nous savons que nous les connaissons. Il existe des inconnus connus. C’est-à-dire qu’il y a des choses dont nous savons que nous les ignorons. Mais il y a aussi des inconnus inconnus. Il y a des choses dont ignorons même que nous ne les connaissons pas ». Ce que Rumsfeld a oublié d’ajouter était le quatrième terme, pourtant crucial : les « connus inconnus », à savoir les choses que nous n’avons pas conscience de connaître – qui désignent précisément l’inconscient freudien, le « savoir qui ne se connaît pas », comme disait Lacan. Si Rumsfeld pensait que les principaux dangers de la confrontation avec l’Irak étaient les « inconnus inconnus », les menaces de Saddam dont nous ne soupçonnions même pas ce qu’elles pouvaient être, ce que nous devons répondre, c’est que les principaux dangers sont, au contraire, les « connus inconnus », les croyances et suppositions en apparence désavouées, auxquelles nous ne sommes même pas conscients d’adhérer.

Nous devrions d’ailleurs lire l’affirmation de Habermas selon laquelle nous n’avons jamais su autant de choses sur ce que nous ignorions, à travers ces quatre catégories: la pandémie a secoué ce que nous pensions ou savions connaître, elle nous a fait prendre conscience de ce que nous ne savions pas que nous ignorions, et, dans la manière dont avons affronté cela, nous nous sommes appuyés sur ce que nous ne savions pas que nous savions – toutes nos suppositions et préjugés qui déterminent notre action alors que nous n’en sommes même pas conscients. Il ne s’agit pas ici du simple passage de l’ignorance au savoir mais du passage beaucoup plus subtil de l’ignorance au savoir de ce que l’on ne sait pas – notre savoir positif reste le même dans ce passage, mais nous gagnons un libre espace pour l’action.

« NOUS AVONS BESOIN D’UN ASSANGE CHINOIS POUR NOUS RENSEIGNER SUR CE QUI S’EST RÉELLEMENT PASSÉ LÀ-BAS »

C’est au regard de ce que nous savons connaître, nos suppositions et nos préjugés, que la Chine (et Taïwan et le Vietnam) ont fait tellement mieux que l’Europe et les États-Unis. Je suis fatigué de l’affirmation éternellement répétée « Oui, les Chinois ont contenu le virus, mais à quel prix… ». Je suis d’accord sur le fait que nous avons besoin d’un Assange chinois pour nous renseigner sur ce qui s’est réellement passé là-bas, toute l’histoire, mais le fait est que, lorsque l’épidémie a explosé à Wuhan, ils ont immédiatement imposé le confinement et paralysé la majorité de la production dans tout le pays, donnant clairement la priorité aux vies humaines sur l’économie. Ils ont pris la crise extrêmement au sérieux. Maintenant, ils en récoltent la récompense, même économiquement. Et – soyons clairs – cela n’a été possible que parce que le PC chinois est toujours en mesure de contrôler et de réguler l’économie : il existe un contrôle social sur les mécanismes du marché, bien qu’il soit « totalitaire ». Mais, encore une fois, la question n’est pas de savoir comment ils ont réussi à appliquer cela en Chine, mais comment NOUS devons le faire. La méthode chinoise n’est pas la seule méthode efficace, elle n’est pas « objectivement nécessaire » dans le sens où, si vous analysez toutes les données, vous devriez le faire à la manière chinoise. L’épidémie n’est pas seulement un processus viral, c’est un processus qui s’étale dans des dimensions économiques, sociales et idéologiques qui sont ouvertes au changement.

 

Manifestation Youth for Climate aux Etats-Unis, photo Tim Jacob Hauswirth

Aujourd’hui nous vivons un moment fou, où l’espoir que les vaccins fonctionneront se mélange à l’angoisse, au désespoir même, en raison du nombre croissant d’infections et les découvertes quasi quotidiennes de nouvelles variantes du virus. En principe, la réponse à « que doit-on faire ? » est facile ici : nous avons les moyens et les ressources pour restructurer les soins de santé afin qu’ils répondent aux besoins des gens par temps de crise, etc. Cependant, pour citer la dernière ligne de l’« Éloge du communisme » de Brecht dans sa pièce « La Mère » : «Er ist das Einfache, das schwer zu machen ist.» (« C’est la chose la plus simple, c’est si difficile à faire.» ). Il y a de nombreux obstacles qui la rendent si difficile à accomplir, avant tout l’ordre capitaliste mondial et son hégémonie idéologique. Est-ce que nous avons donc besoin d’un nouveau communisme ? Oui, mais ce que je suis tenté d’appeler un communisme modérément conservateur: toutes les étapes sont nécessaires, de la mobilisation mondiale contre les menaces virales, et autres, jusqu’à la mise en place de procédures qui contraindront les mécanismes de marché et socialiseront l’économie, mais réalisées de manière conservatrice (dans le sens d’un effort pour conserver les conditions de la vie humaine – et le paradoxe est que nous devons changer les choses précisément pour maintenir ces conditions), et aussi modéré (dans le sens où il faut prendre soigneusement en compte les effets secondaires imprévisibles de nos mesures).

A quel communisme est-ce que je pense ? A une nécessité dont les raisons sont évidentes : nous avons besoin d’une action mondiale pour lutter contre les menaces sanitaires et environnementales, l’économie devra être en quelque sorte socialisée … A cet égard, nous devrions lire la façon dont le capitalisme mondial réagit actuellement à la pandémie précisément comme un ensemble de réactions à cette tendance communiste : le faux Great Reset, le populisme nationaliste, la solidarité réduite à l’empathie.

Alors, comment – si – la tendance communiste pourrait-elle prévaloir ? Une triste réponse : à travers des crises de plus en plus répétées. Soyons clairs : le virus est athée au sens le plus fort du terme. Oui, il faudrait analyser comment la pandémie est socialement conditionnée, mais c’est essentiellement le produit d’une contingence dénuée de sens, il n’y a pas de « message plus profond » en elle (à l’époque médiévale, la peste était interprétée comme une punition divine). Avant de choisir un célèbre vers de Virgile comme devise de son « Interprétation des rêves » (1), Freud envisagea dans ce rôle un autre candidat, les paroles de Satan tirées du « Paradis Perdu » de John Milton : « What reinforcement we may gain from Hope / If not what resolution from despair ». Quel soutien pourrait-on tiré de l’espoir sinon la détermination du désespoir. C’est ainsi que nous, Satans contemporains qui détruisons notre terre, devrions réagir aux menaces virales et écologiques : au lieu de chercher vainement à renforcer quelque espoir, nous devrions accepter que notre situation est désespérée et agir résolument en conséquence. Pour citer à nouveau Greta Thunberg : « Faire de notre mieux ne suffit plus. Nous devons maintenant faire ce qui semble impossible ». La futurologie traite seulement de ce qui est possible. Nous devons désormais faire ce qui est, du point de vue de l’ordre mondial existant, impossible.

SLAVOJ ZIZEK

 

Traduit de l’anglais par Antoine Birot, tous droits réservés à QG, le média libre, pour la version française.

(1) « L’interprétation des rêves » de Freud porte en épigraphe cette supplique à Junon qu’on trouve dans l’Énéide de Virgile : « Flectere si nequeo superos acheronta movebo », que l’on pourrait traduire ainsi : « Si je ne parviens pas à émouvoir ceux d’en haut (les dieux), j’agiterai l’Achéron (le fleuve des enfers) »