venerdì 21 giugno 2019

Tra le rovine del vecchio mondo e i vagiti di una nuova civiltà (alcune interviste con Raoul Vaneigem) da Sergio Ghirardi




Tra le rovine del vecchio mondo e i vagiti di una nuova civiltà

Siate risoluti a smettere di servire ed eccovi liberi. Non vi chiedo di spingerlo o di scrollarlo ma solo di smettere di sostenerlo, e lo vedrete fondere sotto il suo peso e rompersi come un gran colosso al quale si sia frantumata la base”.
Citazione tradotta dal francese tratta dal Discorso della servitù volontaria di Etienne de la Boétie del 1576.

Elogio della transizione
Il mio comportamento di modesto lanceur d’alerte che riflette ancora una volta senza poter fare molto di più in assenza di un movimento sociale che s’incarichi di confrontarsi con la storia, è, in effetti, una reazione vitale e non una pretesa intellettuale, dal momento che la transizione da un mondo che muore verso un altro che comincia a farsi sentire tra le rovine, è ormai un’esigenza concreta e, probabilmente, la conditio sine qua non per la sopravvivenza della specie.
Erede di secoli di resistenza e di lotte, la teoria radicale intravvede da almeno mezzo secolo la fine del vecchio mondo mentre il fantasma di una democrazia illusoria nasconde l’evidenza del crollo in corso dietro la propaganda della felicità mercantile destinata ai servitori volontari. I quali, del resto, non chiedono di meglio che poterci credere, pur credendoci sempre meno poiché in tutte le teste lavora la potente percezione che questo mondo non può durare e che solo l’assenza crudele di un progetto alternativo chiaro e visibile spinge a fingere di credere al progresso persino al bordo dell’abisso.
Perché dunque cambiare, per andare dove, cambiare che cosa, quando e come? La questione si pone con la caratteristica dell’urgenza mentre le risposte restano confuse se non latenti. Orbene, una tale interrogazione planetaria non può essere risolta da un qualunque individuo geniale, da un ennesimo profeta uscito dal cilindro di una qualche credenza. Essa richiede delle risposte collettive fondate su un vero dibattito non falsato da interessi di casta, sulla conoscenza delle sperimentazioni passate e presenti e su una volontà di creare le condizioni reali di una società libera, egualitaria e fraterna.
Non ho dunque l’ambizione di essere esaustivo occupandomi della transizione quanto di contribuire un minimo a una chiarificazione del suo difficile innesco da parte di chi, come me ha deciso di esplorarla e praticarla comunque, ma insieme al più gran numero possibile di persone. Non c’è scelta e il momento storico mostra chiaramente quanto questa risoluzione occupi gli spiriti umani come mai prima.
Indipendentemente dall'’esito della loro resistenza, l’apparizione inattesa dei Gilets jaunes sulla scacchiera della democrazia parlamentare francese – scacchiera truccata né più né meno di quella di qualunque altro statalismo mercantile – non ha fatto altro che dare corpo all’urgenza di un rovesciamento di prospettiva sociale.
La natura del vivente e i vagiti di un’insofferenza che cerca di trasformarsi in progetto di vita ci invitano oggi a percepire una rivoluzione sociale tesa alla costruzione di un mondo nuovo sulle rovine del vecchio che crolla, mentre la politica mercenaria e il suo pensiero intellettuale tragicamente separato dal corpo, continuano a imbalsamare il cadavere del produttivismo da buoni domestici sottomessi. Una tale liturgia demenziale, vero e proprio riflesso condizionato che ha svuotato il concetto di progresso di ogni senso, è diventata una follia omicida – e peggio ancora, suicida – che va abbandonata se ci si vuole sottrarre al progresso mortifero del nichilismo capitalista.
Continuo dunque a parlare ai sopravvissuti, o meglio a quelli che sono sul punto di diventarlo, perché non sono così ottimista da pensare che saremo capaci di passare da un mondo all’altro in modo indolore, facendo l’economia di una tragedia dalle dimensioni colossali; non sono, però, neppure pessimista al punto di credere che la transizione sia definitivamente impossibile e che la specie umana sia destinata al naufragio.
Chi vivrà vedrà. Perché anche in questo presente imbarazzante, vivere fino in fondo il godimento complesso di essere al mondo, diffonde una dose di soddisfazione e di voglia di partecipare all’avventura ineluttabile della transizione dalla società spettacolare mercantile a un mondo finalmente umano.


Sergio Ghirardi, 18 giugno 2019
Poiché anche in un’Italia soporifera un risveglio resta auspicabile, ho tradotto qui di seguito alcune interviste scritte con cui Raoul Vaneigem ha risposto alle domande di una stampa francese abbondantemente in preda alla confusione e a corto di punti di riferimento sia per capire che per recuperare. Ne emergono diverse riflessioni utili all’autentico dibattito – non quello spettacolare e paternalistico messo in scena per mesi dal potere – tuttora in corso in Francia tra, su e oltre i Gilets jaunes.
Sergio Ghirardi

Intervista a Raoul Vaneigem per Ballast
1) Lei ha scritto all’inizio degli anni 2000 che le parole “comunismo”, “socialismo” e “anarchismo” non sono più che degli “involucri vuoti e definitivamente obsoleti”. Queste tre parole hanno tuttavia permesso agli esseri umani di rendere pensabile l’emancipazione e la fine dello sfruttamento. Come rimpiazzarle?
Nel 2000 era ormai parecchio che l’ideologia, di cui Marx denunciava il carattere menzognero, aveva svuotato della loro sostanza dei concetti che, fuoriusciti dalla coscienza proletaria e forgiati dalla volontà d’emancipazione, non erano più che i vessilli branditi dai protagonisti di una burocrazia sindacale e politica. Le lotte di potere avevano rapidamente soppiantato la difesa del mondo operaio. Sappiamo come la lotta per il proletariato sia scaduta in una dittatura esercitata in suo nome contro di lui. Il comunismo e il socialismo ne sono stati la prova. L’anarchismo della rivoluzione spagnola non è stato da meno – penso alle fazioni della CNT e della FAI complici della Generalità catalana.
Comunismo, socialismo, anarchismo erano dei concetti già passabilmente rovinati quando il consumismo ha ridotto a niente persino la loro copertura ideologica. L’attività politica è diventata un clientelismo, le idee sono diventate degli articoli di cui i depliant di supermercato stimolano la vendita promozionale. Le tecniche pubblicitarie hanno sconfitto la terminologia politica mescolando come si sa, destra e sinistra. Quando si vede da un lato il ridicolo di elezioni accaparrate da una democrazia totalitaria che prende le persone per degli imbecilli e dall'’altro il Movimento dei Gilets jaunes che irride le etichette ideologiche, religiose, politiche e che rifiuta capi e rappresentanti non nominati dalla democrazia diretta delle assemblee affermando la sua determinazione a far progredire il senso umano, si ha ragione di dire che di tutto questo pasticcio ideologico che ha fatto scorrere tanto sangue, ottenendo al massimo delle conquiste sociali ormai annichilite, non c’importa decisamente più niente!
2) Il suo ultimo libro riguarda i gilets jaunes. Questo movimento le è apparso come una “gioia” e un “immenso conforto”. Che cosa implica quest’entusiasmo?
Non esprime niente di più né di meno di quel che preciso nell’Appello alla vita[1]: ”È fin dal Movimento delle occupazioni del maggio 1968 che passo anche agli occhi dei miei amici per un inguaribile ottimista le cui elucubrazioni gli han fatto girare la testa. Fatemi il favore di credere che non m’importa nulla d’aver avuto ragione allorché un movimento di rivolta (e non ancora di rivoluzione, ben lungi) conferma la fiducia che ho sempre accordato alla parola libertà tanto abusata, corrotta e sostanzialmente marcita. Perché mai il mio attaccamento viscerale alla libertà dovrebbe ingombrarsi di torto e ragione, di vittorie e sconfitte, di speranze e delusioni quando si tratta soltanto per me di strapparla in ogni istante alle libertà del commercio e della predazione che la uccidono e di restituirla alla vita di cui essa si nutre?
Questo momento lo sogno fin dall’adolescenza. Ha ispirato, più di cinquanta anni fa, il Trattato del saper vivere a uso delle giovani generazioni[2]. Non mi si toglierà il piacere di salutare questi Gilets jaunes che non hanno davvero avuto bisogno di leggere il Trattato per illustrare la sua messa in pratica poetica. Come non ringraziarli nel nome dell’umanità che hanno deciso di affrancare da ogni barbarie?
3)Lei oppone alla democrazia parlamentare la democrazia diretta fondata su assemblee auto organizzate. Il che fa pensare ovviamente a Murray Bookchin – anche se l’IS[3] lo aveva qualificato di “cretino confusionista” nel 1967! Tuttavia almeno due punti vi separano: il principio e la nozione di potere che Lei rigetta in blocco. Bookchin affermava, invece, che solo la legge maggioritaria permette la democrazia e che la ricerca di consenso induce a un “autoritarismo insidioso” e a “manipolazioni grossolane”; stimava ugualmente che cercare di abolire il potere è altrettanto “assurdo” che voler farla finita con la gravità: “Bisogna soltanto dargli una forma istituzionale concreta d’emancipazione”. Come si spiega il suo rifiuto?
Fu un errore sottovalutare Bookchin e l’importanza dell’ecologia. Non è stato il mio solo errore né il solo dell’IS. Tuttavia questo errore ha una causa Essa risiede nella confusione (di cui il Trattato non è esente) tra l’intellettualità e la presa di coscienza dell’Io e del mondo, tra l’intelligenza della testa e l’intelligenza sensibile del corpo. Gli avvenimenti recenti aiutano a chiarire la nozione d’intellettualità.
I Gilets jaunes che scandiscono ostinatamente alla faccia dello Stato “siamo qui, siamo qui” fanno fremere le élites intellettuali di ogni bordo, quelle che, progressiste o conservatrici, si attribuiscono la missione di pensare per gli altri. Niente di sorprendente che i seguaci del gauchismo e della critica-critica si siano impegnati a schernirli dall'’alto della loro sufficienza!
Chi sono mai questi zoticoni che battono il marciapiede? Hanno la testa vuota, non hanno programma né idee. Olà! Questi operai, contadini, piccoli commercianti, artigiani, imprenditori, pensionati, insegnanti, disoccupati, lavoratori consumati dalla ricerca di un salario, poveri senza un tetto, studenti senza scuola, automobilisti da tassare e ai quali far pagare il pedaggio, avvocati, ricercatori scientifici; insomma tutte quelle e quelli che sono semplicemente disgustati dall'’ingiustizia e dall'’arroganza dei morti-viventi che ci governano. Uomini e donne di ogni età hanno bruscamente smesso di stiparsi in una massa gregaria, hanno abbandonato le greggi belanti della maggioranza silenziosa. Non è gente da niente, è gente ridotta a niente che ne prende coscienza e ha un progetto: istaurare la preminenza della dignità umana distruggendo il sistema di profitto che devasta la vita e il pianeta.
Il loro terreno è la realtà vissuta, quella di un salario, di un magro contributo sociale, di una pensione insufficiente, di un’esistenza sempre più precaria in cui la parte di vita vera si fa rara. Una realtà siffatta si urta a una ginnastica delle cifre praticata nelle alte sfere. Se la sottilità dei calcoli ha di che far perdere la ragione, il risultato finale è invece di una semplicità esemplare e preoccupante: accontentatevi dell’elemosina concessa dai poteri pubblici (finanziati da voi) e fate in fretta a morire da cittadini rispettosi delle statistiche che tengono conto del numero eccessivo di vecchi, di vecchie e di altri anelli che rendono fragile la catena della redditività.
Questo scarto tra la vita e la sua rappresentazione astratta permette di capire meglio oggi quel che è l’intellettualità. Lungi dal costituire un elemento inerente alla natura dell’essere umano essa è un effetto della sua denaturazione. Essa deriva da un fenomeno storico, il passaggio da una società fondata su un’economia di raccolta a un sistema principalmente agrario che pratica lo sfruttamento della natura e dell’uomo da parte dell’uomo.
L’apparizione delle Città-Stato e lo sviluppo delle società strutturate in classe dominante e classe dominata ha sottoposto il corpo alla stessa divisione. Il carattere gerarchico del corpo sociale, composto di signori e schiavi, va di conserva, nel susseguirsi dei secoli, con una segmentazione che affligge il corpo dell’uomo e della donna. La testa – il capo – è chiamata a governare il resto del corpo. Lo Spirito, celeste e terrestre, doma, controlla e reprime le pulsioni vitali così come il prete e il principe impongono la loro autorità allo schiavo. La testa assume la funzione intellettuale – privilegio dei signori – che detta le sue leggi alla funzione manuale, attività riservata agli schiavi. Stiamo ancora pagando i tributi di quest’unità perduta, di questa rottura che consegna il corpo individuale e carnale a una guerra endemica con se stesso.
Nessuno sfugge a quest’alienazione. Da quando la natura, ridotta a un oggetto mercantile, è diventata (così come la donna) un elemento ostile, spaventoso, disprezzabile, siamo tutti in preda a questa maledizione che può essere soltanto sradicata da un’evoluzione restauratrice della natura, da un’umanità in simbiosi con tutte le forme di vita. Messaggio per quanti e quante ne hanno abbastanza delle scempiaggini dell’ecologismo!
Sono esistiti, in un passato recente, degli operaisti abbastanza stupidi e contorti per glorificare lo statuto di proletario come se questi non fosse bollato dal marchio di un’indegnità dalla quale solo una società senza classi renderebbe possibile emanciparsi.
Chi vediamo oggi infatuarsi di questa funzione intellettuale che è una delle ragioni maggiori della miseria esistenziale e dell’incomprensione di sé e del mondo? Dei segugi in agguato di un potere da esercitare, dei candidati al ruolo di capetto, degli aspiranti al ruolo di guru.
Quando un movimento rivendica un rifiuto radicale dei capi e dei rappresentanti non scelti dagli individui che compongono un’assemblea di democrazia diretta, non sa che farsene di questi intellettuali fieri della loro intellettualità. Non cade nella trappola dell’anti intellettualismo professato dagli intellettuali del populismo di stampo fascista (“quando intendo la parola cultura, tiro fuori la pistola”non fa che tradurre il partito preso intellettuale dell’oscurantismo e dell’ignoranza militante, tanto cari all’integralismo religioso e ai militanti neo nazisti).
Non c’è bisogno di denunciare i capi che intrallazzano nelle assemblee di autogestione, quanto di accordare la preminenza alla solidarietà, al sentimento umano, alla presa di coscienza della nostra forza potenziale e della nostra immaginazione creatrice. Certo, la messa in atto deliberata di un progetto più vasto è ancora incerta e confusa ma è almeno già l’espressione di una sana e tranquilla collera che decreta: più nessuno mi darà degli ordini, più nessuno mi abbaierà addosso!
Per quanto riguarda la questione della maggioranza e della minoranza mi sono spiegato più di una volta in proposito. Secondo me, il voto in assemblea autogestita non può ridursi al quantitativo, al meccanico. La legge dei numeri si accorda poco con la qualità della scelta. Per quale ragione una minoranza dovrebbe inchinarsi di fronte a una maggioranza? Non significa forse ricadere nel vecchio dualismo della forza e della debolezza? Passi per le situazioni in cui l’urgenza prescrive di evitare le discussioni e le tergiversazioni senza fine, ma anche se si tratta di decidere di un’inezia senza conseguenze gravi, la concertazione, il dialogo, la conciliazione, l’armonizzazione dei punti di vista, detto altrimenti il superamento dei contrari, sono certamente preferibili alla relazione di potere che implica la dittatura delle cifre. Cerchiamo di non dover “lavorare nell’urgenza”.
A fortiori, fosse pure adottata a larga maggioranza, stimo inaccettabile una decisione inumana – una punizione, una pena di morte, per esempio. Non sono gli esseri umani che vanno messi in condizione di non nuocere, ma un sistema, le macchine dello sfruttamento e del profitto. Il senso umano di uno solo avrà sempre la meglio sulla barbarie di molti.
4) Chiunque s’identifichi con un territorio o una lingua, Lei ha scritto, si spoglia della sua vitalità e della sua umanità. Tuttavia, essere senza radici e senza lingua materna, non è forse il destino dei soli robot?
Curiosa alternativa dover scegliere tra l’appartenenza a un’entità geografica e l’erranza dell’esiliato. Da parte mia, la mia patria è la terra. Identificarmi con l’essere umano in divenire – quel che mi sforzo di essere – mi dispensa dal versare nel nazionalismo, nel regionalismo, nel comunitarismo etnico, religioso, ideologico, dal soccombere a quei pregiudizi arcaici e morbosi che la robotizzazione tradizionale dei comportamenti perpetua. Lei invoca l’internazionalismo mafioso della mondializzazione. Io scommetto su un’internazionale del genere umano e ho sotto gli occhi la pertinacia di un’insurrezione pacifica che la concretizza.
5) Lei invita a non collaborare più con lo Stato perché non è che il valletto “delle banche e delle imprese multinazionali”. Per dirlo chiaro: a non pagare più le tasse. Molti continuano a pensare, in seno al movimento anticapitalista, che quel che Bourdieu chiamava “la mano sinistra” dello Stato – i servizi pubblici, per esempio – merita ancora di essere salvato. Dobbiamo dunque tranciare le due mani senza più esitare?
Salvare le conquiste sociali? Sono già perdute. Treni, scuole, ospedali, pensioni sono spinte alla demolizione dal bulldozer dello Stato. La liquidazione continua. La macchina del profitto di cui lo Stato non è che un banale ingranaggio, non farà dietrofront. Le condizioni ideali sarebbero per lo Stato d’intrattenere un’atmosfera di guerra civile con cui impaurire gli spiriti e rendere il caos redditizio. Le mani dello Stato non manipolano che il denaro, il manganello e la menzogna. Come non dare piuttosto fiducia alle mani che nei crocevia, nelle case del popolo, nelle assemblee di democrazia diretta, si attivano alla ricostruzione del bene pubblico?
6) Lei è favorevole a un “contributo mensile” – quel che altri chiamano reddito di base o reddito universale. Senza lo Stato in che modo istituirlo?
Il principio di accordare a tutti e tutte di che non sprofondare sotto la soglia della miseria partiva da una buona intenzione. L’ho abbandonata di fronte all’evidenza. Era un modo d’illudersi sull’intelligenza che non aveva ancora totalmente disertato la testa dei governanti. Un certo Tobin aveva proposto di eseguire sulla bolla finanziaria, minacciata di apoplessia, un prelevamento salutare di qualche 0,001 per cento che avrebbe permesso di evitare l’implosione finanziaria e di investire il montante della tassa per la tutela delle conquiste sociali. La decomposizione accelerata dei cervelli delle élites statali esclude ormai una misura che del resto gli ultimi residui del socialismo non avevano osato adottare.
Lo Stato non è ormai più che un Leviatano ridotto alla funzione grandguignolesca di gendarme. Tutto riprende radice alla base. Là andremo a imparare a premunirci dalle ricadute della grande Fandonia statale e dal disegno di coinvolgerci nel suo crollo. Se si vedono uscire dalle loro tane tanti sociologi, politologi, nullità filosofiche, non è forse perché la nave affonda?
Tutto è da ricostruire, vuoi da reinventare: insegnamento, terapie, scienze, cultura, energia, permacultura, trasporti. Che il dibattito, il dialogo, le riflessioni si situino su questo terreno, non nelle sfere eteree della speculazione economica, ideologica, intellettuale!
Non tocca a noi reinventare una moneta di scambio e una banca solidale che preparando la scomparsa del denaro, permetterebbero di assicurare a ciascuna e a ciascuno un minimo vitale?
7) Lei mette in avanti il Chiapas zapatista e il Rojava comunalista.Queste due esperienze si fondano, in parte, su un esercito: l’EZLN e il YPG/J. In che modo il suo appello a “fondare dei territori” affrancati dal potere centrale e dal mercato mondiale si posiziona sulla questione cruciale dell’autodifesa, visto che lo Stato finirà, prima o poi, per inviare i suoi gendarmi o il suo esercito?
Va da sé che ogni situazione presenta una specificità che esige un trattamento appropriato. Notre Dame des Landes non è il Rojava. L’ELZN non è un prodotto d’esportazione. A ogni territorio in via di liberazione le sue forme particolari di lotta. Le decisioni appartengono a quelle e quelli che sono sul terreno.
Tuttavia, è bene ripeterlo: il modo di affrontare gli esseri e le cose varia secondo la prospettiva adottata. L’orientamento dato alla lotta esercita un’influenza considerabile sulla sua natura e sulle sue conseguenze. Il comportamento varia totalmente se si combatte militarmente la barbarie con le armi della barbarie o se le si oppone come un fatto compiuto quel diritto incomprimibile alla vita che talvolta regredisce ma non è mai vinto e ricomincia incessantemente.
La prima opzione è quella della guerriglia. Il gauchismo paramilitare ha dimostrato con le sue sconfitte che scendere sul terreno del nemico significava piegarsi alla sua strategia e subirne la legge. La vittoria dei conflitti con pretesa di emancipazione ha fatto anche peggio. Il potere insurrezionale ha rivolto i suoi fucili contro quelle e quelli che gli avevano permesso di trionfare.
In Lo Stato non è più niente, sta a noi essere tutto[4], ho azzardato la formula “Né guerrieri né martiri”. Essa non dà alcuna risposta ma pone solamente la questione: come fare della volontà di vivere e della propria coscienza umana un’arma che non uccide, un’arma assoluta?
L’energia che i casseurs militanti sprecano in incendi di spazzatura e in rottura di vetrine non sarebbe forse più giudiziosa nella difesa delle ZAD (zone da difendere) in lotta contro la produzione di nocività e d’inutilità redditizie? Un’interrogazione similare vale per i manifestanti che portano a spasso episodicamente l’illusione di ottenere delle misure in favore del clima. Che cosa attendersi da Stati che sono i commessi viaggiatori dell’economia inquinante? La presenza massiccia dei protestatari sarebbe più auspicabile laddove questa economia avvelena una regione, un territorio. L’incontro di una violenza cieca con una volontà tranquilla ma decisa non avrebbe forse qualche speranza di fondare una sorta di pacifismo insurrezionale la cui ostinazione potrebbe spezzare poco a poco il giogo dello Stato di profitto?
8) Lei ha più volte avanzato che “la trasgressione è un omaggio al divieto”. Che la distruzione (in francese, la casse) non serve l’affrancamento; peggio, ch’essa “restaura” l’ordine. Il sollevamento dei Gilets jaunes ha trasformato numerosi “non-violenti” in simpatizzanti dei Black Bloc; solo la violenza (in francese, le casse), dicono in sostanza, ha permesso di far reagire il potere; solo il fuoco è riuscito a far tremare Macron. È falso?
Che bella vittoria far tremare un tecnocrate che ha il cervello di un registratore di cassa! Lo Stato non ha ceduto nulla, non lo può, non lo vuole. La sua sola reazione è consistita nel sopravvalutare le violenze nel ricorrere al pestaggio fisico e mediatico per sviare l’attenzione dai veri casseurs, quelli che rovinano il bene pubblico. Come ho già detto le vetrine in frantumi tanto care ai giornalisti, sono l’espressione di una collera cieca. La collera si giustifica, la cecità no! Il valzer a mille tempi dei pavé e dei lacrimogeni fa del surplace. Gli organi di governo vi trovano il loro conto.
Quel che è vincente è lo sviluppo della coscienza umana, la decisione sempre più ferma, nonostante la stanchezza e i dubbi presi in conto dalla paura e dalla meschinità mediatica. La potenza di questa determinazione non cesserà di crescere perché non si cura né di vittoria né di sconfitta. Perché senza capi né rappresentanti recuperatori essa è là, presente, e assume da sola – per tutte e per tutti – la libertà di accedere a una vita autentica.
Siatene certi: la democrazia è in piazza, non nelle urne.
9) Nel 2003, conLe Chevalier, la Dame, le Diable et la mort”, Lei ha consacrato delle belle pagine alla questione animale che si è in seguito imposta quasi quotidianamente nel dibattito pubblico. Lei ha parlato recentemente di una “nuova civiltà” da creare; potrà essa voltare la pagina dei massacri giornalieri di animali sui quali si ergono ancora le nostre società?
I biotopi devastati, i pesticidi, i massacri di api, di uccelli, d’insetti, la fauna marina soffocata dal versamento in mare di plastiche, l’allevamento concentrazionario delle bestie, l’avvelenamento della terra, dell’aria, dell’acqua altrettanti crimini che l’economia di profitto perpetua impunemente, in tutta legalità prefabbricata. Agli indignati che strepitano che “bisogna salvare l’umanità dal disastro”, i cadaveri che ci governano oppongono lo spettacolo di promesse non tenute e insostenibili. Reiterano cinicamente il carattere irrevocabile del loro decreto: bisogna salvare l’economia, la redditività, il denaro e pagare, per questo nobile ideale, il prezzo della miseria e del sangue.
Il loro mondo non è il nostro: lo sanno e se ne fottono. A noi di decidere della nostra vita e del nostro ambiente. A noi di ridere dei loro obblighi burocratici, giuridici, polizieschi troncando la loro impresa alla base, là dove siamo, là dove ci soffoca. Come dicevano i sanculotti del 1789: “Ve ne fottete di noi? Non ve ne fotterete a lungo!”.
Ci incamminiamo verso uno stile di vita fondato su una nuova alleanza con l’ambiente naturale. È in una tale prospettiva che la sorte delle bestie sarà abbordata, non con uno spirito caritativo o compassionevole ma sotto l’angolo di una riabilitazione: quella dell’animalità che ci costituisce e che sfruttiamo, torturiamo, reprimiamo nello stesso modo in cui maltrattiamo, reprimiamo, maltrattiamo quei fratelli inferiori che sono anche i nostri fratelli interiori.
10) Lei invita comunque, nel suo ultimo scritto a “ristabilire la preminenza dell’umano”. Come assumere la singolarità dell’Homo Sapiens ricordandogli al tempo dell’antropocene che dovrebbe farsi più piccolo giacché non rappresenta che lo 0,01 % della biomassa?
Sarebbe l’ora che il ya basta, siamo stufi, ce n’è abbastanza! si applichino a quel dogma fabbricato da un sistema di sfruttamento che, facendo la parte bella ai signori propagava la credenza nella stupidità e nella debolezza innata dell’essere umano. Non si è smesso di abbassarlo questo povero diavolo. Non è stato a lungo che una deiezione degli Dei, triturato secondo il gusto dei loro capricci. Lo si è caricato di una maledizione ontologica, di una malformazione naturale, di uno stato di puerilità permanente che rendeva necessaria la tutela di un signore. Finisce oggi in una spazzatura in cui è ridotto a un oggetto, a una cifra, a una statistica, a un valore mercantile.
Tutto salvo riconoscergli una creatività, una ricchezza potenziale, una soggettività che aspira ed esprimersi liberamente. Voi continuate a predicare l’angoscia degli spazi infiniti del giansenista Pascal, mentre una rivoluzione della vita quotidiana avvantaggia l’individuo e lo inizia a una solidarietà capace di liberarlo dal calcolo egoista e dall'’individualismo in cui lo rinchiudeva la società gregaria. Quando degli uomini e delle donne gettano le basi di una società egualitaria e fraterna, il sermone rimasticato incessantemente dai propagandisti della servitù volontaria trova dunque ancora dei portavoce!
I soli spazi infiniti che mi appassionano sono quelli che l’immensità di una vita da scoprire e da creare apre davanti a noi. Si gridava ieri “A cuccia i promotori di re e di curati!” Sono gli stessi oggi, riconvertiti. A cuccia i promotori di mercato.


Intervista a Vaneigem per We demain n° 26

1. Mezzo secolo dopo il maggio 68 nessuno slogan della contestazione è arrivato alle caviglie di quelli che Lei ha ispirato all’epoca. I poeti guardano altrove?
La poesia scritta non è che la schiuma della poesia vissuta. L’atto poetico per eccellenza è oggi il risveglio della coscienza umana dopo cinquanta anni di sonnolenza, d’abbrutimento consumistico e mediatico. Le parole “Risveglio delle lucciole” iscritte sul gilet jaune di una manifestante mi sembrano altrettanto promettenti del ritornello del 1968 “Vogliamo vivere e non sopravvivere”. Come esprimere meglio il ritorno alla vita e il rifiuto della distruzione della terra da parte della grande macinatrice del profitto?
2. Considera le ZAD come zone di autonomia la cui genesi discenderebbe dal pensiero situazionista e gli zadisti come neosituazionisti? Nel qual caso come definirebbe questo situazionismo del XXI secolo?
Non ci sono neosituazionisti. Il situazionismo è una volgare ideologia, utile per infarinare i cialtroni che arrivano al ridicolo di chiamare filosofia la nullità mentale di cui si saziano le mondanità parigine. Per contro, il pensiero che ha nutrito la radicalità del Maggio 1968 sta ancora lentamente aprendosi un varco. Ricordiamo che non si trattava nientedimeno che di fondare una società autogestita in cui le assemblee di democrazia diretta mettessero fine allo Stato, al “mostro freddo” protettore degli sfruttatori e oppressore degli sfruttati. L’alleanza del partito comunista e del governo francese aveva allora spezzato uno slancio rivoluzionario, in realtà già degradato dall'’interno dall'’arrivismo dei piccoli caporali gauchisti. Che non ci siano capi tra i Gilets jaunes e che solo l’avvallo delle assemblee accrediti un porta parola marca un netto progresso rispetto al movimento delle occupazioni del 1968.
3. Lei dice che “la storia non manca di momenti in cui la poesia trionfa sulla barbarie”. Questo trionfo è stato talvolta l’opera di un uomo provvidenziale, di un eroe, come Gandhi o Mandela. Il carattere tutelare che rappresenta un tale personaggio impedisce l’evoluzione verso una società autogestita?
L’uomo provvidenziale è il prodotto di uno choc sismico tra il sistema economico in cerca di una nuova forma e l’insoddisfazione esistenziale di una popolazione che dispera di accedere a una sorte migliore. Anche se Gandhi e Mandela hanno incarnato la speranza di un miglioramento sociale, non avevano alcuna possibilità di sradicare la miseria del loro paese perché erano lo Stato, il Leviatano degli interessi privati, il potere cher protegge opprimendo. Sono stati i pastori di una barbarie in transumanza. Avevano perlomeno conservato una coscienza umana e fatto mostra di una generosità riformista di cui non ignoravano i limiti. Sappiamo che da Bonaparte a Pol Pot, la brutalità e la meschinità hanno sempre favorito l’accesso di una guida suprema alla testa di un paese. Tuttavia, oggi quale Provvidenza potrebbe accomodarsi di un meccanismo rudimentale la cui funzione è di ticchettare al ritmo di una macchina assurda, sprovvista di umanità?
4. Lei dice della poesia che è “l’antidoto dell’intellettualità”, e anche che può “sradicare la nocività del capitalismo parassitario”. La si può insegnare al bambino? Sottraendolo alla scuola? Con quali cambiamenti nei metodi educativi?
Sarebbe prerogativa del bambino insegnarci l’arte di essere umani se l’educazione che gli applichiamo non gli disapprendesse a vivere. Lasciarlo libero di scoprire l’esperienza della vita in comune, i conflitti che essa genera e la loro soluzione possibile, questo è il progetto diffuso oggi dalla volontà di sradicare l’insegnamento concentrazionario, l’indottrinamento alla servilità di cittadinanza, l’iniziazione alle pratiche di predazione, della concorrenza, della competizione, la fabbricazione di quegli schiavi di mercato di cui i tecnocrati che pretendono di governarci illustrano il ridicolo pietoso. La forza del movimento sovversivo di cui i Gilets jaunes non sono che un epifenomeno, dipende principalmente dalla volontà di un ritorno alla base e dall’attenzione di abbordare dal punto di vista delle preoccupazioni locali – villaggio, quartiere, regione –  dei problemi che lo Stato non può e non vuole gestire che a vantaggio delle potenze finanziarie. È giunta l’ora di fare della scuola l’affare di tutte e di tutti, di sottrarla allo Stato e alla sua scienza senza coscienza.
5. Ha conoscenza dell’esistenza nel mondo di zone in cui la poesia, la creatività, le arti abbiano più possibilità di fiorire che altrove?
Dovunque le donne sono al cuore della lotta per la vita sovrana, dovunque la loro decisione infrange il potere patriarcale e supera l’opposizione tra virilismo e femminismo che troppo sovente frena e occulta un’aspirazione comune a essere semplicemente umani. Dovunque la solidarietà senza frontiere abolisce il razzismo, l’antisemitismo (questo “socialismo degli imbecilli”), la xenofobia, il sessismo, l’omofobia. Dovunque è spazzata via la struttura gerarchica e la tecnica del “capro espiatorio” indispensabile all’arte di sottomettere i propri simili.
6. Lei dice che “non c’è cuore nel quale non dimori una potenza di vita avida di affermarsi affinandosi alla luce della propria intelligenza sensibile”. Questa “intelligenza sensibile” che attraversa tutti i suoi scritti non è la fonte viva della sua filosofia?
Essa è soprattutto sorgente di vita. Affinare ogni giorno la coscienza della mia volontà di vivere mi dispensa dal sostenere un ruolo. Non sono né filosofo, né scrittore, né agitatore, né maître à penser. Combattere il vecchio mondo mi aiuta ad “avanzare nell’inverno a forza di primavere”, come dice Charles de Ligne. Che noi siamo entrati in un periodo critico in cui la minima contestazione particolare si articola su un insieme di rivendicazioni globali m’incanta, come m’incanta, in questo movimento di rivolta in cerca di una rivoluzione, la lotta del cuore contro lo spirito del registratore di cassa.
7. Lei dice che “persino l’insubordinazione è rassegnata”. Pensa questo dei Gilets jaunes?
Troppe lotte d’emancipazione sono state logorate fin dall'’inizio dall'’idea di una sconfitta ineluttabile. I “no pasaran” e altre fanfaronate del trionfalismo non hanno mai fatto altro che esorcizzare il panico inerente a un’azione militare. La servitù volontaria costruisce attorno a noi dei muri del pianto che giustificano e alimentano la nostra rassegnazione.
A differenza dei movimenti rivendicativi del passato, la grande ondata insurrezionale che agita la Francia non si preoccupa né di vittoria né di sconfitta, ma insiste nel manifestare la sua intenzione incrollabile, la sua volontà di ricominciare senza sosta; come rinasce senza sosta la passione di vivere.
8. Per Lei il movimento dei Gilets jaunes non è altro che una jacquerie che alimenta il sistema oppure segna l’irruzione di una contestazione radicale?
Certamente il potere statale e mercantile preferirebbe non cogliervi altro che un rimasuglio di jacquerie, uno di quei moti plebei tradizionalmente soffocati nel sangue. Purtroppo per lui l’insurrezione popolare ricorda piuttosto quella del 14 luglio 1789, quando un pugno di pazzoidi che non avevano letto né Diderot né d’Holbach, né Rousseau né Meslier hanno offerto al pensiero illuminista la fiaccola di una libertà che continua a rischiarare il mondo, allorché la parola “libertà” è invece corrotta. Siamo in diritto di parlare di una poesia fatta da tutti quando la coscienza umana smonta la menzogna che identifica la libertà con la libertà di commercio, la libertà di sfruttare, di uccidere, di avvelenare. Come potrebbe il governo non essere condannato a uno sgomento crescente? Come potrebbe comprendere che quella che è cominciata non è una lotta contro lo Stato ma una lotta per la vita?
9. Lei dice che il “vecchio potenziale di credulità non ha alcuna difficoltà nell’approfittare delle predizioni scientifiche che, dal cataclisma nucleare a quello ecologico, passando per il valzer macabro delle pandemie, hanno un enorme successo”. Aggiungerebbe i teorici della collapsologia tra questi “commercianti”?
Io saluto le sentinelle che vigilano. Che le sirene d’allarme risuonino in ogni luogo per mettere in guardia contro il degrado climatico, l’avvelenamento agroalimentare, l’inquinamento industriale e il cinismo di un governo che protegge Total, ma istaura una tassa sul carburante. Ciò contribuisce al risveglio delle coscienze ma queste manifestazioni non faranno cambiare di una virgola la politica degli Stati, indissolubilmente asserviti alle multinazionali che fanno del pianeta un deserto. Nel solco della sconfitta dei militanti si sviluppa dunque un’ideologia della catastrofe ineluttabile, un sentimento di fatalità. Il mercato della paura è là per farsi carico della disperazione di chi ha l’impressione di battersi invano. Un’energia considerevole si dissipa nell’angelismo delle buone intenzioni, nell’indignazione impotente delle proteste di piazza. Non sarebbe più utile investire questa energia nella lotta che le ZAD conducono nelle loro regioni contro le nocività, le imprese inquinanti, l’avvelenamento delle terre, dell’acqua, del cibo? È a questo livello locale che trovano senso ed efficacia le vere rivendicazioni in favore del clima e dell’ambiente.
10. Lei ci ricorda che ogni pensiero sovversivo è portatore di una nuova tirannia. Se riuscissimo a sovvertire contemporaneamente il capitalismo planetario, la società dei consumi, quella dello spettacolo e persino l’uso della moneta, di quale tirannia dovremmo allora diffidare?
Senza dubbio del riflesso predatore, di quel residuo di animalità non superata, del fascino morboso esercitato dal potere. Fin dall'’apparizione delle Città-Stato datano le guerre, la risoluzione dei conflitti attraverso la violenza, il patriarcato, la gerarchia che divide la società in signori e schiavi. Quel che una menzogna secolare attribuisce alla natura umana è in realtà l’effetto di una denaturazione che tocca l’uomo e la donna, li disumanizza attraverso un sistema di sfruttamento, impone loro una separazione fittizia con una testa dirigente, emanazione del lavoro intellettuale, e un corpo forzato al lavoro manuale. Più che la ripetizione di suppliche morali, l’instaurazione di uno stile di vita verrà a capo di questa tara che ci affligge da millenni.
11. Lei propone di “avanzare verso una metamorfosi in cui l’uomo, artista totale della propria esistenza, diventerebbe un essere umano in un processo sperimentale capace di aprire il campo di tutti i possibili”. Non è proprio questo campo di tutti i possibili, questa libertà che tetanizza? Non è forse la paura l’ostacolo maggiore all’avvento dell’Homo ecologicus?
L’annotazione di Scutenaire “Poveri uccelli che non mangiate se non con gran paura” si applica all’esistenza quotidiana di milioni di donne e uomini trattati dal sistema di sfruttamento economico e sociale come un misto di bestie da soma e di bestie da preda. Finché la volontà di vivere non avrà abolito la lotta di sopravvivenza (struggle for life) e fatto tabula rasa delle arene della miseria concorrenziale, la paura resterà onnipresente. Solo ne verrà a capo (di essa e della sua sorella gemella, la colpevolezza) una gioia di vivere che non ha bisogno che di audacia e ancora di audacia per rivendicare la sua sovranità assoluta.
12. Quali consigli di lettura darebbe alle generazioni future?
Imparare innanzitutto a decifrare la loro esistenza, quella che è loro imposta da una società di predatori e quella che dal fondo del cuore, desiderano con passione.
Consiglio loro, incidentalmente, di sfogliare a titolo d’informazione il libro più durevolmente vietato e occultato della storia, Il discorso della servitù volontaria scritto da un adolescente di diciassette anni, Etienne de la Boétie.


[1] L’Appel à la vie è una breve sintesi appena pubblicata in Francia a seguito di Sull’autogestione della vita quotidiana contributo all’emergenza di territori liberati dall'’impresa statale e mercantile, Derive Approdi, Roma 2019.
[2] R. Vaneigem, Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni, Castelvecchi, Roma 2006.
[3] Internazionale situazionista alla quale Vaneigem ha grandemente contribuito.
[4] R. Vaneigem, Lo Stato non è più niente, sta a noi essere tutto, Nautilus Torino 2010.

sabato 15 giugno 2019

Quale scuola? (di Marco Minoletti)






Una morte bellissima: addormentarsi nella neve prima che la terra esploda […]
Elias Canetti, Il libro contro la morte


Il sistema scolastico occidentale è parte integrante del sistema capitalistico. Tale sistema non è un mezzo, ma il fine stesso. Il sistema capitalistico è un sistema sociale di produzione che informa a sé tutta la nostra vita. È una visione del mondo, una Weltanschauung che è divenuta globale. Del resto, come idea regolativa, esso è nato globale, come sistema sociale mondiale di produzione e quindi tale carattere globale rappresenta il suo essere in sé e per sé. Esso impronta di sé tutto, anche la nostra visione della natura come utile e, non da ultimo, il sistema scolastico ed educativo che ne è parte. All’interno di questa grandiosa e totalizzante visione del mondo, caratterizzata da un’idea di prosperità e predazione infinita, la scuola si trova a giocare un ruolo chiave. In un pianeta in cui si saccheggia la natura in nome del profitto, che crea e genera ricchezza materiale, non c’è da stupirsi che le scuole si siano trasformate in succursali del mercato. L' insegnamento è soggetto alla domanda mercantile di finanzieri e lobbisti e a costoro non importa nulla di  Cavalcanti o di Cesarano. Sia comunque chiaro che, da buoni seguaci di Keynes, essi non esiterebbero a seguirne l'adagio “spegneremmo anche il sole e la luna se ci dessero dei dividendi” e a prescriverne lo studio qualora fossero quotati in borsa. In una società realmente tesa allo sviluppo delle coscienze, della vita e dell'intelligenza sensibile, gli insegnanti dovrebbero essere posti nella condizione di diffondere i valori della solidarietà, della generosità, del rispetto per gli altri esseri umani. La prevenzione dei crimini contro l'umanità non comincia, forse, durante l'infanzia? Ma la scuola, purtroppo, non si occupa più della formazione dell'uomo, delle coscienze e di quelli che dovrebbero essere i “veri” valori della vita e, vittima dell'ingranaggio, ha subordinato il sapere alla domanda mercantile. Una scuola al servizio di una scienza senza coscienza sforna soltanto individualisti esasperati, carrieristi ignoranti, giovani violenti e frustrati.  Noi invece vogliamo una scuola che produca sapere, conoscenza e attitudini all'interesse civico legati alla qualità della vita quotidiana e non subordinata alle leggi del mercato. Altro che meritocrazia, fuga di cervelli e baggianate simili, di cui si riempiono la bocca i beccai della politica. Lo sfacelo reale in cui versa il sistema scolastico italiano è sotto gli occhi di tutti. Gli insegnanti nell'ultimo quarantennio hanno gradualmente perso non solo il loro ruolo e status sociale, ma anche la loro funzione propedeutica. Se, come ha fatto notare Walter Benjamin nella Metafisica della gioventù, “la riforma della scuola non è solo riforma dei modi di propagazione dei valori, è revisione dei valori stessi”, in Italia le riforme scolastiche che si sono susseguite da Gentile in poi hanno mortificato anche l'ultimo pseudo-valore che ancora tiene saldata la scuola alla società dei consumi: quello utilitaristico. In un'epoca in cui all'assioma cartesiano del cogito ergo sum si è andato vieppiù sostituendo quello falsamente edonistico messo in onda dalle reti di Mediaset e dei grandi magnati della pace sociale (consumo, dunque sono), in un'epoca in cui la scuola si è gradualmente, ma inesorabilmente, trasformata in un'istituzione che riflette specularmente le istanze dell'unico valore su cui poggia la società dello spettacolo (quello della merce), non c'è da stupirsi più di tanto che proprio la scuola, in sintonia col resto della società, non creda più alla potenza dello spirito, della parola, del pensiero, dell'arte, ma solo alla scienza della pubblicità come reale programmatrice degli umani destini, dei sogni, delle aspettative, dei desideri e dunque come regolatrice occulta e occultata dell'iter scolastico dei giovani in età scolare. La scuola, da trampolino di lancio e promessa di un futuro professionale facilmente convertibile in moneta sonante, si è trasformata in un girone infernale per insegnanti precari a vita e studenti di belle speranze senza futuro, ormai uniti dalla medesima penuria e dallo stesso obiettivo: i fondi per tenere a galla una barca che, dal dopoguerra in poi, non ha conosciuto altro che vortici, mulinelli e venti contrari. L'Arca di Noè che doveva traghettare la specie studentesca – il nerbo della futura nazione – verso il paradiso dei consumi in terra si è trasformata nell'incubo del Titanic che affonda. Non sarà il voto in condotta, né la redistribuzione dei fondi alle università a seconda dei gradi di meritocrazia didattico-aziendale e ancor meno la reintroduzione dell'ora di educazione civica a mettere al riparo gli studenti dall'assenza di futuro e dal vuoto di prospettive che li attende. Non sono i grembiulini rosa o blu che faranno la differenza, ma magari i gilet gialli. Oggi l'onda lunga della contestazione non schiumeggia più di rabbia risentita contro l'autoritarismo dei padri edipici da uccidere a tutti i costi, non ha conti da regolare con le mentalità antiquate, non ha nulla da contrapporre alle inadeguate idee politiche dei governanti e dei loro fiancheggiatori, non si scompone di fronte ai fanatismi religiosi, ma si infrange e si spegne – coscientemente o meno – contro le barriere del tempo, mettendo a nudo i limiti di un'economia reale dominata dal folle perseguimento del tornaconto capitalistico e quindi sempre più impaludata nelle sabbie mobili della contraddizione epocale che oscilla tra razionalizzazione da un lato e bisogno di lavorare dall'altro. Se dunque il postulato della piena occupazione è già da anni messo radicalmente in crisi dall'inarrestabile, ma non illimitata, crescita del livello tecnologico, come è possibile uscire da questo cul -de- sac? Uno slogan del maggio 1968 recitava: le rovine non ci fanno paura, noi erediteremo il mondo. La sconfitta di quella rivolta e le condizioni in cui versa il pianeta malato c'impongono di aprire gli occhi ed agire prima che le rovine si trasformino nel NULLA.