lunedì 29 marzo 2021

Incitamento al socialismo autogestionario di Miguel Amoros



Ho appena ricevuto questo scritto di Miguel Amoros e ve ne propongo la traduzione in italiano.

Sergio Ghirardi Sauvageon

Incitamento al socialismo autogestionario 

Una grande figura dell’anarchismo, Gustav Landauer, si rese conto delle difficoltà che avrebbero incontrato gli operai rivoluzionari nel costruire un regime socialista dopo aver rovesciato la classe dirigente e abolito lo Stato. Il problema non consisteva in una supposta mancanza delle condizioni politiche ed economiche obiettive per farlo, dato che il socialismo libertario era possibile, a qualunque stadio fossero lo sviluppo e la compenetrazione dell’economia e dello Stato, nonostante l’assenza di esperienze autogestionarie di apprezzabile portata e quindi d’idee pratiche che mostrassero il cammino della sua realizzazione. Gli enormi ostacoli interni di funzionamento coordinato incontrati dalle collettività della Rivoluzione spagnola facilitarono il sabotaggio dei partiti difensori dell’ordine borghese, mentre il corso sfavorevole della guerra finì per precipitarle nelle fogne statali da cui non sarebbero mai uscite. L’insediamento nella piazza, lo sciopero e l’occupazione di edifici pubblici, armi tradizionali della lotta di classe, sono la negatività in azione che da sola non basta. Nell’attualità è sempre più patente la necessità di un anticapitalismo affermativo: il fronte della guerra sociale esige una retroguardia logistica fatta di progetti autogestionari esemplari.

Il libro “Los papeles de Albert Mason. Volumen I. La Acción Económica”, anonima selezione di articoli di qualità diseguale, chiarisce quest’ultimo punto: “la rivoluzione è meno un costruire sulla distruzione che un distruggere costruendo”. Con questa clamorosa affermazione si cambia radicalmente la strategia di lotta tradizionale contro il capitale e lo Stato basata unicamente sulla resistenza organizzata; il confronto ideologico e politico deve combinarsi con la creazione di un quadro economico autogestito, antipatriarcale, fuori dal mercato e indipendente dallo Stato. Il fine non è cambiato se si persegue la rivoluzione sociale totale e non una riforma qualsiasi.

Per un lettore estraneo alle strizzatine d’occhio della moda, la lettura si complica per colpa dell’impiego generico del femminile – prodotto dell’influenza del movimento femminista oggi più forte e vigoroso del movimento operaio e ideologicamente più creativo –, cattiva abitudine postmoderna che cerca di giustificarsi con l’idea pellegrina della ripercussione per millenni del patriarcato sulla grammatica. In accordo con questa maniera di conversare, un periodo maschilista prolungato nella storia sarebbe la causa logica e diretta del fatto che il genere maschile nelle lingue indoeuropee non fosse marcato. Crediamo che l’assioma sia quanto meno dubbio e che ci siano modi migliori per minare il predominio sociale degli uomini, rendere visibili le donne, annullare gli stereotipi sessuali che schiacciano irragionevolmente il linguaggio – opera, in ultima analisi, del popolo che parla –, con fallaci speculazioni pseudo radicali. Ebbene, per quanto si contorca la forma, il contenuto non si arricchisce né diventa più chiaro o più critico. Si dovrebbe procedere a rovescio, creando concetti nuovi che illuminino la questione come l’hanno fatto i concetti di “patriarcato”, “attenzione”, “sessismo” eccetera. Secondo me la novlingua inclusiva è un riflesso identitario di ghetto, come del resto lo sono il nazionalismo, la chiocciola mail o il fazzoletto palestinese. Il ghetto è un elemento della zona grigia che si arrangia con la novità senza la minima obiezione, soprattutto se è stata cucinata nell’università perché non pretende la chiarezza della verità, ma il velo che più contribuisce al suo scopo, cioè alla sua conservazione.

Questa modesta obiezione, tuttavia, non intende diminuire i meriti dell’argomento del libro, originale e utile, che consiste in quel che l’autore chiama azione economica, definita come “la forma specifica adottata dalla lotta contro il capitalismo – nelle sue due versioni, statale e imprenditoriale – nell’ambito dell’economia”. È un modo dell’azione diretta contro l’impresa e lo Stato il cui obiettivo consiste nel danneggiare entrambi il più possibile economicamente. Disobbedienza civile sul piano economico e amministrativo. La sua forma organica è l’Associazione Libera. Non si tratta di un tipo nuovo d’organizzazione, se non di quello correntemente chiamato sindacato, cooperativa, ateneo o comitato, o di quello che oggi si chiama collettivo, progetto o rete. Tutte queste forme sono caratterizzate dall’assenza di gerarchia, dall’essere governate da assemblee e “dalla sperimentazione di modelli economici compatibili con l’anarchia”. Le tattiche dell’azione economica vanno dall’orto comunitario al consumo combattivo, allo scambio in natura e all’acquisto collettivo fino alla frode amministrativa, l’insolvenza programmata e l’insubordinazione fiscale. Non siamo di fronte a una semplice alternativa agro ecologica all’alimentazione industriale perché partiamo dal presupposto che la suddetta azione economica comprenda altre esperienze autogestite nel campo della salute, dell’educazione, della sicurezza sociale, dell’alloggio, dell’energia e del diritto, per dare solo qualche esempio. Quel che è certo è che senza questa specie di riarmamento della società civile, la lotta sociale urbana e la difesa del territorio non potranno evitare l’integrazione.

Ovviamente per non ricorrere al denaro, l’estensione di un’economia parallela non capitalista richiede strumenti come le monete sociali – oltre che attrezzature efficienti, consulenze legali e assistenza finanziaria – il cui impiego cade forzatamente in contraddizioni perché non dimentichiamo che siamo dentro a un sistema tecno capitalista, come si dice, nel ventre della balena. Trovo anche discutibile la ricerca di sovvenzioni o il ricorso a investimenti che il libro difende, anche se cerca di giustificare la cosa con l’argomento di usarli contro lo Stato quasi che questi sparisse dopo una soave e leggera espropriazione di fondi. E anche cose che il libro non menziona come i soci benefattori, le autogestioni part-time o liberate. Si tratta di pratiche che ricordano il discorso intorno a Marinaleda e, esagerando appena, l’ironico racconto di Pessoa, “Il banchiere anarchico”, ma soprattutto fanno emergere la cosiddetta “Economia sociale”, in altre parole, l’autogestione della miseria, il modo meno violento di amministrare l’esclusione a vantaggio del mercato che la produce. L’autore si vede obbligato a marcare la linea rossa che separa l’Azione Economica da quel “ramo del capitalismo la cui attività lucrativa è la critica del capitalismo e la mercificazione di supposte alternative”, e a denunciare come aberrante la terminologia pseudo solidale del “prezzo giusto” della “finanza etica”, dello “ sviluppo sostenibile” o della “responsabilità sociale delle imprese”. Tuttavia, non può sfuggire a un circolo vizioso: la “de-mercificazione” di qualunque attività, senza abolire integralmente il mercato, risulta impossibile, così come l’autogestione generalizzata senza uscire dall’economia o la piena autonomia senza sopprimere lo Stato. A mio modo di vedere, e suppongo anche a quello dell’autore, l’unico modo di rompere il cerchio è dire chiaramente due cose: primo, che l’attività autogestionaria e femminista è un mezzo e non un fine in sé. Secondo, che non è altro che l’aspetto positivo della lotta sociale anti industriale.

Il libro, redatto à metà con lo spirito di un pioniere de La Cecilia e a metà con quello di un espropriatore del tipo di Marius Jacob, non ha finale. La lista di esempi del sabotaggio dell’economia è larga e aperta. Per quel che riguarda i metodi illegali – per esempio la falsificazione di documenti o la clonazione di carte – è meglio praticarli silenziosamente nella clandestinità che vantarsi di loro nei manuali. A buon intenditor... Non troviamo neppure una valutazione sufficientemente critica degli effettivi esperimenti di autogestione, forse perché non era questo lo scopo del libro che cercava soprattutto di dimostrare che senza la previa esperienza dell’autogestione “a fuoco lento”, la sovversione negatrice roderà incessantemente nel buio consumandosi nel suo stesso fuoco. Oggi, piantare una pianta di pomodoro può essere, secondo i casi, un atto tanto radicale quanto uno sciopero o il difendersi dalla polizia; un’umile zuppa di ceci, con gli ingredienti sociali adeguati, può trasformarsi in “un attentato quotidiano contro ogni autorità”.

Miguel Amoros, su richiesta dell’autore, 12 marzo 2021


INCITACIÓN AL SOCIALISMO AUTOGESTIONARIO

 

Un gran clásico del anarquismo, Gustav Landauer, advertía de las dificultades con que se encontrarían los obreros revolucionarios para construir un régimen socialista tras derrocar a la clase dirigente y abolir el Estado. El problema no consistía en una supuesta falta de condiciones políticas y económicas objetivas para ello, puesto que el socialismo libertario era posible fuese cual fuese el estadio de desarrollo y compenetración en el que se encontrasen la economía y el Estado, sino a la falta de experiencias autogestionarias de magnitud apreciable, y, por lo tanto, a la carencia de ideas prácticas que mostraran los caminos de su realización. Las enormes trabas internas de funcionamiento coordinado que tuvieron las colectividades de la Revolución Española facilitaron el sabotaje que los partidos defensores del orden burgués, mientras el curso desfavorable de la guerra acababa precipitándolas en la cloaca estatal de la que nunca saldrían. La ocupación de la calle, la huelga y la toma de edificios públicos, armas tradicionales de la lucha de clases, son la negatividad en acción que por si sola no basta. En la actualidad, se hace cada vez más patente la necesidad de un anticapitalismo afirmativo: el frente de la guerra social exige una retaguardia logística hecha de proyectos autogestionarios ejemplares.

El libro “Los papeles de Albert Mason. Volumen I. La Acción Económica”, anónimo, una selección de artículos de calidad desigual, aclara este último punto: “la revolución es menos un construir sobre la destrucción que un destruir construyendo”. Con esa rotunda aseveración se cambia radicalmente la estrategia de lucha tradicional contra el capital y el Estado basada únicamente en la resistencia organizada; la confrontación ideológica y política ha de combinarse con la forja de un entramado económico autogestionario, antipatriarcal, fuera del mercado e independiente del Estado. La finalidad no ha cambiado puesto que se persigue la revolución social total, no una reforma cualquiera.

 

Para un lector ajeno a los guiños de la moda, la lectura se complica por culpa del empleo del femenino como genérico -producto de la influencia del movimiento feminista, hoy en día más fuerte y pujante que el obrero e ideológicamente más creativo-, un mal hábito posmoderno que intenta justificarse con la peregrina idea de la repercusión durante milenios del patriarcado en la gramática. De acuerdo con esta manera de discurrir, un periodo machista prolongado en la historia sería el causante lógico y directo de que el género masculino en las lenguas indoeuropeas fuera no marcado. Creemos que el axioma es cuanto menos dudoso y que existen mejores modos de socavar el dominio social de los varones, visibilizar a las mujeres y deshacer los estereotipos sexuales que machacar infundadamente el lenguaje -al fin y al cabo obra del pueblo hablante-, con falaces especulaciones seudorradicales. Bueno, por más que se contorsione la forma, el contenido no se enriquece ni se hace más claro y más crítico. Habría que proceder al revés, creando conceptos nuevos que iluminen la cuestión como lo han sido los de “patriarcado”, “cuidados”, “sexismo” etc. A mi entender, la neolengua inclusiva es un reflejo identitario de gueto, como en otras partes lo son el nacionalismo, las arrobas o el pañuelo palestino. Y el gueto es un elemento de la zona gris que se acomoda con la novedad sin objeción alguna, sobre todo si se cocinó en la universidad, pues no pretende la nitidez de la verdad, sino el velo que más contribuya a su cercado, o sea, a su conservación. 

 

Esta modesta objeción sin embargo no intenta quitar méritos a la materia del libro, que es original y provechosa, y que consiste en lo que el autor llama acción económica, definida como “la forma específica que adopta la lucha contra el capitalismo -en sus dos vertientes, estatal y empresarial- dentro del ámbito de la economía.” Es un modo de acción directa contra la empresa y el Estado cuyo objetivo consiste en perjudicar económicamente todo lo posible a ambos. Desobediencia civil en el plano económico y administrativo. Su forma orgánica es la Asociación Libre. No se trata de un tipo de organización nuevo, sino de lo que corrientemente se ha llamado sindicato, cooperativa, ateneo o comité, o de lo que hoy llamamos colectivo, proyecto o red. Todas se caracterizan por no ser jerárquicas, regirse por asambleas y “ensayar modelos económicos compatibles con la anarquía.” Las tácticas de la acción económica van del huerto comunitario, el consumo combativo, el intercambio en especie y la compra colectiva hasta el fraude administrativo, la insolvencia programada y la insumisión fiscal. No estamos ante una simple alternativa agroecológica a la alimentación industrial, pues suponemos que la susodicha acción económica abarca otras experiencias autogestionarias en el campo de la sanidad, la educación, la seguridad social, la vivienda, la energía y el derecho, por poner solo algunos ejemplos. Lo cierto es que sin esa especie de rearme de la sociedad civil, la lucha social urbana y la defensa del territorio no podrán evitar la integración.

 

Desde luego, a fin de no recurrir al dinero, la extensión de una economía paralela no capitalista requiere instrumentos como monedas sociales -aparte de equipamientos eficientes, asesorías jurídicas y ayudas financieras- cuyo empleo incurre forzosamente en contradicciones, pues no olvidemos que estamos dentro de un régimen tecnocapitalista, como quien dice, en el vientre de la ballena. Encuentro además discutible la busca de subvenciones o el recurso a las inversiones que defiende el libro, aunque trate de justificarlo con el argumento de usarlas contra el Estado, algo así como si se fuera tras una expropiación suave y ligera de fondos. Y también cosas que el libro no menciona como los socios benefactores, la autogestión a tiempo parcial o los liberados. Son prácticas que recuerdan algo el discurso en torno a Marinaleda, y, exagerando un poco, el irónico relato de Pessoa, “El Banquero Anarquista”, pero por encima de todo nos trae a colación la autodenominada “Economía Social”, en otras palabras, la autogestión de la miseria, el modo menos violento de administrar la exclusión en beneficio del mercado que la produce. El autor se ve obligado a marcar la línea roja que separa la Acción Económica de aquella, “la rama del capitalismo cuya actividad lucrativa es la crítica al capitalismo y la mercantilización de supuestas alternativas”, y a denunciar como aberrante la terminología seudosolidaria de “precio justo”, “finanzas éticas” “desarrollo sostenible” o “responsabilidad social de las empresas.” Sin embargo, no logra sustraerse a un círculo vicioso: la “desmercantilización” de cualquier actividad sin abolir integralmente el mercado resulta imposible, así como la autogestión generalizada sin salirse de la economía o la autonomía plena sin suprimir el Estado. A mi modo de ver, y supongo que al modo de ver del autor, la única manera de romper el círculo es dejando claro dos cosas: primera, que la actividad autogestionaria y feminista es un medio y no un fin en sí misma. Segunda, que no es más que la vertiente positiva de la lucha social anti-industrial.  

 

El libro, redactado con el espíritu mitad de un pionero de La Cecilia y mitad de un expropiador tipo Marius Jacob, no tiene final. La lista de ejemplos de sabotaje de la economía es larga y abierta. En lo relativo a los métodos ilegales -por ejemplo, la falsificación de documentos o la clonación de tarjetas- conviene más practicarlos silenciosamente en la clandestinidad que alardear de ellos en manuales. A buen entendedor... No busquemos tampoco una valoración suficientemente crítica de los experimentos autogestionarios reales, quizás porque no sea ese el objetivo del libro, que ante todo quería demostrar que, sin la experiencia previa de la autogestión “a fuego lento”, la subversión negadora rodará incesantemente en la oscuridad y se consumirá en su propio fuego. Hoy en día, plantar una tomatera, según cómo, puede ser un acto tan radical como el ir a la huelga o defenderse de la policía, y un humilde potaje de garbanzos, con los ingredientes sociales adecuados, puede convertirse “en un atentado cotidiano contra toda autoridad.”

 

Miguel Amorós, a petición del autor, 12 de marzo de 2021.

 

giovedì 25 marzo 2021

L’insurrezione qui, ora e dovunque

 




Cari amici e compagni di una strada verso il mondo nuovo dal percorso non facile, la traduzione che segue è la prefazione di Raoul Vaneigem per la pubblicazione in russo del suo Appello alla vita contro la tirannia statale e mercantile (Appel à la vie contre la tyrannie étatique et marchande, Libertalia, Paris 2019).  Buona lettura.

 

Sergio Ghirardi Sauvageon

 

 

L’insurrezione qui, ora e dovunque

La Russia ha avuto il privilegio sanguinoso di interpretare il ruolo di Cassandra rivelando al mondo qualche verità che il bombardamento ideologico, culturale e mediatico, un tempo chiamato propaganda, non è in grado di occultare.

Se è vero che la storia non si ripete mai se non in forma di farsa, è necessario constatare che le politiche governative della nostra epoca si avvicinano sempre di più al modello di tirannia che la Russia ha sperimentato con successo.

Non abbiamo forse ereditato, come una beffa postuma, quel totalitarismo con pretesa democratica istallato dovunque regni il capitalismo monopolistico, lo stesso che definiva ieri il Mondo libero? La sua modernità ha riciclato le vecchie ideologie. Recupera il sangue e la violenza degli scontri antichi congelandoli per istillare negli organismi viventi il veleno additivo del profitto.

Siamo debitori nei confronti dell’impero detto sovietico per la sua dimostrazione dell’impostura di un comunismo che non era altro che un capitalismo di Stato burocratizzato.

Il sorriso di compiacimento di Stalin è sparito; i baffi sono rimasti. Nessun capo di Stato arriva alla caviglia dell’ubuesco Piccolo padre del popolo ma a quali contorcimenti sono pronti a dedicarsi i dirigenti pur d’imitarlo nello specchio delle smorfie dello spettacolo? L’attrazione dell’Occidente per l’efficacia commerciale e repressiva dell’impero comunista cinese illustra bene il trionfo postumo del più grande serial killer della storia.

Qualificato di sinistra o di gauchismo dal giornalismo straccione, il progressismo aveva fondato grandi speranze sull’idea di una dittatura del proletariato da cui sarebbe nata la società senza classi. Capire di un tratto che si trattava di una dittatura esercitata sul popolo e in suo nome ha dato il colpo di grazia alla coscienza operaia che la colonizzazione consumistica e la menzogna del benessere per tutti avrebbero poi laminato. La rovina dell’ideologia comunista non è bastata per liberare e ravvivare la combattività dei lavoratori. La confusione e la disperazione hanno spinto verso una disfatta emozionale generale la regressione della coscienza e l’ascesa dell’oscurantismo. Dopo la sconfitta del Movimento delle occupazioni del Maggio 68, si è vista l’intelligenza sensibile cedere il passo all’intelligenza del portafoglio. Il progresso umano si è inchinato dinanzi ai progressi tecnologici del registratore di cassa. Il culto della predazione ha reclutato per il partito della morte un populismo dei fatti di cronaca ossessionato e affascinato dal suicidio vendicativo.

Si sarebbe potuto credere che scottato dalle imposture dell’emancipazione il progressismo si sarebbe indirizzato verso la sperimentazione concreta delle libertà, promessa rimasta come in sospeso nel nostro passato e che, di generazione in generazione, sollecita la sua realizzazione. Invece no! Riprende il cammino dei suoi errori. Mentre ha sotto gli occhi una carcassa cadente di Stato stalinista in cui le multinazionali covano le loro uova, si accanisce a indirizzargli rimostranze e lamentele, pretende di moralizzarlo, ripulirlo, purificarlo delle sue menzogne – come se si potesse governare senza mentire!

Alla testa putrescente di questa Francia considerata a lungo il faro delle libertà umane, un’accozzaglia di uomini d’affari e di addetti ai bisogni urinari del monarca ha ottenuto un risultato che avrebbe stupito l’affabile Maestro del terrore.

Manipolare la paura di un virus il cui pericolo, per quanto reale fosse, è stato deliberatamente esagerato dai mass media, ha in effetti ottenuto quel che nessuna tirannia del passato avrebbe osato sperare: una popolazione che accetta di nascondersi come un animale spinto alla disperazione, milioni di persone rintanate nell’isolamento che rinunciano alle relazioni affettive, alla tenerezza, agli incontri, alla solidarietà. Le generazioni future non mancheranno di notare che, in tutta evidenza, l’epidemia ha ucciso meno che la paura, il risentimento, l’aggressività, la delazione, l’odio di sé e degli altri, propagati dalla morbosità politica.

Detenzione, puritanesimo dei gesti bloccati, segregazione dei pro e antivaccino, trattamento politico-poliziesco al posto del trattamento sanitario hanno prodotto gli effetti peggiori: l’avvilimento della coscienza di sé, la promozione del calcolo egoista, la metamorfosi di un individuo avido di libertà in un individualista di gregge, fiero di scegliere e imporre il proprio mattatoio.

Il dibattito sull’individuo autonomo e sull’individualista predatore ha nutrito da sempre le speculazioni filosofiche e religiose. Tuttavia, niente ha esacerbato la sua importanza quanto il dinamismo del capitalismo industriale.

Il mito di Prometeo che strappa l’uomo all’autocrazia degli Dei à servito da vessillo per il liberalismo e per la sua parola d’ordine “Arricchitevi!”. Mentre l’America e il suo evangelismo calvinista rendevano popolare sotto i tratti del self made man una delle più ignobili caricature del divenire dell’Uomo, la predominanza di una comunità agraria e il ritardo dell’industrializzazione salvaguardavano nella Russia zarista una problematica del “solo contro la tirannia”, non sprovvista di romanticismo. In assenza di un conflitto aperto tra classe borghese e proletariato, l’individuo in cerca di libertà e autonomia sfidava e si scontrava con il dispotismo monarchico con un’audacia esemplare. Si ribellava in suo nome e in quello dei contadini oppressi. La sua requisitoria era universale.

Benché l’anarchismo abbia abbordato dovunque la questione dell’individuo e della rivoluzione sociale, è in Russia che essa si è posta con la più grande acuità. Non è questo il luogo per analizzare il percorso di Vera Zasulič, ma esso testimonia di un’evoluzione alla quale i sollevamenti che scuotono oggi il pianeta accordano una luce particolare. Zasulič parte dal nichilismo di Nečaev per arrivare al marxismo, passando per l’assassinio dello Zar. Si tratta di un florilegio della violenza alternativamente e simultaneamente liberatrice e alienante. La generosità sacrificale del militante s’incrocia con la freddezza militare, l’intelligenza individuale fiancheggia la folla in preda ai tribuni.

Non è forse da questo guazzabuglio che scaturiranno la ribellione del 1905, I soviet degli operai, dei contadini e dei soldati nel 1917, i consigli rivoluzionari di Cronstadt, schiacciati da Trotskij nel 1921? Le collettività libertarie della rivoluzione spagnola del 1936 partecipano a un’ispirazione simile e sembra che la scommessa della libertà al risveglio che si attua sotto i nostri occhi e in una grande varietà di paesi, non ne sia estranea. L’appello di Kropotkin alla conquista solidale dell’autonomia non è mai stato così primordiale.

L’agonia del vecchio mondo riporta alla superficie della nostra memoria il magma originale di una storia che miti, favole, dogmi e pregiudizi si sono impegnati a occultare che era fatta da noi e contro di noi.

Siamo rimasti prigionieri di uno sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo che a dispetto delle varie forme rivestite, non è mai cambiato.

Qualche millennio fa, un sistema economico, sociale e politico ha imposto all’evoluzione umana la svolta di una storia disumana. Una struttura d’appropriazione e di scambi ha instaurato, con il nome di civiltà, una società inamovibile di signori e di schiavi. Come stupirsi che, a contrario, la permanenza dell’oppressione intrattenga un clima insurrezionale altrettanto persistente?

Il capitalismo non è che la forma più recente dello sfruttamento della natura terrestre e della natura umana inaugurata dall’agricoltura intensiva, dall’allevamento e dall’apparizione delle città-stato.

Succedendo all’immobilismo agrario, il dinamismo del capitalismo industriale ha favorito la trasformazione della plebe e delle sue rivolte disperate in un proletariato iniziatore di una società senza classi, egualitaria e fraterna.

Ora, nella misura in cui la cupidigia del profitto a breve termine distrugge la vita e il pianeta, il progetto proletario di società senza classi scompare in quanto forma e riappare in quanto progetto che ne costituiva la sostanza: l’emancipazione della donna e dell’uomo e la realizzazione della loro specificità umana.

L’insurrezione che divampa dappertutto nel mondo ignora le frontiere. Non è un paese, un territorio che è minacciato, è la vita quotidiana di milioni di esseri umani. La loro etichetta geografica è diventata risibile.

Assistiamo alla fine dello Stato, doppiamente condannato.

Da un lato è vampirizzato dalle imprese multinazionali che non gli delegano più che una funzione repressiva e ne fanno il semplice gendarme dei loro interessi privati.

Dall’altro, a forza di ingarbugliarsi nella menzogna balbuziente, la corruzione, l’arbitrario e il ridicolo, il sistema di rappresentazione parlamentare perde ogni credibilità agli occhi dei cittadini. La Francia sempre pronta a dare lezioni, non è più che un modello di totalitarismo democratico. Non resta al popolo che un’alternativa: impoverirsi strisciando miserabilmente nella servitù volontaria o fondare le proprie rivendicazioni su un’autorganizzazione locale e federata che renda effettivo un vero governo del popolo per il popolo.

Bisogna ricordarlo? Siamo nel cuore di un mutamento di civiltà. La roccia delle certezze antiche vola in frantumi. Noi cerchiamo un suolo stabile nel momento in cui le scosse sismiche della confusione ci assalgono. Il vecchio mondo, scosso da ogni parte è sotto il regime di un profitto a breve termine che distrugge la vita e il pianeta distruggendo se stesso. Il nuovo pena ad affermarsi, come colpito dal terrore di fronte alla propria audacia. Lottare per riappropriarsi della propria vita è una lotta individuale e collettiva che promette di essere lunga e difficile.

Nella notte e nella nebbia che ci circondano, non mancano i segni di quella reazione del vivente che abbiamo sempre visto manifestarsi contro i peggiori periodi di epidemie e di massacri. La scoperta dell’autonomia individuale fa parte dell’autodifesa del soggetto che rifiuta di essere trattato da oggetto, da merce. L’insurrezione della vita contro la reificazione che di giorno in giorno la rinsecchisce era ieri il sogno dell’impossibile. Il suo divampare a livello mondiale è oggi il segno di un risveglio delle coscienze. Anche se destinata a eclissarsi come il gatto del Cheshire nell’Alice di Carroll, la sua irrecuperabile spontaneità ha di che spezzare la tirannia del profitto e del potere.

La rinascita del vivente non ha prezzo.

 

25 febbraio 2021








L’INSURRECTION ICI, MAINTENANT, PARTOUT 

 

Raoul Vaneigem

 

         La Russie a eu le sanglant privilège de jouer les Cassandre en révélant au monde quelques vérités que le matraquage idéologique, culturel et médiatique, jadis appelé propagande, échoue à occulter.

         S’il est vrai que l’histoire ne se répète jamais que sur le mode parodique, force est de constater que les politiques gouvernementales de notre époque sacrifient de plus en plus au modèle de tyrannie que la Russie a expérimenté avec succès.

         N’avons-nous pas hérité, comme d’une plaisanterie posthume, de ce totalitarisme à prétention démocratique implanté partout où règne le capitalisme monopolistique, celui-là même qui définissait hier le Monde libre ? Sa modernité a recyclé les vieilles idéologies. Elle récupère le sang et la violence des affrontements anciens et elle le congèle pour instiller dans les organismes vivants le venin additif du profit.

         Nous sommes redevables à l’empire dit soviétique d’avoir démontré l’imposture d’un communisme qui n’était qu’un capitalisme d’Etat bureaucratisé.

         Le sourire de complaisance de Staline a disparu ; la moustache est restée. Nul chef d’Etat n’arrive à la cheville de l’ubuesque Petit père du peuple mais à quels tortillements les dirigeants ne se livrent-ils pas pour le singer dans le miroir à grimaces du spectacle ? La fascination de l’Occident pour l’efficacité commerciale et répressive de l’empire communiste chinois illustre bien le triomphe posthume du plus grand serial killer de l’histoire.

         Qualifié de gauche ou de gauchisme par le journalisme de serpillière, le progressisme avait fondé de grandes espérances sur l’idée d’une dictature du prolétariat, d’où naîtrait la société sans classes. Comprendre soudain qu’elle était en fait une dictature exercée contre le peuple et en son nom a donné le coup de grâce à la conscience ouvrière, que lamineraient la colonisation consumériste et le mensonge du bien-être pour tous. Le délabrement de l’idéologie communiste n’a pas suffi a libérer et à raviver la combativité des travailleurs. La confusion et le désespoir ont entraîné dans une débâcle émotionnelle générale la régression de la conscience et la montée de l’obscurantisme. On a vu, après l’échec du Mouvement des occupation de mai 1968, l’intelligence sensible céder le pas à l’intelligence du portefeuille. Le progrès humain s’est incliné devant les progrès technologiques du tiroir-caisse. Le culte de la prédation a recruté pour le parti de la mort un populisme de faits-divers hanté et fasciné par le suicide vindicatif.

         On aurait pu croire qu’échaudé par les impostures de l’émancipation le progressisme se tournât vers l’expérimentation concrète des libertés, une promesse restée comme en suspend dans notre passé et qui, de génération en génération, sollicite son accomplissement. Mais non ! Il repart sur le chemin de ses égarements. Alors qu’il a sous les yeux une carcasse dépenaillée d’État stalinien, où les multinationales pondent leurs œufs, il s’acharne à lui adresser remontrances et doléances, il prétend le moraliser, le récurer, le purifier de ses mensonges - comme si l’on pouvait gouverner sans mentir !

         A la tête putrescente de cette France tenue longtemps pour le phare des libertés humaines un ramassis d’hommes d’affaires et de valets de pisse a atteint à un résultat qui eût laissé pantois l’affable Maestro de la  terreur.

         Manipuler la peur d’un virus dont le danger, pour réel qu’il fût, a été délibérément exagéré par les médias, a en effet obtenu ce qu’aucune tyrannie du passé n’eût osé espérer : une population acceptant de se terrer telle une bête aux abois, des millions de personnes se rencognant dans l’isolement, renonçant aux relations affectives, à la tendresse, aux rencontres, à la solidarité. Les générations futures ne manqueront pas de noter que, de toute évidence, l’épidémie a moins tué que la peur, le ressentiment, l’agressivité, la délation, la haine de soi et des autres, propagés par la morbidité politique.

         Enfermement, puritanisme des gestes figés, ségrégation des pro et anti-vaccins, traitement politico-policier supplantant le traitement sanitaire ont entraîné les pires effets : l’avilissement de la conscience de soi, la promotion du calcul égoïste, la métamorphose d’ un individu avide de liberté en individualiste de troupeau, fier de choisir et d’imposer son abattoir.

         Le débat de l’individu autonome et de l’individualiste prédateur a nourri de tous temps les spéculations philosophiques et religieuses. Mais rien n’a autant exacerbé son importance que le dynamisme du capitalisme industriel.

         Le mythe de Prométhée arrachant l’homme à l’autocratie des Dieux a servi d’oripeau au libéralisme et à son mot d’ordre « enrichissez vous ! ». Tandis que l’Amérique et son évangélisme calviniste popularisaient sous les traits du self made man une des plus ignobles caricatures du devenir de l’Homme, la prédominance d’une économie agraire et le retard de l’industrialisation sauvegardaient en Russie tsariste une problématique du « seul contre la tyrannie, » non dénuée de romantisme. En l’absence d’un conflit ouvert entre classe bourgeoise et prolétariat, l’individu en quête de liberté et d’autonomie défiait et affrontait le despotisme monarchique avec une témérité exemplaire. Il s’insurgeait en son nom et au nom des paysans opprimés. Son réquisitoire était universel.

         Bien que l’anarchisme ait abordé partout la question de l’individu et de la révolution sociale, c’est en Russie qu’elle s’est posée avec le plus d’acuité. Ce n’est pas ici le lieu d’analyser le parcours de Vera Zassoulitch mais il témoigne d’une évolution à laquelle les soulèvements qui ébranlent aujourd’hui la planète accordent un éclairage singulier. Zassoulitch part du nihilisme de Netchaïev pour aboutir au marxisme, en passant par l’assassinat du tsar. C’est un florilège de la violence alternativement et simultanément libératrice et aliénante. La générosité sacrificielle du militant y croise la froideur militaire, l’intelligence individuelle y côtoie la foule en proie aux tribuns.

         N’est-ce pas de cet embrouillamini que sortiront la rébellion de 1905, les soviets d’ouvriers, de paysans et de soldats en 1917, les conseils révolutionnaires de Cronstadt, écrasés par Trotski en 1921 ? Les collectivités libertaires de la révolution espagnole de 1936 participent d’une inspiration similaire et il semble que le pari de la liberté en éveil, qui se joue sous nos yeux et dans une grande diversité de pays, n’y soit pas étranger. Jamais n’a été si primordial l’appel de Kropotkine à la conquête solidaire de l’autonomie.

 

          L’agonie du vieux monde ramène à la surface de notre mémoire le magma originel d’une histoire que mythes, fables, dogmes et préjugés s’employaient à dissimuler qu’elle était faite par nous et contre nous.

         Nous sommes restés prisonniers d’une exploitation de l’homme par l’homme qui, en dépit des formes variées qu’elle a revêtues, n’a jamais changé.

         Il y a quelques millénaires, un système économique, social et politique a imposé à l’évolution humaine le virage d’une histoire inhumaine. Une structure d’appropriation et d’échanges a instauré, sous le nom de civilisation, une société inamovible de maîtres et d’esclaves. S’étonnera-t-on, qu’a contrario, la permanence de l’oppression entretient un climat insurrectionnel tout aussi persistant ?

         Le capitalisme n’est que la forme la plus récente de l’exploitation de la nature terrestre et de la nature humaine inaugurée par l’agriculture intensive, l’élevage et l’apparition d’Etats-Cités. 

         En succédant à l’immobilisme agraire, le dynamisme du capitalisme industriel a favorisé la transformation de la plèbe et de ses révoltes désespérées en un prolétariat initiateur d’une société sans classes, égalitaire et fraternelle.

         Or, à mesure que la cupidité du profit à court terme détruit la vie et la planète, le projet prolétarien de société sans classes disparaît en tant que forme et reparaît en tant que projet qui en constituait la substance : l’émancipation de la femme et de l’homme et la réalisation de leur spécificité humaine.

         L’insurrection qui s’embrase partout dans le monde ignore les frontières. Ce n’est pas un pays, un territoire qui est menacé, c’est la vie quotidienne de millions d’êtres humains. Leur étiquetage géographique est devenu dérisoire.

         Nous assistons à la fin de l’État, frappé d’une double condamnation.

         D’une part, il est vampirisé par les entreprises multinationales qui ne lui délèguent plus qu’une fonction répressive et en font le simple gendarme de leurs intérêts privés.

         D’autre part, à force de s’enliser dans le mensonge balbutiant, la corruption, l’arbitraire et le ridicule, le système de représentation parlementaire perd toute crédibilité aux yeux des citoyens. La France, si prompte à donner des leçons, n’est plus qu’un modèle de totalitarisme démocratique. Il ne reste au peuple qu’une alternative : ou se paupériser en rampant misérablement dans la servitude volontaire, ou fonder ses revendications sur une auto-organisation locale et fédérée, qui rende effectif un vrai gouvernement du peuple par le peuple.

         Faut-il le rappeler ? Nous sommes au cœur d’une mutation de civilisation. Le roc des certitudes anciennes vole en éclats. Nous cherchons un sol stable tandis que les secousses sismiques de la confusion nous assaillent. Le vieux monde, ébranlé de toute part, est sous la coupe d’un profit à court terme qui détruit la vie et la planète en se détruisant lui-même. Le nouveau peine à s’affirmer, comme frappé d’effroi devant sa propre audace. Lutter pour se réapproprier sa propre vie est un combat individuel et collectif qui promet d’être long et difficile.

         Dans la nuit et le brouillard qui nous environnent, les signes ne manquent pas de cette réaction du vivant que l’on a toujours vu se manifester à l’encontre des pires périodes d’épidémies et de massacres. La découverte de l’autonomie individuelle participe de l’auto-défense du sujet refusant d’être traité en objet, en marchandise. L’insurrection de la vie contre la réification qui de jour en jour la dessèche était hier le rêve de l’impossible. Son embrasement mondial est aujourd’hui le signe d’un éveil des consciences. Même vouée à s’éclipser aussi inopinément que le chat du Cheshire, son irrécupérable spontanéité possède de quoi jeter à bas la tyrannie du profit et du pouvoir.

         La renaissance du vivant n’a pas de prix.

 

Le 25 février 2021



 

 

 

 

 

 

MINIMA AMORALIA - Briciole di pensieri notturni del cuore e della testa, confinati senza capo né coda ma non domi

 




Vivere o sopravvivere

Alla poco venerabile età di settantatré anni, è ineluttabile rendersi conto che il corpo perde poco a poco le sue belle capacità di godere della vita, rompendosi e deteriorandosi pezzo per pezzo e coinvolgendo dunque anche lo spirito che in gran parte ne dipende. A causa del mio carattere gioioso ma angosciato, umorista ma tragico, gaudente ma ansioso, affettuoso ma selvatico (eccetera, eccetera) ho tendenza a drammatizzare questo fatto oggettivo effettivamente spiacevole consapevole di commettere un errore che rischia di pesare, per di più, su quelli e quelle che amo e mi amano, i quali hanno pure loro le proprie gatte (e gatti) si spera da amare più che da pelare.

Bisogna imparare a volare, provare a vivere fino all’ultimo con leggerezza, incuranti dell’evidenza che per tutti la morte si avvicina, annunciata a volte con clamore e sofferenza dalla malattia senza neppure bisogno di pandemie psicodrammaticamente manipolate. Ogni momento orgastico ancora vivibile, intimo o sociale (con quella stupenda peculiarità del sessuale di mescolare l’intimo e il sociale in una danza gioiosa), sarà un carpe diem fuori dal tempo che ignora saggiamente il futuro.

Altrimenti non sarà. Peggio di No future, No present!

In fondo è sempre stato così fin dalla giovinezza e chi può esser lieto sia. Con il passar del tempo non tutto se ne va come dice Leo Ferré, ma diventa più raro, più difficile; e comunque non esiste altro modo di essere umani che godere di ogni momento piacevole del nostro destino, contribuendo a forgiarlo anziché subirlo. Poi, alla fin fine, si fa quel che si può, prima di fare la riverenza a un mondo e a un tempo che purtroppo – lo confesso con tristezza alla vita che amo tanto – mi piacciono sempre meno.

Penso a Lafargue, a Gorz, e molto spesso a Monicelli, ai suoi film che hanno riso e fatto ridere della tragicommedia umana con l’intelligenza leggera e la sensibilità profonda della presa in giro di sé e del mondo. L’umorismo senza limiti è sempre stato per me il livello più alto della poesia vissuta e quest’uomo l’ha incarnato semplicemente, con radicalità e intelligenza sensibile. Mi commuove la profondità del suo amore per la vita, quel ridere di tutto senza limiti né tabù, ma mai osceno, che ha messo in scena un ultimo scherzo ai suoi amici con un ultimo volo dal quinto piano a novantacinque anni, prendendo in giro la prostata!

Il crollo dello Stato e la coscienza di specie

Passando dall’individuale al sociale, le controrivoluzioni sono spesso delle rivoluzioni mancate portatrici della tirannia di una novella élite autoproclamata. La radicalità profondamente laica della rivoluzione umanitaria esplosa nel 1968 è stata rimossa e falsata dalla peste emozionale della sinistra antifascista altrettanto che da quella dei vari fascismi della destra sadica neri, grigi, bianchi o tricolori. Durante mezzo secolo, tutti questi falsi nemici hanno messo a nudo le loro complicità diverse con il totalitarismo democratico spettacolare la cui logica binaria oscilla dalle destre più reazionarie alle sinistre più autoritarie (i fascismi rossi denunciati da W. Reich). Tutti gli ideologi della politica sottomessa al feticismo della merce che domina il mondo, hanno mostrato una profonda paura aggressiva verso quel “sessantotto” che contribuiscono a mitizzare. Falsandone la storia e rimuovendone la specificità di Movimento delle occupazioni (della vita), ne amplificano, infatti, la risonanza nei cuori e nelle teste di chi non ha dimenticato che la pratica attiva di desiderare senza fine rifiutando la corvè della sopravvivenza nella vita quotidiana – poesia che fu al cuore di quei giorni – è il vero motore dell’emancipazione umana.

Poco importa che si faccia di quella rivolta epocale, dissoltasi nel quotidiano prima di poter essere concretamente tradita, un mito ideologico socialista che legge l’avvenimento come il ritorno del proletariato rivoluzionario sacralizzato, oppure che si calunnino, con becera falsificazione reazionaria, “i sessantottini” come promotori della società dei consumi e dell’odioso individualismo narcisista che essa provoca. Due falsità opposte non fanno una verità ma, come sempre, calunniando perversamente, qualcosa resterà, soprattutto nelle teste più confuse e nei cuori più timorosi dei servitori volontari.

In ogni epoca, questi ultimi si sono inventati qualche ideologia “maccartista” diversa per giustificare l’impostura suprematista con cui gli individui avidi di potere tessono le loro trame. Questo fenomeno ricorrente rinvia ogni volta alla favola antica del lupo e dell’agnello con qualche variazione sul tema. La forma attuale di questa morale gerarchizzante ha avvolto le antiche classi sociali di dominanti e dominati in un’unica logica concentrazionaria che riduce la vita a una sopravvivenza macabra vissuta all’ombra del totem onnipresente del feticismo della merce.

Alla propaganda dei preti comunisti che hanno cambiato mille nomi senza estinguersi nonostante la caduta fracassante del muro che il maggio 68 aveva abbondantemente minato, risponde il delirio passatista degno di uno slogan di altri tempi: “I comunisti mangiano i bambini”. Mescolando rabbia, sottomissione, rivolta e cattiveria inacidita in un coacervo confusionista e semianalfabeta in cui il rumore costantemente ripetuto occupa il posto della verifica scientifica dei dati, tutte le ideologie sono grigie nella notte dell’intelligenza sensibile.

Così i socials che aspiravano a costituire una libera assemblea di opinioni critiche, sono diventati oggi un’imitazione pietosa e insopportabile di una comunità di schiavi psicotici imprigionati nel virtuale. Come tutte le manifestazioni dell’addomesticamento riuscito, essi servono a rinforzare lo spettacolo dominante eccitando le emozioni più sordide, dalla delazione alla vendetta sadica, facendo paura agli spettatori confusi e indigenti di una democrazia rappresentativa soltanto della sua assenza, la cui sopravvivenza dipende ormai soltanto dalla paura sempre più diffusa del caos.

Il crollo dello Stato nell’imbarbarimento del Mercato sta dando forma a una feudalità numerica arrogante e più suprematista che mai, peggiore del potere centralizzato e pseudo democratico che l’ha preceduta. Annunciata come pratica di libertà, fraternità e uguaglianza inesistenti, la messa officiata quotidianamente dai sacerdoti politici e dai chierichetti mediatici dell’economia politica tiene le masse in ginocchio. I credenti più devoti di una teologia materialista che officia per schermo interposto televisione, computer, telefonino o altre diavolerie similari ingoiano tutto, almeno per ora, come i bigotti del passato. Il progresso della tecnica nelle mani dei GAFAM rimbecillisce gli individui orfani dei monoteismi religiosi, pur sempre in circolazione come superstizioni di scorta, spauracchi per gli schiavi più arcaici e ignoranti.

Dai troni e dagli altari virtuali del capitale finanziario che gonfia la sua bolla speculativa destinata a scoppiare, l’ABC dell’economia politica educa i greggi rinchiusi nei recinti digitalizzati a delegare con un clic il potere che non hanno e a elemosinare tutti i giorni per mail, e molto più raramente con il voto elettorale (rituale destinato all’estinzione per mancanza di credenti, come certe religioni del passato finite nel folklore di liturgie scomparse), la protezione patriarcale del sistema dominante. Essa offre in promozione la rassicurazione, tanto maschia che fittizia, dei timori onnipresenti e svariati che tormentano gli schiavi nei loro ghetti consumistici.

Eredi del cinismo erudito dei gesuiti, i teologi di quell’apocalisse chiamata economia politica cavalcano lo Stato che crolla, le rivoluzioni tradite, le guerre totali e le pandemie che circolano, lasciando il segno del loro passaggio come in un dipinto di Dürer diventato realtà. Emanciparsi da tutto questo è la conditio sine qua non di una vita reinventata a partire dalle radici organiche della specie umana.

Ci avevamo già provato. Volevamo rovesciare il mondo e mezzo secolo dopo ci troviamo ancora nel mondo a rovescio. Più a rovescio che mai perché i processi in atto di reificazione e alienazione sociale si sono particolarmente accentuati con la rivoluzione digitale che ha trasformato il vissuto soffocato degli individui e dei popoli in un virtuale impalpabile ma onnipresente. Quel che prima si toccava con mano è ormai molto facilmente a portata di ogni dito, ma a mille leghe da ogni cuore, da ogni intelligenza sensibile.

L'indiscussa verità evoluzionista darwiniana applicata a spettatori e comparse della società dello spettacolo, ci dice che il non uso del proprio corpo organico e l'abuso del proprio ego virtuale stanno facendo degli uomini degli imbecilli programmati, felici di apparire quindici secondi sullo schermo gigante di uno stadio in cui sono (erano con il covid 19/84) spettatori del nulla che maschera la totalità assente.

Imbecilli ma sempre più spesso anche bestie cattive, per esempio quando intervengono nei socials con un’insensibilità mostruosa, prova che la socialità dei corpi non esiste quasi più, sostituita dalla materialità virtuale degli insulti e delle paranoie multiple che colpiscono l'ignoranza sadica digitalizzata.

Siamo arrivati a un punto cruciale in cui solo il disumano è redditizio. L’umano è ormai strutturalmente proletarizzato perché sempre meno necessario al processo astratto di valorizzazione. Solo il disumano virtuale, calato nella realtà come una barbarie tecnologica travestita da progresso, dà accesso a una ricchezza anch’essa sempre più virtuale e totalmente reificata, economizzata, miserabile. Il nuovo proletariato vittima della controrivoluzione digitale non è più una classe dominata contrapposta a una classe dominante, ma una specie schiavizzata da un’oligarchia disumanizzata al servizio dell’economia politica autonomizzata, il cui strapotere burocratico-tecnologico impone un sistema che essa stessa subisce, arricchendosi, però, avidamente, di privilegi da kapò nel ghetto del consumismo concentrazionario.

Il dominio del capitale sull’uomo, da reale che era diventato appropriandosi direttamente della forza lavoro produttiva, si è fatto ancora più intimo nel mondo virtuale nel senso che si rapporta ormai all’individuo organico come a un malato da curare o da eliminare perché economicamente inutile. La classe dominante di un tempo si presenta ormai come l’azionista di un capitale simbolico feticizzato, accumulato con un semplice clic sul computer in purgatori fiscali che non hanno nulla di paradisiaco, ma misurano la riuscita e il fallimento, la ricchezza e la povertà calcolandole in denaro astratto, neppure più materiale, in un’orgia alienata e alienante di economia politica divinizzata.

Ne scaturisce un conflitto sociale radicale tra l’animale umano non ancora estinto e il suo clone spettacolare addomesticato, umiliato, servitore volontario della sparizione programmata della specie; è in questo contesto di guerra totale, mai dichiarata ma onnipresente, che la coscienza di specie sta emergendo come l’ultima difesa possibile dell’umano di fronte alla disumanizzazione galoppante. Essa non può che contrapporre direttamente e radicalmente l’umano al disumano come ultima scelta possibile della coscienza pratica.

Tutto ciò che mi sforzo di ripetere senza stancarmi, è ribadito con parole semplici, precise e convincenti da Raoul Vaneigem in un suo scritto molto recente:”Ora, nella misura in cui la cupidigia del profitto a breve termine distrugge la vita e il pianeta, il progetto proletario di società senza classi scompare in quanto forma e riappare in quanto progetto che ne costituiva la sostanza: l’emancipazione della donna e dell’uomo e la realizzazione della loro specificità umana”.

Prende campo dunque, in questo presente sinistrato, un’ultima lotta totale per l’affermazione dell’umano in cui la coscienza di specie si fa carico di tutte le coscienze sociali passate per realizzarne la sostanza radicale rimasta incompiuta.

 

Sergio Ghirardi Sauvageon, Le Idi di marzo 2021




MINIMA AMORALIA

Fragments de pensées nocturnes du cœur et du cerveau, confinées sans queue ni tête, mais pas vaincues

 

Vivre ou survivre

A l’âge assez peu vénérable de 73 ans, c’est inéluctable de se rendre compte que le corps perd peu à peu ses belles capacités de jouir de la vie, en se cassant et détériorant coup à coup et en y mêlant l’esprit aussi qui en dépend en grande partie. A cause de mon caractère joyeux mais angoissé, humoriste mais tragique, jouissif mais anxieux, affectueux mais sauvageon (etcetera, etcetera) j’ai tendance à dramatiser ce fait objectif, effectivement déplaisant – conscient que je suis de commettre un erreur qui risque de peser, en plus, sur ceux et celles que j’aime et qui m’aiment, lesquels ont eux aussi leurs chattes (ou chats) à aimer, on espère, et non pas à fouetter.

Il faut apprendre à voler, essayer de vivre jusqu’au bout avec légèreté, insouciants de l’évidence que pour tous la mort s’approche, annoncée parfois avec clameur et souffrance par la maladie, sans besoin même de pandémies psycho dramatiquement manipulées. Chaque moment orgastique encore vivable, intime ou social (avec cette merveilleuse particularité du sexuel de mélanger l’intime et le social dans une danse joyeuse), sera un carpe diem en dehors du temps qui ignore sagement le futur.

Sinon il ne sera pas. Pire que No future, No present !

Finalement, ça a toujours été comme ça depuis la jeunesse et qui peut jouir le fasse. Avec le temps tout s’en va pas, contrairement à ce que pense Leo Ferré, mais tout devient beaucoup plus rare, plus difficile ; et cependant, il n’y a pas une autre manière d’être humains que de jouir de chaque moment agréable de notre destinée en contribuant à la forger et non pas la subir. Puis, à la fin, on fait ce qu’on peut, avant de tirer sa révérence à un monde et à un temps qui, hélas – je l’avoue avec tristesse à la vie que j’aime tant – me plaisent de moins en moins.

Je pense à Lafargue, à Gorz et très souvent à Monicelli et à ses films qui ont ri et fait rire de la tragicomédie humaine avec l’intelligence légère et la sensibilité profonde de la moquerie de soi même et du monde. L’humour sans limites a toujours été pour moi le niveau le plus haut de la poésie vécue et cet homme l’a incarné simplement, avec radicalité et intelligence sensible. M’émeut la profondeur de son amour pour la vie, ce rire de tout sans limites ni tabous, mais jamais obscène, qui a mis en scène une dernière blague à ses amis par un dernier vol du cinquième étage à 95 ans, en se moquant de la prostate !

L’écroulement de l’Etat et la conscience d’espèce

En passant de l’individuel au social, les contrerévolutions sont souvent des révolutions ratées, porteuses de la tyrannie d’une nouvelle élite autoproclamée. La radicalité profondément laïque de la révolution humanitaire éclatée en 1968 a été refoulée et faussée par la peste émotionnelle de la gauche antifasciste autant que par celle de differents fascismes de la droite sadique – noirs, gris, blancs ou tricolores. Pendant un demi siècle, tous ces faux ennemis ont mis à nu leurs complicités diverses avec le totalitarisme démocratico-spectaculaire dont la logique binaire balance entre les droites les plus réactionnaires et les gauches les plus autoritaires (les fascismes rouges dénoncés par W. Reich). Tous les idéologues de la politique soumise au fétichisme de la marchandise qui domine le monde, ont montré une peur profonde et agressive envers ce « soixante huit » qu’ils contribuent à mythifier. En faussant son histoire et en refoulant sa spécificité de Mouvement des occupations (de la vie), ils amplifient, en fait, sa résonance dans les cœurs et dans les têtes de ceux qui n’ont pas oublié que la pratique active de désirer sans fin, en refusant les corvées de la survie dans la vie quotidienne – poésie qui fut au cœur de ces jours –, est le vrai moteur de l’émancipation humaine.

Peu importe qu’on fasse de cette révolte historique, dissoute dans le quotidien avant de pouvoir être concrètement trahie, un mythe idéologique socialiste où on lit l’avènement comme le retour du prolétariat révolutionnaire sacralisé, ou qu’on calomnie, par une sordide falsification réactionnaire, les « soixante-huitards » comme promoteurs de la société de consommation et de l’haineux individualisme narcissique qu’elle dégage. Deus mensonges opposés ne font pas une vérité mais, comme toujours, en calomniant de façon perverse, quelque chose va rester, surtout dans les têtes les plus confuses et dans les cœurs les plus apeurés des serviteurs volontaires.

Dans chaque époque, ceux-ci se sont inventé des idéologies « maccartistes » diverses pour justifier l’imposture suprematiste par laquelle les individus avides de pouvoir tissent leurs intrigues. Ce phénomène recourant renvoie à chaque fois à la fable ancienne du loup et de l’agneau avec quelques variations sur le thème. La forme actuelle de cette morale hiérarchisant a enveloppé les anciennes classes sociales des dominants et des dominés dans une logique concentrationnaire qui réduit la vie à une survie macabre, vécue à l’ombre du totem omniprésent du fétichisme de la marchandise.

A la propagande des prêtres communistes qui ont changé mille fois de nom sans disparaître, malgré la chute fracassant du mur que le joli mai avait abondement dynamité, répond le délire passéiste digne d’un slogan de temps révolus : « les communistes mangent les enfants ». En mêlant rage, soumission, révolte et méchanceté aigrie dans un chaudron confusionniste et semi analphabète où la rumeur incessamment répétée se substitue à la vérification scientifique des données, toutes les idéologies sont grises dans la nuit de l’intelligence sensible.

Ainsi, les réseaux sociaux qui aspiraient à constituer une libre assemblée d’opinions critiques, sont devenus aujourd’hui une imitation pitoyable et insupportable d’une communauté d’esclaves psychotiques, captifs du virtuel. Comme toutes les manifestations de la domestication réussie, ils servent à renforcer le spectacle dominant en excitant les émotions les plus sordides, de la délation à la vengeance sadique, en faisant peur aux spectateurs confus et indigents d’une démocratie représentative uniquement de son absence dont la survie dépend désormais seulement de la peur de plus en plus répandue du chaos.

L’écroulement de l’Etat dans le barbarisme du Marché donne forme à une féodalité numérique arrogante et plus suprematiste que jamais, pire du pouvoir centralisé et pseudo démocratique qui l’a précédée. Annoncée comme pratique de liberté, fraternité et egalité inexistantes, la messe officiée quotidiennement par les prêtres politiciens et par les enfants de cœur médiatiques de l’économie politique, maintient les masses à genoux. Les croyants les plus dévots d’une théologie matérialiste qui officie par écran interposé – télévision, ordinateur, portable ou autres diableries similaires – avalent tout, pour le moment, autant que les bigots du passé. Le progrès de la technique aux mains des GAFAM rend stupides les individus orphelins des monothéismes religieux, pourtant toujours en circulation comme des superstitions de secours, épouvantails pour les esclaves les plus archaïques et ignorants.

Depuis les trônes et les autels virtuels du capital financier qui gonfle sa bulle spéculative destinée à exploser, le b.a.-ba de l’économie politique éduque les troupeaux enfermés dans les enclos numériques à déléguer par un clic le pouvoir qu’ils n’ont pas et à quémander tous les jours par mail, et beaucoup plus rarement par le vote électoral (rituel destiné à la disparition par manque de croyants, comme certaines religions du passé finies dans le folklore de liturgies disparues), la protection patriarcale du système dominant. Elle offre en promotion le réconfort, aussi mâle que fictif, des craintes omniprésentes et variées qui tourmentent les esclaves dans leurs ghettos consuméristes.

Héritiers du cynisme érudit des jésuites, les théologiens de l’apocalypse qu’on nomme économie politique, chevauchent l’Etat qui s’écroule, les révolutions trahies, les guerres totales et les pandémies qui circulent, en laissant le signe de leur passage comme dans un dessein de Dürer devenu réalité. S’émanciper de tout cela est la conditio sine qua non d’une vie réinventée à partir des racines organiques de l’espèce humaine.

Nous avions déjà essayé. On voulait renverser le monde et un demi-siècle après on se retrouve encore dans le monde à l’envers. Plus à l’envers que jamais car les processus en action de réification et aliénation sociale ont particulièrement empiré avec la révolution numérique qui a transformé le vécu étouffé des individus et des peuples en un virtuel impalpable mais omniprésent. Ce qu’avant on touchait de la main est désormais très facilement à la portée de chaque doigt, mais à mille lieues de chaque cœur, de toute intelligence sensible.

L’indiscutable vérité évolutionniste darwinienne appliquée aux spectateurs et aux figurants de la societé du spectacle, nous dit que le manque d’utilisation de son propre corps organique et l’abus de son ego virtuel sont en train de faire des hommes des imbéciles programmés, heureux d’apparaître quinze secondes sur l’écran géant d’un stade où ils sont (ils étaient à cause du covid19/84) spectateurs du rien qui masque la totalité absente.

Imbéciles mais toujours plus souvent aussi bêtes méchantes, par exemple quand ils interviennent dans les réseaux sociaux avec une insensibilité monstrueuse, preuve que la socialité des corps n’existe presque plus, remplacée par la matérialité virtuelle des insultes et des paranoïas multiples qui accablent l’ignorance sadique numérisée.

Nous sommes arrivés à un point crucial où seulement l’inhumain est rentable. L’humain est désormais structurellement prolétarisé car de moins en moins nécessaire au processus abstrait de valorisation. Seul l’inhumain virtuel, tombé dans la réalité comme une barbarie technologique déguisée en progrès, donne accès à une richesse elle aussi toujours plus virtuelle et totalement réifiée, économisée, misérable. Le nouveau prolétariat victime de la contrerévolution numérique n’est plus une classe dominée opposée à une classe dominante mais une espèce réduite en esclavage par une oligarchie déshumanisée à la botte de l’économie politique autonomisée, dont le pouvoir bureaucratique-technologique sans limites impose un système qu’elle-même subit, en s’enrichissant, néanmoins, avidement, de privilèges de kapo dans le ghetto du consumérisme concentrationnaire.

La domination du capital sur l’homme, de réelle qu’elle était devenue en s’appropriant directement de la force de travail productive, est maintenant encore plus intime dans le monde virtuel, en ce sens qu’elle concerne désormais l’individu organique, traité comme un malade à soigner ou à éliminer car économiquement inutile. La classe dominante d’antan se presente désormais comme l’actionnaire d’un capital symbolique fétichisé, qu’un simple clic sur l’ordinateur accumule dans des purgatoires fiscaux qui n’ont rien de paradisiaque mais qui mesurent la réussite et la faillite, la richesse et la pauvreté en les calculant en argent abstrait, même plus matériel, dans une orgie aliénée et aliénante d’économie politique divinisée.

De cela jaillit un conflit social radical entre l’animal humain pas encore disparu et son clone spectaculaire domestiqué, humilié, serviteur volontaire de la disparition programmée de l’espèce ; c’est dans ce contexte d’une guerre totale, jamais déclarée mais omniprésente, que la conscience d’espèce est en train d’émerger comme la dernière défense possible de l’humain face à la deshumanisation galopante. Elle ne peut qu’opposer directement et radicalement l’humain à l’inhumain comme dernier choix possible de la conscience pratique.

Tout ça que je m’efforce de répéter sans me lasser, est exprimé dans un écrit tout récent par les mots simples, précises et convaincantes de Raoul Vaneigem : « Or, à mesure que la cupidité du profit à court terme détruit la vie et la planète, le projet prolétarien de société sans classes disparaît en tant que forme et reparaît en tant que projet qui en constituait la substance : l’émancipation de la femme et de l’homme et la réalisation de leur spécificité humaine ».

 

Ainsi, dans ce present sinistré, prend du terrain une dernière lutte totale pour l’affirmation de l’humain où la conscience d’espèce se charge de toutes les consciences sociales passées pour en réaliser la substance radicale restée inachevée.

 

Sergio Ghirardi Sauvageon, Les ides de mars 2021